Con moltissimo ritardo…
- Storie dal crepuscolo di un mondo (vol. 2), di AAVV;
- La Terra morente, di Jack Vance;
- John Carter, di Edgar Rice Burroughs (+ riflessioni sul concetto di libro classico);
- Le grandi storie della fantascienza (vol. 19 – anno 1957), di AAVV;
- Costa sottovento, di Patrick O’Brian;
- Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento (vol. 2), di Antonio Illibato;
- Heretics, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura);
Storie dal crepuscolo di un mondo (vol. 2), di AAVV.
Trattasi del secondo volume (di una serie di tre) che Urania sta pubblicando per tradurre una smisurata antologia di racconti americani, curata da Gardner Dozois e George R.R. Martin, che omaggia il ciclo della Terra morente di Jack Vance riprendendone personaggi e ambientazioni e stile (vedi sotto).
Mentre il primo volume mi aveva lasciato pressoché indifferente, perché i racconti mi erano sembrati nulla di più che un tiepido divertissement similfantasy (da cui l’interrogativo “ma che ci fa un fantasy in una collana dedicata alla sf?” → vedi sotto), il secondo invece porta una media qualitativa parecchio più alta; quelli che mi sono piaciuti di più sono stati L’uccello verde (con cui ho conosciuto il fantastico personaggio di Cugel l’Astuto) e La lamentabile tragedia comica (o la risibile commedia tragica) di Lixal Laqavee. Per chi fosse interessato, qui si trova una recensione particolareggiata dei racconti (nonché un dibattito classificatorio tra abbonati Urania che si lamentano perché, avendo chiesto e pagato in anticipo dei prodotti di fantascienza, si sono visti recapitare un prodotto che invece non lo pare proprio; polemiche sull’infiltrazione nella sf Urania di residui da altri settori merceologici appioppati ex abrupto ai lettori; lunga storia).
Comunque sia, questo libro mi è piaciuto così tanto che …
La Terra morente, di Jack Vance.
… sono andato a leggermi la saga originale di Vance, per la precisione l’edizione italiana della NORD che riunisce le prime due (su quattro) parti della saga.
La prima parte è una miscellanea di racconti ambientanti nella Terra morente, e personalmente li ho trovati abbastanza mediocri: le avventure di Turjan di Miir, Mazirian il Mago e così via, non mi sono sembrate altro che una sequela di cliché fantasticheggianti con poca originalità. Giusto giusto qualcosa me l’ha dato il penultimo racconto, quello di Ulan Dohr nella città di Ampridatvir (che mi ha ricordato la città di Lud nella Torre Nera di Stephen King). Non mi capacitavo del perché del successo della saga finché non ho approcciato la seconda parte, con le (dis)avventure di Cugel, e qui il livello è cambiato da così a così : l’ironia è onnipresente e irresistibile, e alcune pagine mi hanno fatto ridere di gusto come non accadeva dai tempi di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome (il mio affezionato termine di paragone per la comicità in un libro).
Ma insomma, cos’è questa Terra morente?
È la Terra in un futuro lontanissimo, migliaia o fors’anche milioni di anni da ora, quando il Sole starà lì lì sul punto di spegnersi e ogni giorno potrebbe essere l’ultimo (non so se può essere che il Sole si spegne all’improvviso come una candela, ma vabbè). Nuove specie animali, nuove culture, nuove religioni, nuovi popoli, ma l’essere umano è sempre lo stesso con i suoi vizi di sempre. I personaggi sono ribaldi e infingardi, si parlano l’un l’altro in un divertentissimo stile forbito anche quando stanno per tagliarsi la gola. Vance è maestro del genere picaresco e Cugel l’Astuto è il suo capolavoro: un avventuriero inaffidabile, ladro e truffatore, che dovunque si rechi – costretto a un’impresa improba da Ioconou il Mago Ridente – porterà tragicomiche sventure su di sé e su tutti quelli che incontra.
La Terra morente fa parte di quei libri che pongono un interessante problema classificatorio ( ← vedi sopra): si tratta di fantasy o di fantascienza? In questo remoto futuro, in un mondo dove le civiltà sono morte e rinate e rimorte, la scienza e la magia si sono scambiate di posto: ciò che per noi è scienza moderna è diventato un sapere arcaico, esoterico e dimenticato, mentre la magia è comunemente studiata e praticata. Vero è che quella che a noi lettori appare magia potrebbe essere “soltanto” una forma avanzatissima di tecnologia (cfr la nota frase di Arthur Clarke); ma intanto pure ci sono i maghi e gli incantesimi e così via.
I critici americani hanno risolto il problema con una specie di mossa da Alessandro-e-il-nodo-gordiano, inventandosi il nuovo genere della science-fantasy, che sarebbe appunto una commistione di fantasy e science fiction; sarei curioso di sapere dove andare a trovare tale ibrido nel codice Dewey (per chi fosse interessato, posso fornire nei commenti ulteriori ragguagli sulle spaventose complicazioni filosofico-cognitive evocate dal codice Dewey e le sue limitazioni a base decimale; almeno per come mi sono state descritte dalla mia bibliotecaria di fiducia).
John Carter, di Edgar Rice Burroughs.
La cosa strana di questo libro (titolo originale Under the Moons of Mars, Sotto le lune di Marte; ma anche A Princess of Mars, La principessa di Marte) è che appena finita l’ultima pagina mi è venuto istintivo pensare “ma che storia mediocre”, poi mi sono ricordato che è un classico del suo genere, e è allora scattato una sorta di istinto condizionato pavloviano che fa subentrare il rispetto che si sente dovuto a un classico. Certo ci si potrebbe chiedere dov’è allora la linea di confine tra il “nostro” giudizio su un’opera d’arte e quello che “subiamo” dal giudizio altrui (critici, generazioni di lettori precedenti, professori di scuola, eccetera), ma c’è un’altra domanda ancora più pressante.
Cos’è un classico?
Per come la vedo io, ci sono grossomodo tre definizioni possibili, diciamo tre “gradi” del classico:
- Un libro molto famoso;
- Un libro che esprime la sua epoca;
- Un libro che trascende la sua epoca.
Questo libro è sicuramente un classico nel primo senso del termine: ebbe un enorme successo ed una lunga serie di seguiti che, per chi fosse interessato, possono essere legalmente e gratuitamente scaricati in lingua originale qui (grazie, progetto Gutenberg → vedi sotto). Burroughs poi è popolare di suo, essendo il creatore di un altro classico dell’immaginario ovvero Tarzan. Insomma John Carter è famoso, tanto che quest’anno, nel centenario della pubblicazione, la Disney ne ha fatto uscire una versione cinematografica.
Perché sì, John Carter è del 1912. E si vede.
La storia è piena di meccanismi narrativi ingenui e artificiosi. Carter, ex soldato sudista nell’immediato dopoguerra di secessione, viene inseguito dagli indiani; per cause che l’autore non spiega minimamente (l’avrà fatto nei libri successivi? boh), muore sulla terra – nel senso che vede proprio il suo stesso cadavere – e si risveglia su Marte. Diventa l’ago della bilancia nella guerra tra due specie opposte di marziani, una antropomorfa e l’altra mostruosa; impara in poco tempo la lingua marziana fin nelle più delicate sfumature (presumo che i soldati sudisti avessero tutti un Phd in glottologia); cavalca, duella, ammazza, guerreggia e così via; incontra una principessa di Marte in circostanze appassionanti (prigioniera dei cattivi, denudata barbaramente; immagino il brivido erotico del lettore maschio del 1912); lui s’innamora di lei; viceversa; litigano, si riappacificano, lei è in pericolo, lui la salva due o tre volte, alla fine la sposa (c’era bisogno di coprire lo spoiler? ma no). Ovviamente l’eroe è aiutato dalle solite circostanze fortuite, i soliti personaggi deuteragonisti così palesemente aiutanti che sembrano appena usciti dal libro delle funzioni di Propp, e poi c’è il mostro repellente che insidia la bella (“insidia” è una delicata perifrasi per “vuole stuprarla”), l’agnizione del figlio perduto, non mi ricordo che altro ancora. Ah, già, alla fine con la principessa ci fa anche un figlio. Cioè un uovo, perche la razza della principessa, per quanto esteriormente antropomorfa, è ovipara od ovovivipara o che cosa. Come fa il sesso interspecie umano-marziana a prolificare? E chi lo sa. Ma chi se ne frega.
E il libro piace. Vende un botto. Ha incantato milioni di lettori dell’inizio novecento e delle generazioni successive. È, appunto, un classico. Allora uno si chiede: ma perché? Com’è che un libro diventa un classico? Come si crea e cresce la sua fama fino a farne dire “ah, è un classico, lo conoscono tutti”? Perché ha tanto successo?
Qui arriviamo al secondo grado. Un classico non è semplicemente un libro famoso: è un libro che è diventato famoso perché offre ai lettori quello che i lettori cercano, uno specchio in cui guardare se stessi e i propri desideri, vizi e virtù, la propria Weltanschauung; perché esprime un’epoca, un contesto socioculturale spaziotemporalmente determinato, e i posteri potranno usarlo per capire il loro passato.
E allora cosa ci dice John Carter con la sua atmosfera da western marziano, la sua sottile misoginia, l’ingenuità delle sue soluzioni narrative con tutte quelle circostanze pensate apposta per favorire l’eroe, e tutto il resto? Cosa ci dice dell’anno 1912 e dei lettori che ne hanno decretato il successo? Possiamo considerarlo rappresentativo della sua epoca, un classico nel secondo senso del termine? Inclino a pensare di sì, ma se ne può discutere.
Sennonché, quegli stessi elementi che ne hanno forse favorito il successo un secolo fa, oggi rendono il libro peggio che desueto: lo rendono brutto (ovvero, lo renderebbero tale se non si attivasse il riflesso condizionato “ma è un classico!”). Come scrive Giuseppe Lippi nella postfazione all’edizione Urania:
Due dei più esperti critici italiani del settore – Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – hanno scritto a proposito di Burroughs: “Tutta questa massa di letteratura, che pure ha fatto vendere più di cinquanta milioni di libri, è quasi completamente priva di valore artistico. Burroughs stesso attribuiva la sua popolarità al fatto che le sue storie non imponevano al lettore il minimo sforzo intellettuale. Non vi è caratterizzazione, eccetto che i Buoni sono buoni e i Cattivi cattivi” […]
Paragonandolo a H.G. Wells, Brian W. Aldiss ha detto che ERB “ci insegna a non pensare”. A parte il fatto che per eccellere in tale attività non sembra indispensabile alcun insegnamento, e che gran parte dell’umanità vi ambisce come a un diritto inalienabile, bisogna riconoscere che Burroughs non ha mai voluto ammaestrare il suo pubblico, ma che si è limitato a praticare un’antica forma della narrativa: quella che descrive il fisico anziché il mentale […]
È qui dunque che l’eroico John Carter perde la sua sfida più grande, quella contro il tempo. Infatti il libro, per tutti i motivi sopraddetti, non riesce ad essere un classico nel “terzo grado”, nel senso più alto del termine: un libro che “parla” non solo ai suoi contemporanei, ma anche ai posteri. Un libro che tra cento o mille anni sarà letto non solo per interesse storico (“vediamo come pensavano gli scrittori del XX secolo”), ma anche e innanzitutto per il puro piacere letterario del leggere. Questo, io credo, è un vero classico: un libro che è sempre contemporaneo. Che ha un piede nel suo tempo e l’altro nell’eternità.
Dante è un vero classico. Shakespeare è un vero classico. Manzoni è un vero classico. Borges e Tolkien saranno dei veri classici, anche se giudicare come classico un autore del proprio secolo è sempre un azzardo (perché chi decide davvero è il futuro, e il futuro è impredicibile). Forse anche David Foster Wallace. Ma Burroughs, no, non è un vero classico.
Peccato.
Le grandi storie della fantascienza (vol. 19 – anno 1957), di AAVV.
Antologia, a cura di Isaac Asimov e Martin H. Greenberg, dei migliori (secondo loro) racconti di fantascienza usciti nel 1957.
Il libro mi è stato prestato dall’amico Joe, che legge questo blog e ringrazio pubblicamente, con la didascalia “uno di questi racconti potresti averlo scritto tu, leggili e dimmi quale”. Descrizione invero accattivante e inquietante a un tempo, e fin troppo lusinghiera. Il livello generale dei racconto è molto buono (qui l’elenco completo dal catalogo Vegetti); mi sono particolarmente piaciuti Onnilinguista di H. Beam Piper, La Gabbia di A. Bertram Chandler, Il Melodista di Lloyd Biggler jr., e poi il racconto (che ho indovinato – YEY!!!) cui si riferiva il mio amico, L’educazione di Tigress McCardle di C.M. Kornbluth. Potete leggerlo qui in inglese e qui in italiano. È molto divertente, descrive le peripezie di una coppia di coniugi in un futuro in cui, prima di fare un bambino, gli aspiranti genitori possono fare la prova con un robot (“Tesorino”) che simula in tutto e per tutto il comportamento di un vero neonato. Sennonché il robot fa parte di un programma governativo per “disinnescare la bomba demografica”, e ci siamo capiti. Il tono generale della storia è molto ironico, ma la conclusione non lo è (o forse sì, ma di un’ironia amarissima); e se siete di quelli che al rientro dolce ci credono davvero, fate un favore a voi stessi: leggete il racconto, arrivate all’ultimo paragrafo, e rileggetevi l’inizio. E poi ne riparliamo.
Costa sottovento, di Patrick O’Brian.
Diana Villiers deve morire.
Ero tentato di far consistere la descrizione del libro in questa sola frase, e sarebbe stato abbastanza. Ma in effetti sarebbe ingiusto sia verso il libro, sia verso il personaggio.
Verso il libro, perché la storia non può essere ridotta soltanto a quella specie di quadrangolo sentimentale a geometria variabile in cui sono incardinati Jack, Stephen, Diana Villiers e Sophia Williams. Il titolo originale è Post Captain, che allude alla promozione ricevuta da Jack: l’edizione italiana ha rinunciato all’espressione idiomatica (perché? non era così difficile da tradurre) e ha preferito citare – presumo – da un punto in cui Jack dice “ho una sensazione maledettamente strana: non ho voglia di tornare a casa stasera. Strano, perché non vedevo l’ora di esserci, stamattina ero arzillo come un marinaio in franchigia, e adesso questa sensazione…. Talvolta in mare si prova la stessa cosa in prossimità di una costa sottovento. Tempo da lupi, vele di gabbia a terzaroli bassi, niente sole, nessuna possibilità di fare il punto per giorni e giorni, nessuna idea di dove si è nel raggio di un centinaio di miglia, e poi una notte si avverte la presenza di una costa sottovento. Non si vede assolutamente niente, ma pare quasi di sentire gli scogli grattare sulla carena.” Cioè instabilità, inquietudine, pericolo nascosto. Tutti sentimenti che si attagliano bene alle traversie occorse ai nostri, sia di natura amorosa (le prime duecento pagine circa non sono neanche ambientate in mare, sono una roba alla Jane Austen tra caccia alla volpe e patemi emotivi, eppure la storia tiene), sia di natura politica (l’attività di Stephen Maturin come spia), sia di natura bellico-nautica (le descrizione dei movimenti nautici della Polychrest, lo “sbaglio del carpentiere”, sono irresistibili perfino a chi non ci capisce niente di nautica).
Poi c’è lei. Diana Villiers. La tentazione di odiarla è forte, perché rovinare l’amicizia tra Jack e Stephen, spingendoli financo al duello, è atto che non può passare imperdonato. Eppure in qualche modo, da qualche pagina della sua sfortunata biografia, delle angherie cui la costringe la (lei sì, senza attenuanti) sgradevolissima mamma Williams, si sente che Diana Villiers più che femme fatal è vittima: di sé stessa, delle sue ambizioni, dei pregiudizi della sua epoca.
E però, insomma: povero Stephen!
Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento (vol. 2), di Antonio Illibato.
Dopo il primo volume, proseguo la biografia del Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei. Ma si potrebbe anche dire fondatore di Pompei tout court, visto la città praticamente si è sviluppata a partire dalla e attorno alla costruzione della chiesa: case, stazione ferroviaria, ospedali, eccetera. E la cosa che più colpisce (e invero lo rende tanto simpatico, una specie di Paperino dei santi) è scoprire che il Beato Bartolo era… beh… un imbranato.
Il libro infatti, con taglio storico piuttosto che agiografico, non esita a riportare anche quelle vicende nelle quali il protagonista non ci fa una brillantissima figura: le occasioni sprecate, i guai combinati, le inefficienze amministrative. Diciamo la verità: in alcuni punti si ha quasi l’impressione che il Santuario sia stato fondato, più che grazie, nonostante Bartolo Longo.
Ma questo non potrebbe forse dirsi di tutti i santi? Che altro non sono che strumenti, volenterosi ma imperfetti, nelle mani del vasaio?
Heretics, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura).
Allora, ho comprato su amazon il kindle, e per adesso sono abbastanza soddisfatto. Descrivere vantaggi e svantaggi dell’ebook rispetto al libro di carta sarebbe un discorso qui troppo lungo (casomai se ne può parlare nei commenti), diciamo solo che avere il kindle offre un vantaggio non irrilevante e cioè la possibilità di scaricare dal sito di amazon direttamente sull’aggeggio, legalmente e gratuitamente, tutte quelle opere sulle quali è scaduto il copyright per decorrenza di tot decadi dalla morte (in questo caso diciamo pure la nascita al cielo) dell’autore.
Onestamente non credo di avere la capacità di esprimere in parole il gaudio praticamente fisico, di livello quasi orgasmico, da me esperito nel fare il download di 27 – dico ventisette – libri di Gilbert Keith Chesterton, molti dei quali di scarsa o impossibile reperibilità in italiano. Non ve lo posso proprio dire. Dovevate stare lì e vedermi.
Successivamente ho scoperto che anche chi non è amazon user può facilmente procurarsi questo genere di ebook gratuiti e legali: vedi il progetto Gutenberg e il suo omologo italiano, il progetto Manuzio.
Per esempio, i libri di Chesterton sul progetto Gutenberg si trovano qui.
Oh, gioia.
E insomma, il primo libro di GKC che ho abbordato è questo Heretics, del quale Ortodossia si porrà in termini di prosecuzione ideale. Manco a dirlo, è fantastico. Ma ne parlerò al post del mese prossimo.
28 Maggio 2012 at 21:25
Povero Stephen, è vero. Povera Diana non mi è mai venuto in mente… però è vero che è piuttosto una vittima che una malvagia.
Di Burroughs mi volevo rileggere il primo Tarzan, che mi era piaciuto tanto e mi pareva proprio uno di quei libri che superano il loro tempo – ma era vent’anni fa, chissà che effetto mi farebbe adesso.
28 Maggio 2012 at 21:42
Diciamo che odiarla è molto facile, soprattutto per un maschio, perchè “attiva” un archetipo primordiale dell’immaginario maschile – la donna che si promette e si nega, la femme fatal appunto. D’altra parte per lei quello è l’unico modo, o almeno così pensa, di sfuggire alla miseria, perchè nella sua condizione non c’è nient’altro che possa fare nella vita (o almeno così crede; non so se abbia ragione, non conosco bene la storia della condizione femminile di quel periodo e contesto).
Certo uno si può chiedere che differenza c’è tra una donna che cerca di farsi sposare dal miglior partito e una prostituta. Ma forse sono domande troppo facili per chi non si è mai trovato in quel bisogno in prima persona.
Di Burroughs non ho letto nient’altro, a questo punto leggerei volentieri Tarzan e magari un altro di John Carter, però non subito, lo lascio “maturare” un po’.
28 Maggio 2012 at 22:35
Diana Villiers: The best is yet to come… Credo… cioè intendo anche per me perché fin dove sono arrivato io la situazione è direi… beh lei… si sà, voglio dire… no? Comunque sì, povero Stephen. Poooovero Stephen…
A parte che con i tuoi ritmi di lettura mi surclasserai in men che non si dica e non potrò più fare il cretino millantando spoilers a casaccio…
E comunque stasera testina di maiale in salamoia! Buon Dio! Killick!! Killick!!!
29 Maggio 2012 at 14:12
Ortodossia è la continuazione di Eretici, non il contrario. 🙂
29 Maggio 2012 at 22:21
Maturin: povero Stephen sì… l’autore sta davvero trattando malissimo il personaggio. All’inizio del terzo libro… ma insomma!
Uomovivo: ops, hai ragione, grazie adesso correggo.
30 Maggio 2012 at 11:43
eheheheh, dall’alto delle mie frequenti riletture di tutti i ventun libri di ‘OBrian, trovo i vostri commenti deliziosi! Ah, non posso spoilerare, morte e dannazione, ma sappiate che sarà sempre meglio (almeno, diciamo, fino al diciotto-diciannovesimo). Per me ormai Maturin & Aubrey sono amici reali, li adoro entrambi e non riesco quasi più a pensare che non siano davvero esistiti… buona lettura 🙂
31 Maggio 2012 at 19:57
Francesca, un tolkieniano ti potrebbe rispondere che Maturin & Aubrey (come tutti i personaggi letterari scritti davvero bene) a loro modo “esistono” davvero 😉
31 Maggio 2012 at 23:50
Pratica e valida la classificazione in tre ‘stadi’ di un classico.
Hai letto anche le Lezioni americane di Calvino?
1 giugno 2012 at 19:59
Claudio, da tolkeniana (per quanto dilettante) non posso che essere d’accordo. A proposito di personaggi letterari scritti davvero bene, hai letto La Versione di Barney, vero? 🙂
2 giugno 2012 at 08:24
Cecilia, poi mi dirai a che stadio collochi DFW.
Ho letto poco Calvino, non conosco quelle Lezioni americane. Dovrei?
Francesca, certo che ho letto La versione di Barney! Personaggio larger than life. Capolavoro!
2 giugno 2012 at 10:59
Insomma, quando mi decido a leggere anch’io Barney?!
Claudio, scherzi? Non ho bisogno di pensarci su.
IJ è un classico al terzo stadio (che detto così pare terminale).
I perché meritano un post dedicato, se ci arrivo.
Le Lezioni, sì: dovresti conoscerle.
Penso di interesserebbero e darebbero forse anche materiale di riflessione e scrittura, a te poi aggiungere agli esempi di Calvino altri esempi da altri generi 😉
4 giugno 2012 at 01:25
ERB: no, non lo spiega, almeno nei primi 5-6 libri, quelli che ho letto. Quando lessi come si trasferiva su Marte, la prima cosa che mi venne in mente fu: “Agh, che cag***a”. Tarzan siamo lì.
La storia dei pulp (americano e perfino tedesco) è molto interessante e (per noi), sconosciuta. Carter si chiama così perché c’era un altro Carter famosissimo, prima di lui: Nick…
See also http://io9.com/5881773/why-does-edgar-rice-burroughs-still-matter
Devo proprio mettermi a legger O’Brian…
6 giugno 2012 at 16:43
Ray Bradbury 1920 – 2012. R.I.P.
6 giugno 2012 at 23:37
Berlicche: non so se continuerò la serie di Carter. Grazie per l’articolo.
O’ Brian molto consigliato.
Peraltro, ho appena finito di leggere il terzo libro e a caldo ho un solo commento possibile: DIANA VILLIERS DEVE MORIRE.
Ray Bradbury 😦
(beh aveva 92 anni, arrivarci)
8 giugno 2012 at 23:31
Bradbury: Il primo libro che ho comprato di SF in inglese era una sua antologia, “S is for Stars”.
13 giugno 2012 at 19:04
[…] fare una marchetta al kindle, però ci son cose che meritano di essere dette. Come raccontavo precedentemente, l’aggeggio mi ha spalancato le porte del mondo chestertoniano: 27 libri scaricati for free, in […]