La necessità della morte: il senso della vita.
Il tempo.
Le due eternità.
“Ammaestrata da un esercizio di secoli, la repubblica degl’Immortali aveva raggiunto la perfezione della tolleranza e quasi del disdegno. Essi sapevano che in un tempo infinito ad ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù, ogni uomo è creditore d’ogni bontà, ma anche d’ogni tradimento, per le sue infamie del passato o del futuro. Come nei giuochi d’azzardo le cifre pari e dispari tendono all’equilibrio, così l’ingegno e la stoltezza si annullano e si correggono e forse il rozzo poema del Cid è il contrappeso che esigono un solo epiteto delle Egloghe o un detto di Eraclito. Il pensiero più fugace obbedisce a un disegno invisibile e può coronare, o inaugurare, una forma segreta. So che alcuni operavano il male affinché nei secoli futuri ne derivasse il bene, o ne fosse derivato in quelli passati… Visti in tal modo, tutti i nostri atti sono giusti, ma anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali. Omero compose l’Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, l’Odissea. Nessuno è qualcuno, un sol uomo immortale è tutti gli uomini. Come Cornelio Agrippa, io sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono.
[…] La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c’è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario. Ciò ch’è elegiaco, grave, rituale, non vale per gli Immortali.”
Jorge Luis Borges, L’immortale (nella raccolta di racconti L’Aleph)
(la colonna sonora ideale per questo post…)
a con
lim — = 0 a ∈ N* = { 1, 2, … }
x→∞ x
Spero anzitutto di aver scritto correttamente il guazzabuglio matematico che trovate qui sopra, e poi che non vi sembri troppo complicato. Non è tutta farina del mio sacco: me l’ha suggerito un’amica (che a sua volta…), quando le ho chiesto di mostrarmi una frazione in cui:
– il numeratore a è un numero qualunque, non infinito ma di qualsiasi grandezza (uno dei numeri naturali dopo lo zero: 1, 2, 3…, il googol, il googolplex, il numero di Graham, ed è meglio non andare oltre con la fantasia se non vogliamo impazzire come Cantor);
– il denominatore x è un valore infinito, o per la precisione tende a infinito (Marta mi ha fatto una testa così sul fatto che non si può mettere direttamente ∞ sotto una linea di frazione – poi le ho chiesto se potevo usare l’Aleph-zero, ma in questo periodo ha cose più importanti a cui pensare che i numeri transfiniti…);
– il valore della frazione è di conseguenza uguale a zero. Perché qualunque numero, di qualsivoglia grandezza, sarà sempre meno di una goccia nell’oceano se paragonato all’infinito.
Quanto sopra costituisce una rozza dimostrazione matematica della seguente affermazione esistenziale: se non ci fosse la morte, la vita non avrebbe senso.
La storia di Borges che ho citato in apertura illustra magnificamente il concetto. Il protagonista del racconto sente parlare di un fiume nel deserto le cui acque danno la vita eterna; lo cerca, dopo grandi sofferenze lo raggiunge, trova la tribù degli Immortali che vi abita vicino, diventa uno di loro. Ma si avvede che gli Immortali vivono una vita insensata, “come perduta tra infaticabili specchi”. Decide allora di cercare un altro fiume, le cui acque possano renderlo mortale, e dopo secoli di vagabondaggio lo trova. Infine aspetta con sollievo la sua fine, che è la fine di tutti, la morte.
“Io sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono”. Questa era stata la sua vita tra gli Immortali: essere per sempre, essere tutto e ogni cosa, essere inutilmente, arriva a coincidere con il non essere. Il protagonista, alla fine, non sa neanche più se sia stato Cartaphilus o il centurione Rufo Valerio oppure Omero. La conclusione del racconto è un anelito disperato verso una liberatoria cupio dissolvi: “Quando s’avvicina la fine, non restano piú immagini del ricordo; restano solo parole. Non è da stupire che il tempo abbia confuso quelle che un giorno mi rappresentarono con quelle che furono simboli della sorte di chi mi accompagnò per tanti secoli. Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto”.
Così, la morte ci accomuna tutti. Noi viviamo la nostra vita nel tempo, questa incessante somma di istanti ed eventi, e la nostra vita è mortale. È inevitabile: tu morirai. Ma ecco l’ineluttabile verità: per quanto la morte possa spaventarci, per quanto sia atroce prendere coscienza del fatto che io morirò, questo è necessario. Se non ci fosse la morte, la vita non avrebbe senso: e sia chiaro che sto usando la parola “senso” con due accezioni – sensi – differenti, cioè come “direzione” e come “significato” (e sarebbe interessante indagare il perché di questa sovrapposizione linguistica). Come direzione, la morte è ciò verso cui stiamo andando, la fine della nostra freccia del tempo, il termine del nostro periodo limitato. Ma è proprio questa finitudine a permettere alla nostra vita di avere significato: perché se non dovessimo morire, se questa nostra vita nel tempo non dovesse aver fine, alla lunga saremmo schiacciati dall’inutilità di ogni cosa. Nessun evento sarebbe abbastanza bello e glorioso da poter reggere il peso dell’interminabilità: se il denominatore tende all’infinito, non importa quanto grande possa essere il numeratore della nostra frazione, perché il valore tende comunque allo zero, e perciò la nostra vita non vale niente.
Noi moriremo, dunque.
E poi?
La nostra vita avviene nel tempo: ciò che ci aspetta dopo la morte è l’eternità. Ma che cos’è l’eternità? Non è facile definirla, e spesso si incontrano molti fraintendimenti e confusioni sull’argomento (sulla relazione tra tempo ed eternità, specie per quanto riguarda il nostro libero arbitrio di fronte alla prescienza di Dio, avevo già parlato qui; segnalo pure le divagazioni in merito del piccolo Zaccheo). Io credo che per l’uomo possano esistere, fondamentalmente, due tipi di eternità: la dannazione e la beatitudine. La prima è una sequenza lineare infinita di eventi finiti; la seconda è una contemporaneità circolare di eventi infiniti.
Adesso, credo di aver bisogno di un po’ di geometria…
Il segmento.
Il segmento è la nostra vita attuale. Adesso, mentre siamo vivi, noi esistiamo avanzando nel tempo: siamo punti che si muovono lungo una linea, da un estremo all’altro. Siamo temporalmente unidimensionali.
Vale la pena peraltro di notare che la linearità temporale della nostra vita può anche essere spezzata, in alcuni momenti molto particolari; chi avesse visto la puntata 4×05 di LOST potrebbe farsene un’idea, oppure potremmo pensare ai momenti epifanici di “memoria involontaria” di cui parla Proust…
(e io credo che ciò che Proust compie con la sua Ricerca del Tempo Perduto sia il più commovente e disperato tentativo di “redimere” il tempo, “ritrovarlo” come dice lui, con le sole forze umane e senza Dio; perciò è in ultima analisi un tentativo purtroppo votato allo scacco e al fallimento, perchè Proust vuole redimere il tempo ma non può che farlo dall’interno, ritrovando il tempo in nient’altro che questa vita, senza prospettive ultraterrene, casomai affidandosi all’arte la quale comunque lega lo scrittore-nel-tempo ai suoi lettori-nel-tempo. Proust riesce a spezzare la rigida linearità temporale, e gli basta una madeleine nel tiglio per rivivere tutta la vita, ma non può comunque uscire fuori dal segmento del tempo e perciò il suo ritrovamento del tempo perduto è destinato ad essere, prima o poi, perduto anch’esso.)
… ma sicuramente il caso più importante di extra-temporalità è la Messa, memoriale del Sacrificio di Cristo, in cui il momento della Crocifissione è “perdurante” al di fuori della linea temporale e ri-attualizzato nella funzione liturgica.
Comunque, alla fine noi moriremo. E il nostro segmento che cosa diventerà?
La semiretta.
Questa è la dannazione; questo è l’Inferno, lo sheol, l’Ade secondo la concezione dei pagani (e, dice qualcuno, anche dei pirati); è la vita degli Immortali perduta tra infaticabili specchi, è il valore nullo di una frazione a denominatore infinito; è un’eternità costituita da un tempo interminabile, in cui ogni cosa è inutile e insignificante.
Che cosa fanno i dannati all’inferno? Io non lo so, e spero di non scoprirlo di persona. Forse anche loro abitano in case, coltivano campi, combattono guerre, magari provano perfino delle passioni sentimentali, insomma trascorrono la propria “vita” in una imitazione-parodia di ciò che erano prima. Ma per loro, qualsiasi cosa facciano, tutto è vano: tutto è schiacciato dal peso insopportabile dell’eternità, separati dagli altri, separati da Dio.
L’arco.
In geometria, l’arco è la parte di curva compresa tra due punti, ovvero l’equivalente curvo di un segmento. Come il segmento, l’arco ha una lunghezza limitata; a differenza del segmento, l’arco (in riferimento ad un sistema cartesiano) non è unidimensionale ma bensì bidimensionale, poiché il movimento di un punto lungo un arco coinvolge necessariamente due coordinate x e y. Io credo che questa sia una buona immagine del Purgatorio, che non è una realtà definitiva e perciò non è compreso tra i quattro novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso); il Purgatorio è una fase limitata, in cui coloro che sono destinati alla beatitudine si purificano e si preparano all’eternità celeste.
Quanto tempo si passa in Purgatorio? A questa domanda non si può dare una risposta precisa; in passato nella dottrina della Chiesa si parlava di “anni” e “giorni” a proposito del peso delle indulgenze, cioè delle diminuzioni del tempo purgatoriale, ma saggiamente Paolo VI nella Indulgentiarum Doctrina ha abolito questa rigorosa quantificazione. Non si può determinare precisamente il “quanto” del Purgatorio, perché il suo tempo non è come il tempo della vita; io credo che sia un tempo bidimensionale, una fase in cui il penitente si muove su due assi temporali: quello della vita terrena, e quello dell’eternità in cui i penitenti cominciano a muoversi. Possiamo parlare di inizio e fine del tempo purgatoriale, ma cercare di calcolarne l’estensione basandoci sul nostro tempo sarebbe come voler calcolare la lunghezza di un arco conoscendone solo la distanza in linea retta tra gli estremi, senza sapere la curvatura.
Il cerchio ascendente.
La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22).
Benedetto XVI, Spe Salvi (paragrafo 12)
Così scrive il Papa nella sua ultima enciclica, spiegando perché la speranza cristiana non è un fatto individualistico ma trova la sua ultima essenza nella comunione, e cercando di esprimere l’ineffabile realtà del Paradiso: la cui eternità non è una successione infinita di prima e dopo, ma bensì un “adesso” continuo, perché i beati sono in comunione con Dio – la cui Seconda Persona è discesa dall’eternità al tempo e si è fatta Uomo, aprendo così un “varco” nel quale gli uomini potessero ascendere dal tempo all’eternità.
E così, noi siamo liberati dall’unidimensionalità temporale: siamo oltre la morte, abbiamo superato quell’evento che ha dato senso alla nostra vita, e ora il senso è compiuto. La nostra coscienza non è più un punto che si muove lungo un segmento, o lungo un arco; io azzardo a raffigurarla come un cerchio ascendente, cioè una figura estesa lungo due assi temporali che si muove eternamente lungo un terzo:
1. C’è anzitutto un “raggio” che è dato dal tempo della nostra vita, di cui noi recupereremo e vivremo, contemporaneamente e distintamente, tutti i momenti felici. Nulla di ciò che vale andrà perduto, tutto il redimibile sarà redento e recuperato e salvato; come colui che guarda nell’Aleph, che vede tutti i punti dell’universo in un unico punto, noi vivremo tutti gli istanti nello stesso istante.
2. Poiché la speranza cristiana non è individualistica e il paradiso è comunione, noi non vivremo soltanto la nostra vita, ma anche quella di tutti gli altri beati, tutti gli altri raggi. Leggere un bel libro, forse scriverlo, ridere con gli amici, belle conversazioni, ammirare un panorama, crescere un figlio, fare l’amore con la persona amata… queste esperienze, se pure le avesse sperimentate un unico essere umano in tutta la storia dell’umanità, sarebbero già solo per questo acquisite alla memoria condivisa del Paradiso. Io sarò te che stai leggendo, e tu sarai me che sto scrivendo, e ciascuno dei noi sarà sé medesimo più di quanto lo sia mai stato prima e al tempo stesso sarà in tutti gli altri. E tutti i “raggi”, tutti i tempi e recuperati, saranno in comunione
3. nel centro del cerchio, l’asse lungo il quale il cerchio ascende eternamente, il “tempo”nel quale il Padre genera il Figlio e da essi procede lo Spirito Santo, in questo momento di infinito amore da cui tutto muove e a cui tutto vuol tornare.
Ecco, io credo che il Paradiso sarà questo. Allora noi saremo in Dio, e Dio sarà in noi come tutto in tutti: e tutti quei momenti non andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, ma saranno salvati dalla caducità del transeunte, per diventare gemme incastonate nella corona dell’eternità celeste.
a con
lim — = ∞ a ∈ N* = { 1, 2, … }
x→0 x
[questa formula è stata suggerita da Crosta come viceversa della precedente]
11 Maggio 2008 at 22:33
Applausi.
Molte mie riflessioni personali le ritrovo in questo post. Ottimamente spiegate. Grazie.
12 Maggio 2008 at 07:09
Accidenti…!
E auguri a Martayensid per quella “cosa importante”!
12 Maggio 2008 at 10:07
Era da tempo che andavo meditando sul fatto che quella degli Immortali non fosse una condizione invidiabile, anzi, al contrario, che i Mortali fossero essi oggetto della “invidia degli Dei”, grazie alla loro de-finitezza, determinatezza. Questo solo apparentemente è un “limite”, una sconfitta, una debolezza, un “meno” tempo. Un tempo concentrato, definito tra nascita e morte, è un tempo ontologicamente “altro”, da quello in-determinato: non è lo “stesso” tempo ritagliato in un tempo (in-finito) più grande. Il pensiero della morte è il “patrimonio” più prezioso dell’umano, è ciò che “specifica” l’umano…tu morirai…non è una condanna, ma una scialuppa di salvataggio che ci libera dall’inferno dell’immortalità.
Paradossalmente, la morte non è il segno della nostra “nullità” (dove invece si mostra che un vivere infinito porta all’insignificanza del vivere stesso), ma segnala il nostro essere “qualcosa”. Quel qualcosa che gli dei immortali ci invidiano e che loro, per necessità della loro stessa “natura”, non possono darsi.
Questi sono solo “pensierini” mattutini, che cercano di incastonarsi nel grande affresco delineato dall’ottimo Claudio: trovo estremamente stimolante poter collaborare a tale Impresa di conoscenza (ognuno con i propri talenti, naturalmente!) e mi auguro ulteriori approfondimenti,
Rosanna
12 Maggio 2008 at 15:55
non ho letto tutto tutto con la dovuta attenzione, non ho ancora ricontattato Crosta e quindi non so ancora bene se la formula corrisponde in toto alla tua intuizione.
Una cosa però mi sembra di poterla dire: la parte dove hai scritto “lim” che indica appunto “la funzione di limite per x che tende ad infinito”, quella va scritta a sinistra della frazione. Si tratta appunto della funzione in cui vuoi studiare quella x. E’ una funzione come la radice o il logaritmo …insomma va scritta prima e non sotto…
Vado ad avvisare Cri!
13 Maggio 2008 at 20:13
Complimenti Marta, hai fatto centro!;-)
Complimenti anche a Claudio: ho letto solo poche righe e già mi è venuta l’acquolina in bocca… slurp! Non ho che da aspettare che tutti i Pensierini siano domati e ‘stasera mi metto comoda comoda al pc e me lo godo!
A proposito, la formula, come te l’ha descritta Marta, va scritta con = e non con ≈
Ciao, Cri
14 Maggio 2008 at 20:37
Caro Claudio, ti sei sforzato di scrivere ciò che io (come penso, forse, ogni uomo) mille volte ho pensato, sentendo mordere nello stomaco l’angoscia dell’incomprensibile.
Nle momento del buio e del silenzio, poco prima del sonno notturno, mille volte mi sono fermato a domndarmi cosa sarà il dopo, precipitando in un abisso di paura, non solo al pensiero della dannazione eterna ma anche di fronte al sublime auspicio della beatitudine eterna. chè è l’aggettivo e non il sostantivo a risucchiare verso un baratro di smarrimento.
E ogni volta che quel baratro si materializza nella bocca del mio stomaco, io alungo un bracico verso mia moglie che dorme, o penso al mio bambino e mi dico che Colui che mi ama più di quanto io ami mia moglie e il mio bambino non può che riservarmi qualcosa di meraviglioso, se solo io non sarò tanto scellerato dal rifiutarlo.
14 Maggio 2008 at 20:43
In OT, e sfacciatamente, ti ho lasciato un messaggio!
Ciao, R
15 Maggio 2008 at 20:37
#1
Per un cultore di fantascienza come te, non mi meraviglia che queste idee siano già conosciute. A volte che credo la sf sia oggigiorno la “materia” più vicina alla teologia.
#3
Grazie, anche per avermi difeso in altra sede dal “rogo” 🙂
#4-5
D’OH!!!
E lo sapevo che avrei sbagliato qualcosa. Appena ho un po’ di tempo correggo.
Ma non dovrebbe essere ≈ ? La frazione ha comunque numeratore positivo diverso da zero…
#6
Caro Salvo, l’aldilà fa paura a tutti. Anche a me a volte fa paura l’idea del paradiso, quella eternità totale, quella comunione con gli altri senza più nascondigli. A volte mi chiedo se non “potrei” davvero, nonostante tutti gli sforzi di miglioramento, e l’immeritata stima che alcuni nutrono nelle mie virtù, finire per rifiutare tutta quella luce e rannicchiermi in solitudine da qualche parte dell’abisso.
Nessuno è al sicuro da sè stesso.
#7
Brava, meglio sfacciati che a mani vuote 🙂
15 Maggio 2008 at 21:53
Claudio, hai letto VALIS?
Devi leggerlo, fidati.
16 Maggio 2008 at 00:02
La sola frazione ha un valore circa nullo, ma il suo limite è proprio uguale a zero.
Ciao, Cri
16 Maggio 2008 at 05:15
#9
Non ancora. Ma leggere l’opera omnia di Dick è uno dei miei propositi per l’avvenire.
#10
Corretto, mi puoi dire se adesso va bene?
Grazie mille!
16 Maggio 2008 at 09:27
Beh, puoi cominciare con VALIS…perche’ tra quelle folli, sconclusionate, grottesche ma geniali pagine c’e’ tutto.
Lost, Battlestar Galactica, Matrix, etc….solo che e’ stato scritto 20 anni prima!
16 Maggio 2008 at 09:30
…e non e’ per caso che John Locke dia VALIS da leggere a Ben Linus, e quando lui gli dice “l’ho gia’ letto” Locke risponde “rileggilo, potresti scoprire qualcosa che nella prima lettura ti e’ sfuggita…”
17 Maggio 2008 at 00:26
#11 Ok, va bene.
Il limite che citi nel post me ne fa venire in mente uno analogo, che afferma (lo scrivo a parole perché non so come inserire formule in un commento) che il lim per x→0 di a/x è = ∞ (in cui sia a che x vanno intesi come numeri positivi) indipendentemente da quanto piccolo possa essere il valore di a purché sia costante. Questo limite potrebbe suggerire una sorta di viceversa del tuo ragionamento: l’eternità, luogo dell’Infinito, non vuol dire un tempo illimitato bensì il totale annullamento del tempo stesso, l’assenza di tempo.
E’ sorprendente questa correlazione tra proposizioni teologiche, strumenti della fede e proposizioni matematiche, strumenti della ragione. Non può essere casuale.
Ciao, Cri
17 Maggio 2008 at 14:25
#12
Leggerò.
Naturalmente hai capito a chi appartiene l’occhio alla fine del post, vero? 😉
#14
Ho aggiunto la formula di cui parli, per favore dimmi se va bene…
Se il primo limite era la rappresentazione algebrica dell’eternità infernale, questo invece potrebbe “indicare” l’eternità celeste: ogni evento ha valore infinito, tutto ciò che è buono e bello sarà salvato.
Credo che questa correlazione tra matematica e teologia non sia nè causale nè sorprendente… perlomeno, non per chi crede in un Dio-Logos. Con buona pace dei matematici impertinenti che fanno soldi scrivendo che tutti i cristiani sono cretini.
17 Maggio 2008 at 18:14
Si si…
e tu sai di chi è questo?
17 Maggio 2008 at 18:43
Ho detto sorprendente perché devo ammettere che queste formule non le avevo mai considerate da questo punto di vista 🙂
La formula va bene. Sottolineo che non è strettamente necessario che a sia un numero naturale, l’importante è che sia costante.
Ciao, Cri
17 Maggio 2008 at 23:25
“We could feel a sense of time,as if each moment held its own significance.
We began to realize that for our existence to hold any value,it must end.
To live meaningful lives,we must die and not return.
The one human flaw that you spend your lifetimes distressing over…
mortality… is the one thing.
well,it’s the one thing that makes you whole.”
Il Cylon Natalie-6, Battlestar Galactica, Episodio 7, Quarta stagione.
18 Maggio 2008 at 06:34
OT
Se vieni dalle mie parti, ti aspetta una… domanda a bruciapelo!
18 Maggio 2008 at 11:02
#16 e 18
Se scrivi il link all’immagine, posso andare a vederla io stesso…
Ho appena finito di vedere la puntata di BSG, fantastica, e sono veramente sorpreso di ritrovarmi sullo schermo gli stessi concetti di cui si parlava qui.
20 Maggio 2008 at 23:36
20 Maggio 2008 at 23:36
indovina…
21 Maggio 2008 at 06:10
He That Believeth in Me! 🙂
21 Maggio 2008 at 15:18
Ma come fate ad essere già alla quarta stagione…!
Borges è una fonte perenne di stupore.
pS: Occhio…;-)