Caritas in veritate 7

(7) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

Capitolo quarto: sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

Capitolo quinto: la collaborazione della famiglia umana

 

Capitolo sesto: Lo sviluppo dei popoli e la tecnica

 

 

Libertà e dono, “io” costruito e “sé” ricevuto. Degenerazioni dello sviluppo dei popoli.

68. La persona umana è dinamica, costantemente spinta verso lo sviluppo. Questo sviluppo non è meccanicamente predeterminato, perché noi siamo liberi, ma non è neanche completamente affidato alla nostra volontà, perché la nostra libertà non è assoluta ma è determinata dal nostro essere originario e dai nostri limiti. Noi non ci siamo autogenerati, ma siamo un dono ricevuto da noi stessi: ognuno costruisce il proprio “io” sulla base di un “sé” che ha ricevuto.

Se la persona s’illude di essere l’unica produttrice di sé stessa, il suo sviluppo ne soffre. Analogamente lo sviluppo dei popoli degenera se l’umanità crede di potersi ricreare grazie alla tecnologia, così come lo sviluppo economico si deteriora se fa affidamento su artifizi finanziari per inseguire una crescita innaturale. A fronte di questi pericoli bisogna sostenere una libertà non arbitraria, che riconosca il bene e sia orientata verso di esso.

Con questo che è l’ultimo capitolo dell’Enciclica, Benedetto XVI fa un discorso organico su un argomento emerso più volte nella Caritas in veritate: l’ambivalenza della tecnica, la pericolosa illusione di onnipotenza di chi si affida ad essa per ricreare completamente il mondo e l’umanità.

 

Una riflessione particolare. Io non ho alcuna competenza personale in tema di body building (come chiunque può evincere dell’esiguità del mio tono muscolare!), ma ne ho conosciuto alcuni appassionati che mi hanno descritto in toni addirittura entusiastici lo sforzo che fa il culturista per potenziare il proprio fisico, nonché il pericolo che corre se insegue il miraggio di uno sviluppo abnorme senza tenere in considerazione il limite oggettivo della propria struttura fisica per come è e non per come la desidera. Pare che negli ospedali sia pieno così di aspiranti forzuti che hanno esagerato, non hanno rispettato il programma che gli aveva dato l’allenatore e hanno pensato di bruciare le tappe illudendosi di poter diventare He-Man con poco tempo e non troppa fatica, finché una lesione o peggio distrugge il miraggio e li riporta bruscamente alla realtà. Per non parlare di tutto il marcio che gira intorno al mondo del doping, i cui catastrofici effetti spesso si rivelano davvero a distanza di anni.

Tenendo presente tutto questo, trovo particolarmente suggestiva e illuminante questa distinzione che fa il Papa tra “io” e “”, tra il nostro essere che costruiamo dinamicamente giorno per giorno e l’originario stato di partenza che abbiamo ricevuto e che non possiamo rinnegare. Mi sembra che Benedetto XVI stia proprio mettendo in guardia da una sorta di doping spirituale, tecnologico, economico, umano: l’ebbrezza di una libertà assoluta svincolata da ogni limite, l’illusione di potersi ricreare completamente, uno sviluppo impazzito e degenerato che si maschera da progresso ma che in realtà porta verso la distruzione.

 

 

Lato positivo della tecnica: realizza la vocazione allo sviluppo e il mandato biblico del lavoro.

69. Il progresso tecnologico è legato alla libertà dell’uomo. La tecnica diminuisce le difficoltà materiali per l’uomo, e dunque può anche permettergli di dedicarsi con maggiore dedizione al suo lato spirituale. Come nel lavoro, anche nella tecnica l’uomo può realizzare la propria vocazione allo sviluppo e la propria umanità. Perciò la tecnica va vista alla luce del mandato biblico “custodite e coltivate la terra” dato da Dio all’uomo, nel quale si consacra il lavoro umano e il rispetto dell’ambiente.

 

 

Ambiguità della tecnica, che può diventare la nuova ideologia. “Come fare” e “perché fare”. Libertà e responsabilità morale.

70. Ma la tecnica ha anche un volto ambiguo. Quando all’uomo interessa solo il “come fare” e non anche il “perché fare”, quando si illude che la tecnologia sia autosufficiente e possa dare da sola la felicità grazie ad una libertà illimitata, allora l’uomo è in pericolo. Dopo la caduta delle ideologie politiche, la tecnica può diventare una nuova ideologia: essa rinchiude l’essere umano in un mondo sostanzialmente privo di verità, perché fa coincidere il vero con il fattibile e l’utile.

Questo nega il vero sviluppo, il quale non risiede innanzitutto nel “fare” ma nell’intelligenza che governa il fare e gli dà senso. La tecnica amplia le possibilità operative e la libertà dell’uomo, ma non è svincolata dalla sua responsabilità morale.

 

 

Tecnicizzazione dello sviluppo.

 71. Un esempio di distorsione della tecnica è dato dal fatto che sempre più spesso lo sviluppo dei popoli è visto in modo tecnicistico: è cioè considerato come un problema che si può risolvere con l’ingegneria finanziaria e gli investimenti e le riforme e così via. Insomma ci si limita al fatto tecnico, come se il sottosviluppo fosse una macchina che si può aggiustare con uno sforzo impersonale e senza bisogno di buona volontà. Eppure è sotto gli occhi di tutti questo non funziona, perché per lo sviluppo non bastano le misure politico-economiche ma c’è innanzitutto bisogno di uomini giusti e sensibili all’appello del bene comune.

 

 

Tecnicizzazione della pace.

72. Analogamente, anche la pace tra i popoli rischia di essere vista solo come un problema tecnico, che necessita soltanto di rapporti diplomatici ed economici e progetti condivisi e così via. Tutte queste cose sono davvero necessarie, ma non sono sufficienti, perché per essere efficaci devono appoggiarsi su valori concreti e radicati nella verità.

 

 

Tecnicizzazione della comunicazione: apparente neutralità e sostanziale subordinazione a poteri economici e ideologici. Necessario un fondamento antropologico per i mass media.

73. Bisogna poi considerare la questione dei mass media, che grazie alle nuove tecnologie hanno raggiunto una pervasività altissima. Chi ne sostiene l’intrinseca neutralità e l’autonomia rispetto alla morale, considerando solo l’aspetto tecnico della comunicazione, in realtà ne favorisce la subordinazione a certi poteri economici e certi progetti ideologici di imposizione culturale. In realtà i mass media, per la loro estrema importanza nell’influenzare la gente e determinare il modo di percepire la stessa realtà, devono essere oggetto di attenta riflessione e devono trovare il proprio senso in un ben preciso fondamento antropologico. I mezzi di comunicazione di massa permettono l’interconnessione globale e la circolazione delle idee, ma ciò non favorisce di per sé la libertà e la democrazia e  lo sviluppo: a questo scopo è necessario che i mass media siano orientati al servizio delle persone, della carità e della verità.

Questo paragrafo riprende un concetto già espresso ai nn. 19 e 53, ovvero che la “vicinanza” propria della globalizzazione e dei mezzi di comunicazione di massa non si traduce automaticamente in “fratellanza”. Allo stesso modo la diffusione delle idee non garantisce automaticamente la conoscenza e la libertà, anzi è fin troppo facile che essa sia usata nel senso opposto. I regimi totalitari del ‘900 hanno ben saputo utilizzare per i propri fini la radio e il cinematografo, così come le ideologie antiumani di oggi fondano la propria forza anche sulla disinformazione tramite la televisione ed internet.

Si tratta insomma di un discorso estremamente importante ed attuale, come insegna anche la recente vicenda del caso Boffo. Molto facilmente la comunicazione di massa può essere usata per trasmettere la falsità invece della verità. Comunicare non è solo un fatto tecnico: i mass media non sono mai neutrali rispetto alla visione del mondo che trasmettono, anzi spesso si rivendica una falsa neutralità ed autonomia soltanto per meglio perseguire un progetto di disinformazione e manipolazione.

 

Questo porta anche al difficile e spinoso problema del controllo sui mass media, della sua opportunità e ragion d’essere, delle sue forme e dei suoi limiti. Esprimo qui una riflessione personale: pensare di poter rimediare agli abusi e alle storture dei mass media con un controllo pervasivo e preventivo, con la censura, è sbagliato per almeno tre motivi.

1) Anzitutto per una questione morale, e cioè perché cercando di impedire l’uso errato della libertà si va a finire quasi sicuramente per coartare la libertà stessa. Il Concilio Vaticano II ha espresso molto bene questo concetto, ma esso è respinto da una certa visione del cattolicesimo che si identifica con un ultra-tradizionalismo molto critico verso ogni forma di liberalismo, e che anzi a mio parere non riesce neppure a distinguere tra diversi tipi di liberalismo, e pertanto ritiene che un liberalismo cattolico non possa essere altro che una versione camuffata del liberalismo anticattolico. Ma in realtà questo “liberalismo cattolico”, o in qualunque modo lo si voglia chiamare, ha ben poco da spartire con la tipica mentalità liberal intrisa di relativismo. Quest’ultima basa la libertà di parola sull’equivalenza tra verità e falsità, sull’astratta tolleranza verso ogni idea qualunque purchessia (una tolleranza spesso ipocrita e selettiva, è da aggiungere); invece il Concilio Vaticano II lega la libertà di parola alla persona, non all’idea. Non sono le idee sbagliate ad aver diritto di essere diffuse, ma sono le persone che hanno la libertà di diffondere idee sbagliate perché hanno un libero arbitrio che non si può sopprimere senza provocare un danno maggiore. Naturalmente questo uso distorto della libertà è sbagliato, e da esso ci si deve difendere, ma senza che questa difesa sfoci nella negazione della libertà stessa.

(per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, ho trovato questo concetto spiegato egregiamente nel libro “Confini”, un dialogo tra il cardinale Camillo Ruini e lo storico Ernesto Galli Della Loggia, di cui consiglio vivamente la lettura)

2) In secondo luogo è irrealizzabile, perché la storia insegna che bloccare la circolazione delle idee è fattibile soltanto nel breve periodo, mentre nel medio e lungo termine è impossibile. E se questo è stato vero per i periodi storici in cui la conservazione e divulgazione del sapere si affidava soltanto alla trasmissione orale e ai manoscritti, è esponenzialmente più vero per il presente momento storico pervaso dalla comunicazione globale immediata. I pastori hanno il dovere di proteggere il gregge dai lupi, ma non si può riuscire a tenere il gregge in un recinto che sia una campana di vetro.

3) In terzo luogo la censura è controproducente, per vari motivi: per il perverso fenomeno del “frutto proibito” per cui ciò che è vietato diventa più attraente; perché chi viene censurato può spacciarsi per martire, e atteggiarsi a tale anche quando l’idea censurata era completamente sbagliata, ed anzi un’idea completamente infondata può ammantarsi di verità ed essere percepita come vera proprio in quanto è stata inizialmente censurata; e perché affidare a un’istituzione ecclesiastica un potere così grande, decidere a priori cosa deve o non deve essere obbligatoriamente conosciuto dalla totalità delle persone, rischia di corromperla, posto che la grazia di stato non implica che gli ecclesiastici siano automaticamente immuni dai difetti e dalle tentazioni del potere.

 

 

Bioetica: razionalità aperta alla trascendenza VS razionalità chiusa nell’immanenza. Necessario binomio di ragione e fede.

74. Il conflitto tra le due prospettive sulla tecnica, quella assolutista e quella legata alla responsabilità morale dell’uomo, si vede soprattutto nel campo della bioetica. Qui emerge in tutta la sua drammaticità l’illusione dell’uomo di produrre sé stesso dimenticando di dipendere da Dio. Bisogna allora scegliere tra una razionalità aperta alla trascendenza e una razionalità chiusa nell’immanenza; quest’ultima forma di ragione però in ultima analisi dimostra di essere irrazionale poiché rifiuta ogni senso intrinseco dell’esistenza e ogni valore, e poiché non riesce a spiegare come possa essere sorto l’essere dal nulla e come sia nata l’intelligenza dal caso. Qui si vede come la fede e la ragione hanno ciascuna bisogno dell’altra, perché la ragione che è senza fede e centrata solo sul puro “come fare” tecnico alla fine si perde nell’illusione di onnipotenza, mentre una fede senza ragione estrania la gente dalla vita concreta.

 

 

La questione sociale è diventata questione antropologica. La lotta contro povertà e contro la cultura della morte è un tutt’uno.

75. Oggigiorno la questione sociale è diventata una questione antropologica: la lotta alla povertà non può essere separata dalla difesa della vita. La manipolazione dell’uomo con le biotecnologie, la diffusione dell’aborto, la pianificazione eugenetica delle nascite, l’eutanasia per le vite considerate indegne di essere vissute, tutte queste manifestazioni della “cultura della morte” sono negazioni della dignità umana che incidono negativamente sullo sviluppo. Mentre il mondo povero soffre nel degrado e nella miseria, spesso il mondo ricco è indifferente e privo di compassione, e con stupefacente selettività si scandalizza di cose marginali e tollera ingiustizie inaudite.

 

 

Riduzionismo psicologico e neurologico. Unità di anima e corpo. Sofferenza spirituale nelle società opulente.

76. L’assolutismo della tecnica tende a ricondurre tutti i problemi non materiali a una questione psicologica, fino al riduzionismo neurologico. Così viene svilita la complessità dell’animo umano, si riduce l’io alla psiche e si confonde la salute dell’anima con il benessere emotivo. Ma lo sviluppo integrale non può ignorare la crescita spirituale oltre che materiale, perché la persona umana è unità di anima e corpo. Nonostante la ricchezza le società opulente sono colme di alienazioni sociali e nevrosi, di suicidi e schiavitù della droga, anche perché gli uomini sono allontanati da Dio. 

La persona umana è una unità di anima e corpo, un “sinolo” se vogliamo usare la terminologia aristotelica: non una unità monolitica e indifferenziata, e neppure un dualismo di elementi separabili e di per sé unitari, ma piuttosto un “uno-da-due” ovvero un insieme unico che nasce dalla congiunzione di due sostanze intrinsecamente legate che si appartengono l’un l’altra. In un certo senso il cristianesimo non è una religione spirituale, ma è profondamente materialista: il corpo non è la prigione dell’anima, anzi  è importante proprio quanto l’anima. Vale anche qui quel principio di et-et di cui parlavo commentando il paragrafo 59: come in passato si tendeva a svilire il corpo e considerare importante solo ciò che è spirituale e disincarnato, così oggi si eccede nel verso opposto e si disprezza tutto ciò che è spirituale inseguendo la brama di piacere materiale e animalesco. Il cristiano deve evitare entrambi gli errori.

 

 

Lo sviluppo umano integrale ha bisogno di una dimensione spirituale.

77. L’assolutismo della tecnica è incapace di capire tutto ciò che non si spiega con la semplice materia. Eppure tutti noi sperimentiamo aspetti immateriali e spirituali nella nostra vita, perché il conoscere implica sempre andare oltre il dato empirico e sperimentare un plusvalore che è un dono ricevuto. Lo sviluppo dell’uomo e dei popoli necessita di una dimensione spirituale che le dia un “oltre” che la sola tecnica, la sola visione materialistica del mondo, non può dare. Solo così è possibile perseguire uno sviluppo umano integrale, orientato dal criterio della carità nella verità.

Con questo paragrafo, che richiama alla fine il titolo dell’Enciclica, si conclude l’ultimo capitolo della Caritas in veritate. Ora restano soltanto i due paragrafi finali della conclusione.

(e se sapevo che era ‘sta faticaccia, forse non m’imbarcavo nell’impresa….)

 

 


One response to “Caritas in veritate 7

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