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Insieme preghiamo il vero Dio

Insieme preghiamo il vero Dio

  

        

1. Cristo in moschea

Il Papa nella Moschea Blu, che scalzo e davanti al mihrab rivolto verso la Mecca prega accanto al Muftì di Istambul, è un’immagine che giustamente ha fatto il giro del mondo: molti l’hanno paragonata all’epico gesto, altrettanto imprevisto e commovente, di Giovanni Paolo II che a Gerusalemme mise un bigliettino nel Muro del Pianto. Con questo singolo atto, Benedetto XVI ha fatto per la pace nel mondo assai più di quanto molte conferenze e convenzioni internazionali abbiano mai potuto sperare di fare.

Naturalmente le reazioni ed impressioni che questo gesto ha suscitato nel mondo, soprattutto nella parte di mondo in cui viviamo, sono state particolarmente variegate. Eppure, oltre alle purtroppo inevitabili riduzioni ad uno pseudo-sincretismo (fatte da qualche insipiente che ci ha spiegato come pregare Allah o Cristo sia in fondo quasi la stessa cosa), nonché alle interpretazioni che trovano una contraddizione insanabile tra il Papa a Ratisbona e il Papa a Istambul (chi per compiacersene, chi per dolersene), c’è stato pure qualcuno che è riuscito a pensare qualcosa d’interessante e intelligente. Khaled Foud Allam su Repubblica ha scritto che “è attraverso la preghiera che si giunge alla pace: […] credo che la preghiera intesa in questo senso non rappresenti assolutamente un cedimento ad un facile ecumenismo che spesso non ha aiutato il dialogo; essa è invece un punto di partenza, un momento di fondazione. La preghiera cristiana quando si rivolge a Dio nello spazio di una moschea simbolica come quella blu stabilisce che l’incontro è possibile solo se si è consapevoli della propria identità, e che quest’ultima non rappresenta un freno, ma un’apertura.” Analogamente, Franco Garelli sulla Stampa (pur con le idee un po’ confuse su cosa significhi pregare insieme, e quanto sia importante il luogo e soprattutto il destinatario) ha scritto che “praticando la preghiera in uno spazio sacro non cristiano Ratzinger afferma con un gesto fortemente simbolico l’esigenza della libertà religiosa, e lo fa in coerenza con una visione teologica del mondo, non semplicemente civile”.

Così, mentre la “modernità laica e neutrale” ha spesso creduto di poter inibire i conflitti religiosi semplicemente rimuovendo il fenomeno stesso della fede dallo spazio pubblico, e confinandolo nel cantuccio invisibile del meramente privato (come ha esemplarmente fatto la Francia vietando agli studenti di esibire simboli religiosi nelle scuole, per poi ritrovarsi un paio d’anni dopo con le rivolte nelle banlieues), la lezione che il Papa e il Muftì hanno impartito al mondo da Istambul è di segno del tutto opposto: non la rimozione, ma l’esaltazione delle basi comuni, non il nascondere ma il mostrare.

E la preghiera sicuramente cristiana di Benedetto XVI (essendo improbabile che il Papa abbia recitato in cuor suo “bi-smi’Llâhi ‘ar-Rahmâni, ‘ar-Rahîm”, ovvero “In nome di Allah il Compassionevole e Misericordioso”), fatta in luogo islamico, si pone così non solo come ponte di dialogo e affetto con chi è culturalmente e teologicamente diverso, ma come auspicio e anticipazione di un regime di libertà religiosa nelle terre musulmane che finalmente consenta ad ogni cristiano di essere pubblicamente sé stesso, di mostrare pubblicamente ciò in cui crede, di svolgere nei modi più consoni la sua propria attività di culto.

 

 

2. Preghiera multireligiosa, preghiera interreligiosa

Questa preghiera, insomma, ha delle implicazioni notevoli e importantissime sia da lato sociale e politico che da quello religioso e teologico. Ora, per capire pienamente queste ultime, credo sia utile leggere cosa scriveva lo stesso Joseph Ratzinger non molto tempo fa, nel 1992 (il testo è stato pubblicato per la prima volta in italiano nel libro “Fede, Verità, Tolleranza – il cristianesimo e le religioni del mondo”, ed. Cantagalli, pag. 110), a proposito di cosa siano e cosa significhino la preghiera multireligiosa e la preghiera interreligiosa (per il lettore che mal per lui non avesse voglia o tempo di leggere il testo, farò poco dopo un breve riassunto):

 

Nell’epoca del dialogo e dell’incontro delle religioni è sorto inevitabilmente il problema se si possa pregare insieme gli uni con gli altri. A questo proposito oggi si distingue preghiera multireligiosa e interreligiosa. Il modello per la preghiera multireligiosa è offerto dalle due giornate mondiali di preghiera per la pace, nel 1986 e nel 2002, ad Assisi. Appartenenti a diverse religioni si radunano. […] Tuttavia le persone radunate sanno pure che il loro modo di intendere il “divino”, e quindi la loro maniera di rivolgersi a esso, sono così diversi che una preghiera comune sarebbe una finzione, non sarebbe nella verità. Esse si raccolgono per dare un segno del comune anelito [alla pace e alla giustizia, ndr], ma pregano – anche se in contemporanea – in sedi separate, ciascuno a modo proprio. […]

In riferimento ad Assisi – tanto nel 1986 quanto nel 2002 – ci si è chiesti ripetutamente e in termini molto seri se questo sia legittimo. La maggior parte della gente non penserà che si finge una comunanza che in realtà non esiste? Non si favorisce così il relativismo, l’opinione che in fondo siano solo differenze secondarie quelle che si frappongono tra le “religioni”? Non si indebolisce così la serietà della fede, non si allontana ulteriormente Dio da noi, non si consolida la nostra condizione di abbandono? Non si possono accantonare con leggerezza tali interrogativi. I pericoli sono innegabili, e non si può negare che Assisi, particolarmente nel 1986, da molti sia stato interpretato in modo errato. Sarebbe però altrettanto sbagliato rifiutare in blocco e incondizionatamente la preghiera multireligiosa così come l’abbiamo descritta. A me sembra giusto legarla a condizioni che corrispondano alle esigenze intrinseche della verità della responsabilità di fronte ad una cosa così grande come è l’implorazione rivolta a Dio davanti a tutto il mondo. Ne individuo due:

1. Tale preghiera multireligiosa non può essere la norma della vita religiosa, ma deve restare solo come un segno in situazioni straordinarie, in cui, per così dire, si leva un comune grido d’angoscia che dovrebbe riscuotere i cuori degli uomini e al tempo stesso scuotere il cuore di Dio.

2. Un tale avvenimento porta quasi necessariamente ad interpretazioni sbagliate, all’indifferenza rispetto al contenuto da credere o da non credere e in tal modo al dissolvimento della fede reale. Perciò avvenimenti del genere devono restare eccezionali, e dunque è della massima importanza chiarire accuratamente in che cosa consistano. Questo chiarimento, in cui deve risultare nettamente che non esistono le “religioni” in generale, che non esiste una comune idea di Dio e una comune fede in Lui, che la differenza non tocca unicamente l’ambito delle immagini e delle forme concettuali mutevoli, ma le stesse scelte ultime – questo chiarimento è importante, non solo per i partecipanti all’avvenimento, ma per tutti quelli che ne sono testimoni o comunque ne sono informati. L’avvenimento deve presentarsi in sé stesso e davanti al mondo in modo talmente chiaro da non diventare dimostrazione di relativismo, perché si priverebbe da solo del suo senso.

 Mentre nella preghiera multireligiosa si prega nello stesso contesto, ma separatamente, la preghiera interreligiosa significa un pregare insieme di persone o gruppi di diversa appartenenza religiosa. È possibile fare questo in tutta verità e onestà? Ne dubito. Comunque devono essere garantite tre condizioni elementari, senza le quali tale pregare diverrebbe la negazione della fede:

1. Si può pregare insieme solo se sussiste unanimità su chi o che cosa sia Dio e perciò se c’è unanimità di principio su cosa sia il pregare: un processo dialogico in cui io parlo a un Dio che è in grado di udire ed esaudire. In altre parole: la preghiera comune presuppone che il destinatario, e dunque anche l’atto interiore rivolto a Lui, vengano concepiti, in linea di principio, allo stesso modo. Come nel caso di Abramo e Melchisedek, di Giobbe e di Giona, dev’essere chiaro che si parla col Dio unico che sta al di sopra degli dèi, col Creatore del cielo e della terra, col mio Creatore. Dev’essere chiaro dunque che Dio è “persona”, vale a dire che può conoscere ed amare; che può ascoltarmi e rispondermi; che Egli è buono ed è il criterio del bene, e che il male non fa parte di Lui. […]

2. Sulla base del concetto di Dio, deve sussistere pure una concezione fondamentalmente identica su ciò che è degno di preghiera e può diventare contenuto di preghiera. Io considero le richieste del Padre nostro il criterio di ciò che ci è consentito implorare da Dio, per pregare in modo degno di Lui. In esse si vede chi e come è Dio e chi siamo noi. Esse purificano la nostra volontà e fanno vedere con che tipo di volontà stiamo camminando verso Dio, e che genere di desideri ci allontana da Lui, ci metterebbe contro di Lui. Richieste che fossero in direzione opposta alle richieste del Padre nostro, per un cristiano non possono essere oggetto di preghiera interreligiosa, e di nessun tipo di preghiera.

3. L’avvenimento deve svolgersi nel suo complesso in modo tale che la falsa interpretazione relativistica di fede e preghiera non vi trovi alcun appiglio. Questo criterio non riguarda solo chi è cristiano, che non dovrebbe essere indotto in errore, ma alla stessa stregua anche chi non è cristiano, il quale non deve avere l’impressione dell’interscambiabilità delle “religioni” e che la professione fondamentale della fede cristiana sia di importanza secondaria e dunque surrogabile. Per evitare tale errore bisogna pure che la fede dei cristiani nell’unicità di Dio e in quella di Gesù Cristo, il Redentore di tutti gli uomini, non sia offuscata davanti a chi non è cristiano.

 

Pertanto, mentre la preghiera multireligiosa avviene tra credenti in fedi diverse che pregano sì nello stesso contesto e con le medesime intenzioni ma ciascuno a suo modo, pensando alla propria immagine della divinità, nella sua propria direzione (come rette divergenti), la preghiera interreligiosa è più impegnativa perché in essa i credenti pregano davvero insieme, con una consenso almeno sui fondamenti essenziali della fede, unendo il proprio cervello e il proprio cuore verso una divinità comune ad entrambi (come rette convergenti). E se questi eventi possono e devono essere qualcosa di straordinario (sia nel senso di “importante immenso bellissimo”, sia nel senso di “raro inconsueto eccezionale”), è importante che il messaggio trasmesso agli osservatori esterni non sia quello del relativismo, della fungibilità religiosa, del “una fede vale l’altra, è solo questione di gusti o di culture”.

Alla luce di quanto sopra, allora, pare di capire che la preghiera in moschea di Benedetto XVI sia stata una preghiera multireligiosa: il Papa e il Muftì, l’uno accanto all’altro, hanno pregato in silenzio, ciascuno raccolto nei propri pensieri e indirizzando la propria orazione verso la sua propria concezione dell’unica divinità.

A questo punto, però, viene spontaneo chiedersi se possa essere eventualmente possibile con i musulmani una preghiera interreligiosa: e abbiamo visto che non è soltanto questione da accademia teologica, perché il clash of civilities può essere disinnescato più dal pregare assieme che dalle convenzioni internazionali. Dal fatto che in quello stesso giorno (data molto importante, il 30 novembre!) Benedetto XVI abbia scritto nel Libro d’Oro a Santa Sofia, che fu basilica e fu moschea e ora è museo, “nelle nostre diversità ci troviamo davanti alla fede del Dio unico”, possiamo presumere che sì, seppur nelle attente e rigorose circostanze viste sopra, sia possibile.

Ma in che senso un cristiano può dire a un musulmano “preghiamo un solo Dio”?

 

 

3. Tutti sentono il ruggito del Leone

La questione è fondamentale. Il cristiano e il musulmano pregano lo stesso Dio? E in che senso questo Dio è “lo stesso” Dio? Cerchiamo di fare chiarezza. È palese che la nostre due religioni non sono uguali o interscambiabili, perché hanno un’immagine di Dio per certi versi simile ma per altri versi differente. Noi crediamo in un Dio che è Trinità d’amore; loro in un Dio “monoliticamente” uno. Noi crediamo in un Dio che si fa uomo e condivide il dolore umano fino alla tortura e alla morte; loro credono in un Dio che resta lontano nella sua gloria celeste, e per aiutare l’uomo manda sulla terra una serie di rispettabilissimi profeti. Noi crediamo in un Dio che indica all’uomo il bene ma che poi si limita lasciandogli il libero arbitrio per scegliere tra il bene o il male; loro credono in un Dio dall’onnipotenza incomprimibile, che in ogni momento decide ogni cosa (per capire bene questo punto, si consiglia di leggere La prigione della libertà di Michael Ende).

Stando così le cose, possiamo ancora dire che preghiamo un solo Dio? Sì: perché, siccome sappiamo che un solo Dio esiste, chi si rivolge nelle sue preghiere all’unico Dio si rivolge comunque al vero Dio. Anche se la sua visione è senza colpa erronea e confusa, è comunque quel Dio che sta pregando, non altri inesistenti: il Dio uno e trino, il Dio che si è incarnato in Cristo ed è venuto a nascere vivere morire e risorgere nel mondo per redimerlo.

Per far capire al meglio tutto ciò, chiediamo aiuto alla letteratura.

Clive Staples Lewis, cristiano anglicano, negli anni ’50 del secolo scorso scrisse Le cronache di Narnia, epica e apprezzata fiaba fantasy incentrata sulla figura del grande leone Aslan (parola che, guarda caso, proprio in turco significa “leone”), immagine cristologica e Signore del mondo di Narnia. Nell’ultimo dei sette libri della saga, L’ultima battaglia, il popolo di Narnia che è rimasto fedele ad Aslan si scontra con i Calormeniani (un popolo descritto con tratti abbastanza simili a quelli islamici), che invece adorano il dio Tash. Lo scontro si svolge attraverso varie vicissitudini che qui non racconto, che includono anche uno stratagemma dei generali di Calormen volto a far credere che Aslan e Tash siano in realtà lo stesso dio dal vero nome di “Tashlan”, e si conclude infine con l’intervento improvviso e risolutivo di Aslan; successivamente, quando i protagonisti del libro si ritrovano e si raccontano le rispettive traversie, tra loro appare un Calormeniano, Emeth, che dice loro:

 

Re guerrieri – cominciò Emeth – e voi, nobili dame che con la vostra bellezza illuminate l’universo: sappiate che io sono Emeth, settimo figlio del tarkaan Harpa della città di Tehishbaan, a occidente del deserto. Negli ultimi giorni sono arrivato a Narnia con una trentina di altri soldati, miei compagni, agli ordini del tarkaan Rishda. Quando mi fu detto che avremmo marciato su Narnia, sinceramente ne fui contento: avevo sentito dire meraviglie sul vostro popolo e la vostra terra, perciò non vedevo l’ora di incontrarvi in battaglia. Ma quando scoprii che ci saremmo intrufolati da voi vestiti da mercanti (con abiti, fra l’altro, non adatti al mio rango) e che avremmo dovuto ingannarvi con una montagna di bugie, persi tutto il mio entusiasmo. […] Quando, infine, sentii dire che Aslan e Tash erano la stessa persona, non ci vidi più. Da quando ero bambino mi considero un devoto servitore di Tash e il mio più grande desiderio è stato conoscerlo di persona. Il nome di Aslan, invece, mi è sempre stato odioso.

[…] Mi convinsi che il vero Tash era tra noi e stava per vendicarsi di chi lo aveva vendicato invano e senza fede. Allora, benché avessi il cuore paralizzato dalla paura, sentii in me un desiderio incontrollabile di vederlo, un desiderio più forte del terrore di affrontarlo. Mi offrii come volontario, pur essendo consapevole che il gesto mi sarebbe probabilmente costato la vita. All’inizio il tarkaan si oppose alla mia richiesta, ma poi, anche se controvoglia, acconsentì. Appena varcata la soglia, la prima grande sorpresa fu che mi trovato in un luogo accogliente e soleggiato, lo stesso dove siamo adesso; e non riuscivo a spiegarmi perché, dall’esterno, la stalla [in cui i generali di Calormen avevano detto essere il dio Tashlan, ndr] sembrasse angusta e buia.

[…] Mi guardai intorno, vidi un cielo azzurro come non mai e meravigliose distese di prati. “Per tutti i numi, che posto fantastico” mi dissi. “Forse sono entrano nel regno di Tash.” E mi incamminai per andarlo a cercare. Percorsi molti chilometri, passando attraverso bellissimi campi coperti di fiori dai mille colori; entrai in boschi affollati di alberi d’ogni specie, traboccanti di frutti dolcissimi. Poi, meraviglia delle meraviglie, immaginate cosa vidi? Da un passaggio tra due rocce era sbucato un leone gigantesco e mi veniva incontro. Correva più forte di una gazzella e sembrava più grande di un elefante: la criniera pareva fatta di fili d’oro, e d’oro fuso splendevano i suoi occhi. Aveva un aspetto più terribile delle gole a strapiombo sulle montagne di Lagour, ma la bellezza di cui era ammantato era così sconvolgente che al confronto la cosa più bella avrebbe fatto la figura della polvere del deserto rispetto a una rosa. Mi gettai ai suoi piedi e pensai che fosse giunta la mia ora, perché il leone – nella sua immensa saggezza – sapeva certo che per tutta la vita avevo servito Tash e non lui. Mi sentivo comunque sereno, perché ero convinto che fosse meglio morire dopo aver visto il Sublime che vivere cent’anni da re senza averlo mai incontrato. Ma quell’essere stupendo chinò la nobile testa dorata e, sfiorandomi la fronte con la lingua, disse: “Figlio, che tu sia il benvenuto.” E io, balbettando: “No, non avere pietà di me. Non son degno di te. Sono un umile servo di Tash!” Ma lui, nella sua infinita bontà, rispose: “Figlio, tutto quello che hai fatto per Tash lo hai fatto per me.” Allora io, spinto dal desiderio di conoscenza, cercai di vincere la paura e cominciai a fargli delle domande. Innanzitutto gli chiesi se fosse vero che Tash e lui fossero la stessa persona. Il leone ruggì e la terra tremò, ma la sua ira non era rivolta contro di me; infine disse che era tutto falso, assolutamente falso. Poi spiegò il senso delle sue parole: avevo fatto per lui quello che avevo creduto di fare per Tash, non perché fossero la stessa persona (anzi sono addirittura agli opposti), ma perché tutto quello che facciamo di buono lo facciamo in nome di Aslan, anche quando non lo sappiamo; mentre tutto quello che facciamo di cattivo lo facciamo in nome di Tash. Se un uomo commette una crudeltà in nome di Aslan, pur non sapendolo è Tash che serve; allo stesso modo, quando si ha l’animo buono e gentile è Aslan a occuparsi di noi. “Ora hai capito, figliolo?” mi chiese. Risposi che sì, forse avevo capito, ma dovevo confessare (spinto dalla sete di verità) che nella mia vita ero andato sempre in cerca di Tash. “Mio diletto” disse l’Essere Sublime “se non mi avessi desiderato così intensamente, non avresti potuto vedermi. Tutti trovano solo quello che cercano veramente.”

  

  

 

   


L’apologetica di Lewis e gli extraterrestri

 

 

Ho letto di recente Le Cronache di Narnia, in un poderoso volume della Mondadori che racchiude tutte le 7 storie della saga (più un saggio finale, Tre modi di scrivere per l’infanzia): se v’interessa affrettatevi a comprarlo, c’è il 15% di sconto, 17 € per 1164 pagine è un buon prezzo oggigiorno. L’operazione editoriale si collega all’imminente uscita del film tratto dalla seconda (la prima ad essere scritta, e per molti la più bella) storia di Narnia: Il leone, la strega e l’armadio; qui trovate il sito, e vi consiglio di vedere il trailer perché è veramente spettacolare. Se mantiene quello che promette, sarà un gran bel film.

Chi conosce Clive Staples Lewis sa bene che tutto quel che ha scritto è orientato in direzione cristiana. Quasi ogni volta che si parla di lui, si finisce per nominare almeno incidentalmente John Ronald Reuel Tolkien (indovinate cosa è scritto sul retro del volume di Narnia? “Geniale quanto il grande amico Tolkien”); povero Lewis, sempre associato a questa scomoda e irraggiungibile pietra di paragone… ma pagherò anch’io il mio tributo a questa banalità e dirò che Lewis era un cristiano scrittore, Tolkien era uno scrittore cristiano.

La distinzione sembra sottile ma è fondamentale. Si potrebbe dire, e credo che purtroppo sia stato detto da certa critica, che il primo sentiva il bisogno d’infilare Dio in ogni pagina (fastidioso, nevvero?) e il secondo invece aveva più autonomia (oh, che sollievo); ma è un’interpretazione molto superficiale. È più esatto dire che Lewis concepiva la narrativa in termini apologetici, ogni sua storia ha un senso anagogico e oserei dire catechetico; Tolkien invece concepiva la narrativa come sub-creazione, giacché l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio ha l’impulso di creare a sua volta e “su scala”. Lewis nelle sue storie fa sempre un riferimento al divino; Tolkien non sente il bisogno di farlo perché già c’è, perché l’istinto affabulatorio che è un dato antropologico universale costituisce esso stesso un memento del Verbo per mezzo del quale tutte le cose sono state create, e sussiste in ogni universo letterario ben costruito che abbia o non abbia un referente religioso: nel Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov, nella saga di Dune di Frank Herbert, nei Miti di Cthulhu di Howard Phillips Lovecraft, nella serie del Mondo Disco di Terry Pratchett, nei libri su Harry Potter di Johanne Kathleen Rowling, nell’epopea della Torre Nera di Stephen King…

(Sul concetto di sub-creazione si può dire infinitamente di più; consiglio la lettura del saggio sulla fiaba di Tolkien Albero e foglia, dedicato proprio a Lewis che aveva inizialmente definito le fiabe “bugie respirate attraverso argento”.)

Non credo che uno dei due modi d’intendere la narrativa sia di per sé peggiore o migliore dell’altro; penso siano semplicemente distinti, e che il risultato finale sia rimesso all’abilità dello scrittore ed ai gusti del lettore. Personalmente considero Lewis un ottimo saggista ed un eccellente apologeta (Le lettere di Berlicche sono meravigliose, dovrebbero essere adottate come libro di testo in ogni scuola cristiana), ma un narratore non più che discreto. Le Cronache di Narnia mi sono parse una buona storia per bambini fino ai dieci anni circa, e un gradevole passatempo per i più grandi; ma vi ho trovato varie pecche nello stile e nella trama, tra cui principalmente un certo modo di rivolgersi ai giovani lettori (“sapete, bambini…”) e alcuni nomi di animali parlanti che sono semplicemente insostenibili dall’intelletto adulto (Fragolino, Briscola). Con buona pace dell’autore, secondo il quale “un libro non merita di essere letto a dieci anni se non merita di essere letto anche a cinquanta”, è un po’ troppo infantile per i miei gusti; ma questi sono appunto i miei opinabili gusti, e per dare un giudizio completo dovrei leggerlo in originale (1164 pagine? magari nell’altra vita).

Ma trattandosi di Lewis, come ho detto sopra, il libro si presta a riflessioni che travalicano la letteratura. Come ogni altra sua opera, Le Cronache di Narnia hanno un nucleo teologico: questo può essere un piacere per alcuni lettori e un fastidio per altri, ed io naturalmente mi colloco tra i primi. Il leone Aslan, che gli abitanti di Narnia chiamano “il figlio dell’Imperatore d’oltremare”,  rappresenta Cristo; o meglio, il leone Aslan è Cristo. Proprio lui. È la seconda persona della Trinità, solo che la sua Incarnazione a Narnia avviene in modo diverso da come è stata sulla Terra, un modo confacente alla diversa natura dei narniani (che sono in gran parte animali parlanti). Non è solo geniale: è cristianamente plausibile. Da questo punto di vista, con la saga di Narnia Lewis dice in chiave fantasy quel che altrove dice in chiave fantascientifica, con la trilogia di Lontano dal pianeta silenzioso (in cui un terrestre incontra gli abitanti degli altri pianeti del sistema solare). E replica brillantemente all’accusa di antropocentrismo universale che certa modernità rivolge al cristianesimo.

Viene alla mente il personaggio seicentesco del signor di Saint-Savin, nel libro di Umberto Eco L’isola del giorno prima, che come il contemporaneo Giordano Bruno irride la religione e motteggia su infiniti popoli di infiniti mondi, fino a immaginare mentre schernisce un deplorevole abate che “se oltre

la Galassia vi fosse una terra dove gli uomini hanno sei braccia, come da noi nella Terra Incognita, il figlio di Dio non sarà stato inchiodato su una croce ma su un legno a forma di stella – il che mi pare degno di un autore di commedie”. Passando dal ‘600 ad oggi, quel che sento dire correntemente suona più o meno come: “se gli alieni esistono” (ed è quasi stupefacente vedere quante persone, che negano tranquillamente qualsiasi trascendenza soprannaturale, poi credono altrettanto tranquillamente in forme di vita extraterrestri) “ciò non manda in frantumi la visione cristiana per cui solo l’uomo esiste ed è al centro dell’Universo?”

Si potrebbero innanzitutto mettere i puntini sulle i, replicando che la visione cristiana (e neppure solo essa) dice proprio l’opposto: l’uomo è non è l’unica forma di vita intelligente, poiché la prima creazione fu quella degli angeli; che in un certo senso, nel senso preciso del termine, sono davvero “alieni”, altri e diversi da noi. Di essi sappiamo, e dai testi sacri e dal portato della tradizione, perché con gli angeli ci abbiamo a che fare; e sull’argomento si potrebbero spendere migliaia di parole. Ma noi non sappiamo se ci sono state altre creazioni, prima o dopo quella che ci riguarda. La cosmologia precopernicana non le contemplava, ma essa è stata superata (purtroppo, come dire, in modo non indolore per il cristianesimo) e personalmente non ne sento la mancanza.

La Bibbia non ne parla, ma di tutte le questioni di metodologia esegetica che si possano porre questa mi è sempre sembrata la più sterile: sarebbe stato lievemente difficile, per gli autori umani dei testi sacri, sfoggiare nozioni scientifiche di cui non erano a conoscenza.

Ma la risposta più bella ce la fornisce la fantasia di Lewis. Nel 1950 scrisse Il leone, la strega e l’armadio, a cui seguirono altre quattro storie su Narnia; nel 1955 scrisse Il nipote del mago, che narra la genesi di Narnia (e l’anno dopo con L’ultima battaglia ne avrebbe narrato l’apocalisse). I bambini Polly e Digory arrivano, per mezzo di certi misteriosi anelli, in un luogo che chiamano

la Foresta di Mezzo (in quegli stessi anni usciva Il Signore degli Anelli… che sia un richiamo all’amico-sempre-nominato-quando-si-parla-di-Lewis, avete capito di chi parlo?). Qui tutto è pace e silenzio. Alberi rigogliosi puntano al cielo e stagni in quantità immensa si trovano al suolo. Da uno di essi sono emersi i bambini, i vestiti misteriosamente asciutti. Un altro di questi stagni li conduce a Charn, la capitale deserta di un mondo in estinzione, alla regina Jadis e ad un sacco di guai. Un altro ancora li porterà ad assistere alla fondazione di Narnia, in un mondo nel quale per mezzo del ruggito di Aslan tutte le cose sono create.

La Foresta di Mezzo è “un luogo di transito, una specie di sala d’attesa”, che collega tutti i mondi senza appartenere a nessuno di essi. Una miriade di stagni a perdita d’occhio, una miriade di mondi, ed esseri viventi in numero impossibile da contare per chiunque tranne che per l’amore di Dio.