Un riassunto della Caritas in Veritate
Ho finalmente trovato il tempo di leggere la nuova Enciclica di Benedetto XVI e devo dire che è stata una lettura estremamente soddisfacente, ma anche molto impegnativa (si capisce che ogni parola è meditata), e per alcuni potrebbe risultare particolarmente onerosa a causa degli argomenti economico-sociali che tratta.
Per dare il mio modestissimo contributo alla sua diffusione, ho deciso di tentare un riassunto dell’enciclica paragrafo per paragrafo (perché ogni paragrafo merita di essere studiato attentamente). In alcuni casi aggiungerò anche miei commenti in piccolo, riconoscibili perché scritti con un carattere e un colore diverso, i quali naturalmente sono ben altra cosa da ciò che dice il Papa e perciò sono assolutamente criticabili da chiunque (in senso stretto anche ciò che dice il Papa è “naturalmente” criticabile, ma insomma spero avrete capito la differenza).
Naturalmente non ho nessuna pretesa di esaustività e sono aperto a tutte le critiche costruttive, semplicemente spero di essere utile a qualcuno. Si tratta di un impegno che andrà avanti a tappe, un capitolo per volta, e probabilmente ci metterò tutta l’estate. Per adesso, ecco il riassunto dell’introduzione della Caritas in Veritate.
EDIT: per facilitare ulteriormente la comprensione ho pensato di premettere ad ogni paragrafo un titoletto che ne enuclea il contenuto; lo scriverò nello stesso carattere dei miei commenti per far capire che si tratta di una mia sintesi, dunque non è “interpretazione autentica”.
Introduzione
La carità nella verità come principale fonte di sviluppo.
1. La carità nella verità è la principale fonte di sviluppo dell’umanità. L’amore che promana da Dio spinge le persone a impegnarsi coraggiosamente e ogni uomo, aderendo al progetto di Dio, trova la verità ed essa lo rende libero. La carità nella verità ci è mostrata da Cristo, perché Lui stesso è la Verità.
Veritas in caritate + caritas in veritate: concetti complementari.
2. La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa ed il principio delle relazioni umane. Spesso è fraintesa, sviata, dichiarata irrilevante, e per questo c’è bisogno di unirla alla verità: sia con la veritas in caritate come diceva San Paolo (Ef 4 15), sia con il concetto complementare di caritas in veritate. Bisogna esprimere la verità in modo caritatevole e rispettoso del prossimo, e al tempo stesso bisogna aiutare il prossimo nella luce della verità, e bisogna farlo specialmente oggigiorno perché si è diffuso il relativismo che disprezza la verità.
Questa sorta di relazione biunivoca tra carità e verità tratteggiata da Benedetto XVI è molto interessante. Spesso oggi una certa mentalità cattolica “ecumenica” ha rinunciato all’idea di portare al prossimo la verità di Cristo e preferisce limitarsi al “dialogo”, all’aiuto materiale e ad una vaga filantropia spirituale che spesso non è niente di più che un cristianesimo risciacquato nel socialismo. Nel nome di un fasullo “spirito del concilio” si è rinunciato a comunicare la verità dell’ortodossia cristiana e cattolica perché fa molto fondamentalista, non è bello, non è moderno. Perciò è importante riaffermare che il vero cristiano non può separare la carità dall’annuncio della verità del cristianesimo vissuto nella Chiesa; ed anzi, penso che annunciare la verità al mondo intero e al proprio prossimo sia esso stesso una forma importante di carità.
La carità senza verità è sentimentalismo.
3. La verità è una luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è sia quella della ragione e sia quella della fede. Senza verità, la carità diventa sentimentalismo, un guscio vuoto che ciascuno riempie come vuole, una parola di cui si abusa che può significare qualunque cosa. La carità nella verità riflette la dimensione insieme personale e pubblica di Dio, che è sia Agàpe e sia Lògos, Amore e Parola.
La carità senza verità è sostanzialmente irrilevante.
4. La carità nella verità può essere compresa da tutti perché la verità di Dio, il Lògos, crea il dià-logos cioè uno spazio condiviso in cui gli uomini escono dalla soggettività per arrivare a incontrarsi sulla giusta valutazione da dare alle cose. Vivere la carità nella verità aiuta a far capire che i valori del cristianesimo sono indispensabili per una buona società e un corretto sviluppo umano; un cristianesimo che fosse solo carità e niente verità sarebbe soltanto una riserva di buoni sentimenti, sostanzialmente marginale.
La carità nasce dalla Trinità.
5. La carità è amore sia ricevuto che donato, grazia (chàris) che sorge dall’amore del Padre per il Figlio nello Spirito Santo, e dal Figlio discende su di noi, che diventiamo a nostra volta strumenti della grazia e dobbiamo diffondere la carità di Dio nel mondo. Questa dinamica di carità ricevuta e donata è il fondamento della dottrina sociale della Chiesa, che è caritas in veritate in re sociali ovvero annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Senza verità e senza amore per la verità, la società cade in balia degli egoismi e si disgrega.
Con poche parole Benedetto XVI descrive il cuore del mistero della Trinità: Dio (amante) ama il Figlio (amato) attraverso lo Spirito Santo (amore), e così nell’Unità di Dio si dà l’essenza dell’Amore. Il Figlio amato “trasmette” questo amore a tutte le creature figlie di Dio e noi, che siamo amati a nostra volta, dobbiamo a nostra volta trasmettere quest’amore al nostro prossimo. In questo modo l’amore nasce da Dio e si diffonde nel mondo, anche attraverso l’esercizio istituzionale della carità che è la politica (come viene spiegato nei prossimi paragrafi). Perciò non si può capire il modo cristiano di vedere la politica se si dimentica l’importanza della Trinità.
Il criterio della giustizia. La Carità è più che la semplice Giustizia.
6. Dal principio della carità nella verità discendono vari criteri che orientano l’azione dell’uomo morale. Anzitutto la giustizia: la carità eccede la giustizia e la presuppone. Infatti trattare qualcuno con giustizia vuol dire dargli il “suo”, ciò che gli spetta a causa del suo essere e del suo operato; trattare qualcuno con carità vuol dire di più, vuol dire offrire del “mio”, cioè qualcosa che spetta a me e che io offro come dono gratuito. D’altra parte è chiaro che non posso dare a qualcuno del “mio” se prima non gli ho dato ciò che gli spetta in quanto “suo”. Pertanto la giustizia è, come diceva Paolo VI, “la misura minima della carità”.
La città dell’uomo, la società terrena, va amministrata secondo giustizia – ciascuno deve avere il suo secondo i suoi diritti e i suoi doveri – ma ha bisogno anche di carità, di persone che sappiano agire per gratuità e misericordia.
Carità > Giustizia. Essere “buono” con qualcuno è più che essere semplicemente “giusto”. Questo paragrafo anticipa la differenza tra giustizia commutativa e giustizia distributiva, che sarà poi trattata più avanti.
Il criterio del bene comune. La politica è un’altra forma di carità.
7. Dal principio della carità nella verità nasce un altro importante criterio operativo, quello del bene comune. Il bene comune non è semplicemente la somma dei beni individuali, ma esiste come bene legato al vivere sociale, alla comunità formata dagli individui e dai corpi intermedi come le famiglie e le associazioni. D’altra parte il bene comune non è semplicemente fine a sé stesso, ma è orientato proprio al bene delle persone che formano la comunità sociale; però le persone possono realizzare efficacemente il proprio bene soltanto nella comunità sociale e attraverso il bene comune.
L’impegno per il bene comune richiede tutto quell’insieme di istituzioni giuridiche, civili, politiche e culturali che rendono una società ordinata, che ne fanno una pòlis, una città. In questo modo il cristiano ha di fronte a sé due forme di carità, quella praticata direttamente al prossimo e quella praticata tramite la partecipazione alla gestione della pòlis. Il cristiano è tenuto ad esercitare entrambe queste forme, nel modo della sua vocazione e nelle sue possibilità, in modo da far assomigliare il più possibile la città dell’uomo alla città di Dio.
Questo paragrafo esprime in sintesi la concezione della società nella dottrina della Chiesa, una concezione che ripudia i due opposti estremismi dell’individualismo e del collettivismo. Notiamo anzitutto che le parole “individuo” e “persona” non sono semplicemente sinonimi, perché “individuo” sottintende l’idea di un singolo puro, una monade, mentre “persona” indica un ente che non è a sé stante ma è legato agli altri enti da una fitta trama di relazioni (questo significato della parola “persona” deriva proprio dalle riflessioni della Chiesa sulle Persone della Trinità).
Per l’individualismo gli uomini vanno considerati innanzitutto come singoli individui, le relazioni che sorgono tra loro sono un qualcosa di accidentale e secondario che può essere rescisso in qualunque momento, e la società non esiste se non come mera somma degli individui (famosa la frase lapidaria di Margaret Thatcher “non esiste la società, ci sono solo gli individui”). All’opposto per il collettivismo, che deriva non solo dal marxismo ma anche e forse fondamentalmente dalla filosofia di Hegel, è l’individuo ad essere una semplice appendice della collettività, la quale è l’unico vero soggetto agente della storia. Come spesso succede gli estremi si toccano, perché in entrambi i casi la vita umana perde molto del suo valore e può essere facilmente sacrificata, o per l’egoismo degli individui forti che sottomettono i deboli o sull’altare dello Stato totalitario. La Chiesa invece difende il valore della persona, un singolo intrinsecamente legato ad altri singoli, e difende le relazioni tra le persone che costituiscono i corpi intermedi, in primis la famiglia.
Oggigiorno la mentalità collettivista, che pochi decenni fa a moltissimi sembrava fosse “il sol dell’avvenire” e il futuro ineluttabile del pianeta, è caduta a pezzi ed è praticamente scomparsa. Persino quelli che oggi dicono di essere comunisti e socialisti, in realtà hanno un modo di pensare totalmente intriso di individualismo (e lo si vede quando parlano di bioetica e famiglia). Le parole “destra” e “sinistra” continuano a essere usate, ma in modo improprio, perché hanno cambiato completamente il significato a cui si riferiscono. A volte penso che paradossalmente gli unici o quasi ad essere “di sinistra” in Italia oggigiorno sono proprio i cattolici, anche e forse perlopiù quelli che votano “a destra”, perché sono i soli che hanno resistito all’avanzata dell’individualismo.
Notiamo poi che il bene comune di cui parla Benedetto XVI è un bene che esiste in sé, distinto dalla somma dei beni individuali, ma non è per sé, perché è finalizzato proprio al bene delle persone. Insomma, se ho ben capito: la società è per le persone e non viceversa. In questo modo si evita di cadere nell’individualismo e nel collettivismo.
Notiamo infine che Benedetto XVI parla della partecipazione alla politica, cioè la gestione della pòlis, come di una forma specifica di amore e in questo riecheggia un’altra frase di Paolo VI che definì la politica come la forma più alta di carità. Insomma, noi cattolici siamo molto lontani dai tempi del non expedit e siamo ben decisi a non farci ghettizzare dalle accuse di “ingerenza” fatte di chi vorrebbe praticamente toglierci il diritto di voto (e questa non è un’esagerazione).
L’importanza della Populorum Progressio.
8. Nel 1967 Paolo VI pubblicò l’Enciclica Populorum Progressio, che trattava il tema dello sviluppo dei popoli e in particolare dello sviluppo umano integrale, che interessa l’intera totalità della società umana e non solo una sua parte, e nasce dall’annuncio di Cristo che è proprio il primo fattore di sviluppo. Benedetto XVI intende onorare la memoria di Paolo VI e attualizzare i suoi insegnamenti, ponendoli di fronte alle nuove questioni che nel 1967 non erano ancora sorte o erano meno dirompenti – un processo di attualizzazione che già Giovanni Paolo II aveva iniziato con l’Enciclica Sollecitudo rei socialis. Prima un simile processo era stato riservato solo ad un’altra enciclica, la famosa Rerum novarum, e Benedetto XVI si dice convinto che la Populorum Progressio sia proprio “la Rerum novarum dell’epoca contemporanea”.
Questo paragrafo anticipa l’importanza fondamentale della Populorum Progressio e del magistero di Paolo VI, basti pensare che l’intero capitolo successivo è interamente dedicato a questa famosa ed importante Enciclica. “Attualizzare” significa applicare un ragionamento analogico ed estendere quegli insegnamenti, sorti di fronte alle situazioni contingenti di ieri, alle nuove situazioni contigenti di oggi. In fin dei conti è proprio ciò che la Chiesa da duemila anni: attualizzare l’insegnamento evangelico di Cristo e far vivere la Tradizione.
Infine, mi piace pensare che quest’omaggio alla figura di Paolo VI sia anche un piccolo segnale lanciato al mondo tradizionalista (verso cui Benedetto XVI ha giustamente fatto tanto di buono, in primis con il motu proprio), e in particolare a quei tradizionalisti troppo “focosi” che talvolta colgono l’occasione per denigrare la figura di questo grande e incompreso Papa…
La dottrina sociale della Chiesa non ha soluzioni tecniche e non fa intromissioni politiche, ma serve la verità.
9. La carità nella verità è una sfida per la Chiesa, ma anche un aiuto per il mondo che nell’epoca della globalizzazione corre dei gravi rischi. Questo non vuol dire che la Chiesa abbia una ricetta pronta, perché essa non offre soluzioni tecniche e non si vuole intromettere nella politica degli Stati. Semplicemente la Chiesa deve essere fedele al suo mandato di testimoniare la verità, senza la quale si cade nel baratro di una visione scettica e insensata della vita. La dottrina sociale della Chiesa è aperta alla verità da qualsiasi sapere provenga, ne accoglie i frammenti che trova e li ricompone ad unità, e porta la verità a contatto con le novità che ogni giorno sorgono nella società.
Due considerazioni finali. Anzitutto, quando si dice che la Chiesa non si vuole intromettere nella politica degli Stati, penso si intenda che essa di per sé non ha niente a che fare con le questioni meramente politiche, cioè le questioni che non hanno a che fare con la morale. Ci sono però questioni politiche che sono anche questioni morali (come lo fu il referendum sulla procreazione assistita), e su queste la Chiesa deve dire la sua senza farsi intimorire dalle accuse di ingerenza, e i cattolici devono democraticamente votare secondo i principi in cui dicono di credere – se vogliono essere coerenti con la loro dichiarata fede cattolica; se poi non vogliono esserlo, è una loro libertà e nessuno gliela deve togliere, però poi non vengano a dire che sono cattolici e se sono dei politici non vengano a chiedere il voto ai cattolici…
Inoltre trovo molto interessante l’accenno di Benedetto XVI ai “frammenti di verità”, cioè a quelle parti di verità che si possono trovare anche nelle culture e nelle religioni e nelle ideologie più lontane, anche non cristiane o addirittura anticristiane. In effetti io non credo che possa esistere una cultura/religione/ideologia che sia totalmente priva di verità: se lo fosse, sarebbe intollerabile agli esseri umani e nessuno potrebbe prestarle fede. Semmai si hanno dei frammenti di verità distorti, abusati, mischiati a non-verità. Ricordiamo che il male è la negazione dell’essere, dunque il male puro non esiste. In concreto questa apertura ai frammenti di verità vuol dire dialogare con chi la pensa in modo diverso, però questo dialogo non vuol dire “ma sì le nostre idee in fondo valgono allo stesso modo è tutto indifferente e ora prendiamoci per mano e facciamo giro giro tondo” ma è finalizzato a capire quanto c’è di oggettivamente vero in ciò che dice l’altro, e come questa parziale verità può essere “salvata” e accolta nella dottrina della Chiesa – il che penso fosse il significato di fondo della maltrattata e malcompresa costituzione conciliare Nostra Aetate (fraintesa sia da parte tradizionalista e sia da parte modernista).
27 luglio 2009 at 10:08
Grazie Claudio. Se tu, con i tuoi studi giuridico-economici rilevi difficoltà, figurati una sedicente umanista come me che fa fatica ad eseguire a mente le divisioni di due cifre.
Ho riletto l’introduzione alla luce dei tuoi riassunti e commenti e mi è subito apparsa più comprensibile.
Sono (e non credo di essere la sola) in speranzosa attesa del seguito…
27 luglio 2009 at 13:39
Sono contento di sapere che questa cosa serve. Per il seguito, con calma… io non vado in vacanza e devo anche lavorare!
29 luglio 2009 at 13:59
ma rispetto a quello già scritto e divulgato precedentemente dalla Chiesa, questa enciclica cosa ha di differente o di aggiuntivo?
lo chiedo da semi ignorante, eh.
29 luglio 2009 at 16:32
Ci sono varie riflessioni su problemi contemporanei, che ai tempi delle precedenti encicliche sociali non esistevano o non avevano la portata odierna. Per esempio – per limitarmi alle questioni economiche e sociali – il ruolo dei sindacati, la delocalizzazione industriale, la prevalenza dell’economia finanziaria sull’economia reale, il minore potere economico degli Stati, l’incertezza esistenziale dovuta alla mobilità e flessibilità lavorativa (chi si sposa a trent’anni oggi o è un eroe, o è un incosciente, o è un privilegiato)… argomenti che riassumerò nei prossimi post.
Perciò per rispondere alla tua domanda direi: sostanzialmente diverso, nulla; aggiunto, qualcosa, ma non si tratta nemmeno di “aggiungere” nel senso proprio della parola, direi piuttosto che si applica con molta cautela un ragionamento collaudato a una situazione nuova e perciò si traggono affermazioni che sono allo stesso tempo antiche e nuove.
Che poi è il modo in cui da duemila anni la Chiesa, tra alti e bassi, fa evolvere la tradizione.
Claudio unlogged
29 luglio 2009 at 22:16
Ecco, sì, io confermo quello che ha scritto sissi2002. In effetti, per i non addetti ai lavori, certi passi non sono così lampanti! 🙂
Ti ringrazio anch’io, e anch’io aspetto, con tutta calma, di poter leggere il seguito 😉
30 luglio 2009 at 09:43
capisco. diciamo però che per me l’espressione “evolvere la tradizione” è un po’ un ossimoro.
30 luglio 2009 at 13:06
Che bel lavoro, grazie Claudio. Non ho ancora letto l’enciclica, e sono sicuro che i commenti che hai aggiunto saranno d’aiuto a chi è ignorante riguardo al lessico dell’economia come me.
@cinas: In teologia la tradizione è un concetto dinamico. In realtà dovrebbe apparire abbastanza bene dai vangeli, senza neanche tanti commenti. Pensiamo solo a Gesù quando dice che seguendolo “faremo cose più grandi di lui”. L’idea spaventa un poco il credente e appare paradossale al non credente, ma è parte integrante della rivelazione.
30 luglio 2009 at 15:23
Cinas, è un ossimoro se pensi che la tradizione sia qualcosa di statico e finito.
Comunque non è che io sia chissà quale sapiente di economia. Tutto quello che scrivo prendetelo col beneficio del dubbio e andate comunque a leggere l’originale!
22 settembre 2009 at 13:18
L’enciclica di Benedetto XVI è da leggere in una prospettiva micro-sociologica. Lo sviluppo è della persona e della famiglia. partendo da li si passa ad uno sviluppo dei popoli. La differenza con la popolorum progressio ( non di principi ma applicativa) sta in questo punto. Paolo VI fa un discorso più macrosociologico, BXVI è più microsociologico.
Mentre non c’è distinzione nei fondamenti filosofici ( il ruolo della tecnica e la caduta della metafisica) e teologici 8 la centralità della Carita nel suo rapporto circolare con la Veritas.
Matteo Dellanoce
23 settembre 2009 at 12:33
Purtroppo non ho fatto questa considerazione nei miei commenti, non avendo letto direttamente la Populorum progressio, perciò grazie del contributo!
29 settembre 2009 at 17:33
Mi permetto un’ulteriore sottolineatura.
Già in San Tommaso è presente il concetto di semina Verbi, ovverosia di presenze di Verità ( non totalmente Rivelate, per ovvi motivi) nelle Religioni non cattoliche ( sottolineo cattoliche per distinguerle dalle protestanti).
Matteo Dellanoce
30 settembre 2009 at 16:27
Certo: analogamente Chesterton e Maritain parlavano di “verità impazzite”, cioè dei frammenti di verità da “salvare” contenuti nei sistemi anticristiani.
(un discorso non privo di controindicazioni, visti gli esiti di un certo cristianesimo sociale che andò per convertire i comunisti e tornò cattocomunistizzato…)