Archivio dell'autore: ClaudioLXXXI

Libri febbraio 2013


World War Z, di Max Brooks.

Premessa: sono appassionato di storie di morti viventi e ne difendo la dignità culturale nei confronti di chi le squalifica come mero horror-pulp sensazionalistico.
Gli zombie mi piacciono (come argomento, non li terrei come animali domestici) perché li vedo come l’uomo postmoderno privato della sua retorica ed estremizzato nel concetto: un essere al di là del bene e del male, senza etica, senza razionalità, vittima dell’omologazione di massa eppure al tempo stesso profondamente solo e incapace di empatia, definito dai due impulsi  fondamentali che lo muovono: la vita eterna (nell’aldiquà, essendo l’aldilà scomparso dall’orizzonte concettuale) e la soddisfazione dei propri appetiti.
Posto quanto sopra, WWZ non poteva non piacermi al massimo grado. Si tratta di un libro EPICO, scritto da una massima autorità sull’argomento ovvero Max Brooks già autore del Manuale per sopravvivere agli zombie (da tenere nel comodino a portata di mano, metti caso serva). Io l’ho letto in inglese, perché in italiano non si trova, ma probabilmente lo ripubblicheranno a breve perché tra poco esce nelle sale il film tratto dal libro, di cui è già in circolazione il trailer. Considerato che il protagonista è Brad Pitt e che gli zombie in questo periodo tirano, probabilmente incasserà. Peraltro la pubblicità a me ha fatto alquanto ribrezzo, perché sembra la solita storia azioneazionefuggisparaesplodibumbumbum: o il trailer è infedele rispetto al film, oppure il film col libro c’entra poco e niente.
D’altra parte, mi rendo conto che non era così facile trasporre la storia in film (una serie sarebbe stata un format più adatto). Perché WWZ non è una semplice storia di morti che risorgono e mangiano i vivi. Tecnicamente non è neppure un romanzo. È proprio un’altra cosa, molto migliore.
La particolarità di WWZ è che avviene un mondo in cui c’è già stata la guerra contro gli zombie, e l’umanità ha vinto ed è sopravvissuta, seppure a malapena. L’autore intradiegetico del libro è un giornalista che viaggia per il mondo e intervista persone di tutti i tipi, di ogni continente e ceto sociale, facendosi raccontare quello che hanno vissuto e le cose che hanno fatto. È dunque palese la differenza rispetto alla classica zombie story, alla George A. Romero oppure The Walking Dead: lì il punto di vista è del singolo, qui invece è letteralmente globale.
WWZ è estremamente realistico dal punto di vista geopolitico. Sarebbe perfettamente degno di un numero speciale di Limes. Prende in considerazione una quantità immensa di fattori che nelle altre storie di zombie sono generalmente ignorati: la reazione dei mass-media e dei politici di fronte alle voci di apocalisse (negare sempre, anche l’evidenza, finché non è troppo tardi), le specifiche ragioni tecniche del fallimento delle normali tattiche militari di fronte a un nemico così radicalmente diverso (la battaglia di Yonkers), gli imprevedibili sconvolgimenti politici (Israele si chiude in quarantena e poi scoppia la guerra civile!), l’opportunismo di chi è contento dell’epidemia (Breckenridge “Breck” Scott e il suo vaccino-bufala Phalanx, del quale avevo già parlato qui), il tracollo psicologico collettivo di una società intera (i quisling, gli umani che si convincono di essere zombie), eccetera.
Dove invece WWZ rivela stretta continuità con il genere zombie è invece nella critica morale all’umanità, nel ritratto impietoso dei nostri simili: dalle interviste emerge un coro a 360° di vizi e virtù, eroismi, vigliaccherie, compromessi, dilemmi morali angoscianti. Pensate alla strategia attuata dai governi nazionali, il “Piano Redeker”: fondamentalmente consiste nel sacrificare volontariamente una parte della popolazione, usandola come diversivo e dandola letteralmente in pasto agli zombie, onde permettere al resto della nazione di emigrare verso zone sicure. L’ideatore di questa strategia di sopravvivenza dice che il genere umano per sopravvivere deve semplicemente rinunciare alla sua umanità, nel senso morale del termine. Cosa pensare di una simile scelta? Come giudicarla? Abbiamo il diritto di giudicarla? Ne abbiamo il dovere? La risposta è difficile, ma la domanda è inevitabile.

Altrimenti, se non abbiamo una morale, che differenza c’è tra noi e loro?

 

Missione sul Baltico, di Patrick O’ Brian.

il comandante del porto convocò il comandante Aubrey. «Mi rifiuto di credere, signore», disse, «che tranne uno tutti i vostri ufficiali discendano dalla regina Anna.» «Mi dispiace, signore, ma poiché la regina Anna è morta», rispose Jack, «la comune decenza m’impedisce di fare commenti.»

 Settimo libro della saga marinara (ma la definizione è riduttiva) di Aubrey & Maturin, e diretta continuazione e conclusione delle vicende raccontate nei due libri precedenti. E perbacco, che conclusione! Non lo scrivo perché uno spoiler sarebbe abominevole, ma si tratta di un evento che cambia radicalmente e irreversibilmente lo status di un certo personaggio.
Che ha finito di soffrire, forse… oppure, forse (e dico anche probabilmente), le sue più grandi sofferenze sono appena cominciate.

 

Le lettere di Babbo Natale, di John Ronald Reuel Tolkien.

Buffissime e tenerissime lettere dal Polo Nord, condite delle disastrose avventure di un Orso Polare pasticcione e degli auguri in Quenya degli elfi aiutanti, che Tolkien inventava per i suoi figli e faceva loro arrivare ogni Natale da parte di “Babbo Natale” – si badi bene, non Santa Claus, ma nel titolo originale “The Father Christmas Letters”.
Ora io non mi dilungo sui rapporti tra Santa Claus e Father Christmas, né su tutta l’annosa questione della valutazione “cattolica” di Babbo Natale, anche perché c’è già chi l’ha fatto molto bene; ma m’interessa far notare la posizione che implicitamente assume Tolkien nella vicenda, e che secondo me è strettamente legata alla sua concezione dello speciale rapporto tra paganesimo e cristianesimo: il primo rivalutato in positivo e visto non come opponente del secondo, ma come antecedente logico oltre che cronologico, veicolo di semina Verbi, propedeutico al messaggio cristiano.
Ecco allora che Babbo Natale, il quale ormai non è più il vecchio San Nicola bensì un personaggio ormai decristianizzato e paganeggiante, un mito per esprimere dei generici valori positivi di calore familiare, non viene da Tolkien semplicemente negato; viene piuttosto “ri-cristianizzato” nella figura di ­ Father Nicholas Christmas, che ha millenovecentoventi anni nel 1920 e ne ha millenovecentotrenta nel 1930 (cioè nasce con il cristianesimo) e che in un passaggio delle sue lettere accenna all’esistenza di suo padre… “Nonno Yule”.
Yule, capite?
Come sempre in Tolkien, una semplice parola basta per implicare concetti, epoche storiche, mondi lontani: il simbolo pagano che si fa da parte per far posto al simbolo cristiano, non già come Saturno che viene scalzato da Zeus, bensì come il padre che lascia serenamente in gestione al figlio “l’attività di famiglia” del portare regali all’umanità; il cristianesimo come successione del paganesimo, non per rigettarne in toto il passato, ma per ereditarne i contenuti positivi.

 Grazie, professore.

 

L’infanzia di Gesù, di Benedetto XVI.

Naturalmente ottimo, e fa venire voglia di rileggere tutto il trittico in successione continua. Anzi fa venir voglia di rileggersi tutta l’opera omnia dell’autore.

Anche perchè leggerlo proprio nel periodo contemporaneo all’evento storico che sappiamo, sapendo che non ce ne saranno altri, fa un certo effetto.

 

Dottor Futuro, di Philiph K. Dick.

Se non avessero limitato le nascite, adesso ci sarebbe una popolazione umana preziosa su Marte e Venere […] invece abbiamo una società calcificata che passa il tempo meditando sulla morte; che non ha progetti, non ha una meta, non ha nessun desiderio di crescita. Come la società egizia… la morte e la vita sono così strettamente collegate che il mondo è diventato un cimitero, e le persone nient’altro che custodi che vivono tra le ossa dei morti. In pratica, dentro di sé, si considerano premorti, non individui vivi. Così il loro grande retaggio è stato sprecato.

 Pubblicato nel 1960, eppure ancora una volta PKD si mostra straordinario profeta di quelle tendenze distruttive che oggi sono il nostro presente.
Jim Parsons è un medico che per ignoti motivi viene rapito dal suo presente (il 2012) e trasportato nel remoto futuro del 2405. Si ritrova così in una società caratterizzata da una profonda cultura di morte: il numero della popolazione è fisso, tutti sono sterilizzati e le fecondazioni avvengono solo per via artificiale, il governo decide di procedere ad una nuova nascita solo quando qualcuno è morto, e la morte è incoraggiata. L’omicidio è legale, il suicidio è lodato come un gesto di coscienza civica, mentre le cure mediche sono criminali e viste come un’indebita interferenza nelle leggi di natura. Quando la gente sta male, non va dal dottore, va dall’eutanasista: Parsons, per aver onorato il suo giuramento d’Ippocrate, passerà dei guai con la giustizia.
E così cominciano le allucinanti traversie spaziotemporali del Dottore, l’unico uomo al mondo rimasto a credere che la vita valga più della morte; l’unico uomo al mondo che può salvare la specie umana dall’estinzione.
Un PKD ingiustamente poco noto, da riscoprire, da farci un film, da far conoscere.


L’alieno/6

Continuo ad ospitare la storia della mia amica Sissi2002.

– 6 –

 Intanto si susseguono gli esami e le analisi per determinare “la stadiazione” della malattia. Tutto un insieme di vocaboli tecnici e raffinati per stabilire, in pratica, quanto sia temibile l’Alieno di cui sopra, di quante forze disponga e quale livello di contromisure occorra mettere in campo per combatterlo. Una escalation niente male, che farebbe la gioia di tanti strateghi della guerra, quelli che combattono stando seduti a tavolino, per intenderci, quelli che ipotizzano attacchi e rappresaglie calcolando statisticamente l’ammontare dei “danni collaterali”, e che mandano i poveri diavoli a morire mentre loro se ne stanno tranquilli, ben nutriti ed al sicuro nei loro bunker o nei loro palazzi blindati.
Devo precisare che questa mentalità “armiamoci e partite” non è assolutamente nella politica di Candiolo. C’è una grande competenza e professionalità, ma c’è soprattutto una grandissima umanità in tutto il personale che vi lavora, dal grande oncologo di fama all’inserviente che fa le pulizie, ai numerosi (e meravigliosi, grazie di cuore!) volontari che si offrono “solo” (si fa per dire) di tenere compagnia e di non far sentire troppo abbandonati i pazienti ed i degenti che non sono accompagnati da parenti o amici.

L’esame più importante è la “P.E.T.” (Positron Emission Tomography , tomografia a emissione di positroni), un’indagine total body effettuata attraverso la somministrazione di una sostanza fortemente radioattiva che ha il compito di stanare tutte le cellule tumorali che eventualmente fossero già in giro per l’organismo a cercare di far danno. In breve, si tratta di stabilire se l’Alieno ha già inviato  truppe a colonizzare altre regioni del pianeta: se così fosse la “stadiazione”, per ora ipotizzata ad un non catastrofico livello “III A”, potrebbe  precipitare al “IV A” o peggio ancora al “III B”. Mi rifiuto di chiedere o cercare chiarimenti su cosa diavolo mai significhino tutte queste lettere e numeri, ma una benintenzionata ed alquanto improvvida signora che accompagna il marito in terapia, e che è più agitata e spaventata di lui, si affretta a precisarmi che lo stadio IV A contempla una probabilità di sopravvivenza dopo cinque anni pari circa al 15%. Comincio a capire perché, fin dalla scuola elementare, ho sempre odiato cordialmente i numeri. Ennesimi prelievi e controlli. Mi sento quasi un puntaspilli. Meno male che ero donatore Avis e che gli aghi non mi fanno paura. Forse stanno riconsiderando, in termini moderni, le teorie medievali sul salasso come metodo di cura.
Poi, finalmente, l’esame.
Dopo la somministrazione via endovena, noi pazienti veniamo accuratamente isolati in una “camera calda” per circa un’ora, poi ci prelevano e ci portano a destinazione: un macchinario sul tipo di quello della risonanza magnetica. Come una sorta di sonda Pioneer che “percorre” tutta la superficie corporea alla ricerca degli avamposti nemici. Tanto per restare in tema fantascientifico, il personale che assiste alla procedura è vestito praticamente da astronauta, il che non appare incoraggiante.

Terminato l’esame, ci raccomandano vivamente di stare lontano da bambini e donne in gravidanza per circa dodici ore. Questo è un problema: io insegno al serale dove studenti e studentesse sono adulti, potrebbe esserci tra di loro qualche signora in attesa, e che magari non sa nemmeno ancora di esserlo. (Nota di Claudio LXXXI: oggi come oggi questo problema si verificherebbe anche in una scuola liceale!) Telefono a scuola: cosa fare? La preside mi consiglia di non recarmi al lavoro fino al giorno dopo. Tuttavia non possono neppure andare a casa, perché lì c’è Sissi, la mia gatta, che pesa come un neonato di poche settimane. Sono una paria. Vado in Facoltà, spiego la situazione al direttore e gli chiedo il permesso di andare a studiare in un’aula vuota. Le fatidiche dodici ore scadono alle 23:00, per fortuna l’università ha chiuso alle 21.30, posso tornare nel consesso sociale.

Mangio una pizza e finalmente rincaso. Mia madre è preoccupata, sia per l’esame in sé, sia per la pericolosità della sostanza utilizzata. Io, tutto sommato, sto bene, a parte la stanchezza ed un brutto mal di testa che, però, sta già diminuendo. Sissi dorme sulla poltrona: la prendo in braccio, la sollevo in alto ululando “Gatto denuclearizzato!!”. Mia madre mi guarda come se il tumore me lo avessero diagnosticato al cervello, ma se non altro le strappo un sorriso.

 (continua)


L’Osservatore Romano va(da) all’inferno!

Non dico tutta la redazione dell’OR, ma almeno la dott.ssa Sylvie Barnay. Perché, che ha fatto? Ha scritto l’articolo “Fuoco e fragore divennero buona novella”.
Il titolo sembra sibillino, ma poi si capisce, e fuoco e fragore vien voglia di emetterli a lettura conclusa.

Insomma la storia è che tale Marie Balmary, psicanalista, e tale Daniel Marguerat, teologo – peraltro protestante calvinista, dice wikipedia – scrivono un libro assieme (“Nous irons tous au paradis. Le Jugement dernier en question”). Bravi. Sul Giudizio finale. Bravi. Elogi sperticati da parte della dott.ssa Sylvie Barnay, storica. Brava. Ma che dice il libro di tanto bello per meritarsi l’applauso sul giornale del Vaticano?  Gli è che la psicanalista e il teologo, spiega  la storica, “cominciano chiedendo: «Perché preoccuparsi ancora per ciò che assomiglia a un rottame arrugginito?»”.
L’incipit è un po’ enigmatico, invero più metallurgico che psicanalitico-teologico-storiografico, ma pazienza: gli autori

ricordano fino a che punto noi continuiamo a essere un tutt’uno con le rappresentazioni medievali del Giudizio finale e con la loro «retorica del terrore». Questa visione della storia, in cui gli eletti vanno in paradiso e i dannati all’inferno, è stata propria di un’epoca dominata dalla paura. D’altro canto il Rinascimento ribatterà con tranquilla audacia al medioevo che l’uomo sarà salvato malgrado tutte le sue debolezze. Ma la prospettiva terrificante dei dannati che arrostiscono all’inferno continuerà ad assillare le coscienze secolarizzandosi persino nella letteratura fantastica del XXI secolo. È allora con tranquilla audacia che i nostri due compagni di cammino interrogano le scritture per ascoltare con noi la parola biblica.

Purtroppo il breve articolo non spiega dove arriva il cammino dei nostri due compagni, e come la loro tranquilla audacia (rinascimentale?) la metta a nome con la parola biblica: nella quale purtroppo – suppongo per colpa della tipica mentalità medievale di cui, com’è noto, erano intrisi gli ebrei veterotestamentari e gli evangelisti, per non parlare di quel Gesù ch’è medievale fatto e finito come nessuno mai – dell’inferno e di chi lo abita si parla come di un dato di fatto, che non si può nascondere sotto il tappeto, hai voglia di “interrogare” e “ascoltare” e via cianciando. O forse alla fine si scopre che il forcone di Belzebù è un simbolo fallico?

Poi uno dice il fumo nel tempio. Ma vedi tu se tocca leggere sull’Osservatore Romano, manco Jesus o Famiglia Cristiana, che l’inferno è una retorica del terrore e l’esito del giudizio finale è una “visione della storia”, ma don’t panic: ci salverà la tranquilla audacia del Rinascimento e degli psicoteologi francesi.

Auguro alla dott.ssa Sylvie Barnay, e a chi le ha approvato l’articolo in Vaticano, e a chi ha approvato l’approvazione, di andare all’inferno.
Mica per sempre, oh. La dannazione non si augura a nessuno, manco a Giuda. Intendo una semplice roba andata-e-ritorno, tipo Dante, o almeno una visione mistica, una rivelazioncina privata piccola piccola, un sogno incubatico rigorosamente non psicanalizzabile. Che siccome evidentemente “interrogare” la parola biblica – magari leggere perfino il vangelo, tipo pesco un paio di passi a caso Mt 18:8 o Lc 13:22, dove Gesù ha il cattivo gusto di fare della deplorevole medievale retorica del terrore – non è stato abbastanza, allora abbiate pietà, lassù in alto loco: mandategli qualcosa che gli dia la scossa a tutti quanti, gli metta addosso una strizza fottuta da pisciarsi addosso. E poi la voglio vedere la tranquilla audacia.
Perché di questo stiamo parlando: dell’inferno. Che esiste davvero, altro che rottame arrugginito, così è scritto nel Credo. E se qualcuno lì all’Osservatore Romano non ci crede, liberi di non crederci, ma allora ce lo dicessero chiaro e tondo.

Ultima osservazione. La dott.ssa Barnay conclude facendo una pippa così su com’è bella l’alleanza tra esegesi e psicanalisi, la fecondità del metodo transdisciplinare, la creazione di senso con il linguaggio (?), e lamentandosi perché l’approccio psicanalitico – “vivamente richiesto” dalla Pontificia Commissione Biblica del 1993 – è rimasto troppo spesso confinato nelle teorizzazioni degli esperti.
Mi unisco di cuore a tali cahiers de doléances. Vi prego, cari teologi pontifici e/o protestanti, dateci più approccio psicanalitico, ne abbiamo tanto bisogno. Possibilmente, ve ne prego, brematurato come se fosse antani, con scappellamento a destra a sinistra.


Parabola del Tempio edificando

Dall’introduzione de
La Russia e la Chiesa Universale,
di Vladimir Solov’ëv:

*

“Un grande architetto, partendo per un lungo viaggio, chiamò i suoi discepoli e disse loro:

«Voi sapete che io sono venuto per ricostruire il santuario principale del paese, distrutto da un terremoto. L’opera, ormai, è iniziata: ho tracciato il piano generale, il terreno è stato spianato e le fondamenta sono gettate. Voi mi sostituirete durante la mia assenza. Io tornerò senz’altro, ma non so dirvi quando. Lavorate dunque come se doveste compiere tutta l’opera senza di me. È il momento di mettere in pratica gli insegnamenti che vi ho impartito. Ho fiducia in voi e non starò ad imporvi tutti i particolari dell’opera. Badate soltanto di osservare le regole della nostra arte. Del resto, vi lascio le fondamenta incrollabili del Tempio, che io stesso ho gettato, e il piano generale che ho tracciato: il che vi basterà se sarete fedeli al vostro dovere.
E comunque non vi lascio soli: in ispirito e col pensiero sarò sempre con voi.»

 Poi li portò nel luogo dove sarebbe dovuta sorgere la nuova chiesa, mostrò loro le fondamenta e consegnò loro il piano.

Dopo la sua partenza, i discepoli lavorarono di comune accordo; e circa un terzo dell’edificio fu ben presto costruito. Tuttavia, dato che l’opera era molto grande ed estremamente complicata, i primi compagni non furono sufficienti e se ne dovettero ammettere di nuovi. Non passò così molto tempo che tra i principali capi dei lavori sorse una grave contesa.
Ci fu chi pretese che delle due cose lasciate in eredità dal maestro assente – le fondamenta dell’edificio e il piano generale – solo quest’ultimo fosse veramente importante e vincolante, mentre nulla impediva di abbandonare le fondamenta già poste e costruire in altro luogo. Contestati energicamente dal resto dei loro colleghi, costoro, nel calore della disputa, arrivarono sino ad affermare (in contrasto con il loro stesso sentire, più volte apertamente espresso) che il maestro non aveva mai posto né indicato le fondamenta del Tempio; e che questa non era che un’invenzione dei loro avversari.
Tra questi ultimi, poi, ve ne furono molti che, a forza di difendere l’importanza delle fondamenta, caddero nell’estremo opposto ed affermarono che l’unica cosa veramente seria fosse la base dell’edificio posta dal maestro: così che il loro compito specifico consisteva unicamente nel conservare, riparare e consolidare la parte già esistente dell’edificio, senza preoccuparsi di portarlo a termine, perché – dicevano – il compimento dell’opera spetterà esclusivamente al maestro stesso quando sarà ritornato.

Gli estremi si toccano e i due opposti si trovarono ben presto d’accordo su un punto: che non si doveva portare a termine l’edificio.
E però, il partito che aspirava a conservare in buono stato le fondamenta e la navata incompiuta si consacrava, a tale scopo, a molti lavori secondari e vi dispiegava un’energia indefessa, mentre il partito che credeva di poter fare a meno dell’unica base del Tempio, dopo essersi vanamente sforzato di costruire su un’altra area, dichiarò che non si doveva fare assolutamente nulla: secondo questi ultimi, nell’arte dell’architettura l’essenziale era la teoria, la contemplazione dei suoi modelli e la meditazione delle sue regole e non invece l’esecuzione di un piano preciso; e se il maestro aveva lasciato loro il proprio piano del Tempio, non lo aveva certo fatto per farli lavorare in comune alla sua costruzione reale, ma soltanto perché ciascuno di loro, studiando questo piano perfetto, potesse diventare lui stesso un buon architetto. E a questo proposito, i più zelanti di questo gruppo consacrarono la loro vita a meditare sul progetto del Tempio ideale, ad imparare ed a recitare a memoria ogni giorno le spiegazioni di questo progetto che alcuni loro vecchi compagni avevano fatto sulla base delle parole del maestro. Ma la maggioranza si accontentava di pensare al Tempio un giorno alla settimana, riservando tutto il resto del tempo ai propri affari.
Tra questi operai separatisti, però, ve ne furono alcuni che, studiando il piano del maestro e le sue spiegazioni autentiche, vi ravvisarono delle indicazioni precise, dalle quali risultava che la base del Tempio era stata effettivamente posta e non poteva essere più cambiata; costoro si imbatterono tra l’altro in queste parole del grande architetto:

«Ecco le fondamenta incrollabili che io stesso ho posto; è su di loro che si deve edificare il mio Tempio se si vuole che esso possa resistere in eterno ai terremoti ed a qualsiasi flagello.»

 Colpiti da queste parole, i buoni operai risolsero di rinunciare al loro separatismo e di unirsi immediatamente a coloro che avevano custodito le fondamenta per partecipare alla loro opera di conservazione.
Ci fu però un operaio che disse:
«Riconosciamo i nostri torti, rendiamo tutta la giustizia e tutti gli onori dovuti ai nostri antichi compagni, riuniamoci con loro attorno al grande edificio soltanto iniziato, che noi abbiamo vilmente abbandonato e che essi hanno avuto il merito impagabile di aver custodito e conservato in buono stato. Ma innanzitutto bisogna essere fedeli al pensiero del maestro. Ora il maestro non ha posto queste fondamenta perché non vi si mettesse mano, ma perché il suo Tempio fosse costruito su di esse. Dobbiamo dunque riunirci tutti per innalzare sulle fondamenta che ci sono state offerte l’edificio in tutta la sua interezza. Se avremo o meno il tempo sufficiente per terminarlo prima del ritorno del maestro, è un altro problema che lui stesso non ha voluto risolvere. Egli però ci ha espressamente comandato di lavorare per far avanzare la sua opera ed ha anzi aggiunto che noi faremo più di lui.»
L’esortazione di questo operaio parve strana alla maggior parte dei suoi compagni. Alcuni lo definirono un utopista, altri lo accusarono di orgoglio e presunzione.

Ma la voce della coscienza gli diceva chiaramente che il maestro assente era con lui in ispirito e verità.”


L’alieno / 5

Continuo ad ospitare la storia della mia amica Sissi2002.

 – 5 –

 Ho deciso di adottare delle strategie di comportamento tutte mie. Innanzitutto non me lo sogno nemmeno di andare a rovistare su Internet alla ricerca di notizie inerenti alla mia malattia, alle percentuali di guarigione e di decesso, alle terapie più o meno miracolose come quella basata sull’aloe vera o sugli intrugli di erbe elaborati da un dottore messicano dal cognome impronunciabile.  Ho parlato con i famigliari più stretti e con gli amici più importanti, cercando di “attutire” il colpo mostrandomi, io per prima, molto serena e tranquilla.
Il bello è che non sto fingendo per evitare ai miei cari un dispiacere in più: io mi sento in effetti molto calma. Prima o poi dovrò pur chiedermi da dove mai arriva questa serenità di spirito: per adesso mi limito a stare in guardia perché temo che, prima o poi, e magari proprio nel momento meno opportuno, ci sarà la crisi, crollerà l’argine.
La mia è davvero serenità, oppure la mia mente sta deliberatamente aggirando l’ostacolo, sta rifiutandosi di accettare la realtà, sta tentando di rimuoverla?

La risposta arriva non molti giorni dopo. Il TG dell’ora di pranzo dà in apertura la notizia della morte improvvisa di Lucio Dalla. A parte il forte dispiacere per la scomparsa di un artista che ammiravo molto, mi colpiscono in modo particolare le parole di una collega a scuola (la quale ignora la mia situazione). Parlando di Dalla e della sua scomparsa prematura e del tutto inaspettata, lei commenta: “Se non altro, povero Lucio, non ha sofferto, non ha dovuto combattere magari per molto tempo contro la malattia”.
Eh, no.
Mi rendo conto improvvisamente che non condivido più quello che era sempre stato un mio punto di vista abbastanza fermo: meglio una morte improvvisa, meglio evitare la sofferenza; dato che prima o poi tocca a tutti, speriamo che quando toccherà a me sarà in un attimo, che non me ne renderò nemmeno conto. Lo pensavo, in perfetta buona fede, fino a ieri. Adesso non più. Adesso che il pensiero della morte non è più un concetto astratto, un qualcosa di cui si dice che prima o poi arriva per tutti, ma naturalmente augurandosi un “poi” che sia il più lontano possibile, mi rendo conto che non è vero.  Io ho sentito nettamente suonare la campanella dell’ultimo giro: c’è ancora tempo per fare ordine, per raccogliere i pensieri, per formulare dei bilanci, per “prepararsi”, come si diceva una volta.

Non so quanto mi resta. Sei mesi? Due anni, come recita burocraticamente il foglio di esenzione dal ticket per “patologia grave”? Cinque anni, se vogliamo fidarci delle statistiche? Forse di più, in caso di guarigione, o forse di meno, se domani finisco investita da un automobilista più o meno ubriaco? Comunque sia, mi è stata data l’opportunità di trascorrere un po’ di tempo nella consapevolezza che la morte non è solo un concetto teorico, un tema filosofico o la chiusura di un ciclo biologico: è una certezza assoluta, un evento del tutto individuale ed ineludibile.
Questa consapevolezza comincia col fare i conti con la mia fragilissima fede, con la mia debolezza, con quel Dio che troppo spesso mi è apparso come indifferente e lontano, quando ero solo io ad essere muta e sorda.

(continua)


L’uomo che uccise il mondo

un ateo molto leale con cui mi trovai a discutere fece uso di questa espressione: ‘Gli uomini sono stati tenuti in schiavitù per paura dell’inferno’. Gli ho fatto osservare che se avesse detto che gli uomini erano stati affrancati dalla schiavitù per paura dell’inferno, avrebbe almeno fatto riferimento a un inoppugnabile fatto storico.

Gilbert Keith Chesterton

World War Z.
C-A-P-O-L-A-V-O-R-O A-S-S-O-L-U-T-O.
L’apocalisse zombie come non l’avete mai conosciuta.
Ma prima di parlare di Breckenridge “Breck” Scott e del Phalanx, è d’uopo una premessa.

 

Non riesco purtroppo a ritrovare un articolo che ho letto molto tempo fa, e che non ho avuto l’accortezza di conservare, in cui si riassumeva un concetto esposto da (mi pare) Hannah Arendt nel suo La banalità del male: l’ateismo come oppiaceo della coscienza individuale.
Di fronte alla concezione marxista della religione come anestetico che trattiene il proletariato dalla sollevazione di massa contro le catene del padrone, la Arendt oppone che il nazismo ha potuto quel che ha potuto proprio in virtù dell’idea contraria: la consolazione infusa al singolo che nessun Giudizio lo avrebbe mai giudicato, nessun inferno lo avrebbe mai retribuito, dunque non c’era limite a ciò che egli poteva fare. L’orrore diventa normale quotidiano, il male è banale. Così si avvera il teorema di Dostoevksij per cui “se Dio non esiste, tutto è lecito”.
Viene alla mente quel che dice Saint-Savin, personaggio del romanzo L’isola del giorno prima di Umberto Eco, un ateo molto simpatico:

Ma non mi guardate come se non avessi sani princìpi e non fossi un fedele servitore del mio re. Un vero filosofo non chiede affatto di sovvertire l’ordine delle cose. Lo accetta. Chiede solo che gli si lascino coltivare i pensieri che consolano un animo forte. Per gli altri, fortuna che ci siano e papi e vescovi a trattener le folle dalla rivolta e dal delitto. L’ordine dello stato esige una uniformità della condotta, la religione è necessaria al popolo e il saggio deve sacrificare parte della sua indipendenza affinché la società si mantenga ferma. Quanto a me, credo di essere un uomo probo: sono fedele agli amici, non mento se non quando faccio una dichiarazione d’amore, amo il sapere e faccio, a quanto dicono, buoni versi.

 Su cosa si basano questi sani princìpi e quest’auto-definizione di probità, non è spiegato: presumibilmente la personale coscienza filosofica del personaggio e le convenzioni sociali, e su cosa esse sono fondate a propria volta, non si sa. Ma comunque Saint-Savin vive e pensa nel 1600, il suo ateismo è ancora del singolo e per il singolo, ed è controbilanciato da una ferrea morale individuale e dalla fedeltà al re. Cosa succede una volta venuta meno la prima e corrotta la seconda? La risposta a questa domanda è proprio quella data da Hannah Arendt e Dostoevskij.
Mi azzardo ad affermare storicamente, senza averne le competenze e dunque aperto a confutazioni documentate, che è proprio fino al ‘600 che non si ha notizia nella storia dell’umanità di una società complessa – il mito del buon selvaggio meriterebbe un discorso a parte – che abbia abbracciato l’ateismo collettivo e sia sopravvissuta nel lungo termine. È invece nel ‘700 (preceduto beninteso da una lunga gestazione sotterranea) che gli intellettuali cominciano a sognare in massa ed esplicitamente la scristianizzazione totale (la patina di teismo o deismo, la verniciatura di diritto naturale razionalista, si scrosta molto presto) ed è lì che comincia il cammino che porta al pensiero dominante contemporaneo: Dio non esiste, verità e giustizia sono scatole vuote da riempire volta per volta, tutto è lecito o liceizzabile a piacere, non c’è peccato né giudizio.
Su questi presupposti, quanto può durare?

 

Fine della premessa e torno a parlare di World War Z.
Si tratta di un libro epico, scritto da una massima autorità sull’argomento ovvero Max Brooks già autore del Manuale per sopravvivere agli zombie (da tenere nel comodino a portata di mano, metti caso serva). Io l’ho letto in inglese, perché in italiano non è ancora uscito, perciò le prossime citazioni sono mie traduzioni alla buona. Potreste averne già sentito parlare perché tra due mesi esce il film tratto dal libro, di cui è già in circolazione il trailer. Considerato che il protagonista è Brad Pitt e che gli zombie in questo periodo tirano, probabilmente incasserà. Peraltro la pubblicità a me ha fatto ribrezzo, perché sembra la solita storia azioneazionefuggisparaesplodibumbumbum: o il trailer è infedele rispetto al film, oppure il film col libro c’entra ben poco. D’altra parte, mi rendo conto che non era così facile trasporre la storia in film (una serie sarebbe stata un format più adatto, ma ormai questo c’abbiamo e ci accontentiamo, pazienza).
Perché WWZ non è una semplice storia di morti che risorgono e mangiano i vivi. Tecnicamente non è neppure un romanzo. È proprio un’altra cosa – molto migliore.
La particolarità di WWZ è che avviene un mondo in cui c’è già stata la guerra contro gli zombie, e l’umanità ha vinto, seppure a malapena. L’autore intradiegetico del libro è un giornalista che viaggia per il mondo e intervista persone di tutti i tipi, di ogni continente e ceto sociale, facendosi raccontare quello che hanno vissuto e le cose che hanno fatto. La differenza rispetto alla classica zombie story, alla George A. Romero oppure The Walking Dead per intenderci, è palese: lì il punto di vista è del singolo, qui è letteralmente globale. WWZ è estremamente realistico dal punto di vista geopolitico e considera una miriade di fattori che di solito nelle altre storie di zombie sono ignorati: la reazione di mass-media e politici di fronte alle voci di apocalisse (negare sempre, anche l’evidenza, finchè non è troppo tardi), le ragioni tecniche del fallimento delle normali tattiche militari di fronte a un nemico così radicalmente diverso (la battaglia di Yonkers), gli imprevedibili sconvolgimenti politici (Israele si chiude in quarantena e poi scoppia la guerra civile!).
Vorrei citare ogni intervista che mi ha entusiasmato, ma non posso. Sono troppe, praticamente tutte. È stato il libro più bello che abbia letto da un paio d’anni a questa parte (parliamo di un numero a tre cifre). Mi limito allora a quella che mi ha colpito di più, quella che mi ha fatto venire in mente, per motivi che saranno chiari alla fine, le considerazioni che ho riportato all’inizio di questo post.

Breckenridge “Breck” Scott, quel grandissimo stronzo.
Se v’interessa e capite l’inglese, l’intervista è riassunta sulla pagina di Zombiepedia, la wikipedia sugli zombie (sì, esiste davvero), dedicata al Phalanx.
Il Phalanx è un falso vaccino che Scott ha messo in circolazione sul mercato mondiale nella fase iniziale dell’epidemia, quando la gente non voleva credere che si trattasse davvero di zombie. Era meglio pensare che fosse una nuova forma di rabbia africana, più “scientifico”, più accettabile. Le alte sfere politiche, i poteri economici invece sì, sapevano che si trattava davvero di zombie, ma non volevano dirlo per non seminare il panico, perché il panico avrebbe distrutto ancora di più la fragile fiducia dei consumatori e avrebbe ripiombato il mondo in un’altra crisi finanziaria. E tutti quei grandi e blasonati giornali, i cui azionisti incidentalmente erano quegli stessi gruppi economici e politici che non volevano il panico, semplicemente guardavano da un’altra parte: a parlare di zombie erano solo le fonti non ufficiali su internet e social network, ovviamente facili da screditare.
Scott nella sua intervista ci tiene a puntualizzare che “tecnicamente” lui non ha imbrogliato nessuno, perché infatti il Phalanx previene davvero alcuni tipi di rabbia. Ha solo omesso di dire ai consumatori che il suo vaccino era inutile, perché non si trattava di rabbia ma di un’altra cosa, ma “tecnicamente” (lo dice ridendo) non ha mai mentito. Non solo, ma insiste sarcasticamente sulle conseguenze positive della sua truffa:
A causa del Phalanx, il settore biomedico ha cominciato a risalire, questo come conseguenza ha risollevato il mercato azionario, questo ha dato l’impressione di una ripresa, questo poi ha restaurato abbastanza fiducia nei consumatori per stimolare effettivamente la ripresa! Il Phalanx ha interrotto la recessione mondiale… IO ho interrotto la recessione mondiale!
Bravo.
Certo, poi sono morti tutti, ma che ti frega.

Disgraziatamente, il danno provocato dal Phalanx è stato amplificato da ­un altro fattore in gioco: i “quisling”, una delle migliori invenzioni di Max Brooks.
La parola deriva da Vidkun Quisling, politico norvegese che tradì il suo paese e collaborò con i nazisti, il cui nome è passato alla storia come sinonimo di traditore, come dire un giuda. Si tratta di una psicopatologia di massa che si è diffusa ad ampio raggio nella popolazione, anche se sfortunatamente è stata diagnosticata molto in ritardo, e consiste nel fatto che gli umani che ne sono colpiti si convincono di essere zombie. Agiscono come zombie, camminano come zombie, mordono come zombie, possono addirittura essere più pericolosi dei veri zombie. La spiegazione che è stata elaborata per questo fenomeno consiste in una specie di versione evoluta della Sindrome di Stoccolma:
c’è un tipo di gente che non accetta una  situazione lotta-o-muori. Sono attratti da ciò che temono. Invece di resistergli cercano di fare compromessi, compiacerlo, assomigliargli. Ci sono sempre stati collaborazionisti in tutte le guerre, pronti a saltare sul carro dei vincitori… Ma questo non poteva essere fatto in questa guerra, perché gli zombie sono diversi. Non puoi avvicinarti a uno zombie sventolando bandiera bianca e dicendo non uccidetemi, sono dalla vostra parte. Non c’è una zona grigia, nessun compromesso possibile. Ecco, alcune persone semplicemente non riuscivano ad accettare una situazione così drastica. Era troppo. Questo le ha fatte impazzire.
Ora, provate a immaginare la seguente situazione. Un uomo che si è vaccinato con l’inutile Phalanx viene morso da un quisling, quando ancora non si sa che esistono i quisling. Il quisling viene subito abbattuto, nessuno nota la differenza con un vero zombie. L’uomo che è stato morso sopravvive. Cosa devono pensare lui e quelli che gli stanno accanto? Che il Phalanx funziona, ovvio. Si sparge la voce che IL VACCINO FUNZIONA DAVVERO. Siamo al sicuro. Cerchiamo di non farci divorare, ma se si tratta di un solo morso, pazienza, siamo vaccinati.
Allora, situazione n. 2. Un uomo che ha assunto il Phalanx viene morso da uno zombie. È condannato ineluttabilmente a trasformarsi, ma non lo sa, anzi crede di essere salvo. Così quell’uomo torna da dove è venuto – base militare, cittadella fortificata, qualunque cosa – e dopo pochi giorni quel posto non esiste più perché è stato distrutto DALL’INTERNO.
Situazioni come questa succedono a centinaia. A migliaia.
Non è facile calcolare quante persone sono morte nella guerra contro gli zombie, ma siamo sicuramente nell’ordine dei miliardi di persone. Probabilmente metà del genere umano, diciamo grossomodo 3.000.000.000 di morti, ma probabilmente anche quattro o cinque. Un numero così grande da diventare astratto, privo di significato.

 Sarebbe esagerato dire che la responsabilità di tutti questi morti sia colpa di Breckenridge “Breck” Scott. Ci sono molte altre responsabilità, come abbiamo visto. Ma lui colpisce particolarmente per il modo con cui affronta la tragedia mondiale.
Ride.
Comprensibilmente, alla fine della guerra Scott è l’uomo più odiato del mondo. Ma non se ne cura. Non ha sofferto, lui. Con il suo falso vaccino ha fatto una quantità enorme di soldi, e al momento giusto ha tagliato la corda: si è rifugiato in Antartide, nella Base Vostok, il luogo più remoto della terra, dove gli zombie non possono arrivare (col freddo intenso l’acqua del loro corpo ghiaccia e sono immobilizzati) e dove vive come un pascià. Compra le cose che gli servono dal governo russo, che non si fa scrupoli ad accettare i suoi milioni di dollari sporchi di sangue (incidentalmente, la Russia è diventata una teocrazia). È qui che lo intervista l’autore di WWZ, e per tutta l’intervista Scott scherza, si sganascia dalle risate, si diverte alle spalle di quelli che sono morti. Non mostra il minimo rimorso. Sembra essere divertito dal concetto stesso di rimorso.
Non riesco a descrivere l’impressione di viscido che mi hanno fatto le sue parole. Dovete leggere per credere. Max Brooks è uno scrittore con gli attributi.
L’ultima domanda dell’intervista è

D. lei non assume nessuna personale responsabilità [per tutti questi morti]?

La risposta merita di essere considerata attentamente.

“R. Per cosa? per aver fatto un po’ di fottuti soldi?… beh, non proprio un po’ [ride]. Tutto quello che ho fatto era quello che si suppone voglia fare chiunque. Ho inseguito il mio sogno, mi sono preso il mio pezzo di torta. […] Non ho mai ferito direttamente nessuno, e se qualcuno è stato così stupido da farsi male da solo, boo-fuckin-hoo – [NdT credo che si possa approssimativamente tradurre con “e chi se ne fotte ha-ha”]
Certo… se c’è un inferno… [ride mentre parla] non voglio pensare a quanti di quei coglioni potrebbero stare ad aspettarmi. Spero solo che non vogliano un rimborso.”


Libri gennaio 2013

Recuperando velocemente i passati mesi di letture:


Lo Hobbit, di J.R.R. Tolkien, con annotazioni di Douglas Anderson.

 Ri-ri-riletto ad anni di distanza, subito dopo esser tornato dal cinema, e amato come la prima volta (e la seconda e la terza).
Il film  è molto fedele, tranne che per alcune aggiunte narrative che tolgono ritmo all’insieme (cose che capitano quando ti dicono a metà produzione che devi fare 3 film invece di 2 e ti tocca raschiare il fondo del barile delle scene che ti eri riservato per la extended version) nonchè per la caratterizzazione di Thorin Scudodiquercia (che nel libro partecipa della comicità dei nani mentre nel film se ne distacca per diventare un personaggio eroico e tragico); ed è molto bello, motivo per cui aspetto il prossimo film onde poi poter ri-ri-ri-rileggere il libro.
Grazie JRRT.

 

La città dei libri sognanti, di Walter Moers.

Come fu che Ildefonso De’ Sventramitis giunse per la prima volta a Librandia, la città dei libri, e quel che vi trovò di sopra e di sotto.
Come avevo già detto, trattasi di un libro BELLISSIMO, cosa che acuisce la delusione per la mediocrità del seguito ma intanto fa sì che il libro, in quanto singolo libro, sia consigliabilissimo a tutti coloro che amano i libri.
Ripeto: se amate i libri, questo dovete leggerlo. Ci troverete libri, libri e libri; libri viventi, libri volanti, libri perigliosi, libri trappola, libri fantasma; e poi scrittori di libri, venditori di libri, nasconditori di libri, cacciatori di libri, ciclopi librovori cioè mangiatori di libri (insomma), e non ricorso quanti altri -ori di libri ancora.
Tutto ciò che può concepibilmente avere a che fare con un libro, e molto di ciò che non può ma lo ha comunque, è qui. In questo libro.

 

American Dust, di Richard Brautigan.

 Il titolo originale era So the Wind Won’t Blow It All Away, ma forse l’editore ha deciso che era troppo difficile da leggere e però voleva comunque pubblicare un titolo inglese perché italiano fa troppo provinciale che non si può trattare così un Autore colonna della Controcultura Hippy, così è andato a pescare l’altra metà della frase che apre ogni capitolo del libro:

so the wind won’t blow it all away… Dust… American… Dust.

 Non precisamente allegro, ma di allegro c’è ben poco in questo viaggio nella coscienza di un adolescente americano, non tanto a posto con la testa, controfigura dell’autore, segnato da un evento tragico in cui sono implicati sangue e proiettili, di cui si porterà la responsabilità per tutta la vita, e attorno a cui ruota tutto il libro in un continuo andirivieni cronologico.
Non sono stato sorpreso più di tanto nello scoprire che Brautigan, due anni dopo la pubblicazione di questo libro così malinconico e depresso-deprimente, s’è fatto saltare le cervella.
Requiescat in æternum.

 

Il suicidio della rivoluzione, di Augusto del Noce.

 Dovevo saperlo che era troppo bello per essere vero: il famoso libro di Del Noce, contenente la sua famosa profezia all’epoca derisa e poi puntualmente realizzata sulla futura dissoluzione del marxismo, in vendita a soli 3 euro in edicola, nella collana “Laicicattolici – I maestri del pensiero democratico” del Corriere della sera (quanti bei nomi, eh?).
Era troppo bello.
E infatti non era vero: quest’agile volumetto di 168 pagine NON è il vero libro Il suicidio della rivoluzione (che di pagine, nell’edizione in brossura della Rusconi, ho scoperto poi contarne 368) ma bensì una collazione di capitoletti presi da Scritti politici 1930-1950 (edito da Rubbattino) e un solo capitolo tratto dal libro di cui porta il nome, cioè il capitolo su Gramsci.
Il che è bello ed istruttivo, per dirla guareschianamente.
Dopodiché, pazienza: anche incompleto e parte di un tutto, il capitolo di Del Noce su Gramsci (e su Gentile, e Benedetto Croce, e la stupidità dei cattolici che si sono fatti mettere nel sacco dalla strategia gramsciana fino a individuare il vero avversario non già nel comunismo ma bensì “nel vecchio cattolicesimo preconciliare, come se il Concilio avesse significato l’estensione della rivoluzione alla Chiesa, e l’universalità della Chiesa dovesse venire interpretata come permeabilità a tutte le rivoluzioni che hanno avuto successo”) vale comunque i 3 €, altroché.
Però, potevano dirmelo prima.

 

Dio – le domande dell’uomo, di Andrè Frossard.

Il cristianesimo è la religione della ragione. Si distingue dal razionalismo perché non si tappa le orecchie quando la ragione dice «Dio».

Fantastico questo libro, scritto da un famoso ed eccellente convertito, di godibilissima e facilissima lettura. Si tratta delle risposte date da Frossard a più di duemila domande ricevute da studenti dell’ultimo anno di scuola superiore.
La particolarità di Frossard è che segue una metodologia espositiva che sarei tentato di definire “tomista”. Voglio dire che, come faceva San Tommaso nella Summa, prima espone le obiezioni a lui portate, e poi espone le ragioni per cui tali obiezioni sono sbagliate.
(N.B. questa metodologia è anche il motivo per cui è pieno così di ignoranti che attribuiscono a San Tommaso idee da egli esplicitamente confutate, ma le dimensioni del libro di Frossard sono ben più esigue della Summa ed egli non corre questo rischio)
Così l’autore spiega brevemente ed efficacemente i perché di tante cose, con una capacità di sintesi e un’ironia che – esagero? – lo pongono a livelli degni di un Chesterton:

Il consiglio di Pascal (siate stupidi) era rivolto a gente che non aveva bisogno di ascoltarlo per metterlo in pratica.

Cartesio temeva effettivamente di annoiarsi a contemplare Dio per diecimila anni. Mai ha avuto l’idea chiara e distinta che Dio potrebbe annoiarsi molto prima a contemplare Cartesio.

Come non amarlo?


I dodici segni dello zodiaco + Sei problemi per don Isidro Parodi,
di Jorge Luis Borges & Adolfo Bioy Casa
res.

 Trattasi di due libri da poco prezzo, ordinati su Amazon perché avevo voglia di leggere qualcos’altro di Borges e perché, appunto, costavano poco. Così ho scoperto solo quando mi sono arrivati che i racconti del primo libro sono già contenuti nei sei del secondo, ergo potevo fare a meno di comprarlo. Pazienza.
A parte questo, impossibile lamentarsi: puro Borges, godibilissimo.Ma chi è Don Isidro Parodi?

il macellaio Agustìn R. Bonorino, che aveva partecipato al carnevale di Belgrano vestito da calabrese, ricevette una bottigliata mortale alla tempia. Nessuno ignorava che la bottiglia di Bilz che lo aveva ucciso era stata lanciata da uno dei ragazzi della banda Pata Santa. Ma poiché Pata Santa era un prezioso elemento elettorale, la polizia decise che il colpevole fosse Isidro Parodi, che alcuni affermavano fosse anarchico, volendo dire in realtà che si trattava di uno spiritista. Di fatto, Isidro Parodi non era né una cosa né l’altra: era padrone di un negozio di barbiere nel quartiere sud e aveva commesso l’imprudenza di affittare una camera a uno scrivano dell’8° Commissariato, il quale gli doveva ormai più di un anno di affitto. Quest’insieme di circostanze avverse segnò il destino di Parodi: le dichiarazioni dei testimoni (che appartenevano alla banda di Pata Santa) furono unanimi: il giudice lo condannò a ventun anni di reclusione.

 Naturalmente, sappiamo bene che queste cose succedono solo nei libri e nelle cose di fantasia, e che nel mondo reale gli organi inquirenti e requirenti sono sempre mossi soltanto dal più puro amore di giustizia.
E così Isidro Parodi, senza mai muoversi dal suo loculo, passa i suoi anni di galera a risolve enigmi polizieschi: la gente va a trovarlo in carcere e gli espone i propri problemi con la giustizia, e l’insolito detective li ascolta, ricostruisce la verità e indica il vero colpevole. Dalla sua cella passano personaggi stravaganti e sopra le righe, come il playboy Gerardino Montenegro o lo scrittorucolo Carlos Anglada, altrettante parodie di tipi esistenziali dell’ambiente “bene” di Buenos Aires, quello stesso ambiente che Borges e Bioy Casares satireggiano con grande piacere loro e dei lettori, muovendo i racconti su tre diversi livelli (struttura gialla, satira sociale e virtuosismo letterario) in un mix eccellente e divertentissimo.

 

Io sono febbraio – storia dell’inverno che non voleva finire mai, di Shane Jones.

 Vabè che avevo pagato solo € 1,99 per l’ebook di questa fiaba mal scritta, senza né capo né coda, di incerta trama e ancor più incerto significato, ma sono comunque 1,99 € che rimpiango. Almeno era breve e non ci ho perso molto tempo.

 

 

 Veritatis splendor, di Giovanni Paolo II.

La legge morale naturale è la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale.

 Ecco, se solo questa fosse l’unica cosa che avessi capito leggendo l’enciclica, già sarei molto contento. Per fortuna, ho capito anche qualcos’altro. Non abbastanza, però, motivo per cui dovrò rileggere.


Guidare col TomTom nel giardino dei sentieri che si biforcano

Da leggere e assaporare l’articolo di Diego Gabutti su Italia Oggi. Prendendo le mosse da un libro mezzo saggio storico e mezzo gioco ucronico (“La storia con i se. Dieci casi che potevano cambiare il corso del Novecento”) Gabutti sfotte di gusto Hegel, Benedetto Croce, lo storicismo e l’arroganza degli storicisti: cioè quella legione di pensatori tanto sicuri che la Storia è destinata ad andare proprio così e giammai cosà, perché le magnifiche sorti e il sol dell’avvenire e il progresso, signora mia, il progresso.
Lo leggo con piacere, approvo al 99% pressappoco, ma c’è un punto percentuale che mi stona: nel mazzo degli storicisti Gabutti – di cui ignoro la fede, e non capisco se un omonimo o il medesimo delle Altre ipotesi su Gesù (a naso direi il medesimo, lo stile di scrittura combacia) – ci butta dentro pure “le religioni, cristianesimo in testa” perché per esse la storia è “un treno in corsa verso le consolazioni e i castighi dell’aldilà”.

 Ma caro Gabutti, l’aldilà non è nella storia, è per definizione dall’altra parte! Rispetto alla storia è il post scriptum, il dopo i titoli di coda. L’aldilà arriva quando la storia è finita. Della fine della storia, al netto della simbologia apocalittica, sappiamo più meno che più: né il giorno né l’ora, né il come né il percome, appena il chi (tutti quanti) e il perché (entropia, se non altro). E su quello che ci sarà prima della fine, poi, un bel boh a forma di punto interrogativo. Di certo e sicuro c’è ben poco, solo che la Chiesa resisterà fino alla fine, per quanto – chiedendo Gesù retoricamente se troverà ancora la fede – sarà, probabilmente, ridotta al lumicino.
Proprio perché l’hegelismo e i suoi derivati, marxismo in testa, sono una religione rovesciata dove l’Uomo pretende di farsi dio, è lo storicismo ad essere la caricatura della provvidenza e non viceversa. La Provvidenza, quella vera, non è la Psicostoria di Asimov, dove un’equazione matematica determina quasi infallibilmente (evviva il Mulo!) il futuro di tutto quanto il fantastiliardo d’esseri umani della Galassia.
La volontà onnipotente di Dio deve arrangiarsi a fare i conti con il nostro libero arbitrio, e a chi dice che questa non è onnipotenza, rispondo che Dio è così onnipotente che può addirittura autolimitarsi: l’ha deciso, poteva farlo, l’ha fatto.

La Provvidenza è come un TomTom.
Tu guidi la tua vita e quella guida te, ha già mappato ogni percorso, tutto l’infinito dei compossibili, ogni assurdo universo, e ti vuole portare a destinazione nel miglior tragitto possibile. Poca benzina, minimo tempo, microscopica usura del mezzo: una pacchia, magari fosse.
Ma poi ci sono gli ostacoli. Trovi l’ingorgo. Distrattone, hai mancato la traversa giusta, dovevi girare di là e invece sei andato di qua. Oppure la vettura ha un sussulto di troppo e non avevi attaccato bene la ventosa e il TomTom si stacca e cade – quante volte m’è successo – ma ormai stai guidando e non puoi fermarti in mezzo al traffico né rischiare un incidente per raccoglierlo contorsionisticamente e allora pazienza, m’arrangio da solo, tanto ormai ho capito, la strada la so. Sì, sì, bravo, poi vedi. Oppure dici sai che c’è, ma chi l’ha detto che il TomTom ha ragione, perché mi devo fidare dei programmatori, che ne sanno loro, io voglio fare da solo l’esperienza, statti zitto fastidioso aggeggio ti spengo e la strada giusta la decido io, al limite chiedo a qualche tizio per strada che pare affidabile (si chiama Berlicche, ma questo non te lo dice).
Deviazione.
E il TomTom traccia un nuovo miglior percorso. Hai allungato un po’, ma se gli dai retta puoi ancora fare presto e bene. Ma non gli dai retta, o non riesci a sentirlo. Così altra deviazione. E poi ancora un’altra. Di nuovo. Di nuovo. Di nuovo. Ma come ho fatto ad arrivare all’autostrada? Ma all’inizio non avevo settato evita strade a pedaggio?
Paga.
Spia rossa. Devi fermarti e dire addio a un pregevole esemplare di architettura rinascimentale su sfondo arancione.
Paga.
Hai visto l’autovelox? No? Pazienza, lui ha visto te.
Pagherai.
Doveva essere il miglior percorso possibile, ti sembra di stare facendo la Parigi-Dakar.

Eppure il TomTom potrebbe ancora aiutarti. C’è ancora una via per arrivare dove volevi andare, forse non sarà breve e piacevole, ma è pur sempre il meglio che la geografia e la cartografia ti mettono a disposizione in questo stramaledetto, labirintico, multicentrico giardino dei sentieri che si biforcano.

E allora.
Che cos’è l’Incarnazione? Cosa sono il Natale, la Pasqua, la Pentecoste? Cos’è la Chiesa?
È Dio che dice, dopo il peccato originale:

“… RICALCOLO.”

tom tom ricalcolo


L’alieno / 4

(continua da)

– 4 –

Esattamente una settimana dopo la prima visita, arriva la telefonata del Professore. Sono arrivati gli esiti del prelievo, la diagnosi è confermata. La telefonata mi raggiunge durante l’intervallo delle lezioni, in Facoltà.
Nessuno sa ancora niente, e non perché mi illudessi su un risultato diverso, quanto perché mi sembra cattivo e stupido dare una notizia che susciterà nei miei cari dolore, paura, ansia, prima del momento in cui sarò praticamente costretta a farlo. Il Professore, al telefono, è come sempre calmo, preciso ed incoraggiante. Se sono d’accordo, trasmetterà i miei dati al centro di Candiolo, da cui sarò contattata entro pochi giorni per fissare l’appuntamento per una visita. Ovviamente accetto, un po’ perché non saprei a chi altri rivolgermi, un po’ perché l’IRCC di Candiolo gode di una (meritatissima) fama positiva, ed oltretutto me lo sta raccomandando un medico nel quale ho piena fiducia.

Quel che succede poi, quel giorno, è incredibile. Se lo si leggesse in un racconto, verrebbe naturale tacciare lo scrittore di assurdità … eppure è tutto vero.
Rientro in aula, dove l’insegnante sta sorseggiando un caffè in attesa della ripresa della lezione; mi avvicino alla cattedra e prenoto, per due settimane dopo, un colloquio (sugli argomenti del quale non avevo ancora nemmeno aperto il  libro): adesso quello che conta è tenere la mente occupata. Mi complimento ironicamente con me stessa: preparare Vangeli Sinottici ed Atti, in due settimane, dovendo contemporaneamente lavorare e badare almeno superficialmente alla casa, è quasi un suicidio dal punto di vista scolastico.
Esco dall’università, vado al lavoro e faccio finta di interessarmi alle meschinità quotidiane che costituiscono la stragrande maggioranza degli argomenti di conversazione dei colleghi. Terminate le lezioni, ho circa mezz’ora di viaggio in auto per tornare a casa: a quest’ora le strade sono scarsamente affollate ed è una buona occasione per parlare con “LUI”, con il mio ospite alquanto sgradito:

Se pensavi di monopolizzare i miei pensieri e le mie emozioni, scordatelo. Se ti permettessi di diventare un’ossessione, farei solo il tuo gioco distruttivo. Non se ne parla. Adesso devo occuparmi dei miei studenti e preparare l’esame:
tu non sei, e non sarai mai, al primo posto nella mia esistenza”.

 Quindici giorni dopo, sostengo il colloquio ed ottengo un bel 28. In teoria, dovrei sentirmi delusa: sul libretto ho una collezione (per ora molto corta) di 29 e 30. L’elenco è breve perché non mi interessa tanto laurearmi, quanto capire ed assimilare veramente quello che studio, per cui sto centellinando gli impegni. Ma, se è vero che “gli esami non finiscono mai”, quel colloquio resterà per sempre il più bell’esame della mia vita, universitaria e non.

(continua)


Tutti cristïani imbrigherei

Caro Magdi Cristiano Allam, mi spiace per la tua improvvida decisione, ma al tempo stesso ti ringrazio.
Grazie perché, per quanto tu non te ne renda conto e nonostante le tue stesse intenzioni, ci stai insegnando una lezione importante e cioè il lato oscuro del gioco s’i fosse papa: quello che ci spinge a dire “credo la Chiesa, ma la crederei di più se…”.

Alzi la mano chi non ha mai ironicamente fantasticato sulla propria inverosimile elezione al soglio pontificio (per le femminucce è più difficile, ma se si sforzano possono fantasticare pure loro) e non ha mai vagheggiato: farei questo, direi quell’altro, appoggerei il tale e scomunicherei il tal altro. Chi la vorrebbe più dialogante, chi la vorrebbe meno accomodante. Chi la sposterebbe a sinistra e chi a destra. Chi la vede troppo ics e chi troppo poco ipsilon.
È normale. La Chiesa, sia come istituzione sia come comunità, è imperfetta e semper reformanda. Fosse perfetta non ci sarebbe bisogno del diritto canonico. Fosse perfetta non avremmo curie. Sarà perfetta quando staremo tutti in cielo, quelli che ci staremo, ma fino ad allora la barca farà sempre acqua. È normale essere insoddisfatti per quello o quell’altro aspetto. La cristianità è l’incarnazione concreta e contingente del cristianesimo, sempre approssimativa, mai coincidente. Un asintoto.
Ah, se fossi io il Papa. Allora sì. Allora ecco che. Allora vi farei vedere io, come si fa.

Caro Magdi, ci hai detto tanti perché per cui te ne vai dalla Chiesa. La cosa divertente è notare su quanti di questi perché sono circa quasi pressappoco d’accordo pure io. Su certe cose ci metterei la firma. Su altre invece manco per niente. Ci sarebbe da discutere distinguere discettare, ma comunque.
Eppure, senza offesa, penso che il motivo di fondo sia che il Papa è un altro e non sei tu. Il Papa fa e dice cose che tu non vorresti vedere e sentire. Terribile. Se ci fossi tu là sul trono, certo sapresti fare di meglio.
Tuttavia, disgraziatamente e certo per un terribile accidente della Storia, il Papa è un altro e non sei tu.
Uno dice, ma allora siamo obbligati a farci piacere tutto quello che fa e dice e decide un Papa? Non necessariamente. Caterina da Siena scriveva lettere al Papa per insegnargli cosa fare e come farlo. È chiaro che aveva idee molto precise su ciò che andava storto nella Chiesa e come dovesse essere raddrizzato. Magari erano pure più ardite della tua, salva la piccola differenza che tu sei uscito e lei è rimasta.
Nondimeno, Caterina da Siena era anche quella che chiamava il Papa “dolce Cristo in terra”. Infatti lei è rimasta, mentre tu sei uscito. E la donna che insegnava al Papa, senza saper né leggere né scrivere, è stata fatta Dottore della Chiesa.

 Non è detto che la Chiesa, la porzione di Chiesa che vediamo attorno a noi, ci debba entusiasmare. Dico la verità, a me sovente capita il contrario. Ma per quanti difetti possa trovarci, è comunque la Chiesa, l’unica che Dio ci ha dato, la sola dove c’è la pienezza della verità tutta intera; del resto, alcuni di quei difetti li rivedo allo specchio, perciò ho poco da salire in cattedra.
E non è neppure detto che i Papi debbano piacerci tutti allo stesso modo. Sospetto non sia neppure richiesto che ci debba tecnicamente piacere il tale o tal altro Papa. Non è quello il punto.
Non siamo cattolici se ci piacciono la Chiesa e il Papa.
Siamo cattolici se crediamo la Chiesa e amiamo il Papa.

Io credo la Chiesa, nonostante i suoi peccati (suoi, nel senso degli uomini che la compongono), e nonostante i miei; e amo il Papa, con tutti i suoi difetti (oh, ne avrà pure lui, è un uomo!), e con tutti i miei. E ho intenzione di continuare finché campo.

 Caro Magdi, mi spiace per te, ma ti ringrazio per avermi fatto vedere e capire tanto nitidamente il destino che non voglio mai incontrare, la direzione che non voglio mai seguire.
Esci pure, ma non chiudere la porta, lasciala accostata. Dovessi mai cambiare idea.

 

Meno male che io non sono il Papa. Chissà che disastri combinerei.
Però, se servono suggerimenti per un’enciclica, chi di dovere sappia che ho tante belle idee… 😉