Prison Break: l’importanza della famiglia
Pare proprio che io mi stia dedicando attivamente alla visione ed analisi dei serial televisivi: dopo LOST e Battlestar Galactica, ora è la volta di Prison Break, dinamico e avvincente telefilm a metà tra Oz (per l’ambientazione carceraria) e X-Files (per l’elevato complottismo).
L’intreccio è basato sull’ingegnoso piano di Michael Scofield, giovane e geniale architetto, per far evadere di prigione il fratello maggiore Lincoln Burrows, ingiustamente condannato per un crimine che non ha commesso (l’omicidio del fratello della vice-presidente degli Stati Uniti). Per salvarlo, Michael è disposto a tutto: addirittura si fa arrestare al solo scopo di essere detenuto a Fox River, la medesima prigione dove Lincoln salirà tra poco sulla sedia elettrica, la prigione che lui stesso ha progettato in passato e di cui si è fatto tatuare l’intera piantina sul corpo (camuffata da disegni di angeli e demoni); tuttavia, mentre all’interno della prigione prende corpo tra imprevisti e complicazioni il geniale piano di fuga, all’esterno tutti coloro che sono legati ai due fratelli cominciano a essere seriamente in pericolo, minacciati dalla misteriosa organizzazione che ha incastrato Lincoln e trama nell’ombra per la conquista del potere assoluto…
Se i pilastri portanti della struttura della serie sono dunque la brutale vita in prigione e le oscure trame delle cospirazioni senza scrupoli, ad essi fa da contraltare positivo il tema della famiglia. Prison break è, senza esagerazione, un grande e articolato inno all’importanza della famiglia: ne consiglio altamente la visione a tutti coloro che si prefiggono la difesa della famiglia come un compito, una missione, un progetto politico e culturale. La famiglia è ciò che viene in aiuto nelle difficoltà. È ciò per cui vale la pena lottare. È un’importantissima motivazione ad agire per quasi tutti i personaggi: Michael, disposto a tutto pur di salvare suo fratello che è l’unica vera famiglia che abbia mai avuto (il padre li abbandonò poco prima che lui nascesse, la madre morì pochi anni dopo); Lincoln, che dal carcere cerca in extremis di riallacciare un rapporto con suo figlio L.J., avuto da una relazione fallita, che lo disprezza; Sara Tancredi, la bella dottoressa della prigione con cui Michael allaccia un tacito rapporto emotivo, segnata da un difficile rapporto con il padre lontano ideologicamente ed umanamente; Fernando Sucre, compagno di cella di Michael, che vuole sposare la sua fidanzata e decide di evadere quando lei gli dice che è incinta di suo figlio ma sta per sistemarsi con un altro; C-Note, un detenuto che vuole tornare dalla moglie e dalla figlioletta per porre rimedio alle sue bugie; John Abruzzi, un boss mafioso (c’è bisogno di soffermarsi sull’importanza della famiglia nella mafia?); Westmoreland, un vecchio rapinatore deciso a raggiungere la figlia che non vede da quand’era bambina; e perfino T-Bag, forse il personaggio più disgustoso e divertente della serie, un pedofilo che ha rapito e violentato e ucciso molti bambini, perfino lui una volta nella vita ha avuto la tentazione di una normale vita familiare…
Vorrei che fosse chiaro da questi brevi cenni, si spera non troppo spoilerosi, che in Prison Break la famiglia è celebrata ma non mitizzata. Non è un quadretto candido e immacolato, privo di quei difetti empirici che tutti noi sperimentiamo ogni giorno nel nostro vissuto quotidiano; non è un disegnino stilizzato, semplicistico, irreale; non è la famiglia modello di certi mediocri format televisivi, al cui confronto le famiglie reali sembrano quasi automaticamente scialbe e brutte e immeritevoli di stima. La famiglia spesso è anche questo, un nodo di tensioni dove i genitori litigano e i figli urlano, e può capitare addirittura che le persone si detestino e si allontanino e si abbandonino, disfacendo questo nodo che pure si vorrebbe non sciogliere mai. Bando ai manicheismi e alle facili illusioni: la famiglia stessa, a volte, sembra una prigione da cui bisogna evadere per essere felici.
Ma è proprio per questa realistica raffigurazione che Prison Break è importante: la lezione che ne traggo è che non si tratta di amare la propria famiglia perché è perfetta (come se nelle realtà umane esistesse le perfezione, figuriamoci, come se fosse degno di amore solo ciò che è perfetto – e quante volte l’imperfezione di chi ci sta accanto diventa un alibi per non fare la fatica di amare, per non pagare il prezzo dell’amore?), ma di amare la propria famiglia perché in quanto imperfetta ha bisogno di amore. Una lezione che molti dei personaggi, con il procedere della serie, imparano sempre più a fondo ed anche a proprie spese.
Infine, non è fuori luogo far notare che in Prison Break non mancano accenni di spiritualità. Non è un tema fondamentale come in Battlestar, e neppure importante come in LOST; ma ogni tanto si fa sentire. La figura del vescovo contro la pena di morte, che nel primo episodio paga a caro prezzo la propria fermezza; la preghiera di Lincoln per la propria dignità, mentre il momento della sedia elettrica si approssima (“Sono entrato qui da uomo, ti prego Signore, dammi la forza di uscirne da uomo”); la “conversione” di John Abruzzi, singolare figura capace di mettere assieme tenerezza e ferocia, pronto tanto alla vendetta quanto al pentimento (“Mi inginocchio solo davanti a Dio. E qui non lo vedo”); il discorso sulla confessione fatto ad un prigioniero da Alexander Mahone, agente dell’FBI con molti pesi sulla coscienza, tra cui l’aver abbandonato la moglie e il figlio per proteggerli dal pericolo (“Sei cattolico? Io non sono troppo bravo in quello. Troppe colpe. Ma una cosa buona è la confessione. Qualunque cosa ti consumi puoi semplicemente… rimetterla. Ti senti bene, devo dire. Lasciala uscire. Lascia che un altro essere umano la senta”); e la confessione di Michael, consumato dai sensi di colpa per i dolorosi “effetti collaterali” del suo piano di fuga:
“Sei consapevole della natura dei tuoi peccati?”
“Non ne sono molto sicuro. La rettitudine, forse. Il credere che il fine giustifica i mezzi.”
“Qual è questo fine?”
“Salvare la vita a qualcuno.”
“E i mezzi?”
“Ho violato ogni legge che può nominare. Ma non è solo cosa ho fatto io. È cosa gli altri hanno fatto perché io gliel’ho permesso, perché stavo facendo quello che pensavo fosse giusto.”
“C’è un modo per fermarlo. Abbandona il tuo volere a Dio.”
“Se mi arrendo ora, perderò tutto quello che amo.”
“Ma hai perso la tua anima nel processo?”
“Abbiamo tutti le nostre croci da portare”, conclude Michael versando una lacrima nel buio, piangendo quei tatuaggi dell’anima che sono le sue colpe… ma non indelebili, grazie a Dio, non indelebili. Perché, dal momento che qualcuno è venuto a salvarci entrando nel nostro carcere e facendosi prigioniero come noi, possiamo sempre evadere dalla prigione del peccato.
9 dicembre 2006 at 15:26
Iniziata a suo tempo, mollata dopo 4-5 episodi
E se la pecca di queste serie (ho mollato anche BSG, eh) è quella di non farmi entrare in sintonia con i personaggi, mi chiedo perché continuo a guardare Lost…
9 dicembre 2006 at 19:18
interessante. non l’ho ancora visto.
cominciamo la caccia!
9 dicembre 2006 at 21:21
Bisogna che mi faccia ‘sto cavolo di Sky, ho capito.
Per curiosita’, Claudio, ti piace “24”, la serie con Kiefer Sutherland?
10 dicembre 2006 at 10:00
#1
Perchè Lost è troppo bello, no?
#2
Consigliatissimo. Se la gioca con BSG.
#3
Oppure prendere i cofanetti DVD, quello della prima stagione di Prison Break dovrebbe uscire a fine gennaio.
24 me ne hanno detto un gran bene, ma non l’ho mai visto. Kiefer Sutherland è un attore che mi piace dai tempi di “Stand by me” (ah, l’infanzia).
10 dicembre 2006 at 10:22
Dipende dal concetto di “bello” 😀
Se all’inizio potevo provare ad ipotizzare qualcosa, ora è impossibile, soprattutto se le stagioni saranno davvero 5 (o 7?). Possono rimascolare le carte come vogliono.
E così la visione diventa passiva, per pura curiosità
10 dicembre 2006 at 11:03
Non credo proprio: in America Lost è stato spostato di orario, gli ascolti calano. Un articolo del corriere dice la ABC sta pensando di fermarsi a 4 o addirittura 3. Un po’ di faith, su, vedrai che alla fine non riusciranno a rovinare il prodotto. Per me Lost, nonostante il calo, resta il n.1 dei serial.
10 dicembre 2006 at 11:48
Sì, lo so che è calato di ascolti: ha il fiato sul collo di “House” e “Criminal Minds” 😉
Il numero uno per me non lo è più da tempo e forse scivola addirittura al terzo posto, vista l’interattività immediata che mi offre Veronica Mars (sì, mi piace giocare al piccolo detective :P). Al primo posto c’è sempre e solo la serie tratta dalla mia vita privata… devo chiedere i diritti d’autore a David Shore 😛
10 dicembre 2006 at 20:34
Vista la prima.
Proseguo.
Nota: a me House non piace granchè.
Claudio che ne pensi tu?
11 dicembre 2006 at 07:23
Prosegui, prosegui.
House non l’ho mai visto, prima o poi farò l’esperienza visto che un sacco di gente me ne parla bene… compreso l’amico Francesco qui sopra che sostiene di essere la controparte reale del dottore!
11 dicembre 2006 at 09:32
No no, chiariamo: House è stato creato nel 2003, io sono nato nel 1986. È lui ad essere la mia controparte televisiva 😀
Non so se ti piacerà (non credo ^_^), però tentar non nuoce 😉
11 dicembre 2006 at 16:25
Ma insomma,
Claudio, cosa sono tutti questi telefilm americani basati su temi etici/filosofici/spirituali?
In tempi di crisi l’America riscopre/si rifugia nei propri valori storici? O forse inserire questi temi in programmi di intrattenimento è semplicemente più facile oltreoceano (e “paga” di più, sotto tutti i punti di vista)? Oppure come diceva il mio professore di Economia Politica “eh, gli Americani sono più avanti di noi”?
Comunque. Io questi telefilm non li ho visti (e non vuole essere un giudizio di valore). Per me -teleignorante- i telefilm a stelle stelle e striscie continuano ad essere quelli “spazzatura” degli anni 80 che vedevo da piccolo.
ARRIDATECE L’A-TEAM!!!
Enrico
11 dicembre 2006 at 22:50
E dateci pure Supercar, Arnold, Alfie… 🙂
12 dicembre 2006 at 12:11
Ottimo Claudio.
Mi devo essere persa la puntata della confessione, ma l’aspetto della fede è quello che mi ha colpito di più; “abbi fede” è un ritornello dell’intera serie…
Per rispondere ad Enrico direi, l’ultima è sicuramente vera, “gli americani sono più avanti di noi”, ma aggiungerei anche il fatto che loro sono giovani, noi europei vecchi e inaciditi…
12 dicembre 2006 at 12:58
Grazie. La puntata della confessione di Michael è la n. 11 della seconda stagione, “Bolshoi Booze”. In effetti nel post mi sono dimenticato di aggiungere il motivo ricorrente della speranza e della fede (“Avere fede” è il titolo italiano della puntata 14 della prima stagione, in originale “The Rat”), nonchè di dire che Sucre è esplicitamente cattolico… si fa sempre il segno della croce nei momenti di difficoltà!
12 dicembre 2006 at 15:48
Ah, allora mi hai spoilerato… 🙂
Bene, mi fa ben sperare nella continuazione dello stesso spirito della serie…
12 dicembre 2006 at 16:07
Beh, non ti ho detto le circostanze in cui avviene la confessione, e soprattutto cosa spinge Michael a confessarsi proprio in questo preciso momento… 😉
13 dicembre 2006 at 18:34
House ne vale assolutamente la pena. A lungo andare è lievemente ripetitivo ma ha delle perle inarrivabili essendo basato non tanto su una trama quanto sul carisma del personaggio.
24 è quanto di più fracassone ed improbabile esista. Nei buchi della trama potrebbe passare una base stellare dei Cyloni. Ma ha quella struttura frenetica che ti “lega” fino alla fine…
…ma Prison Break non lo vedo. Eccheccavolo! C’ho una vita!