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Libri gennaio 2013

Recuperando velocemente i passati mesi di letture:


Lo Hobbit, di J.R.R. Tolkien, con annotazioni di Douglas Anderson.

 Ri-ri-riletto ad anni di distanza, subito dopo esser tornato dal cinema, e amato come la prima volta (e la seconda e la terza).
Il film  è molto fedele, tranne che per alcune aggiunte narrative che tolgono ritmo all’insieme (cose che capitano quando ti dicono a metà produzione che devi fare 3 film invece di 2 e ti tocca raschiare il fondo del barile delle scene che ti eri riservato per la extended version) nonchè per la caratterizzazione di Thorin Scudodiquercia (che nel libro partecipa della comicità dei nani mentre nel film se ne distacca per diventare un personaggio eroico e tragico); ed è molto bello, motivo per cui aspetto il prossimo film onde poi poter ri-ri-ri-rileggere il libro.
Grazie JRRT.

 

La città dei libri sognanti, di Walter Moers.

Come fu che Ildefonso De’ Sventramitis giunse per la prima volta a Librandia, la città dei libri, e quel che vi trovò di sopra e di sotto.
Come avevo già detto, trattasi di un libro BELLISSIMO, cosa che acuisce la delusione per la mediocrità del seguito ma intanto fa sì che il libro, in quanto singolo libro, sia consigliabilissimo a tutti coloro che amano i libri.
Ripeto: se amate i libri, questo dovete leggerlo. Ci troverete libri, libri e libri; libri viventi, libri volanti, libri perigliosi, libri trappola, libri fantasma; e poi scrittori di libri, venditori di libri, nasconditori di libri, cacciatori di libri, ciclopi librovori cioè mangiatori di libri (insomma), e non ricorso quanti altri -ori di libri ancora.
Tutto ciò che può concepibilmente avere a che fare con un libro, e molto di ciò che non può ma lo ha comunque, è qui. In questo libro.

 

American Dust, di Richard Brautigan.

 Il titolo originale era So the Wind Won’t Blow It All Away, ma forse l’editore ha deciso che era troppo difficile da leggere e però voleva comunque pubblicare un titolo inglese perché italiano fa troppo provinciale che non si può trattare così un Autore colonna della Controcultura Hippy, così è andato a pescare l’altra metà della frase che apre ogni capitolo del libro:

so the wind won’t blow it all away… Dust… American… Dust.

 Non precisamente allegro, ma di allegro c’è ben poco in questo viaggio nella coscienza di un adolescente americano, non tanto a posto con la testa, controfigura dell’autore, segnato da un evento tragico in cui sono implicati sangue e proiettili, di cui si porterà la responsabilità per tutta la vita, e attorno a cui ruota tutto il libro in un continuo andirivieni cronologico.
Non sono stato sorpreso più di tanto nello scoprire che Brautigan, due anni dopo la pubblicazione di questo libro così malinconico e depresso-deprimente, s’è fatto saltare le cervella.
Requiescat in æternum.

 

Il suicidio della rivoluzione, di Augusto del Noce.

 Dovevo saperlo che era troppo bello per essere vero: il famoso libro di Del Noce, contenente la sua famosa profezia all’epoca derisa e poi puntualmente realizzata sulla futura dissoluzione del marxismo, in vendita a soli 3 euro in edicola, nella collana “Laicicattolici – I maestri del pensiero democratico” del Corriere della sera (quanti bei nomi, eh?).
Era troppo bello.
E infatti non era vero: quest’agile volumetto di 168 pagine NON è il vero libro Il suicidio della rivoluzione (che di pagine, nell’edizione in brossura della Rusconi, ho scoperto poi contarne 368) ma bensì una collazione di capitoletti presi da Scritti politici 1930-1950 (edito da Rubbattino) e un solo capitolo tratto dal libro di cui porta il nome, cioè il capitolo su Gramsci.
Il che è bello ed istruttivo, per dirla guareschianamente.
Dopodiché, pazienza: anche incompleto e parte di un tutto, il capitolo di Del Noce su Gramsci (e su Gentile, e Benedetto Croce, e la stupidità dei cattolici che si sono fatti mettere nel sacco dalla strategia gramsciana fino a individuare il vero avversario non già nel comunismo ma bensì “nel vecchio cattolicesimo preconciliare, come se il Concilio avesse significato l’estensione della rivoluzione alla Chiesa, e l’universalità della Chiesa dovesse venire interpretata come permeabilità a tutte le rivoluzioni che hanno avuto successo”) vale comunque i 3 €, altroché.
Però, potevano dirmelo prima.

 

Dio – le domande dell’uomo, di Andrè Frossard.

Il cristianesimo è la religione della ragione. Si distingue dal razionalismo perché non si tappa le orecchie quando la ragione dice «Dio».

Fantastico questo libro, scritto da un famoso ed eccellente convertito, di godibilissima e facilissima lettura. Si tratta delle risposte date da Frossard a più di duemila domande ricevute da studenti dell’ultimo anno di scuola superiore.
La particolarità di Frossard è che segue una metodologia espositiva che sarei tentato di definire “tomista”. Voglio dire che, come faceva San Tommaso nella Summa, prima espone le obiezioni a lui portate, e poi espone le ragioni per cui tali obiezioni sono sbagliate.
(N.B. questa metodologia è anche il motivo per cui è pieno così di ignoranti che attribuiscono a San Tommaso idee da egli esplicitamente confutate, ma le dimensioni del libro di Frossard sono ben più esigue della Summa ed egli non corre questo rischio)
Così l’autore spiega brevemente ed efficacemente i perché di tante cose, con una capacità di sintesi e un’ironia che – esagero? – lo pongono a livelli degni di un Chesterton:

Il consiglio di Pascal (siate stupidi) era rivolto a gente che non aveva bisogno di ascoltarlo per metterlo in pratica.

Cartesio temeva effettivamente di annoiarsi a contemplare Dio per diecimila anni. Mai ha avuto l’idea chiara e distinta che Dio potrebbe annoiarsi molto prima a contemplare Cartesio.

Come non amarlo?


I dodici segni dello zodiaco + Sei problemi per don Isidro Parodi,
di Jorge Luis Borges & Adolfo Bioy Casa
res.

 Trattasi di due libri da poco prezzo, ordinati su Amazon perché avevo voglia di leggere qualcos’altro di Borges e perché, appunto, costavano poco. Così ho scoperto solo quando mi sono arrivati che i racconti del primo libro sono già contenuti nei sei del secondo, ergo potevo fare a meno di comprarlo. Pazienza.
A parte questo, impossibile lamentarsi: puro Borges, godibilissimo.Ma chi è Don Isidro Parodi?

il macellaio Agustìn R. Bonorino, che aveva partecipato al carnevale di Belgrano vestito da calabrese, ricevette una bottigliata mortale alla tempia. Nessuno ignorava che la bottiglia di Bilz che lo aveva ucciso era stata lanciata da uno dei ragazzi della banda Pata Santa. Ma poiché Pata Santa era un prezioso elemento elettorale, la polizia decise che il colpevole fosse Isidro Parodi, che alcuni affermavano fosse anarchico, volendo dire in realtà che si trattava di uno spiritista. Di fatto, Isidro Parodi non era né una cosa né l’altra: era padrone di un negozio di barbiere nel quartiere sud e aveva commesso l’imprudenza di affittare una camera a uno scrivano dell’8° Commissariato, il quale gli doveva ormai più di un anno di affitto. Quest’insieme di circostanze avverse segnò il destino di Parodi: le dichiarazioni dei testimoni (che appartenevano alla banda di Pata Santa) furono unanimi: il giudice lo condannò a ventun anni di reclusione.

 Naturalmente, sappiamo bene che queste cose succedono solo nei libri e nelle cose di fantasia, e che nel mondo reale gli organi inquirenti e requirenti sono sempre mossi soltanto dal più puro amore di giustizia.
E così Isidro Parodi, senza mai muoversi dal suo loculo, passa i suoi anni di galera a risolve enigmi polizieschi: la gente va a trovarlo in carcere e gli espone i propri problemi con la giustizia, e l’insolito detective li ascolta, ricostruisce la verità e indica il vero colpevole. Dalla sua cella passano personaggi stravaganti e sopra le righe, come il playboy Gerardino Montenegro o lo scrittorucolo Carlos Anglada, altrettante parodie di tipi esistenziali dell’ambiente “bene” di Buenos Aires, quello stesso ambiente che Borges e Bioy Casares satireggiano con grande piacere loro e dei lettori, muovendo i racconti su tre diversi livelli (struttura gialla, satira sociale e virtuosismo letterario) in un mix eccellente e divertentissimo.

 

Io sono febbraio – storia dell’inverno che non voleva finire mai, di Shane Jones.

 Vabè che avevo pagato solo € 1,99 per l’ebook di questa fiaba mal scritta, senza né capo né coda, di incerta trama e ancor più incerto significato, ma sono comunque 1,99 € che rimpiango. Almeno era breve e non ci ho perso molto tempo.

 

 

 Veritatis splendor, di Giovanni Paolo II.

La legge morale naturale è la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale.

 Ecco, se solo questa fosse l’unica cosa che avessi capito leggendo l’enciclica, già sarei molto contento. Per fortuna, ho capito anche qualcos’altro. Non abbastanza, però, motivo per cui dovrò rileggere.


Guidare col TomTom nel giardino dei sentieri che si biforcano

Da leggere e assaporare l’articolo di Diego Gabutti su Italia Oggi. Prendendo le mosse da un libro mezzo saggio storico e mezzo gioco ucronico (“La storia con i se. Dieci casi che potevano cambiare il corso del Novecento”) Gabutti sfotte di gusto Hegel, Benedetto Croce, lo storicismo e l’arroganza degli storicisti: cioè quella legione di pensatori tanto sicuri che la Storia è destinata ad andare proprio così e giammai cosà, perché le magnifiche sorti e il sol dell’avvenire e il progresso, signora mia, il progresso.
Lo leggo con piacere, approvo al 99% pressappoco, ma c’è un punto percentuale che mi stona: nel mazzo degli storicisti Gabutti – di cui ignoro la fede, e non capisco se un omonimo o il medesimo delle Altre ipotesi su Gesù (a naso direi il medesimo, lo stile di scrittura combacia) – ci butta dentro pure “le religioni, cristianesimo in testa” perché per esse la storia è “un treno in corsa verso le consolazioni e i castighi dell’aldilà”.

 Ma caro Gabutti, l’aldilà non è nella storia, è per definizione dall’altra parte! Rispetto alla storia è il post scriptum, il dopo i titoli di coda. L’aldilà arriva quando la storia è finita. Della fine della storia, al netto della simbologia apocalittica, sappiamo più meno che più: né il giorno né l’ora, né il come né il percome, appena il chi (tutti quanti) e il perché (entropia, se non altro). E su quello che ci sarà prima della fine, poi, un bel boh a forma di punto interrogativo. Di certo e sicuro c’è ben poco, solo che la Chiesa resisterà fino alla fine, per quanto – chiedendo Gesù retoricamente se troverà ancora la fede – sarà, probabilmente, ridotta al lumicino.
Proprio perché l’hegelismo e i suoi derivati, marxismo in testa, sono una religione rovesciata dove l’Uomo pretende di farsi dio, è lo storicismo ad essere la caricatura della provvidenza e non viceversa. La Provvidenza, quella vera, non è la Psicostoria di Asimov, dove un’equazione matematica determina quasi infallibilmente (evviva il Mulo!) il futuro di tutto quanto il fantastiliardo d’esseri umani della Galassia.
La volontà onnipotente di Dio deve arrangiarsi a fare i conti con il nostro libero arbitrio, e a chi dice che questa non è onnipotenza, rispondo che Dio è così onnipotente che può addirittura autolimitarsi: l’ha deciso, poteva farlo, l’ha fatto.

La Provvidenza è come un TomTom.
Tu guidi la tua vita e quella guida te, ha già mappato ogni percorso, tutto l’infinito dei compossibili, ogni assurdo universo, e ti vuole portare a destinazione nel miglior tragitto possibile. Poca benzina, minimo tempo, microscopica usura del mezzo: una pacchia, magari fosse.
Ma poi ci sono gli ostacoli. Trovi l’ingorgo. Distrattone, hai mancato la traversa giusta, dovevi girare di là e invece sei andato di qua. Oppure la vettura ha un sussulto di troppo e non avevi attaccato bene la ventosa e il TomTom si stacca e cade – quante volte m’è successo – ma ormai stai guidando e non puoi fermarti in mezzo al traffico né rischiare un incidente per raccoglierlo contorsionisticamente e allora pazienza, m’arrangio da solo, tanto ormai ho capito, la strada la so. Sì, sì, bravo, poi vedi. Oppure dici sai che c’è, ma chi l’ha detto che il TomTom ha ragione, perché mi devo fidare dei programmatori, che ne sanno loro, io voglio fare da solo l’esperienza, statti zitto fastidioso aggeggio ti spengo e la strada giusta la decido io, al limite chiedo a qualche tizio per strada che pare affidabile (si chiama Berlicche, ma questo non te lo dice).
Deviazione.
E il TomTom traccia un nuovo miglior percorso. Hai allungato un po’, ma se gli dai retta puoi ancora fare presto e bene. Ma non gli dai retta, o non riesci a sentirlo. Così altra deviazione. E poi ancora un’altra. Di nuovo. Di nuovo. Di nuovo. Ma come ho fatto ad arrivare all’autostrada? Ma all’inizio non avevo settato evita strade a pedaggio?
Paga.
Spia rossa. Devi fermarti e dire addio a un pregevole esemplare di architettura rinascimentale su sfondo arancione.
Paga.
Hai visto l’autovelox? No? Pazienza, lui ha visto te.
Pagherai.
Doveva essere il miglior percorso possibile, ti sembra di stare facendo la Parigi-Dakar.

Eppure il TomTom potrebbe ancora aiutarti. C’è ancora una via per arrivare dove volevi andare, forse non sarà breve e piacevole, ma è pur sempre il meglio che la geografia e la cartografia ti mettono a disposizione in questo stramaledetto, labirintico, multicentrico giardino dei sentieri che si biforcano.

E allora.
Che cos’è l’Incarnazione? Cosa sono il Natale, la Pasqua, la Pentecoste? Cos’è la Chiesa?
È Dio che dice, dopo il peccato originale:

“… RICALCOLO.”

tom tom ricalcolo


Gli specchi e la copula sono abominevoli

GLI SPECCHI E LA COPULA SONO ABOMINEVOLI,
POICHÉ MOLTIPLICANO IL NUMERO DEGLI UOMINI

 
 
Chi l’ha detto?
 
A) Valentino, filosofo e teologo gnostico, 135 – 165 d.C.;
B) Jorge Luis Borges, narratore, poeta, saggista, 1899 1986;
C) Umberto Veronesi, oncologo, editorialista, ex Ministro della Repubblica, 1925 – vivente.
 
 
Inviare la risposta corretta tramite commento. I solutori dell’enigma vinceranno un kit per l’autocastrazione oppure, a scelta, un viaggio premio alla casa di riposo La Quiete (sola andata).


Il Logos e il Caos (2)

IL LOGOS E IL CAOS
(PARTE SECONDA)

 
 
C’era una volta, tanto tempo fa, un post che avevo scritto sul rapporto tra fede e ragione in cui mi divertivo con un piccolo enigma: di due testi apparentemente insensati, sfidavo il lettore a capire quale fosse quello veramente casuale, venuto fuori dopo aver battuto i tasti alla rinfusa sulla tastiera, e quale fosse invece quello razionale, in cui avevo criptato un messaggio nascosto. I due testi erano:
 

1.
hdhsfjdszhfsk mjsdafl ohnds qndvjx hzxbdmb msdeofru bdskhf hdxkfg owqeq hhdfgk nzvcmxb dhydeuit qewe ztyutuy svfdfb uaxasd dbnoi qcvb ayuiy ttgrue lczddc dgydtfygdfr swewaeewq uvbfcbgfcb dhggfhf qwerr aiopii tfhg lfhgfg diuyui qhjk zdewtr sooiiuuoi zgtyuty orty tvbnfb cwrew cqweqw drt ti lwqeqwe dretyt syuio ctyui duiuuu taaqswqs rvbnvnb dcjhsetfy qsdklgu zbvmdcf supwoitu uoprsouidf dhuk qvbn atyutuy tdcgfdf lsawersrt
 
2.
dsfdsjflfjdsl sdfjsfjsdkfjsdlk feorfuwierueowi zxcxcmrfygtred xcncx ewiurweoi ghkcd vdfhk jghdf gjkd hdfjgred ioreo tereswwer  pererer fhskfsd urtotgrd rt  xcj dlf dfgeruou rhgtorue vnkafdhilas gosdhffsdhfuio jvcscuop rgvdklvjrtm wauyrewiiew cbvxqwtyfqwyt kbpotro vuyqw n fjdoigodrtft jkddgtrfe ewtret cmsdicpowsi dfrsdreds re vjmfotdei sfhshfiu vmporedregpo sdfdsif nvdenovodr cnwwui rjtioeroi zxvnedoedr vnxlòawqe qwwrerio polmbczghasiryxzmsg djudisdfnis asdasds xncudfhudvbdfbu sdafiiodsso nmsopsac cnsduiifc dgdfggder

 

Successivamente dimostravo che la ragione non è autofondante azzardando una sintesi di due millenni di storia del pensiero e tirando in ballo Borges, il vangelo di Giovanni, il Geist hegeliano e la Guida Galattica di Douglas Adams (roba impegnativa insomma), e rimandavo la conclusione del discorso a data da stabilirsi.
Dopodiché, siccome sono un disgraziato, non solo non ho più continuato il post (e sono passati quattro anni) ma non ho neppure svelato quale fosse effettivamente il testo criptato. Che bastardo, eh?
 
Bene, allora, riproviamoci.
Primo indizio: bisogna prendere solo le iniziali delle parole, il resto non conta.
Ovvero, anche nel testo cifrato c’è una componente casuale, addirittura maggioritaria dal punto di vista quantitativo, che però non muta qualitativamente la natura razionale dell’insieme (considerato olisticamente, cioè nella sua totalità e non solo in una parte).
Perciò le cose stanno così:
 
1:
H M O Q H M B H O H N D Q Z S U D Q A T L D S U D Q A T L D Q Z S Z O T C C D T L D S C D T R D Q Z S U D Q A T L
 
2:
D S F Z X E G V J G H I T P F U R X D D R V G J R W C K V N F J E C D R V S V S N C R Z V Q P D A X S N C D

 
Molto più semplice, eh? Vi assicuro che la soluzione è davvero semplice. Sherlock Holmes, che ha risolto il caso degli omini danzanti in poco e niente, se la riderebbe di cuore; basterebbe un altro piccolo indizio e quasi chiunque sarebbe in grado di arrivarci. Sono ragionevolmente fiducioso che qualcuno capirà la soluzione prima di Pasqua, in caso contrario svelerò io l’arcano.
Ed ecco che rinnovo la mia piccola sfida. Mi rivolgo soprattutto ai lettori “razionalisti” che dovessero passare di qua: a voi che non credete in un Dio creatore, a voi che siete evoluzionisti di stretta osservanza odifreddiana, a voi che pensate che l’uomo sia “solo nell’immensità indifferente dell'universo da cui è emerso per caso”. Pensate di poter riuscire a dimostrare il caso con la sola ragione? Benissimo, signori, forza!
 
Attenzione, però, perché se davvero volete dimostrare il caso non vi basta indicare qual è il testo criptato: dovete anche dimostrare che l’altro testo, quello casuale, è davvero casuale e insensato,  che neppure in quello c’è un messaggio nascosto (anche perché dopotutto chi ve lo dice che è davvero casuale? Io? E ci credete così facilmente?).
E forse la cosa non è così facile come può sembrare…
 
 
Affermano gli empî che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della “Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio”. Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto.
 

Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele

 


La speciale logica dell’odio

La speciale logica dell’odio

 

 

Dunque pare che, in procinto di andare in Africa e interrogato sul problema dell’AIDS, il Papa si sia pronunciato in questi termini (come riportati dal Corriere della sera):

 

« Non si può superare il problema dell’Aids solo con i soldi, che pure sono necessari, se non c’è anima che sa applicare un aiuto. E non si può superare questo dramma con la distribuzione di preservativi, che al contrario aumentano il problema. La soluzione può essere duplice, l’umanizzazione della sessualità e una vera amicizia verso le persone sofferenti, la disponibilità anche con sacrifici personali ad essere con i sofferenti. Questa è la nostra duplice forza: rinnovare l’uomo interiormente, dargli forza spirituale e umana per avere un comportamento giusto e insieme la capacità di soffrire con i sofferenti nelle situazioni di prova. »

 

 

Ora, per qualche strano motivo, queste parole hanno dato molto fastidio a qualcuno. Segue qualche esempio preso qua e là.

 

I radicaliparlano di «falsità antiscientifica» e lanciano un appello alla classe dirigente rimasta in silenzio: «Dimostri coraggio, coerenza e serietà smentendo quelle frasi che alimentano l’ignoranza e la diffusione dell’Aids»”.

 

I Comunisti italiani, secondo quanto riporta La Stampa (l’articolo peraltro è interessante e da leggere interamente), lamentano che “è incredibile indurre i cattolici a non usare il preservativo»”. Incredibile, già.

 

Analogamente, la FGCI scrive che “Il Papa afferma delle sciocchezze dal punto di vista scientifico e non fa altro che confermare l’impostazione medievale della Chiesa e di questo pontificato in particolare. Nei paesi dell’Africa Sub Sahariana vi sono circa 25-28 milioni di persone infette da HIV, più del 60% di tutta la popolazione ha l’Aids e più dei tre quarti delle donne. Di fronte a questi dati parlare di un risveglio ‘spirituale e umano’ è davvero come affidarsi a qualche amuleto magico. Certo il preservativo da solo non basta, bisogna anche compiere degli investimenti medici significativi, ma quanto meno aiuterebbe a limitare il dilagare del fenomeno. Continuare a vietarlo in nome dei principi del Cristianesimo e’ davvero una vergogna. Dopo i vescovi filonazisti, la scomunica dei medici che fanno abortire le ragazzine stuprate, non c’è davvero limite al peggio”. Sì, non c’è davvero limite al peggio.

 

Adriano Prosperi, su Repubblica, anche lui ricollegandosi a precedenti episodi mediatici, dalle parole del Papa deduce legittimamente che “l’anima di una bambina brasiliana o di una donna camerunense è meno importante di quella di un vescovo antisemita e negazionista”.

 

Sulla spazio che il Corriere della sera mette a disposizione dei commenti dei lettori, poi, è possibile trovare alcune perle che presumibilmente riflettono il comune sentire dell’uomo della strada:

 

“il papa dichiara pubblicamente di non usarte il preservativo per la prevenzione aiutando cosi la diffussione non solo aids ma tutte le malattie veneree che negli ultimi anni sono in netto aumento”

 

“è sotto gli occhi di tutti che la chiesa cattolica è precipitata con questo mediocre papa in un abisso di miseria etica e sociale. Il no al preservativo, pronunciato con spaventoso cinismo di fronte agli occhi di scheletri ambulanti morenti per aids, lascia esterrefatta la gente normale”

 

“La battaglia culturale per l’uso del profilattico è fondamentale per la prevenzione delle malattie sessuali trasmissibili. Ignorare questo è profondamente grave e assolutamente stupido”

 

“Sono da sempre un sostenitore della libertà di parola. In questo momento ho paura, perchè l’affermazione del Papa contiene la responsabilità di centinaia di migliaia di vittime. Per favore, usate il preservativo”

 

 

Ora, ecco, io potrei anche essere d’accordo con questi commenti se avessi mai sentito una volta un prete, nell’omelia domenicale, lanciarsi in un panegirico del sesso non protetto. Se avessi mai sentito un vescovo raccomandare ai suoi fedeli di fottere con quante più persone possibile, preferibilmente sconosciuti incontrati per caso e mai più rivisti dopo il coito, purché rigorosamente senza preservativo. Se avessi mai sentito all’angelus domenicale l’elogio del sesso occasionale e della botta e via, basta che non ci sia di mezzo il condom.

Mah. Sarò stato distratto io, sarà che frequento brutta gente, ma queste cose non le ho mai sentite.

Certo, con l’aria che tira presso alcuni ambienti cattolicissimi, potrebbe anche succedere. Non si sa mai. Dopotutto, l’ermeneutica della discontinuità ha portato a ben altri progressi dottrinali. Al riguardo attendiamo fiduciosi le magnifiche sorti e progressive che ci porterà il Concilio Vaticano III prossimo venturo.

Fino a quel momento, però, resto un po’ perplesso.

 

Insomma: secondo questi campioni della razionalità, la Chiesa, siccome predica la castità, è corresponsabile della diffusione di una malattia che si trasmette tramite rapporti sessuali.

 

Allucinante.

 

Mi viene alla mente un passo di La ricerca di Averroè, il decimo racconto della raccolta L’Aleph, di Jorge Luis Borges:

 

“ [Averroè] aprì il Quitab-ul-Ain di Jalil e pensò con orgoglio che in tutta Cordova (e forse in tutto Al-Andalus) non esisteva una copia dell’opera perfetta quanto quella che l’emiro Yacub Almansur gli aveva mandata da Tangeri. Il nome di questo porto gli ricordò che il mercante Abulcasim Al-Asharì, ch’era appena tornato dal Marocco, avrebbe cenato con lui quella sera in casa dell’alcoranista Farach.

Abulcasim diceva di avere toccato i regni dell’impero di Sin (la Cina); i suoi detrattori, con la speciale logica dell’odio, giuravano che non aveva mai toccato la Cina, e che nei templi di quel paese aveva bestemmiato Allah.”

 

 


La necessità della morte: il senso della vita. Il tempo. Le due eternità.

La necessità della morte: il senso della vita.

Il tempo.

Le due eternità.

 

 

“Ammaestrata da un esercizio di secoli, la repubblica degl’Immortali aveva raggiunto la perfezione della tolleranza e quasi del disdegno. Essi sapevano che in un tempo infinito ad ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù, ogni uomo è creditore d’ogni bontà, ma anche d’ogni tradimento, per le sue infamie del passato o del futuro. Come nei giuochi d’azzardo le cifre pari e dispari tendono all’equilibrio, così l’ingegno e la stoltezza si annullano e si correggono e forse il rozzo poema del Cid è il contrappeso che esigono un solo epiteto delle Egloghe o un detto di Eraclito. Il pensiero più fugace obbedisce a un disegno invisibile e può coronare, o inaugurare, una forma segreta. So che alcuni operavano il male affinché nei secoli futuri ne derivasse il bene, o ne fosse derivato in quelli passati… Visti in tal modo, tutti i nostri atti sono giusti, ma anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali. Omero compose l’Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, l’Odissea. Nessuno è qualcuno, un sol uomo immortale è tutti gli uomini. Come Cornelio Agrippa, io sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono.

[…] La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c’è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario. Ciò ch’è elegiaco, grave, rituale, non vale per gli Immortali.”

Jorge Luis Borges, L’immortale (nella raccolta di racconti L’Aleph)

 

(la colonna sonora ideale per questo post…)

 

 

                   a                         con

lim               = 0                a N* = { 1, 2, … }

x→∞             x

 

 

Spero anzitutto di aver scritto correttamente il guazzabuglio matematico che trovate qui sopra, e poi che non vi sembri troppo complicato. Non è tutta farina del mio sacco: me l’ha suggerito un’amica (che a sua volta…), quando le ho chiesto di mostrarmi una frazione in cui:

         il numeratore a è un numero qualunque, non infinito ma di qualsiasi grandezza (uno dei numeri naturali dopo lo zero: 1, 2, 3…, il googol, il googolplex, il numero di Graham, ed è meglio non andare oltre con la fantasia se non vogliamo impazzire come Cantor);

         il denominatore x è un valore infinito, o per la precisione tende a infinito (Marta mi ha fatto una testa così sul fatto che non si può mettere direttamente ∞ sotto una linea di frazione – poi le ho chiesto se potevo usare l’Aleph-zero, ma in questo periodo ha cose più importanti a cui pensare che i numeri transfiniti…);

         il valore della frazione è di conseguenza uguale a zero. Perché qualunque numero, di qualsivoglia grandezza, sarà sempre meno di una goccia nell’oceano se paragonato all’infinito.

Quanto sopra costituisce una rozza dimostrazione matematica della seguente affermazione esistenziale: se non ci fosse la morte, la vita non avrebbe senso.

 

La storia di Borges che ho citato in apertura illustra magnificamente il concetto. Il protagonista del racconto sente parlare di un fiume nel deserto le cui acque danno la vita eterna; lo cerca, dopo grandi sofferenze lo raggiunge, trova la tribù degli Immortali che vi abita vicino, diventa uno di loro. Ma si avvede che gli Immortali vivono una vita insensata, “come perduta tra infaticabili specchi”. Decide allora di cercare un altro fiume, le cui acque possano renderlo mortale, e dopo secoli di vagabondaggio lo trova. Infine aspetta con sollievo la sua fine, che è la fine di tutti, la morte.

Io sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono”. Questa era stata la sua vita tra gli Immortali: essere per sempre, essere tutto e ogni cosa, essere inutilmente, arriva a coincidere con il non essere. Il protagonista, alla fine, non sa neanche più se sia stato Cartaphilus o il centurione Rufo Valerio oppure Omero. La conclusione del racconto è un anelito disperato verso una liberatoria cupio dissolvi: “Quando s’avvicina la fine, non restano piú immagini del ricordo; restano solo parole. Non è da stupire che il tempo abbia confuso quelle che un giorno mi rappresentarono con quelle che furono simboli della sorte di chi mi accompagnò per tanti secoli. Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto”.

 

Così, la morte ci accomuna tutti. Noi viviamo la nostra vita nel tempo, questa incessante somma di istanti ed eventi, e la nostra vita è mortale. È inevitabile: tu morirai. Ma ecco l’ineluttabile verità: per quanto la morte possa spaventarci, per quanto sia atroce prendere coscienza del fatto che io morirò, questo è necessario. Se non ci fosse la morte, la vita non avrebbe senso: e sia chiaro che sto usando la parola “senso” con due accezioni – sensi – differenti, cioè come “direzione” e come “significato” (e sarebbe interessante indagare il perché di questa sovrapposizione linguistica). Come direzione, la morte è ciò verso cui stiamo andando, la fine della nostra freccia del tempo, il termine del nostro periodo limitato. Ma è proprio questa finitudine a permettere alla nostra vita di avere significato: perché se non dovessimo morire, se questa nostra vita nel tempo non dovesse aver fine, alla lunga saremmo schiacciati dall’inutilità di ogni cosa. Nessun evento sarebbe abbastanza bello e glorioso da poter reggere il peso dell’interminabilità: se il denominatore tende all’infinito, non importa quanto grande possa essere il numeratore della nostra frazione, perché il valore tende comunque allo zero, e perciò la nostra vita non vale niente.

 

Noi moriremo, dunque.

E poi?

La nostra vita avviene nel tempo: ciò che ci aspetta dopo la morte è l’eternità. Ma che cos’è l’eternità? Non è facile definirla, e spesso si incontrano molti fraintendimenti e confusioni sull’argomento (sulla relazione tra tempo ed eternità, specie per quanto riguarda il nostro libero arbitrio di fronte alla prescienza di Dio, avevo già parlato qui; segnalo pure le divagazioni in merito del piccolo Zaccheo). Io credo che per l’uomo possano esistere, fondamentalmente, due tipi di eternità: la dannazione e la beatitudine. La prima è una sequenza lineare infinita di eventi finiti; la seconda è una contemporaneità circolare di eventi infiniti.

Adesso, credo di aver bisogno di un po’ di geometria…

 

 

Il segmento.

Il segmento è la nostra vita attuale. Adesso, mentre siamo vivi, noi esistiamo avanzando nel tempo: siamo punti che si muovono lungo una linea, da un estremo all’altro. Siamo temporalmente unidimensionali.

Vale la pena peraltro di notare che la linearità temporale della nostra vita può anche essere spezzata, in alcuni momenti molto particolari; chi avesse visto la puntata 4×05 di LOST potrebbe farsene un’idea, oppure potremmo pensare ai momenti epifanici di “memoria involontaria” di cui parla Proust…

(e io credo che ciò che Proust compie con la sua Ricerca del Tempo Perduto sia il più commovente e disperato tentativo di “redimere” il tempo, “ritrovarlo” come dice lui, con le sole forze umane e senza Dio; perciò è in ultima analisi un tentativo purtroppo votato allo scacco e al fallimento, perchè Proust vuole redimere il tempo ma non può che farlo dall’interno, ritrovando il tempo in nient’altro che questa vita, senza prospettive ultraterrene, casomai affidandosi all’arte la quale comunque lega lo scrittore-nel-tempo ai suoi lettori-nel-tempo. Proust riesce a spezzare la rigida linearità temporale, e gli basta una madeleine nel tiglio per rivivere tutta la vita, ma non può comunque uscire fuori dal segmento del tempo e perciò il suo ritrovamento del tempo perduto è destinato ad essere, prima o poi, perduto anch’esso.)

… ma sicuramente il caso più importante di extra-temporalità è la Messa, memoriale del Sacrificio di Cristo, in cui il momento della Crocifissione è “perdurante” al di fuori della linea temporale e ri-attualizzato nella funzione liturgica.

Comunque, alla fine noi moriremo. E il nostro segmento che cosa diventerà?

 

 

La semiretta.

Questa è la dannazione; questo è l’Inferno, lo sheol, l’Ade secondo la concezione dei pagani (e, dice qualcuno, anche dei pirati); è la vita degli Immortali perduta tra infaticabili specchi, è il valore nullo di una frazione a denominatore infinito; è un’eternità costituita da un tempo interminabile, in cui ogni cosa è inutile e insignificante.

Che cosa fanno i dannati all’inferno? Io non lo so, e spero di non scoprirlo di persona. Forse anche loro abitano in case, coltivano campi, combattono guerre, magari provano perfino delle passioni sentimentali, insomma trascorrono la propria “vita” in una imitazione-parodia di ciò che erano prima. Ma per loro, qualsiasi cosa facciano, tutto è vano: tutto è schiacciato dal peso insopportabile dell’eternità, separati dagli altri, separati da Dio.

 

 

L’arco.

In geometria, l’arco è la parte di curva compresa tra due punti, ovvero l’equivalente curvo di un segmento. Come il segmento, l’arco ha una lunghezza limitata; a differenza del segmento, l’arco (in riferimento ad un sistema cartesiano) non è unidimensionale ma bensì bidimensionale, poiché il movimento di un punto lungo un arco coinvolge necessariamente due coordinate x e y. Io credo che questa sia una buona immagine del Purgatorio, che non è una realtà definitiva e perciò non è compreso tra i quattro novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso); il Purgatorio è una fase limitata, in cui coloro che sono destinati alla beatitudine si purificano e si preparano all’eternità celeste.

Quanto tempo si passa in Purgatorio? A questa domanda non si può dare una risposta precisa; in passato nella dottrina della Chiesa si parlava di “anni” e “giorni” a proposito del peso delle indulgenze, cioè delle diminuzioni del tempo purgatoriale, ma saggiamente Paolo VI nella Indulgentiarum Doctrina ha abolito questa rigorosa quantificazione. Non si può determinare precisamente il “quanto” del Purgatorio, perché il suo tempo non è come il tempo della vita; io credo che sia un tempo bidimensionale, una fase in cui il penitente si muove su due assi temporali: quello della vita terrena, e quello dell’eternità in cui i penitenti cominciano a muoversi. Possiamo parlare di inizio e fine del tempo purgatoriale, ma cercare di calcolarne l’estensione basandoci sul nostro tempo sarebbe come voler calcolare la lunghezza di un arco conoscendone solo la distanza in linea retta tra gli estremi, senza sapere la curvatura.

 

 

Il cerchio ascendente.

La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22).

Benedetto XVI, Spe Salvi (paragrafo 12)

  

Così scrive il Papa nella sua ultima enciclica, spiegando perché la speranza cristiana non è un fatto individualistico ma trova la sua ultima essenza nella comunione, e cercando di esprimere l’ineffabile realtà del Paradiso: la cui eternità non è una successione infinita di prima e dopo, ma bensì un “adesso” continuo, perché i beati sono in comunione con Dio – la cui Seconda Persona è discesa dall’eternità al tempo e si è fatta Uomo, aprendo così un “varco” nel quale gli uomini potessero ascendere dal tempo all’eternità.

E così, noi siamo liberati dall’unidimensionalità temporale: siamo oltre la morte, abbiamo superato quell’evento che ha dato senso alla nostra vita, e ora il senso è compiuto. La nostra coscienza non è più un punto che si muove lungo un segmento, o lungo un arco; io azzardo a raffigurarla come un cerchio ascendente, cioè una figura estesa lungo due assi temporali che si muove eternamente lungo un terzo:

1.      C’è anzitutto un “raggio” che è dato dal tempo della nostra vita, di cui noi recupereremo e vivremo, contemporaneamente e distintamente, tutti i momenti felici. Nulla di ciò che vale andrà perduto, tutto il redimibile sarà redento e recuperato e salvato; come colui che guarda nell’Aleph, che vede tutti i punti dell’universo in un unico punto, noi vivremo tutti gli istanti nello stesso istante.

2.      Poiché la speranza cristiana non è individualistica e il paradiso è comunione, noi non vivremo soltanto la nostra vita, ma anche quella di tutti gli altri beati, tutti gli altri raggi. Leggere un bel libro, forse scriverlo, ridere con gli amici, belle conversazioni, ammirare un panorama, crescere un figlio, fare l’amore con la persona amata… queste esperienze, se pure le avesse sperimentate un unico essere umano in tutta la storia dell’umanità, sarebbero già solo per questo acquisite alla memoria condivisa del Paradiso. Io sarò te che stai leggendo, e tu sarai me che sto scrivendo, e ciascuno dei noi sarà sé medesimo più di quanto lo sia mai stato prima e al tempo stesso sarà in tutti gli altri. E tutti i “raggi”, tutti i tempi e recuperati, saranno in comunione

3.      nel centro del cerchio, l’asse lungo il quale il cerchio ascende eternamente, il “tempo”nel quale il Padre genera il Figlio e da essi procede lo Spirito Santo, in questo momento di infinito amore da cui tutto muove e a cui tutto vuol tornare.

 

Ecco, io credo che il Paradiso sarà questo. Allora noi saremo in Dio, e Dio sarà in noi come tutto in tutti: e tutti quei momenti non andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, ma saranno salvati dalla caducità del transeunte, per diventare gemme incastonate nella corona dell’eternità celeste.

 

 

 

 

                   a                         con

lim                 =                a N* = { 1, 2, … }

x→0             x

 

[questa formula è stata suggerita da Crosta come viceversa della precedente]

 

 

 

 


Il Logos e il Caos

(questo post, ancorché chilometrico, è ancora incompleto. È dall’inizio dell’anno – quando si dice il labor limae! – che ci lavoro, una frase oggi, un capoverso domani… Tuttavia mi manca proprio la conclusione, in cui dovrei mettere il punto sulla “mia” concezione del rapporto tra Logos e Caos, tra fede e ragione. Il problema è che attualmente non riesco a trovare la disposizione d’animo adatta – troppo poco tempo, ben altri pensieri nella testa – per mettermi a tavolino e cercare le parole con cui comunicare ciò che voglio dire. Così, alla fine, ho deciso come strappo alla regola di postare il pezzo anche se incompleto: è comunque un bel malloppone, e chissà che da qualche commento non riesca a trovare il “la” per terminare degnamente il tutto. Buona lettura – si fa per dire…)

 

Il Logos e il Caos

 

1. Il testo

Premesso che:

 

1.

hdhsfjdszhfsk mjsdafl ohnds qndvjx hzxbdmb msdeofru bdskhf hdxkfg owqeq hhdfgk nzvcmxb dhydeuit qewe ztyutuy svfdfb uaxasd dbnoi qcvb ayuiy ttgrue lczddc dgydtfygdfr swewaeewq uvbfcbgfcb dhggfhf qwerr aiopii tfhg lfhgfg diuyui qhjk zdewtr sooiiuuoi zgtyuty orty tvbnfb cwrew cqweqw drt ti lwqeqwe dretyt syuio ctyui duiuuu taaqswqs rvbnvnb dcjhsetfy qsdklgu zbvmdcf supwoitu uoprsouidf dhuk qvbn atyutuy tdcgfdf lsawersrt

 

2.

dsfdsjflfjdsl sdfjsfjsdkfjsdlk feorfuwierueowi zxcxcmrfygtred xcncx ewiurweoi ghkcd vdfhk jghdf gjkd hdfjgred ioreo tereswwer  pererer fhskfsd urtotgrd rt  xcj dlf dfgeruou rhgtorue vnkafdhilas gosdhffsdhfuio jvcscuop rgvdklvjrtm wauyrewiiew cbvxqwtyfqwyt kbpotro vuyqw n fjdoigodrtft jkddgtrfe ewtret cmsdicpowsi dfrsdreds re vjmfotdei sfhshfiu vmporedregpo sdfdsif nvdenovodr cnwwui rjtioeroi zxvnedoedr vnxlòawqe qwwrerio polmbczghasiryxzmsg djudisdfnis asdasds xncudfhudvbdfbu sdafiiodsso nmsopsac cnsduiifc dgdfggder

 

Sembra tutto assurdo, vero? E invece non lo è. I due paragrafi qui sopra appaiono simili nella loro struttura, ma invece sono molto diversi. Uno di essi è assolutamente casuale, perché l’ho scritto battendo tasti alla rinfusa sulla tastiera del pc; l’altro ha invece una sua razionalità, perché contiene un messaggio che ho poi criptato usando un sistema che rivelerò a tempo debito. Sfido il lettore a scoprire qual è l’uno e qual è l’altro: difficile, ma non del tutto impossibile. Il sistema crittografico che ho usato non è poi così complicato…

Le implicazioni di questi due paragrafi ai fini del mio discorso saranno chiare alla fine. Leggiamo ora questi altri due brani:

 

3.

Affermano gli empî che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della “Biblioteca febbrile, i cui causali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio”. Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto.

 

4.

Affermano gli empî che il nonsenso è normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza) è una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della “Biblioteca febbrile, i cui causali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio”. Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto.

 

Sembrano uguali, vero? In effetti lo sono, ma vi invito a pensare che potrebbe esserci una differenza. Uno è tratto dal famoso racconto di Jorge Luis Borges “La Biblioteca di Babele”, che descrive un mitico e smisurato luogo-universo i cui libri contengono tutte le combinazioni concepibili delle lettere dell’alfabeto. L’altro è, in effetti, lo stesso brano che io ho copiato coscientemente; ma per ipotesi potrebbe anche essere frutto del caso, di una vertiginosa roulette dei simboli ortografici che giungesse a produrre accidentalmente quello stesso brano; come se prendendo a caso uno dei libri della Biblioteca trovassi subito il Libro dei Libri, come se una scimmia arrivasse a produrre il monologo dell’Amleto di Shakespeare al primo tentativo senza passare il proverbiale milione di anni a battere sulla macchina da scrivere. Si tratta di un’ipotesi improbabile e inverosimile, ma non del tutto impossibile.

Anche su questi altri due testi dovremo tornare alla fine del discorso, ma per adesso lasciamoli da parte e parliamo dell’Universo (che alcuni dicono essere, in un certo senso, un testo a sua volta).

 

 

2. Brevissima storia delle concezioni del Logos

 

L’Universo è frutto del caso?

Oppure esiste un ordine razionale, un senso che dà significato all’esistenza del tutto?

I filosofi ellenici, a quanto ne sappiamo, furono i primi occidentali a porsi queste domande. E la risposta fu che alla base dell’Universo c’è il Logos, una parola greca suscettibile di varie traduzioni: “verbo”, “parola”, “discorso”, “ordine”, “razionalità”. La connessione tra queste sfumature semantiche è chiara: un discorso implica razionalità, perché non è un mucchio confuso di suoni o lettere, ma un insieme di parole organizzato secondo precise regole linguistiche. Quei pensatori avevano osservato la natura e avevano dedotto che il mondo è un posto ordinato secondo regole ben precise. Il caso e l’irrazionalità, che pure esistono nel mondo, non sono l’essenza del mondo.

 

Poi venne il cristianesimo. L’apostolo Giovanni, scrivendo in greco il proprio vangelo, aveva usato per il suo sublime prologo esattamente lo stesso termine già usato dai filosofi: In principio era il Verbo [Logos], e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio e tutto è stato fatto per mezzo di lui.

Giovanni ci dice che il Logos è al principio di tutte le cose, che un ordine razionale presiede alla struttura intelligibile del mondo; inoltre ci è detto prima che il Logos è presso Dio, e poi che il Logos è egli stesso Dio. Una contraddizione? Nient’affatto. Giovanni ci sta dando le prime nozioni sulla Trinità: ci sta dicendo che il Logos è presso Dio-Padre ed è Dio-Figlio (e personalmente mi chiedo se quel secondo successivo “presso Dio” non possa riferirsi a Dio-Spirito, ma non trovo conferme a questa mia ipotesi tra i pensatori che ho sfogliato). Gesù Cristo è il Logos, il Verbo divino che si fa Carne e viene ad abitare in mezzo a noi per rinnovare la creazione del mondo tramite la redenzione. All’inizio della Genesi Dio dice le cose, ed esse sono: “Sia la luce”, e la luce fu. La parola è il mezzo con cui Dio crea il mondo: leggendo l’Antico Testamento alla luce del Nuovo, si apprende che quella parola creatrice è proprio il Logos, Cristo, ovvero Dio-Figlio, la seconda persona della Trinità divina.

L’Universo è perciò un “discorso” di Dio, o se vogliamo un “libro”; il che ci rimanda alla “biblio-cosmologia” cui avevo accennato sopra, un argomento denso e complesso che meriterebbe una discussione a parte (qualche riferimento letterario pertinente: l’opera omnia del suddetto Borges, il concetto di sub-creazione di Tolkien, la Storia Infinita di Michael Ende, la Dark Tower di Stephen King, ed anche – si parva licet – i Prigionieri di carta del mio amico Niccolò Petrilli).

Dunque, se la filosofia greca aveva stabilito con la ragione che alla base dell’Universo c’è un ordine razionale, il cristianesimo associò per fede (sulla base del Vangelo di Giovanni) questa razionalità alla persona di Cristo. C’è pertanto uno scarto tra il Logos alla luce del lumen naturae, la razionalità del mondo capita dalla ragione di quei saggi pensatori pagani o agnostici, e il Logos identificato con Cristo alla luce della fede. La filosofia cristiana ha sempre tenuto presente questo scarto: San Tommaso era attentissimo a distinguere le verità dimostrabili ex ratione (che dunque nessuno può inescusabilmente rifiutare) da quelle indimostrabili e credibili soltanto ex fide (che dunque si possono soltanto proporre al prossimo, facendo appello alla sua libertà di credere nonché all’aiuto della grazia divina).

Lo studio della natura nei secoli successivi portò nuova attenzione sul Logos: la nascente scienza moderna concepiva l’Universo come retto da regole precise e razionali, sottolineando la loro intelligibilità da parte dell’uomo; era frequente nelle opere di Galileo la descrizione del mondo come di un libro scritto da Dio, che aveva lasciato all’uomo il compito di scoprirne l’alfabeto e la grammatica. Nella medesima ottica si mossero Newton e Keplero, i quali (sebbene la cosa sia poco nota, ed anzi oggi sia abbastanza diffusa una superficiale vulgata che vuole la scienza nemica necessaria della religione; il che è quasi ironico, visto che la scienza moderna nasce proprio come costola della religione) prima che scienziati furono teologi, ed anzi furono autori di eccezionali scoperte proprio in quanto cercavano di scoprire le leggi di natura che ritenevano Dio gli avesse posto innanzi.

 

Successivamente l’illuminismo, de-cristianizzando la filosofia, auspicò un avanzamento della scienza tale da relegare la religione a nefando ricordo dei secoli bui, o al limite da permettere soltanto una religione naturale che fosse puramente razionale e depurata da ogni rivelazione. Gli illuministi furono “teisti” (credenti in un solo Dio personale, comune ai tre grandi monoteismi) oppure “deisti” (credenti in una divinità non meglio precisata, magari chiamata Ragione o Essere Supremo) oppure semplicemente agnostici; è da notare che pochi illuministi sostennero teoricamente l’ateismo, l’inesistenza di Dio essendo ancor meno dimostrabile della sua esistenza.

Con l’illuminismo svanisce dunque ogni contributo della fede alla conoscenza: il Logos torna ad essere quel che era già stato per i filosofi greci, un ordine universale comprensibile tramite la sola razionalità. Voltaire paragonò l’Universo ad un Orologio perfetto, costruito da un sublime Orologiaio, con un meccanismo che dopo la carica iniziale prosegue da solo in un moto perpetuo e non ha più bisogno del suo costruttore. La massoneria (perlomeno la sua corrente razionalista, che fu l’altra faccia dell’illuminismo) descrive la divinità come un Grande Architetto che ha edificato l’universo secondo certi precisi criteri, gli stessi a cui avrebbe alluso la Tradizione massonica medievale con la costruzione delle cattedrali gotiche (tuttora qualche stravagante sostiene di riconoscere nella facciata di quegli edifici lo schema cabalistico dell’albero delle sephirot – e certo: basta spostare una sephira qui, cambiare un po’ lo schema là, e il gioco è fatto…)

 

E infine Hegel. Nel suo idealismo il concetto di Logos subisce l’ultima evoluzione significativa: diventa Geist, Spirito che produce l’Universo, Razionalità che si fa Realtà.

È impossibile spiegare in poche righe la filosofia hegeliana, argomento immensamente vasto e complicato (e molto ci sarebbe da dire sullo gnosticismo sommerso di Hegel, che purtroppo è finora sfuggito alla quasi totalità dei suoi commentatori). In estrema sintesi: l’idealismo è quella filosofia per cui la realtà non è autonoma dal pensiero del soggetto che la conosce, ma in certo modo dipende dall’idea con cui il soggetto si rappresenta mentalmente la realtà. Nelle sue configurazioni più estreme, si sostiene che la realtà è creata dall’idea. Per Hegel è proprio così, sennonché l’idea che si fa realtà non è quella del singolo essere umano (“io empirico”), ma quella di un Io trascendentale che sta all’io empirico come la sostanza sta all’accidente. Questo Io trascendentale è l’Uomo, è l’Idea, è il Pensiero Razionale che si fa Realtà, è lo Spirito (Geist), è Dio.

Il processo con cui l’idea si fa realtà è la dialettica hegeliana, composta dalla famosa terna tesi-antitesi-sintesi, nella quale ogni termine si suddivide a sua volta in una terna inferiore (cosicché lo schema completo è caratterizzato da una notevole complessità). La terna fondamentale è composta da:

1. L’Idea in sé, ovvero lo Spirito che esiste prima del tempo, prima dell’Universo e della realtà materiale.

2. L’Idea per sé, ovvero lo Spirito che uscendo da sé crea l’Universo e diventa Natura, per poi torna in sé nello svolgimento della dialettica hegeliana.

3. L’Idea in sé e per sé, ovvero lo Spirito che tornato infine in sé unifica Pensiero e Materia nell’autocomprensione finale di questo movimento circolare.

Da notare che Hegel, con un’operazione ermeneutica tipicamente gnostica, ravvisava nel cristianesimo la verità essoterica (= una storiella buona per la massa) del suo idealismo, il Verbo che si fa Carne essendo un’allegoria dello Spirito che si fa Realtà; a “inverare” quest’allegoria naturalmente ci avrebbe pensato lui, venuto a svelare all’umanità il vero significato della storia del Dio-uomo che muore e risorge…

Insomma, stringi stringi, la filosofia di Hegel è un’antropoteosofia: l’Uomo è Dio, gli resta solo da capirlo. E a ben guardare il movimento circolare del Geist, descritto nella triade dell’Idea che è in sé e poi esce da sé ed infine torna in sé, ricorda tanto certe cosmogonie gnostiche per le quali al principio esisteva un dio che si distrusse, la materia essendo ciò che resta di quel cadavere supremo, e l’uomo può salvarsi solo se acquisisce la conoscenza della propria natura divina. Dio muore all’inizio del tempo, ma risorge nell’Uomo. L’evoluzione dell’Universo, e la stessa storia dell’umanità, sono guidate da una razionalità immanente alla realtà lungo un binario ineluttabile teso a sfociare infine nell’autocomprensione, ovvero nel ritorno dell’Idea in sé, ovvero nella cosciente identificazione tra Uomo e Dio.

 

 

3. Il Caso e l’Irrazionalità

 

Nel libro di fantascienza Guida Galattica per autostoppisti, Douglas Adams narra di una razza di esseri “superintelligenti e pandimensionali” che decide di trovare la Risposta suprema alla domanda fondamentale circa “la vita, l’Universo e tutto quanto”. Questa razza costruisce pertanto un computer gigantesco, chiamato Pensiero Profondo, e gli affida il compito di calcolare la Risposta. Il computer impiega per questo gravoso compito ben sette milioni e mezzo di anni; dopodichè, di fronte alla festante popolazione in trepida attesa, annuncia in mondovisione la Risposta:

42.

La razza di esseri superintelligenti e pandimensionali non è precisamente soddisfatta del criptico risultato, ma Pensiero Profondo si giustifica dicendo che essi capirebbero se conoscessero con precisione la Domanda. A questo scopo viene dunque costruito un computer ancor più grande e potente; purtroppo, per una sfortunata quanto ridicola coincidenza, esso viene distrutto proprio pochi minuti prima che il calcolo sia completato.

Successivamente, nel secondo volume della saga Ristorante al termine dell’Universo, il protagonista Arthur Dent riesce con un bizzarro espediente a sapere qual è la Domanda:

6 x 9?

Il significato della vita e dell’universo e di tutto quanto, dunque, sembra essere contenuto nella formula “6 x 9 = 42”. Sennonché, il lettore si sarà già accorto che sei per nove non fa affatto quarantadue: fa cinquantaquattro.

La conclusione che si ricava dalla conoscenza simultanea della Domanda e della Risposta, insomma, è che tutto è assurdo e bizzarro e irrazionale, proprio come le avventure descritte da Adams nei suoi libri.

 

Ora, questo potrà anche sembrare uno scherzo, ma a ben vedere la trovata di Adams è un’efficacissima descrizione della concezione postmoderna del mondo. Il Logos, che in una forma o nell’altra è sempre stato considerato l’ossatura dell’universo fin dalla nascita del pensiero occidentale, oggigiorno è considerato superato. La filosofia sorta dopo Hegel (compreso, pur tra varie contraddizioni interne, quell’hegelismo rovesciato che fu il marxismo) ha rinunciato a qualsiasi metafisica: non c’è nessun senso intrinseco nell’universo, nessuna Razionalità immanente o trascendente, nulla tranne i piccoli e provvisori significati che gli uomini nella loro breve contingenza decidono di dare al mondo.

Le cause di questo cataclismatico rovesciamento esistenziale sono molteplici. Tra i principali fattori, credo debbano essere annoverate:

1) le pulsioni irrazionalistiche della filosofia che cominciano a sorgere già nel XIX secolo, vedi ad esempio Nietzsche.

2) la delusione dei Lumi. Diceva l’ottimismo illuminista che l’umanità, dopo aver abbandonato le tristi eredità dei secoli bui come la superstizione e i dogmi religiosi, avrebbe realizzato un mondo migliore. Sappiamo com’è andata: quello appena finito è stato il secolo dell’orrore, delle guerre mondiali, dei lager nazisti e dei gulag comunisti, degli stermini di massa e del terrore atomico. E così l’uomo occidentale, dopo aver perso nel ‘700 la fiducia nella Fede, ha perso nel ‘900 la fiducia nella Ragione: l’illuminismo moderno ha generato il “figlio parricida” del relativismo postmoderno, e coloro che prima avevano aderito alla religione secolare del marxismo, dopo la confutazione storica di quest’ultimo, si sono in gran parte convertiti al pensiero debole (chiamiamolo “rancore epistemologico”: “se io avevo torto, allora nessuno deve avere ragione”).

3) l’interpretazione dell’evoluzionismo in termini puramente aleatori, efficacemente riassunta e propagandata da Jacques Monod nel suo saggio “Il Caso e la Necessità”: “l’uomo sa infine che è solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è emerso per caso”. La comparsa della vita nell’universo, e la sua evoluzione attraverso il meccanismo delle mutazioni genetiche, sono considerate come il risultato accidentale di una specie di lotteria cosmica. Questa visione è oggi così diffusa da essere spesso identificata con l’evoluzionismo nella sua essenza (il che è un altro falso storico, perché Darwin sostenne il meccanismo evolutivo ma non l’aleatorietà dell’evoluzione: a torto l’ateismo militante lo agita come feticcio della propria causa). Nelle sue configurazioni più radicali, questa mentalità concepisce come casuale la stessa esistenza dell’Universo: qualcosa esiste, sì, ma poteva anche non esistere, e in ogni caso non c’è una particolare ragione perché ci sia l’Essere invece che il Nulla. Non c’è nessun Logos, c’è solo un accidente del Caso.

 

 

4. Il testo: la ragione

 

Torniamo allora alla metafora “biblio-cosmologica” di cui parlavo all’inizio. Abbiamo due coppie di testi: la prima coppia è apparentemente casuale e insensata, tuttavia uno dei due elementi cela un senso razionale e (seppur con qualche difficoltà) intelligibile; la seconda coppia è apparentemente razionale, tuttavia (per ipotesi improbabile ma tecnicamente non impossibile) uno dei due testi è in realtà frutto accidentale del caso. Le possibilità sono:

1. il Logos non appare, perché non c’è.

2. il Logos non appare, però c’è.

3. il Logos appare, perché c’è.

4. il Logos appare, però non c’è.

Quale dei quattro testi è il termine di paragone più adatto per descrivere la realtà? Ovvero, quale delle quattro proposizioni definisce l’Universo?

 

Per rispondere a questa Domanda (la cui Risposta, naturalmente, non è 42!) dobbiamo anzitutto usare la ragione. Ed è proprio con la ragione che possiamo osservare che nel mondo esistono delle regole: la gravitazione universale, le leggi di Keplero, E = Mc2… L’universo non è un guazzabuglio caotico di eventi che semplicemente avvengono: c’è una struttura, una matrice, un ordine minuzioso.

Sappiamo inoltre che questo Universo non è sempre esistito: i tentativi di dimostrare il contrario, come la famosa teoria dell’universo quasi-statico di Hoyle, non reggono all’obiezione della radiazione di fondo nonché a certe considerazioni sull’entropia ( Hoyle era un fisico fortemente contrario all’idea del Big Bang – e per ironia della sorte fu lui stesso a darle questo nome per ridicolizzarla, senza prevedere che avrebbe fatto presa sull’immaginario collettivo – poiché, diceva, gli sembrava “un’idea da preti”).

Ma da dove deriva allora questa razionalità? È verosimile che “prima” (prima di ogni prima, perché il tempo, come scriveva Sant’Agostino e ha confermato Einstein, non esiste in assenza di eventi) ci fosse il Nulla, e poi improvvisamente l’Essere – ma un Essere ordinato, strutturato, regolato, un Essere che attua il suo divenire storico seguendo precise leggi fisiche?

L’osservazione dell’universo ci aiuta a rispondere alla Domanda, escludendo la prima coppia di testi: il Logos appare.

 

A questo punto, però, il sostenitore del Caso può obiettare (e solitamente è questa l’obiezione più frequente, ripetuta in molte varianti) che “la razionalità non è oggettivamente presente nell’universo, ma soggettivamente presente nell’osservatore.” Ovvero: le regole fisiche del mondo in sé e per sé non significano niente, ma siamo noi che le vediamo razionali perché le conformiamo al nostro punto di vista e precisamente alla nostra razionalità. Insomma: il Logos ci appare, però non c’è.

Torniamo alla metafora del testo: i paragrafi (3) e (4) ci appaiono sensati perché corrispondono alla nostra grammatica. Quando li ho scritti, ho digitato sulla tastiera certe lettere e non altre, proprio perché la mia scrittura seguiva precise regole grammaticali. Tuttavia, anche i paragrafi (1) e (2) potrebbero apparire sensati, se a leggerli fosse un ipotetico osservatore la cui grammatica aliena, per un improbabile ma non impossibile scherzo del caso, coincidesse con quella che si trova di fronte: perché magari nella sua lingua hdhsfjdszhfsk mjsdafl ohnds”, oppure “dsfdsjflfjdsl sdfjsfjsdkfjsdlk feorfuwierueowi”, non sono affatto guazzabugli fonetici bensì assennate frasi di senso compiuto. Oppure, come dicevamo all’inizio, non si può escludere che da un gigantesco meccanismo combinatorio sia prodotta per caso una frase come “Affermano gli empî che il nonsenso è normale”, che a noi lettori sembra sensata perché siamo proprio noi a metterci un senso che in origine non c’era.

La più grande e lucida espressione poetica di questa lotteria cosmica è proprio il racconto di Borges sulla Biblioteca, il luogo in cui il Caso produce ogni libro possibile; e tuttavia, poiché nessun Logos è alla base di questa produzione, poiché non c’è nessuna regola che stabilisce di scrivere certe lettere invece di certe altre in quanto semplicemente si dà ogni concepibile combinazione alfabetica, allora nessun testo ha veramente senso e ogni testo è ipoteticamente sensato, e dunque si annichilisce infine la stessa differenza tra Ordine e Disordine: il Logos è il Caos.

 

(In realtà, la Biblioteca include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume dei molti esagoni che amministro s’intitola “Tuono pettinato”, un altro “Il crampo di gesso” e un altro “Axaxaxas mlö”. Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d’una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione è verbale, e perciò, ex hypothesi, già figura nella Biblioteca. Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri

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che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in uno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio.)

 

Perciò, se il problema della prima coppia di testi era facilmente risolvibile perché basta analizzare l’universo per riconoscerne la struttura razionale, il problema della seconda coppia di testi non lo è altrettanto. Non è possibile sapere razionalmente e con certezza assoluta se il Logos appare perché esiste oggettivamente, o perché è solo soggettivamente in noi; se la “grammatica” dell’Universo possiede il senso che mostra, o se è soltanto un fenomenale dodici ai dadi del Big Bang. La ragione non è autofondante.

(È possibile questa conclusione possa essere suffragata anche dai teoremi di incompletezza di Gödel, per i quali – in estrema semplificazione – non si può dimostrare la coerenza di una teoria basandosi esclusivamente sulla teoria stessa; ma qui, poiché non conosco la matematica come la letteratura e la filosofia, non posso esprimermi con certezza.)

Come uscire, allora, da quest’impasse?

 

TO BE CONTINUED…

 

 


La spaventosa perfezione

La spaventosa perfezione

 

Bevendo qualche birra poche sere fa con un mio caro amico (lui si definisce cattolico non praticante, io gli dico cordialmente che è un neopagano), la conversazione si è non ricordo come soffermata sul film di Martin Scorsese “L’ultima tentazione di Cristo”. Che a me esteticamente non dispiace affatto, avendo io ben presente che il protagonista non è Cristo ma una sua versione apocrifa e gnostica; comunque, non è questo l’argomento odierno. Il mio amico, cercando di descrivere la trama ad un interlocutore terzo, ha detto “il protagonista del film è un Gesù umano.”

E io: “beh, anche il Gesù dei Vangeli cattolici è umano.”

E lui: “volevo dire, il protagonista del film è un Gesù più umano.”

E io: “beh, anche il Gesù dei Vangeli cattolici è più umano.”

E lui: “insomma, all’inizio c’è Gesù che è pieno di conflitti interiori e non sa se è veramente il Messia…” e a seguire il riassunto della trama.

 

Mettendo da parte per un’altra volta le mie riflessioni cinematografiche/teologiche su questo film, ciò che mi fa riflettere è la percezione (temo abbastanza diffusa) di Cristo come dis-umano in quanto perfetto. La perfezione atterrisce, pretende troppe cose; “sono solo un essere umano, dopotutto” è un’apprezzata forma di autoindulgenza. Un Messia fallibile che almeno una volta commette peccato, fa una stupidaggine, insomma sbaglia, riesce molto più facilmente simpatico.

Questa sensibilità non ha tutti i torti. La specificità del Cristianesimo risiede proprio nel fatto che Dio si avvicina all’uomo facendosi Uomo egli stesso e condividendone, fisicamente o spiritualmente, le miserie. Una delle cose che critico delle altre due religioni monoteistiche “figlie di Abramo”, vale a dire l’Ebraismo e l’Islam, è la concezione così distante di Dio, che non può essere neppure simbolicamente raffigurato in dipinti. Pare che il “loro” Dio, per dire, non si abbasserebbe mai a nascere in una stalla, magari con l’odore delle deiezioni di animali nell’aria. Il “mio” (virgolette, perché Dio non è di nessuno ed è per tutti) invece sì, ed è uno dei motivi per cui me ne sono innamorato.

Questa sensibilità mi sembra però in errore nel momento in cui, preso atto di quella che potremmo chiamare la vicinanza di Dio, la spinge fino a raffigurarsi un Gesù imperfetto e dunque più “più umano”. Innanzitutto la impeccabilitas di Cristo è intrinseca alla Redenzione, l’agnello completamente innocente che si offre in olocausto e tollit peccata mundi; su ciò si sono spesi i proverbiali fiumi d’inchiostro. Ma la cosa non si può esaurire con questo argomento d’autorità.

È vero che Cristo non peccò, ovvero non offese mai Dio, essendo egli stesso la seconda persona di Dio; ma perché ciò dovrebbe renderlo “meno umano”? I Vangeli, che non sono affatto biografie nel senso moderno della parola, non hanno interesse a riportare tutta quella serie di piccoli particolari cui siamo abituati noi moderni per dare spessore ad un personaggio. Qual era il suo colore preferito, il cibo preferito, la prima parola che aveva detto? A che età aveva imparato a camminare da solo? Lui e gli apostoli si raccontavano mai barzellette? Come si divertiva alle nozze di Cana? Senza arrivare all’eccesso del “Buddy Christ” (tradotto in italiano come “Cristo compagnone”) del dissacrante e divertente film “Dogma” di Kevin Smith, sono fermamente convinto che Gesù sia stato tutt’altro che il severo figuro, mai colto dal riso, teorizzato dal monaco Jorge nel “Nome della Rosa”.

C’è tanto che i Vangeli non dicono, ma non di meno è stato: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.” (versetto finale del vangelo di Giovanni). San Josemaria Escrivà ricordava ripetutamente i trent’anni “nascosti” di Cristo prima della sua vita pubblica, trascorsi a lavorare come falegname, e ne traeva insegnamenti sulla santificazione del cristiano nel lavoro quotidiano e nelle cose ordinarie.

 

In conclusione, sull’argomento segnalo un inquietante racconto di Jorge Luis Borges (il mio scrittore preferito), che può valere come apocalittico monito: “Tre versioni di Giuda”, contenuto nella raccolta “Finzioni”.

Il teologo evangelico Nils Runeberg è affascinato dalla figura di Giuda e tenta quanto possibile di “riabilitarlo”, proponendo diversi moventi della sua condotta che in qualche modo lo facciano apparire in luce migliore. Le sue tesi “proposte in un cenacolo, sarebbero leggeri e inutili esercizi della negligenza e della bestemmia; per Runeberg, furono la chiave che decifra un mistero centrale della teologia; furono materia di meditazione e di analisi, di controversia storica e filologica, di orgoglio, di giubilo e di terrore.”

Infine egli giunge ad una conclusione estrema: “«Nel mondo era, e il mondo fu fatto per lui, e il mondo non lo conobbe» (Giovanni I 10) […] Dio, argomenta Runeberg, s’abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci è permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto […] Affermare che fu un uomo e fu incapace di peccato, implica contraddizione: gli attributi di inpeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. […] Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso. Per salvarci […] scelse un destino infimo: fu Giuda.”

Dopo la pubblicazione del suo libro, totalmente ignorato dall’opinione pubblica, Runeberg si convince che la vera identità dell’Incarnazione deve restare un mistero affinché neppure la gloria e l’adorazione possano attenuare il sacrificio di Dio. Infine impazzisce, “pregando a volte che gli fosse concessa la grazia di dividere l’Inferno col Redentore”, e muore.