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Contatto!

Anzitutto: buona Santa Pasqua a tutti voi lettori ed ai vostri cari!

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Questo libro è bellissimo. Ne stavo preparando la scheda per il post sui libri del mese, ma mi è venuta un po’ lunga – e il libro è così interessante che se la merita – e allora ne faccio un post a parte.
Avevo già visto e apprezzato il film di Robert Zemeckis, ma la storia originale di Carl Sagan è ben superiore: descrive un “primo contatto” tra umani ed alieni e ne esplora le conseguenze politiche e teologiche. La protagonista, astronoma che partecipa al progetto SETI, capta un messaggio radio proveniente dallo spazio che non può essere casuale, perché è una successione ordinata e smisuratamente lunga di numeri primi. L’ordine implica razionalità, intelligenza, intenzionalità, logos: è un messaggio alieno.
(già, ma come si fa ad avere la sicurezza assoluta su base puramente razionale? La biblioteca di Babele…)
Una volta decifrato il contenuto informativo del messaggio, emerge dapprima una riproduzione del filmato di Adolf Hitler all’apertura delle Olimpiadi del ‘36 – il che genera comprensibile sconcerto, e che gli alieni sono nazisti?, ma c’è una spiegazione ragionevole – e poi una serie di istruzioni tecniche per costruire una macchina, si suppone una sorta di astronave per raggiungere gli alieni. L’umanità, con varie forme di choc culturale (rifiuto entusiasmo diffidenza etc.) segue le istruzioni e costruisce la macchina, e … contatto.

Il libro è stato pubblicato nel 1985 e l’autore immaginava che all’inizio del terzo millennio ci sarebbe ancora stato il comunismo, e descrive la relazione conflittuale tra istanze scientifiche e istanze politiche (guerra fredda, diffidenza tra scienziati e militari, etc.) in termini abbastanza comuni in questo tipo di letteratura ante 1989. Questa parte è stata pressoché omessa nel film del 1997. (uno degli scienziati sovietici, godendosi le libertà americane, sfoggia un distintivo goliardico universitario che dice “pregate per il sesso”;lo sfoggiava persino alle riunioni scientifiche e quando gliene si chiedeva la ragione, soleva dire: Nel vostro paese, è offensivo soltanto in un modo. Nel mio, invece, è offensivo in due modi indipendenti; LOL)
Molto più attuale è invece l’aspetto teologico. Carl Sagan professava quel che io chiamerei un agnosticismo aperto, e su wikipedia gli è attribuita la frase “Un ateo deve sapere molto di più di quello che so io. Un ateo è qualcuno che sa che Dio non esiste. Quello che alcuni chiamano ateismo è molto stupido”. Questo ci aiuta a capire il filo religioso della storia: la protagonista Ellie Arroway, teoricamente agnostica e praticamente atea, con molta antipatia verso la religione (in parte dovuta al suo dolore profondo per aver perso l’amatissimo padre da bambina e aver visto la madre risposarsi con un odioso bigottone), si trova a discutere delle implicazioni religiose del messaggio alieno con una coppia di predicatori cristiani che riassumono le diversità d’atteggiamento dell’opinione pubblica religiosa. Uno è un becero fondamentalista che sembra la summa dell’ignoranza arrogante e fideista, e con la sua opposizione ostinata alla scienza e al messaggio (ovviamente trappola del demonio) svolge in pratica la funzione narrativa di far fare bella figura all’altro predicatore, Palmer Joss, assai più pacato e ragionevole, con cui la protagonista instaura un rapporto di crescente stima. In tutte le loro discussioni la posizione di Ellie rimane religiosamente scettica: non nego in astratto la possibilità che Dio esista, ma non ci credo finché non lo vedo; voglio prove certe e tangibili, non mi fido di niente che non possa controllare con i miei occhi.
(nel film, approfittando di avere due attori di bell’aspetto come Jodie Foster e Matthew McConaughey, hanno fatto scoccare l’immancabile storia d’amore; hanno dovuto tagliare quelle numerose pagine di dense discussioni teologiche, cinematograficamente irriproducibili, ma le hanno riassunte in uno
scambio di battute estremamente efficace:
Ellie
:      [si parla dell’esistenza di Dio] Come fai a sapere che non ti stai illudendo? Quanto a me, io… io vorrei una prova.
Joss:      Ah, una prova. Volevi bene a tuo padre?
Ellie:      Come?
Joss:      Sì, gli volevi bene?
Ellie:      … Sì, moltissimo.
Joss:      Provalo.

Ellie
:      l’espressione che passa sulla faccia di Jodie Foster vale più di mille parole)

Ma insomma, qual è questo contatto?
Viene costruita la macchina. Cinque persone tra cui Ellie vengono scelte come equipaggio e l’attivano. Si apre una specie di tunnel dimensionale e la macchina “viaggia” fino a raggiungere quella che sembra una spiaggia tropicale, di chissà dove o chissà quando, dove appaiono finalmente gli alieni, ciascuno dei quali assume la forma di una persona significativa per uno dei viaggiatori. Ovviamente per Ellie è suo padre, che lei abbraccia con infinita gioia e gratitudine – e pazienza se quello non è proprio lui ma piuttosto la materializzazione del ricordo e dell’amore estratti dal cervello di lei, la scena è commovente e se Ellie non fa la puntigliosa a noi lettori va bene così.
Gli alieni rispondono a un sacco di domande dei viaggiatori, per poi rimandarli indietro colmi di gioia e speranza. I cinque tornano sulla Terra, già assaporando la gloria e le implicazioni scientifiche, e … sorpresa.
Per coloro che hanno visto la macchina dall’esterno, non è successo niente. I cinque sono entrati; hanno passato circa venti minuti là dentro; e poi sono usciti. Basta. La videocamera che avevano portato non ha registrato niente. Per i cinque è passato più di un giorno, per gli altri meno di mezz’ora. Ellie ipotizza di essere stata rimandata indietro nel tempo, ma è appunto una supposizione.
Non possono provare empiricamente.
Non possono spiegare razionalmente.
Possono solo sperare di essere creduti da coloro che li hanno mandati, i leader politici e scientifici, i pezzi grossi che hanno costruito quel costosissimo giocattolo dal valore approssimativo di 2.000.000.000.000.000.000,00 $ per ricavarne solo una bella storiella.
Non ci credono. I cinque vengono accusati di essersi inventati tutto, di far parte di un piccolo complotto accademico-industriale che ha falsificato il messaggio un po’ per la gloria, un po’ per il profitto della costruzione della macchina, un po’ per allontanare l’incubo della guerra mondiale dando ai due poli della guerra fredda un obiettivo comune su cui lavorare assieme. La storia di come Ellie ha riabbracciato l’immagine di suo padre viene fatta a pezzi con argomentazioni stringenti:

“lei, per Dio, ha ricevuto la visita del suo defunto padre che le dice che lui e i suoi amici sono stati impegnati a ricostruire l’universo, per Dio. ‘Padre nostro che sei nei cieli…’? Questa è pura religione. Questa è pura antropologia culturale. Questo è puro Freud. Non se ne accorge? Non solo lei dichiara che suo padre è ritornato dalla tomba, lei si aspetta veramente che noi crediamo che abbia fatto l’universo…”
“Lei sta travisando…”
“L’incontro con suo padre in cielo e tutto il resto, dottor Arroway, è significativo, perché lei è cresciuta nella cultura giudeo-cristiana. Lei è l’unica dei Cinque ad appartenere a tale cultura, e lei è l’unica che incontra suo padre. La sua storia è proprio troppo su misura. Non abbastanza fantasiosa.”

Per non perdere la faccia i governi mondiali mettono tutto a tacere, raccontando all’opinione pubblica che c’è stato un piccolo guasto e che riproveranno ad azionare la macchina quando l’avranno capita meglio; e minacciano i cinque di detenzione a vita se violeranno il segreto imposto.
E cosa fanno questi cinque, questi scienziati, che conoscono una verità che non possono provare scientificamente? Beh, se ne fregano del segreto militare, delle intimidazioni e tutto quanto. Perché la verità è più importante.

“Non importa quello che ci dicono di fare. L’importante è che siamo vivi. In seguito, racconteremo la nostra storia – noi cinque – in maniera discreta, naturalmente. Da principio, soltanto a coloro in cui abbiamo fiducia. Ma quelle persone la racconteranno ad altre. La storia si diffonderà. Non ci sarà modo di fermarla.”

Ebbene, se questa non è una catechesi universale, ci si avvicina molto. Non è quello che è successo con il cristianesimo? Persone che hanno fatto un’esperienza straordinaria e l’hanno raccontata ad altre persone, e queste altre persone ad altre ancora, e ancora, e ancora, e la storia si diffonde inarrestabile e cambia letteralmente il mondo. È la catena della fiducia.

Questo succede grossomodo anche nel film, dove la protagonista è l’unica a fare il viaggio e a tornare senza prove, chiedendo di essere creduta sulla base di un leap of faith – che solo Palmer Joss sarà disposto a fare.
Il libro di Sagan, però, non finisce qui, ma ha una conclusione molto più teologicamente impegnativa (che il film ha tagliato; eccheccavolo).
L’alieno con le sembianze di suo padre aveva confidato a Ellie un segreto: anche loro hanno trovato un Messaggio mandato da qualcun altro. Però questo è nella matematica, nel pi greco, nel rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro: una divisione che non ha mai fine, in un numero infinito di cifre. E tuttavia, se continui la divisione abbastanza a lungo, dice l’alieno,

“succede qualcosa. Le cifre che variavano a caso spariscono, e per un tempo incredibilmente lungo non ci sono altro che unità e zeri. E il numero di unità e zeri che si susseguono è uguale al prodotto di undici numeri primi.”
“Mi stai dicendo che c’è un messaggio in undici dimensioni celato in profondità all’interno del pi greco? Qualcuno nell’universo comunica con… la matematica? Ma… dammi una mano, sto davvero facendo fatica a capirti. La matematica non è arbitraria. Intendo dire che il pi deve avere lo stesso valore dovunque. Come si può nascondere un messaggio all’interno del pi? Fa parte della struttura dell’universo.”
“Esattamente”.

Tornata sulla Terra, costretta al silenzio ufficiale sulla sua esperienza, Ellie riprogramma uno dei computer del progetto SETI per cercare anomalie statistiche nelle cifre del pi greco, e infine – proprio nel momento preciso in cui fa un’importante scoperta personale su suo padre, che qui non rivelo – trova ciò che stava cercando:

L’anomalia si manifestava con maggiore evidenza nell’aritmetica a base 11, dove poteva essere trascritta interamente come zeri e unità. Confrontato con quello che era stato ricevuto da Vega, questo poteva essere al massimo un messaggio semplice, ma la sua rilevanza statistica era notevole. Il programma riuniva le cifre in un percorso di scansione quadrato, una quantità uguale da un capo all’altro e sotto. La prima riga era una fila ininterrotta di zeri, da sinistra a destra. La seconda riga mostrava un solo uno, esattamente al centro, con zeri ai lati, a sinistra e a destra. Dopo alcune altre righe, si era formato un inequivocabile arco, composto di unità. La semplice figura geometrica era stata costruita rapidamente, riga per riga, autoriflessiva, ricca di promesse. Emerse l’ultima riga della figura, tutti zeri tranne un solitario uno al centro. La linea susseguente era soltanto di zeri, parte della cornice.
Celato negli schemi che si alternavano di cifre, profondamente all’interno del numero trascendente, c’era un cerchio perfetto, dalla forma tracciata da unità in un campo di zeri.
L’universo era stato creato intenzionalmente, diceva il cerchio
. In qualunque galassia ci si trovi, si prende la circonferenza di un cerchio, la si divide per il suo diametro, si fa un calcolo abbastanza accurato e si scopre un miracolo: un altro cerchio, disegnato chilometri più in giù della virgola decimale. Proseguendo, ci sarebbero stati messaggi più ricchi. Non importa l’aspetto che si ha, o di che cosa si è fatti o da dove si proviene. Finché si vive in questo universo, e si possiede un modesto talento per la matematica, prima o poi la si troverà. E già qui. E all’interno di tutto. Non si è obbligati a lasciare il proprio pianeta per trovarla. Nella struttura dello spazio e nella natura della materia, come in una grande opera d’arte, c’è, scritta in piccolo, la firma dell’artista. Sopravanzando gli uomini, gli dei e i demoni, includendo i Guardiani e i Costruttori dei tunnel, c’è un’intelligenza che precede l’universo.

Logos.


Il mistero dell’Oggetto Eterno (2)

( continua da)

Spiegazione.
Chi mi conosce sa che a me piacciono molto le storie di fantascienza, e mi piacciono le storie di viaggi nel tempo e le speculazioni sui paradossi insiti nell’operazione. Sulla wikipedia inglese c’è una pagina molto interessante, di cui purtroppo non esiste la versione italiana (qualcuno la traduca!), che riporta numerosi esempi tratti dalla fiction di paradossi ontologici: cioè quelle situazioni in cui è l’esistenza stessa di qualcosa o qualcuno ad apparire impossibile, paradossale, una clamorosa deroga alla regola per cui ogni effetto è preceduto dalla causa.
La storia del precedente post è un esempio di paradosso ontologico basato su quel che a me piace chiamare un Oggetto Eterno, laddove eterno non significa “illimitato”, ma bensì qualcosa che è in qualche modo fuori dal tempo, sganciato dalla normale catena di cause ed effetti. La chiave della storia è un Oggetto Eterno: ogni versione temporale dell’uomo la riceve dalla versione precedente e la passa alla versione successiva, ma non si può capire in quale momento abbia fatto il suo ingresso nel tempo, e perciò non si capisce neppure chi l’abbia costruita – se mai lo è stata. La chiave è un effetto senza una comprensibile causa fisica: la sua storia è un circolo chiuso senza inizio e senza fine.
Affascinante, no?
E se ci fosse davvero, là fuori, qualcosa del genere? Cosa implicherebbe?

Naturalmente sarebbe facile liquidare facilmente la questione dicendo che gli Oggetti Eterni non esistono, o almeno non se ne è ancora scoperto uno, e che perciò queste sono chiacchiere inutili su argomenti vani.
È un approccio legittimo, ma forse un po’ troppo facile, perché “qualcuno” sostiene che una sorta di Oggetto Eterno esista davvero, e se è così, allora la sua esistenza pone delle domande che non possono essere liquidate così facilmente.
Chi sia questo qualcuno e quale sia la cosa misteriosa di cui stiamo parlando, sarà chiaro al prossimo post (ma qualcuno potrebbe anche capirlo prima).
Ora però, per spiegare al meglio le problematiche dell’argomento (ma in realtà è che mi sono divertito un sacco a scriverla), vi propino questa mia personale tassonomia super-nerd dei paradossi temporali. Se avete altri esempi da aggiungere alla collezione, siete invitati a contribuire. Buona lettura!

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Il viaggio nel tempo come causa sui.
Un tipico paradosso del viaggio del tempo è quello in cui il viaggiatore torna indietro nel tempo e contribuisce a determinare le circostanze che provocato o reso possibile il viaggio nel tempo stesso. Esempi:

  • Il primo film di Terminator si basa su questo paradosso, perché John Connor manda indietro nel tempo Kyle Reese a proteggere sua madre Sarah, la quale fa l’amore con Kyle e concepisce John, il quale perciò ha fatto in modo che suo padre fosse suo padre.
  • In Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, Harry viene salvato dai Dissennatori grazie ad un incantesimo Patronus lanciato da se stesso dopo essere tornato di qualche ora indietro nel tempo; si specifica che Harry è stato in grado di lanciare il difficile incantesimo perché sapeva di averlo già lanciato.
  • Nel libro I.N.R.I. di Michael Moorcock, il protagonista è un nevrotico religioso (endiadi, ovviamente) che si procura una macchina del tempo e torna indietro per incontrare Cristo; dopo aver scoperto che il Gesù storico era solo uno scimunito deforme figlio di una sgualdrina, comincia a girare per la Palestina e impersona lui stesso il messia – tanto lo sanno tutti che i vangeli sono chiaramente stati scritti secoli dopo i fatti – fino a farsi crocifiggere.

Non si contano inoltre le numerose variazioni sul tema dell’inventore della macchina del tempo che torna indietro nel tempo e aiuta sé stesso a inventare la macchina del tempo (es. nel primo Ritorno al futuro Marty McFly fa vedere a Doc Brown la macchina del tempo che quest’ultimo costruirà trent’anni dopo).
In questi casi abbiamo un effetto – cioè il viaggio nel tempo – che non solo è precedente alla propria causa, ma che addirittura contribuisce alla catena causale che ha dato luogo all’effetto stesso, insomma è causa sui, causa di sé stesso.

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Il paradosso del nonno.
L’inverso del paradosso precedente è l’ipotesi in cui il viaggiatore nel tempo, tornato nel passato, fa qualcosa che rende impossibile il viaggio nel tempo. Questa idea è nota come paradosso del nonno: un uomo torna indietro nel tempo e uccide suo nonno. Allora lui non nascerà. Ma se non nascerà, non tornerà indietro nel tempo e perciò non ucciderà suo nonno. Ma se non ucciderà suo nonno, allora lui nascerà e tornerà indietro nel tempo. Ma se tornerà indietro nel tempo, ucciderà suo nonno. Allora lui non nascerà. Ma se non nascerà…
Vedete bene che in realtà questo contorcimento logico è una variante spaziotemporale del paradosso di Epimenide cretese (“Epimenide dice che tutti i cretesi dicono sempre bugie, lui lo sa perché è di Creta e li conosce bene”), cioè un’auto-contraddizione. Un effetto che annulla la propria causa annulla non solo sé stesso, ma anche l’annullamento medesimo. Il primo Ritorno al futuro gioca con questo paradosso immaginando che Marty McFly, per aver ostacolato l’innamoramento dei suoi genitori, rischi di essere cancellato dalla foto di famiglia e dall’esistenza stessa – sennonché, se Marty fosse stato cancellato, non avrebbe mai potuto ostacolare l’unione che stava ostacolando…
Ci sono possibili linee di pensiero sulle conseguenze di questo paradosso. Una implica la coesistenza e/o il conflitto tra diverse linee temporali o “universi paralleli”. Il viaggiatore nel tempo, cambiando il passato, fa nascere una nuova linea temporale alternativa a quella da cui proviene. La linea temporale di provenienza può restare immutata e proseguire tranquillamente per il suo corso, oppure può essere “sovrascritta” e scomparire. Per esempi cinematografici vedere il secondo Ritorno al futuro oppure Donnie Darko. La quarta stagione di Fringe gioca con l’idea di un “palinsesto” temporale, con una Macchina che cambia retroattivamente un evento e costruisce un secondo passato che si sovrappone al primo, del quale però (come appunto in un palinsesto) affiorano tracce qua e là. Il concetto di riscrittura temporale è poi portato al parossismo nell’anime capolavoro Steins Gate, che cita John Titor (l’unico viaggiatore del tempo “ufficiale” finora conosciuto) e dipana un complicatissimo intreccio “circolare” in cui un team di giovani otaku scopre ben tre diversi modi per modificare il passato (mandando un sms indietro nel tempo; mandando la memoria di un individuo indietro nel tempo; con il “classico” viaggio fisico) e alterare le linee temporali, la cui divergenza rispetto alla linea originaria può perfino essere misurata con un apposito divergence meter!
Chi non crede alle diramazioni o sovrascritture temporali invece ritiene che questo paradosso non possa essere possibile: il viaggiatore nel tempo non riuscirà mai, qualsiasi cosa faccia, a uccidere il proprio nonno. Non può accadere una cosa simile proprio perché il viaggiatore nel tempo esiste e perciò non ha mai provocato il proprio annichilimento. Questa teoria, descritta in LOST come “meccanismo del course-correcting”, implica un principio di autoconservazione dell’Universo tale per cui, se si verificasse un paradosso del nonno, l’intero tessuto spaziotemporale ne sarebbe distrutto e non ci sarebbe né passato né presente né futuro né niente; tuttavia il fatto stesso che noi ora esistiamo è la prova tangibile che questo paradosso non si è mai verificato né mai si verificherà. Se poi questo principio di autoconservazione faccia parte delle leggi razionali intrinseche e soggiacenti alla struttura stessa dell’universo, oppure dipenda da una qualche Provvidenza benevola e trascendente che preserva il continuum, è argomento aperto alla speculazione.

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L’invenzione senza autore, cioè l’Idea platonica.
Il paradosso dell’effetto causa sui si può presentare in una versione molto interessante e cioè nell’ipotesi di un’opera dell’ingegno il cui apparente autore, in realtà, non ha fatto assolutamente nessuno sforzo intellettuale.

  • Nel secondo film di Terminator, si scopre che il supercomputer Skynet è stato creato attraverso un reverse engineering a partire dai resti del T-1000 mandato nel passato da Skynet medesimo. Nessuno ha veramente concepito i circuiti di Skynet, ci si è limitati a copiarli.
  • Un fisico, dopo aver ricevuto una visita dal suo futuro sé stesso che gli spiega nei dettagli come costruire la macchina del tempo, segue pedissequamente le istruzioni e costruisce la macchina del tempo, dopodiché torna nel passato e istruisce nei dettagli il suo precedente sé stesso su come costruire la macchina del tempo.
  • Un uomo viaggia nel futuro, scopre di essere diventato un famoso scrittore, compra in libreria i libri che ha scritto, torna indietro nel tempo, copia i libri parola per parola e diventa un famoso scrittore.

Lo stesso concetto si può applicare a un quadro, a un teorema di matematica, a una qualunque manifestazione di creatività.
Questo paradosso è sostanzialmente una versione soft dell’Oggetto Eterno. Qui non è la concretizzazione materiale dell’idea ad essere a-causale, ma l’idea in sé: il contenuto letterario del libro, la trama e lo stile, la scelta delle parole e la loro disposizione, tutte cose che di cui l’autore materiale del libro non ha nessun merito.
Ma allora Chi è il vero autore del libro?
A pensarci bene, c’è qualcosa dell’idealismo platonico in questo paradosso: abbiamo un’Idea che entra nel tempo come se provenisse dall’iperuranio, un’Idea che preesiste alle sue applicazioni concrete e sussiste a prescindere dalla loro esistenza. Un’Idea che è stata soltanto imitata, non inventata; ma conviene notare che – poiché l’idealismo platonico non è idealismo nel senso corrente del termine, ma semmai una forma trascendente di realismo – invenio, inventare, originariamente significa proprio scoprire (qualcosa che già esiste).

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La profezia auto-avverante.
La versione psicologica del paradosso precedente è data dall’ipotesi in cui qualcuno, venendo a conoscenza di una previsione che riguarda un suo comportamento futuro, tiene quel comportamento non perché lo desidera spontaneamente ma perché ritiene di dover agire come previsto. In tal caso sorge il quesito su chi sia stato a voler davvero quel comportamento, perché il soggetto agente appare in realtà come l’esecutore materiale di qualcosa che è stato già deciso al di fuori della sua volontà. Tutto ciò conduce a numerosi interrogativi sul libero arbitrio e sul determinismo. Esempi:

  • Tutta la serie televisiva FlashForward trattava questo dilemma. Ma lo faceva malissimo, infatti è stata cancellata.
  • Nel libro La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo, e nel film che ne è stato tratto (film a cui gli abominevoli distributori italiani hanno appioppato lo stucchevole titolo Un amore all’improvviso… vergogna!) la protagonista ha incontrato già da bambina l’uomo che amerà e sposerà, affetto da una malattia genetica che lo fa saltare avanti e indietro nel tempo, e nei momenti di crisi del suo matrimonio recriminerà inevitabilmente sul suo sentirsi vittima designata di un destino prestabilito.
  • Ma la miglior illustrazione di questo paradosso l’ho trovata in un bellissimo libro di Robert Silverberg, L’uomo stocastico, in cui il protagonista è un consulente specializzato in previsioni statistiche la cui vita è sconvolta dall’incontro con un uomo che invece “vede” il proprio futuro nel vero senso della parola. Il personaggio dell’uomo presciente è immensamente tragico: un individuo la cui volontà è stata annichilita dal determinismo, che vive la sua vita senza alcun desiderio e fa ciò che fa soltanto perché ha visto se stesso farlo, a cui la precognizione della propria morte ha tolto ogni possibile illusione d’immortalità e perciò aspetta con indifferenza, e infine con sollievo, la fine del “copione da recitare”.

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L’antenato dell’antenato.
In una celeberrima puntata di Futurama, con la sua tipica sbadataggine Fry fa in modo che la navetta spaziale della Planet Express torni indietro nel tempo fino all’anno 1947 e provoca l’incidente di Roswell. Quando scopre che uno dei soldati della base militare è suo nonno, si impegna a proteggerlo, ma scemo com’è ottiene l’effetto contrario e ne provoca la morte in un incidente. A questo punto Fry dovrebbe smettere di esistere, anzi non essere mai esistito, ma quando ciò non accade capisce che quell’uomo non era veramente suo nonno. Tira un sospiro di sollievo e va a consolare la sua vedova, per poi finire a letto con lei… il mattino dopo Fry realizza che quella donna è proprio sua nonna e lui è il nonno di sé stesso.
Questa storia non è solo una soluzione ironica al paradosso del nonno, ma anche una versione biologica dell’Oggetto Eterno: in questo caso abbiamo un patrimonio genetico senza progenitori, una stirpe ciclica senza capostipite. Due racconti in particolare hanno portato al parossismo questo concetto:

  • All You Zombies (it. Tutti i miei fantasmi) di Robert Heinlein, nel quale un ermafrodito viaggiatore del tempo è simultaneamente padre e madre e figlio/figlia di sé stesso, un vero e proprio unicum genealogico;
  • Star, Bright (it. Star, brillante) di Mark Clifton, in cui alcuni bambini super-intelligenti imparano a viaggiare nel tempo e scoprono che gli uomini del futuro, quando la vita sulla Terra sarà sull’orlo dell’estinzione, torneranno in massa nel passato – perciò la storia dell’umanità è un nastro di Moebius: Darwin si sbagliava, l’uomo non discende dalle scimmie, discende da se stesso! E ora chi lo dice a Dawkins?

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L’Oggetto Eterno.
Ma tutti i paradossi spazio-crono-ontologici fin qui esaminati impallidiscono a fronte di quello che è il paradosso per eccellenza: l’oggetto senza causa, l’oggetto eterno.
Perché nei precedenti esempi abbiamo sì una violazione della leggi della causalità, un attorcigliamento della catena causale su sé stessa, ma il flusso eracliteo della materia è comunque salvaguardato: tutto ciò che esiste deriva fisicamente la sua materia costitutiva da qualcos’altro. Per esempio, nell’invenzione senza autore, l’idea è di origine ignota, ma la sua realizzazione fisica è origine assolutamente normale, intra-temporale: la disposizione delle parole è stata concepita da non-si-capisce-cosa, ma gli atomi che compongono la carta del libro sono normalissimi atomi che vengono da qualunque cosa fosse la carta prima di essere trasformata in carta.
Nel caso dell’antenato dell’antenato siamo già a un livello più spinto, perché il corpo di A genera B e B genera A (oppure addirittura A genera A): ma il corto circuito può essere confutato ricordando che in realtà il nostro stesso corpo non ha mai continuità materiale, perché noi abbiamo un corpo (noi siamo un corpo) i cui atomi vengono sostituiti ad ogni istante (inspiriamo, espiriamo, mangiamo, beviamo, oriniamo, defechiamo, assorbiamo, sudiamo e così via). L’identità del corpo nel tempo non è meramente materiale ma bensì strutturale, e gli esseri viventi si distinguono dagli oggetti inanimati in quanto sono dinamici, ovvero sostituiscono ad ogni momento la materia del proprio corpo secondo un piano organizzato e teleologico (una roccia non mangia, non suda, non cambia le proprie molecole; un liquido può parzialmente evaporare, ma il liquido subisce questo cambiamento, non lo opera). Le molecole che compongono il corpo dell’antenato di sé stesso provengono comunque dall’esterno: è solo la costellazione genetica, l’informazione contenuta nella catena di nucleotidi, che resta entropicamente incomprensibile.
Ecco, l’Oggetto Eterno invece no. Queste considerazioni per l’Oggetto Eterno non valgono, perché è acausale non solo eziologicamente, ma anche materialmente. Le molecole che compongono l’Oggetto Eterno sono fuori dal panta rei, non vengono da nessuna parte: semplicemente sono lì. Continuano ad essere, e sono sempre state, e sempre saranno, in tutte le iterazioni che attraversa l’Oggetto nel suo ciclo continuo attraverso la limitata finestra temporale in cui esso esiste.
L’Oggetto Eterno è un mistero assoluto e una sfida tangibile al continuum.
Forse proprio per la complessità dei problemi ontologici che solleva, gli esempi di Oggetti Eterni nella fiction di fantascienza siano abbastanza rari.

  • Ci potrebbe essere la bussola in LOST, quella che nella quinta stagione Richard Alpert dà a Locke e poi Locke dà 50 anni prima a Richard Alpert, ma la questione è controversa e si discusso molto tra i fan se fosse davvero la stessa bussola (io dico di no, non è un circolo, è un loop; lunga storia).
  • Nel libro Piramidi di Terry Pratchett, il sacerdote Dios è stato consigliere dei faraoni per migliaia di anni, e alla fine torna indietro nel tempo e diventa il consigliere del primo faraone; ma ho già spiegato i motivi per cui un essere vivente, il quale sostituisce ordinatamente e gradualmente le proprie molecole, non può essere considerato a rigore un puro Oggetto Eterno.
  • Per fortuna mi soccorre la pagina di wikipedia che ho linkato all’inizio, che riporta qualche esempio che non conoscevo (es. gli occhiali magici della serie The Last Rune).

La storia che ho raccontato all’inizio è una mia piccola creazione: mi pare che la chiave funzioni abbastanza bene come Oggetto Eterno.

***

E allora, gente. Complimenti se siete riusciti ad arrivare alla fine.
Avviluppamenti temporali, effetti acausali, loop logici, di tutto e di più.
Ma di fronte a questi contorcimenti, come si pone la ragione? È ragionevole credere all’esistenza degli Oggetti Eterni?
Vorrei leggere, se possibile, il parere di atei / agnostici sull’argomento.

(continua)

(↓ commenti)


Sul concetto di paraculaggine dell’artista

Non avrei voluto tornare sull’argomento Castellucci, essendosene parlato già più di quanto meriti l’autore furbacchione, ma il dibattito intracattolico “bestemmia sì / bestemmia no” mi porta ad una breve ulteriore considerazione.

Avete mai visto la serie televisiva Boris? Meravigliosa. Trattasi di 3 stagioni + 1 film narranti le epiche gesta di una scalcinata troupe romana nel girare una scalcinatissima soap dall’inverecondo nome “Gli occhi del cuore 2”, un’emerita schifezza per ammissione di tutti gli addetti ai lavori che però ma che te frega pensa a magnà. Non manca nulla nel bestiario della serie che mostra il peggio del peggio del nostro paese: l’attrice cagna che va avanti a favori sessuali, gli stagisti schiavizzati sottopagati, i lavoratori incompetenti ma illicenziabili per protezione politica, eccetera.
Uno dei leitmotiv della seconda stagione è l’attentato al Conte. Qualcuno ha sparato al Conte, il grottesco cattivo della soap opera interpretato da un attore psicolabile con manie religiose, a sua volta interpretato da un Corrado Guzzanti ormai mitologico. Chi è stato a sparare? Beh, dipende. Non si sa, nel senso che non solo non lo sanno gli spettatori di “Gli occhi del cuore 2”, ma non lo sanno neanche gli autori perché non è stato ancora deciso chi dovrà scoprirsi essere il colpevole. Dipende da chi vince le elezioni. Infatti, come spiega il delegato di rete nell’attesa spasmodica degli exit poll, se vince la destra allora il colpevole deve essere il gay; ma se vince la sinistra, l’omosessuale diventa categoria sociale politicamente incriticabile, e perciò il colpevole deve invece essere l’agente di borsa o il commercialista calabrese. “Intanto si registra un lieve apprezzamento per la Lega, di cui però sarebbe folle non tenere conto… per cui bisogna eliminare tutti i riferimenti a Roma, tenersi sul vago… ah, il tossico sodomizzato non può essere più di Bergamo, questo è chiaro. Io direi Reggio Calabria, tanto è anche sordomuto.
Alla fine, siccome le elezioni si concludono con un pareggio, verrà deciso che il colpevole è un magistrato perché “attaccare la magistratura è un argomento straordinariamente bipartisan” (sic).

Ora voi direte, ma questo che c’entra. Io dico che, comparativamente, c’entra.
Domanda: Castellucci getta feci sul volto di Gesù? Risposta: beh, dipende. Una volta dice sì, una volta dice no, una volta dice boh. La sceneggiatura della pièce cambia a seconda delle convenienze del momento: la merda c’è in Francia, non c’è in Italia, è solida, è liquida, odora, non odora, sono sassi tirati da bambini, anzi no è liquame che cola, anzi ancora no è inchiostro biblico, insomma può essere qualunque cosa e il suo contrario.
Comodo.
Umberto Eco nelle postille al Nome della rosa dice che un racconto è una macchina per generare interpretazioni. Forse è vero, ma comunque il ventaglio di interpretazioni non è infinitabile: il racconto una volta che l’hai scritto resta là, scripta manent carta canta, il monaco cieco è cieco e punto stop. E pure l’Amleto tendenzialmente resta quello, non è che una volta Amleto muore e la volta dopo lo vedi trombare Ofelia mentre cala il sipario. Con questo facile teatro invece mi pare che tutto sia provvisorio, mutevole, a seconda di come ci gira, anzi di come gira il vento. Vogliamo accattivarci i laicisti? E allora bestemmia, libertà artistica, you are not my shepherd. Vogliamo accattivarci i cattolici? E allora preghiera testoriana, kenosi evangelica, tu non sei il mio pastore. Ci mancano i satanisti, ma forse c’è spazio pure per quelli.

Con permesso, sottovoce, senza clamore, esercito nel mio piccolo la mia umile libertà d’espressione (magari è pure una forma d’arte), sperando di non suscitare velleità censorie in chicchessia.
Castellucci, ma va’ a cagare. Almeno quella, merda è, merda rimane.


Memento

IL SOLIPSISMO SECONDO WITTGENSTEIN
E IL REALISMO SECONDO MEMENTO


La lettura del libro di/su David Foster Wallace (Fate, Time and Language – an essay oh Free Will) sta andando molto a rilento, sia perché usa un inglese filosoficamente hardcore che mette a dura prova il mio upper intermediate, sia perché offre spunti di riflessione talmente interessanti che ogni poche pagine devo fermarmi per ruminare quanto assorbito. Già solo nell’introduzione di James Ryerson ho trovato materiale per almeno due post, di cui uno è questo.
L’introduzione (se v’interessa la trovate qui) comincia riassumendo il contenuto del libro, poi abbozza una biografia di DFW da giovane, poi parla del suo primo libro La scopa del sistema, poi parla di un argomento ivi emergente ovvero Ludwig Wittgenstein e il solipsismo. E a tal proposito:

For Wallace, the most disquieting feature of the Tractatus was its treatment of solipsism. Toward the end of the book, Wittgenstein concludes, “The limits of my language mean the limits of my world.” This is a natural corollary of the picture theory of meaning: Given that there is a strict one-to-one mapping between states of affairs in the world and the structure of sentences, what I cannot speak of (that is, what I cannot meaningfully speak of) is not a fact of my world. But where am “I” situated in this world? By “I,” I don’t mean the physical person whom I can make factual reports about. I mean the metaphysical subject, the Cartesian “I,” the knowing consciousness that stands in opposition with the external world. “Where in the world,” Wittgenstein writes, “is a metaphysical subject to be found?”
On the one hand, the answer is nowhere. Wittgenstein can’t make any sense of the philosophical self—any talk of it is, strictly speaking, nonsense. On the other hand, Wittgenstein can get some purchase on this question. He draws an analogy between the “I” (and the external world) and the eye (and the visual field): Though I cannot see my own eye in my visual field, the very existence of the visual field is nothing other than the working of my eye; likewise, though the philosophical self cannot be located in the world, the very experience of the world is nothing other than what it is to be an “I”. Nothing can be said about the self in Wittgenstein’s philosophy, but the self is made manifest insofar as “the world is my world”—or, as Wittgenstein more strikingly phrases it, “I am my world.” This, he declares, is “how much truth there is in solipsism.”

Ovvero (mia traduzione alla meno peggio; ho messo in rosso alcuni punti dove gradirei suggerimenti / correzioni):

Per Wallace, la caratteristica più inquietante del Tractatus era il suo trattamento del solipsismo. Verso la fine del libro, Wittgenstein conclude “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Questo è un naturale corollario della teoria raffigurativa del linguaggio: dato un rigoroso rapporto uno-a-uno tra le circostanze del mondo e la struttura delle frasi, ciò di cui non posso parlare (ovvero, ciò di cui non posso significativamente parlare) non è un fatto del mio mondo. Ma dov’è che “io” sono situato nel mondo? Per “io”, non intendo la persona fisica di cui posso concretamente parlare. Intendo il soggetto metafisico, l’Io cartesiano, la coscienza conoscente che sta in opposizione al mondo esterno. “Dov’è nel mondo”, scrive Wittgenstein, “che può essere trovato un soggetto metafisico?”
Da un lato, la risposta è da nessuna parte. Per Wittgenstein un sé filosofico non ha alcun senso; ogni discorso su di esso è , strettamente parlando, insensato. D’altra parte, Wittgenstein può trovare qualche appiglio su questo interrogativo, tracciando un’analogia tra la relazione “io” / mondo esterno e la relazione occhio / campo visivo: sebbene io non possa vedere il mio proprio occhio nel mio campo visivo, l’esistenza stessa del campo visivo non è altro che il prodotto del mio occhio; allo stesso modo, sebbene il sé filosofico non possa essere localizzato nel mondo, l’esperienza stessa del mondo non è altro che ciò che significa essere un “io”. Niente può essere detto circa il sé nella filosofia di Wittgenstein, eppure il sé si manifesta in quanto “il mondo è il mio mondo”, ovvero, come si esprime più marcatamente Wittgenstein, “io sono il mio mondo”. Questo, a suo dire, è “quanto c’è di vero nel solipsismo”.

Ah, il solipsismo.
Ora, devo confessare che io Wittgenstein non me lo ricordo granché bene, però a me non pare che fosse precisamente un solipsista – infatti se ci fate caso sopra non si dice l’esistenza ma l’esperienza del mondo, e le due cose coincidono solo per un solipsista – casomai da tutta l’introduzione evinco semmai l’impressione che sia James Ryerson a essere proprio lui solipsista, ma potrei sbagliare, comunque: il solipsismo.
Puah.
Se seguite questo blog, forse vi siete accorti che io tengo in forte disistima il solipsismo e in genere tutte le forme di idealismo. Buttiamo giù un po’ di nozionismo filosofico for dummies e diciamo rozzamente che ci sono grossomodo due tipi di ontologie (= “che cos’è l’essere? parliamone!”), il realismo e l’idealismo. Mentre per il realismo la realtà oggettiva è indipendente dal pensiero con cui il soggetto conoscente se la immagina / ricostruisce / rappresenta nella propria testa, per l’idealismo la realtà in un certo qual modo dipende dall’idea pensata dall’Io che la rappresenta / la traduce / la crea.
Sennonché, chi diamine è quest’Io? Sono io, sei tu, siamo tutti quanti? Fondamentalmente l’idealismo può essere individuale o collettivo. Il solipsismo è la forma estrema dell’idealismo individuale: ogni individuo, tutto da solo (= solus ipse), crea la realtà che lo circonda, perciò ci sono tante realtà quanti sono gli individui (perciò facilmente il solipsismo coincide con la versione diffusa del relativismo). L’estremo opposto è la filosofia hegeliana, ovvero la realtà è unica ma non perché sia oggettiva, bensì perché è il prodotto di un Io Assoluto rispetto al quale il nostro piccolo io individuale è soltanto una cellula (si ricorda che Hegel è la radice dei vari nazifasciocomunismi, perché la traduzione politica dell’Io Assoluto è precisamente lo Stato totalitario).
Bene, detto questo, professo la mia fede ontologica: io sono un realista. Le cose sono come sono e non come le percepiamo: l’esistenza del mondo non si riduce alla nostra esperienza di esso. Un gatto in una scatola è vivo o è morto, anche se nessuno apre la scatola per controllare. In sostanza, anche se l’analogia io / mondo esterno = occhio / campo visivo è affascinante, il fatto è che il mondo continua a esistere anche quando chiudo gli occhi.

§§§

Ed ecco che, dopo aver scritto l’ultima frase, mi sono ricordato di Memento.
Per chi se lo fosse perso, Memento ( = “ricordati” in latino) è il film che nel 2000 ha reso noto il regista Christopher Nolan. Come anche altri film di Nolan (principalmente Inception, ma da una particolare angolatura anche The Prestige), è basato sulla relazione-opposizione tra la realtà e la percezione, in questo caso quella particolare forma di percezione del passato che è la memoria. Memento, anche se la cosa può passare inosservata di fronte agli altri suoi numerosi meriti, è un film filosofico.
Di più: Memento è un film ontologicamente realista.
Evitando spoiler indesiderati sulla “fine” perché sarebbero un atto abominevole, diciamo solo che tutto si basa sulla contrapposizione tra la complessità labirintica del mondo esterno e la difettosità della ricostruzione soggettiva che ne fa il protagonista, Leonard, il quale perde la memoria a breve termine quando un paio di balordi fanno irruzione notturna in casa sua; Leonard ne uccide uno ma l’altro lo stordisce danneggiandogli il cervello, uccide sua moglie e poi scompare. Tutto ciò che gli succede dopo l’incidente è come scritto sulla sabbia nella sua memoria, che cancella ogni esperienza pochi minuti dopo averla vissuta (questa sindrome pare esista sul serio: ne parla Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello). Ciononostante Leonard insegue il suo desiderio di vendetta e dà la caccia con scopi omicidi all’assassino, l’inafferrabile “John G”, e per superare il suo handicap usa se stesso come post-it vivente tatuandosi sul corpo gli indizi che man mano raccoglie e conservando fotografie commentate di cose e persone, aiutato e/o intralciato nella sua ricerca da estranei, come l’enigmatico Teddy, che agiscono per i più vari motivi.
La particolarità che ha reso famoso il film è di essere girato al contrario, ovvero comincia dalla fine e termina con l’inizio. Più precisamente: se etichettiamo gli eventi della storia in ordine cronologico da A fino a Z, c’è una linea temporale girata a colori che parte da Z e arriva ad M e c’è una linea temporale girata in b/n che parte da A e arriva ad L, e le due linee si alternano sicché il film segue l’ordine

Z A V B U C T D S E R F Q G P H O I N L M

Non vi preoccupate se vi gira la testa, è normale, se poi lo vedete si capisce meglio. La parte in b/n è una serie di brevi flashback dove Leonard parla al telefono e spiega la sua condizione; la parte a colori è la sua “indagine”, la cui struttura a blocchi regressivi mette noi spettatori nella stessa condizione del protagonista, perché ci troviamo scaraventati nel flusso degli eventi senza conoscerne le cause: il che è molto comico, come nella scena della doccia “non mi sento ubriaco…”, oppure è molto drammatico, come quando all’inizio del film – “Z”, cronologicamente la fine – Leonard uccide Teddy, convinto che sia lui John G. Se abbia ragione o no, per capirlo bisognerà arrivare alla conclusione del film – “M” – dopo averlo visto andare avanti tra innumerevoli peripezie seguendo “ordine e metodo” che gli permettono di sopperire alle sue deficienze gnoseologiche.
Bene, perché dico che Memento è un film ontologicamente realista? Innanzitutto perché è lo stesso protagonista a prendere questa posizione. Posto di fronte ai limiti della sua coscienza conoscente, realizza quanto è assurdo porre il proprio Io come pietra angolare del mondo in cui vive. La percezione non è tutto, la memoria non è totalmente affidabile per nessuno: “i ricordi possono essere distorti, sono una nostra interpretazione, non sono la realtà, sono irrilevanti rispetto ai fatti”. A chi gli chiede che senso ha prendere l’assassino di sua moglie, perché “anche se ci riesci, poi non te lo ricorderai, non saprai mai che è successo”,  Leonard replica “mia moglie merita vendetta, che io lo sappia o no è indifferente. Il fatto che io ricordi o meno le cose non toglie nulla al senso delle mie azioni: il mondo continua ad esserci anche se chiudo gli occhi”, e ribadisce la sua ontologia realista nel monologo finale, quando lanciato a gran velocità al volante della sua macchina chiude gli occhi (!) e, mentre immagina un paradisiaco lieto fine in cui ha vendicato sua moglie (“I’VE DONE IT” scritto sul cuore) e lei è con lui, pensa:

Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente. Devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che quando chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci. Allora, sono convinto o no che il mondo continua ad esserci? C’è ancora? (riapre gli occhi alla realtà) Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo. Io non sono diverso. (dimentica quello che gli è successo poco fa) Allora, a che punto ero?

Ma naturalmente la filosofia di vita del protagonista, in generale e particolarmente in questo caso, non può essere automaticamente identificata con la filosofia di fondo del film. Memento è realista non solo e neanche tanto perché Leonard è realista, ma perché la storia mostra la contrapposizione tra l’Io del protagonista e quello che è il grande rimosso del solipsismo: l’Altro, anzi gli altri. Perché la verità è che Leonard, nonostante il suo sistema di ordine e metodo, è terribilmente indifeso di fronte alle complessità della vita e praticamente chiunque si può approfittare di lui. Il gestore del motel dove alloggia gli fa pagare due stanze, la misteriosa Natalie “chiede” il suo aiuto per liberarsi di uno scomodo creditore, e c’è di peggio: a un certo punto Leonard ha dei sospetti ed esclama “c’è qualche stronzo che vuole farmi uccidere la persona sbagliata!”, ma naturalmente se ne dimentica. E poi c’è Teddy, il misterioso comprimario che conosce molto bene Leonard (ma come?) e lo aiuta a tirarsi fuori da un paio di guai (ma perché?), e in cambio ha ricevuto / riceverà in “Z” una pallottola in testa in quanto identificato come John G (è vero?). Il rapporto tra Leonard e Teddy è chiarito soltanto alla fine del film ovvero all’inizio dell’indagine, in “M”, in un confronto che non è esagerato definire epistemologico (segue spoiler-spiegazione, evidenziate se volete leggere a vostro rischio e pericolo): §→ Teddy, ovvero John Edward Gammell, è il poliziotto che si era occupato dell’irruzione in casa di Leonard. Da quello che dice Teddy emergono diverse ipotetiche verità dei fatti:

•    che Leonard ha già trovato e ucciso il vero John G ma non se lo ricorda;

•    che non c’è nessun John G perché quella notte c’era solo un balordo, quello che aveva già ucciso sua moglie prima di essere ucciso da Leonard che poi ha battuto la testa scivolando in bagno;

•    che sua moglie in realtà era sopravvissuta all’aggressione ed è lui stesso ad averla uccisa per sbaglio, con una serie di ripetute iniezioni di insulina, e poi ha trasferito il ricordo troppo doloroso nella storia immaginaria di “Sammy Jankis” (un precedente caso di perdita di memoria a breve che Leonard racconta nei flashback in b/n), mentre ha alienato il senso di colpa sull’irreale John G a cui dare la caccia.

Tutte queste ipotesi sono possibili e nessuna è certa, fatto sta che da allora Teddy sfrutta Leonard mettendolo su una pista dopo l’altra onde fargli uccidere gente per i propri fini personali. Infatti in “L”, l’ultimo pezzo in b/n, vediamo Leonard strangolare Jimmy Grantz, il fidanzato di Natalie e l’ultimo dei John G designati (uno dei tatuaggi dice che il nome John poteva anche essere James), mandatogli da Teddy che compare a omicidio compiuto per rubare i soldi del morto. Ma Leonard ha capito da un particolare che Jimmy non è il “vero” John G e affronta Teddy, il quale gli dice cose contraddittorie da cui si ricavano le ipotesi qui sopra e soprattutto gli propone una visione decisamente relativista della vita: quando Leonard dice che Jimmy “non era l’uomo giusto”, l’altro risponde “lo era per te… tu non vuoi sapere la verità, tu crei la tua verità… tu vivi in un sogno”. Teddy non nasconde di ricavare un utile dalla caccia ai John G, ma al tempo stesso afferma di farlo per il bene di Leonard, perché fabbricandogli queste verità fittizie gli dà uno scopo di vita. Da spettatori possiamo pensare che ci sia un po’ di sincerità almeno in questa pretesa di buona fede… oppure possiamo pensare che in sostanza Teddy sta incoraggiando in Leonard una visione solipsista perché sa che questo è il miglior modo per sfruttarlo, perché tanto più intensamente crediamo che il nostro io sia il centro del nostro mondo, quanto più facilmente possiamo diventare burattini mossi da qualcun altro.

La nemesi per Teddy è che lui stesso è anagraficamente un altro John G; Leonard, per porre fine a questa catena di cacce all’uomo in cui il suo manipolatore lo ha intrappolato, gli rivolge contro il suo stesso meccanismo relativistico di creazione della verità. Sapendo che dimenticherà inevitabilmente l’epifania che ha appena avuto, segna come indizio da tatuarsi il numero di targa di Teddy, prevedendo che prima o poi “scoprirà” che John Edward Gammell è John G e lo ucciderà, come infatti è accaduto / accadrà in “Z”. ←§ Dopodiché si lancia nella corsa al volante a occhi chiusi e fa il monologo già descritto sopra, e dimentica l’esperienza precedente, e il film finisce.

Ed ecco allora perché l’assioma di (Ryerson che spiega) Wittgenstein per cui «l’esperienza stessa del mondo non è altro che ciò che significa essere un “io”» è falso: non è solo e neanche tanto l’esistenza del mondo ad essere indipendente dal nostro io (questo richiederebbe in un certo senso un atto di fede: Christopher Nolan ha affrontato anche questo problema ontologico in Inception – prima o poi ci farò un post…); è che proprio l’esperienza del mondo, il nostro continuo accumulare percezioni e ricordi di ciò che ci accade, non può essere ridotta al nostro io perché dipende sempre in qualche modo anche (e forse soprattutto) dagli altri. Può essere un bene o un male, ma così è. Gli altri sono a volte un paradiso e a volte un inferno, ma inevitabilmente sono, ci sono: agiscono, ci aiutano, ci intralciano, ci amano, ci odiano, ci salvano, ci uccidono, e tante altre cose.
Io non sono il mio mondo, io non potrò mai essere il mio mondo, perché nel mondo e anche nel “mio” mondo (la piccola parte di mondo che vivo) ci sono anche gli altri io. Oltre il mio ego ci sono gli altri, anche se questo non a tutti fa piacere. Il solipsismo è fondamentalmente un’auto-gratificazione per egocentrici: nessuno è il proprio mondo, tutti siamo un po’ il mondo di qualcun altro e viceversa.
Nessun uomo è un’isola, nessun io è un mondo a sè.

Ricordatevelo.


Giudicatemi (4×07 breaking bad)

GIUDICATEMI
 
(postilla all’episodio 4×07 di Breaking Bad)

 

Non giudicate, per non essere giudicati; Non giudicate e non sarete giudicati;
perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati;
e con la misura con la quale misurate sarete misurati. perdonate e vi sarà perdonato.
Matteo 7, 1-2 Lc 6, 37


 
Giudicare.
Che cosa significa giudicare? Che cosa significa condannare? Che cosa sta dicendo qui Cristo?
 
Quante volte ho sentito citare a sproposito questo “non giudicare” come una specie di manifesto relativista ante litteram: non appiopparmi la tua morale, non dirmi che sto facendo qualcosa di sbagliato, non parlarmi di peccato. Vado a letto con la mia fidanzata? Ma ci vogliamo bene. Evado un po’ di tasse? Ma pochissimo, soltanto quanto basta per difendermi da uno Stato sprecone e vessatore. Ho bevuto e mi metto al volante? Ma io guido benissimo comunque. [                                                                                                 ] (riempire con esempio a piacere). Embè? Ma che vuoi. Non farmi la predica. Come se invece tu fossi sempre perfetto e coerente. Ma chi sei tu per salire su un piedistallo e dire questo è bene questo è male. Lo dice anche il tuo gesù, non giudicare. Vivi e lascia vivere.
Ora, io non sono assolutamente un esperto biblista, non so quale fosse il testo in lingua originale e ignoro completamente quali sfumature di significato avesse quella parola che nella traduzione attuale viene resa con “giudicare”. Però sospetto che proprio su quella parola, “giudicare”, ci sia un malinteso radicale. Perché ciò di cui sta parlando qui Gesù non è il giudicare le azioni, ma il giudicare le persone; e in particolar modo con riguardo al Giudizio per antonomasia, quello ultimo, escatologico.
Noi non possiamo giudicare le persone, perché per farlo dovremmo poter scrutare i cuori, e questo può farlo solo Dio. La nostra conoscenza dell’altro è nel migliore dei casi approssimativa. Chi sa quali abissi di peccato si annidano in colui che crediamo il migliore degli uomini? Chi sa quali aneliti di virtù si agitano in colui che crediamo un mostro scellerato? Giudicare il nostro prossimo è un torto verso il prossimo, perché presumiamo di restringerlo alla nostra miope visione, e verso Dio, perché presumiamo di metterci al suo posto. Ma naturalmente noi giudichiamo il nostro prossimo cento volte al giorno, perché è sempre bello sentirci migliori di lui. Peggio ancora, lo osserviamo e pensiamo “questo è un uomo cattivo; questo è un uomo che andrà all’inferno, o che ci andrebbe se dipendesse da me”. Il che è precisamente l’atteggiamento da cui ci mette in guardia Cristo.
È degno di nota che la Chiesa, la quale si esprime in modo certo sulla salvezza dei beati, non si è mai espressa con analoga sicurezza sulla dannazione di qualcuno. Non esistono i santi del male. Neanche di Hitler, di Stalin, del peggior criminale che potete immaginare, si può stare sicuri che sia finito all’inferno. Perché ciò che accade in un’anima nell’ultimo istante, lo sa solo Dio. Neppure su Giuda, per il quale peraltro Gesù ha parole decisamente esplicite (Mt 26:24, Mc 14:21), la Chiesa ha mai osato sbilanciarsi.
Insomma, noi non possiamo giudicare le persone.
 
Ma le azioni invece sì.
Quelle possiamo, anzi dobbiamo, anzi non possiamo non giudicarle. Io non scruto il cuore del mio vicino, ma posso vedere un po’ di quello che fa, e posso giudicare quello che vedo, e dai frutti riconosco l’albero. Fare X è bene. Fare Y è male. Si potrà discutere all’infinito su chi o cosa decide X e Y, ma il giudizio morale fa parte della natura umana. Quella cosa chiamata coscienza può essere anestetizzata, distorta, orientata alle morali più eterogenee, ma non può essere cancellata. Tutti giudicano le azioni di tutti gli altri, e mi diverte sempre notare come qualunque relativista etico, chiunque teorizza l’inesistenza oggettiva del bene e del male, all’atto pratico e senza soluzione di continuità diventa immediatamente capace di riversare il proprio indignato biasimo su qualcuno-qualcosa (il tale politico, la tale chiesa, il tale dio) che ha fatto qualcosa di sbagliato.
Un mondo senza giudizi morali sulle azioni può esistere solo sulla carta, nella testa di un recluso in una torre d’avorio. Nella realtà un mondo simile è invivibile, perché è impossibile, perché è insensato.
 
Esempio.
 
Ho già parlato della serie televisiva Breaking Bad. Capolavoro. Scava letteralmente nell’anima dei personaggi. Non si pronunciano praticamente mai le parole “bene” o “male”, non si fa mai un predicozzo, eppure in fondo non si parla che della differenza tra fare cose giuste e fare cose sbagliate. Senza essere moralista, è un’opera profondamente morale.
La scena che segue è tratta dal settimo episodio della quarta stagione, “Problem Dog”. Devo per forza spoilerare qualcosa per spiegare il contesto. Il personaggio, Jesse, uno dei due produttori di metanfetamina protagonisti della serie, ha compiuto un’azione di cui non va fiero: ha ucciso un uomo. Si trattava di un altro chimico con cui il loro datore di lavoro, uno spacciatore di altissimo livello, voleva sostituirli. Per evitare di essere licenziati, leggi uccisi, Walt e Jesse hanno dovuto eliminare il concorrente. Walt ha dato le istruzioni e Jesse ha eseguito. Tremando e piangendo. Ha guardato negli occhi quest’uomo indifeso, mite, gentile, innocente, e gli ha sparato in faccia.
E ora ne è corroso dentro.
In questa scena lo vediamo tornare a un gruppo di supporto per tossicodipendenti che in passato aveva frequentato (anche se in realtà all’epoca ci andava perché voleva trovare dei clienti a cui spacciare droga: che bastardo! ops, l’ho fatto di nuovo…). Il leader di questo gruppo, sicuramente animato dalle migliori intenzioni, sforna il consolidato repertorio di luoghi comuni per aiutare i partecipanti al gruppo. Qui vediamo Jesse confessare nei limiti del possibile il suo gesto, dicendo di aver ammazzato “un cane” invece di un uomo.
 
 
 

 
(per la traduzione ho preso i sottotitoli di ITASA)
 
Leader: La verita' e' che non possiamo cambiare il passato: quello che e' fatto, e' fatto. Dobbiamo essere responsabili delle nostre azioni, ma mettere noi stessi sotto processo agendo come giudice, giuria e boia non e' la risposta. Perche' la maggior parte delle volte questo giudicarci ci fara' ripetere tutto da capo. Giusto? "Sono uno stronzo", "E' una situazione senza speranza", "A che scopo?", "Penso che mi faro' una dose". (guarda Jesse) Jesse? Cosa ti e' successo, ultimamente?
Jesse: Ehm.Sono tornato a farmi di cristalli (così nel gergo chiamano le metanfetamine).
Leader: Sei pulito adesso?
Jesse: Si'. Quattro giorni. Che risultato, eh?
Leader: Quattro giorni sono quattro giorni. Sei qui. Stai ancora lavorando in quella lavanderia? (il posto in cui ha detto di lavorare Jesse, che in realtà è dove producono la droga) Come vanno le cose li'?
Jesse: Fanno cagare.
Leader: C'e' qualcosa di cui vuoi parlare?
Jesse: Un paio di settimane fa, ho… ammazzato un cane.
Leader: L'hai investito con la macchina?
Jesse: No, l'ho… l'ho soppresso. L'ho guardato morire. L'ho guardato dritto negli occhi. Non capiva cosa stesse succedendo, non capiva il perche'… Era solo… spaventato, e un attimo dopo… era morto.
–       Se stava soffrendo, e' stato un gesto di compassione.
Jesse: No, non stava male. No, era tipo un… non so, tipo un… cane problematico.
–       Che aveva fatto? Aveva morso qualcuno?
Jesse: Questo cane non ha mai… mai morso nessuno. Era…
–       Una volta che raccogli la pietra, passi direttamente al lato oscuro. Puo' succedere di tutto.
Jesse: Non e' stata nessuna pietra a costringermi.
–       Ma qual era il problema? Perche' hai dovuto ammazzarlo?
Leader: Lasciatelo parlare, per favore. Forse non sono i dettagli che contano, giusto? Cosa provi per quello che hai fatto, Jesse?
Jesse: Non lo so.
–       Chi se ne frega di cosa provi? Che razza di persona ammazza un cane senza motivo?
Leader: Colleen…
–       Puoi mettere un'inserzione sul giornale. Puoi lasciarlo in un canile. Non te ne stai seduto a parlare di uccidere un povero animale innocente!
Leader: Colleen! Non siamo qui per giudicare.
Jesse: Perche' no? Perche' no? Magari… magari ha ragione. Magari avrei dovuto mettere un'inserzione sul giornale, o fare qualcosa di diverso. Il fatto e' che… se compi determinate azioni e non ci sono conseguenze… qual è il significato di tutto? Che senso ha?
Leader: Ok, tutto questo riguarda l'auto-accettazione. Tormentarti non ti aiutera' a dargli un senso.
Jesse: Quindi dovrei smettere di giudicare e accettarlo?
Leader: E' un inizio.
Jesse: Quindi qualsiasi cosa faccia, urra' per me, perche' sono una bella persona? Va tutto bene? Non importa quanti cani ammazzo, posso… farne un inventario, e accettarlo? Cioe', investi in retromarcia con un camion tuo figlio (si riferisce a quello che ha confessato di aver fatto il leader del gruppo quando era drogato), e puoi accettarlo? Che mucchio di stronzate!
Leader (sguardo infastidito): Ehi, Jesse, so che stai soffrendo…
Jesse: No, sai una cosa? Il vero motivo per cui sono qui? (pausa drammatica) Per vendervi metanfetamine! Per me non siete altro che clienti! Vi ho preso per il culo! Ti sta bene? Eh? Lo accetti?
Leader: (sguardo di pietra) No.
Jesse:  (si guarda attorno) Era ora (si alza e se ne va).


Futurama 6X09 A Clockwork Origin

Futurama 6×09, A Clockwork Origin, è una puntata molto divertente e perfino istruttiva, perciò se ne avete la possibilità guardatela. Altrimenti accontentatevi di questo post.

Tutto comincia quando il Professor Farnsworth incappa in una manifestazione di creazionisti, naturalmente raffigurati come deficienti anti-scientifici (c’è pure il Flying Spaghetti Monster). Il Professore cerca di convertirli all’evoluzionismo e litiga con uno scienziato antievoluzionista, restio a credere che i suoi antenati fossero scimmie, anche perché lui è un orangutango. Ogni tentativo del Professore, dall’illustrare ogni singolo passaggio della catena evolutiva al trovare egli stesso l’anello mancante, si rivela inutile.

Resosi conto dell’impossibilità di abbattere i dogmi dei creazionisti, il Professore sconfortato decide di abbandonare la Terra e auto-esiliarsi su un pianeta privo di forme di vita, dove si fa accompagnare dalla banda della Planet Express. Arrivati  sul pianeta deserto, il Professore libera alcuni microscopici robot da lui creati per depurare l’acqua. Sopresa: i nanobot evolvono istantaneamente in trilobots e fagocitano l’astronave, bloccando il suo equipaggio sul pianeta.
Per la bizzarra logica che governa il mondo di Futurama, l’evoluzione robotica segue lo stesso percorso di quella umana ma a ritmo esponenzialmente più veloce e così, dopo un paio di giorni di traversie tra dinosauri e cavernicoli,

i nostri incontrano una scienziata robotica di nome Widnar (ovvio anagramma), che esulta per aver trovato la conferma delle sue ardite teorie sulla vita a base di carbonio. La roboscienziata li porta al museo in città (vedi immagine iniziale, naturalmente è facile capire qual è la citazione…) per esporre alla comunità scientifica la sua grandiosa scoperta: dall’evoluzione casuale è nata non solo la vita robotica, ma anche la vita organica!
 

Ed ecco il bello: quando il Professore la contraddice e afferma di essere stato egli stesso a creare la vita robotica (poco tempo prima per lui, moltissimo tempo prima per loro), i robot lo contestano aspramente. C’è perfino un robofarrnsworth che dichiara di voler abbandonare il pianeta. Tutte le prove addotte dal Professore, come la foto di Bender che doma un robosauro, sono inutili. Il dogma dell’evoluzione casuale non può essere contestato: mentre fuori si è radunata una folla inferocita di manifestanti evoluzionisti (che usa gli stessi cartelli e slogan, ovviamente di segno inverso, che usavano i creazionisti sulla Terra), l’equipaggio della Planet Express è arrestato per “crimini contro la scienza” e portato in tribunale per il processo del secolo “tutti contro Farnsworth”.

La posizione processuale dei nostri eroi è debole, ma l’abile strategia dell’avvocato (Bender!) fa guadagnare tempo e convince la giuria a rimandare la decisione al giorno seguente. Sennonché mentre i nostri dormono l’evoluzione continua, e il mattino dopo i robot sono già diventati intelligenze gassose altamente astratte che ormai reputano tutti gli esseri fisici, compresi gli imputati, del tutto privi d’importanza e perciò liberi di andarsene.
 
Alla fine i nostri tornano sulla Terra con un’astronave fatta di rottami, e il Professore racconta le sue traversie allo scienziato orangutango. Il creazionista ammette che quei robot si sono evoluti in forme di vita a complessità crescente, e perciò l’evoluzionismo è plausibile; d’altra parte il Professore ammette che quell’evoluzione non è avvenuta per caso ma a partire da un atto di intelligenza creativa, e perciò anche il creazionismo è plausibile. L’unico che non si ritrova in questa ritrovata concordia è Bender, il quale suggerisce che l’evoluzione organica terrestre potrebbe essere stata iniziata da un’intelligenza creatrice robotica, ma entrambi  gli scienziati bollano questa teoria come ridicola dunque implausibile.
 
Volevo scrivere qualcosa di intelligente a commento, ma non ho abbastanza tempo ho fiducia nelle capacità del lettore di fare da solo le opportune considerazioni.


Il cerchio si apre, il cerchio si chiude

Il cerchio si apre, il cerchio si chiude

 

 

 

Niente spoiler sulla conclusione di Lost. Le due immagini sono abbastanza avulse dal contesto da essere non rivelatorie. Volevo solo dire che all’ultima scena mi sono commosso quasi alle lacrime. Finale epico e tristissimo e bellissimo e forse l’unico veramente adatto a coronare il tutto. Sì vabbè potevano risparmiarsi il tocco paraculo di sincretismo della vetrata con i simboli, chi ha visto mi capisce, ma pazienza. E pazienza pure per qualche mistero che si sono persi per strada e qualche domanda che non avrà risposta, alla fine la storia sono i personaggi e la mitologia è contorno. E Lost, al netto dei piccoli innegabili difetti, è una grande storia.  

Non posso dire di più. Non è tanto che non voglio spoilerare chi aspetta di vederlo, è che veramente non sono capace di dire di più, sono ancora troppo emotivamente sconvolto. Per adesso posso dire solo una cosa: chi non è da solo non è mai perduto.

 


Ab Aeterno

LOST 6X09: Ab Aeterno

 

 

        Who are you?

        My name is Jacob. I'm the one who brought your ship to this Island.

        You brought us here? Why?

        [picks up the bottle of wine] Think of this wine as what you keep calling hell. There's many other names for it too: malevalence, evil, darkness. Here it is, swirling around in the bottle, unable to get out because if it did, it would spread. The cork [raises cork] is this Island and it's the only thing keeping the darkness where it belongs. That man who sent you to kill me believes that everyone is corruptable because it's in their very nature to sin. I bring people here to prove him wrong. And when they get here, their past doesn't matter.

        Before you brought my ship, there were Others?

        Yes, many.

        What happened to them?

        They're all dead.

        But you brought them here. Why didn't you help them?

        Because I wanted them to help themselves. To know the difference between right and wrong without me having to tell them. It's all meaningless if I have to force them to do anything. Why should I have to step in?

        Because if you don't, he will.

[ Jacob pauses for a moment, taking Richard's words into consideration]

        Do you want a job?

        A job?

[ Jacob nods]

        Doing what?

        Well, I don't want to step in. Maybe you can do it for me. You can be my representative and intermediary between me and the people I bring to the Island.

 

 

Per una qualsiasi divinità benevola o approssimativamente tale, che voglia aiutare gli esseri umani senza costringerli (perché altrimenti It's all meaningless), ci sono solo tre possibilità.

Può farsi da parte e sperare che ce la facciano da soli. Ma così finisce sempre allo stesso modo, cioè male. “It always ends the same”.

Allora può scegliere qualcuno tra loro e dargli un incarico di fiducia, per assistere tutti gli altri. Un rappresentante, un intermediario, un profeta, un unto. Questo dà maggiori possibilità, ma ancora non c’è garanzia di successo: anche gli intermediari e i profeti cadono, falliscono, magari tradiscono. Può capitare. È accaduto in passato, anche oggi, e accadrà di nuovo e poi di nuovo. Come si diceva in un’altra eccezionale serie tv, “Tutto questo è già successo e succederà ancora”. Perchè la verità è che quell’uomo vestito di nero non ha torto: “everyone is corruptable because it's in their very nature to sin”. È proprio così. Non nella nostra natura per come doveva essere, ma nella nostra natura come è: corrotta. Tutti cadono. Tutti sbagliano. Tutti abbiamo il peccato nel dna, compresi i profeti. Dentro ognuno di noi ci sono la luce e l’oscurità, il bianco e il nero, e il risultato sono tante diverse gradazioni di grigio, e quell’uomo vestito di nero se ne approfitta. L’oscurità si diffonde. E gli uomini preferirono le tenebre alla luce.

 

E allora non resta che una sola possibilità. Bisogna entrare direttamente nella storia, agire in prima persona. Step in: camminare dentro qualcosa, intervenire, entrare dentro. Proprio con i piedi, con un corpo. Non più come un’entità astratta, benevola e però remota e nascosta; ma fisicamente, concretamente, tangibilmente. Con un corpo, dico: carne e sangue. Anche sporcandosi se necessario, fino a farsi male, a soffrire, a sanguinare. Morire. Perché nessun essere umano da solo può confutare quell’uomo vestito di nero. L’unico che potrebbe farlo sarebbe uno che fosse umano, sì, ma anche incorruttibile: più che umano. Quello sarebbe l’unico che potrebbe guarire la natura umana, dare scacco matto al male, illuminare l’oscurità e diradare il fumo. Questa è l’unica estrema possibilità che resta.

Ma per incamminarsi lungo questa strada, per poter fare quell’inaudito passo dentro la storia, non basta essere una qualsiasi divinità benevola o approssimativamente tale: bisogna proprio essere Dio.

 

 

 

P.S.: a quanto pare, assolvere dai peccati è un atto che richiede un potere maggiore del dare l’eterna giovinezza: difatti Jacob può fare la seconda cosa ma non la prima. Cfr Lc 5, 17-26.

 

P.P.S.: ho sbagliato ancora una volta: l’episodio finale di LOST non si intitolerà It Only Ends Once, come avevo pronosticato, ma semplicemente… The End !


LOST quinta stagione

 

(spoiler sulla quinta stagione di LOST, compreso il finale)

 

Sono già passati dieci mesi? Oh, finalmente l’attesa è finita. Stasera ricomincia LOST, grazie anche alla furbizia politica gentile disponibilità di Obama, e non sto più nella pelle: questa sarà l’ultima stagione, la conclusione della serie, il grande The End (?). L’evento merita un post.

 

A quanto pare le mie precedenti elucubrazioni sulla mitologia della serie si sono dimostrate al 90% sbagliate, ma chi se ne frega, l’evoluzione della storia ha se possibile addirittura superato le mie aspettative. Perché la rivoluzione cromatica (testo nero su sfondo bianco, cioè il contrario di com’è sempre stato) con cui si chiudeva The Incident, l’ultimo episodio della quinta stagione, non è semplicemente un fatto estetico. In LOST la forma è sostanza. Il rovesciamento tra bianco e nero ha un preciso significato simbolico, legato al finale col botto della puntata – quel candore abbacinante che ha riempito lo schermo e ha lasciato lo spettatore in ginocchio a urlare in balia di un cliffhanger angosciante a chiedersi se nella sesta stagione, per la discontinuità del continuum spazio-tempo-causale, tutto ciò che ha visto finora sarà cambiato – e alla lotta tra i due personaggi introdotti nell’inizio della puntata, i due avversari, l’uno vestito di bianco e l’altro di nero.

Anzi, rivediamoci il meraviglioso inizio di The Incident, naturalmente in lingua originale:

 

 

 

 

Ecco, questi pochi minuti sono pura tensione narrativa, sono puro LOST: nessun altro telefilm riesce a rivoluzionare completamente nel giro di pochi secondi quello che sapevi, quello che credevi di sapere, quello che pensavi di poter immaginare. Soddisfano un’attesa di lunghissima data e al tempo stesso fanno presagire un orizzonte narrativo completamente nuovo e inaspettato.

Jacob, finalmente. L’entità nascosta, il genius loci dell’Isola, il grande personaggio ignoto di cui sentiamo parlare da tanto tempo e di cui soltanto una volta (non) abbiamo sentito la voce nella misteriosa capanna nella giungla. Nell’epico finale di stagione l’abbiamo infine visto, abbiamo visto per intero la solenne Statua dal Piede a Quattro Dita su cui speculavamo da anni, e abbiamo scoperto che Jacob – ma chi è? che cosa è? – ha un avversario altrettanto misterioso, con cui tiene conciliabolo sulla spiaggia mentre la Black Rock, la nave destinata a finire collocata intatta nel bel mezzo della giungla, si avvicina all’Isola.

Jacob, vestito di bianco, ed Esaù il suo opponente (che i fan su internet hanno soprannominato “Esaù” per ragioni di tipo biblico-simbolico), vestito di nero, hanno un dialogo estremamente suggestivo e interessante. Il misterioso antagonista sembra disprezzare gli uomini e non volerli sull’Isola: They come, fight, they destroy, they corrupt; it always ends the same.” (Arrivano, combattono, distruggono, corrompono; finisce sempre allo stesso modo). Ma Jacob invece dimostra una prospettiva diversa: It only ends once; anything that happens before that, is just progress.” (Finisce solo una volta; tutto ciò che accade prima, è semplicemente progresso); si mostra più favorevole agli uomini e al loro libero arbitrio, alla loro capacità di migliorare nonostante tutti gli sbagli della storia, e pare propenso ad attirarli sull’Isola.

Il dissidio tra i due è altresì confermato dalla domanda retorica che l’antagonista pone tranquillamente a Jacob, il quale risponde altrettanto tranquillamente:

hai idea di quanto io desideri ardentemente ucciderti?”

“Sì.”

“Uno di questi giorni, presto o tardi, troverò una scappatoia, amico mio”.

 

Insomma, questi due avversari sembrano due esseri preternaturali: due entità antropomorfe che giocano tra di loro quella che sembra un’epica e ancestrale partita a backgammon, con regole prestabilite (es. non ci si può uccidere direttamente), l’Isola come posta in palio, il mondo come campo da gioco, e gli esseri umani come pedine.

Gli esseri umani come pedine: ma con approcci diversi. Laddove Jacob (che nei flashback della puntata scopriamo aver visitato in incognito e toccato tutti i protagonisti, anche nella loro infanzia, di modo che essi erano destinati ad andare sull’Isola…), conformemente alla idee espresse, sembra fare affidamento sulla scelta dei personaggi ed incoraggiarli, oppure compatirli per il loro ruolo tragico, il suo antagonista dimostra invece un approccio assai più manipolativo. E alla fine, quando scopriamo la verità sulla resurrezione di John Locke, quando vediamo qual è la scappatoia escogitata da questa arcana entità – che a questo punto possiamo supporre essere addirittura nientemeno che The Black Smoke Monster, il “Mostro di fumo nero” – per uccidere Jacob, non possiamo che restare attoniti nel capire che tutto ciò che abbiamo visto in questi cinque anni non è stato altro che una lunghissima, complicatissima, avvincente partita tra il Bianco e il Nero. Che è arrivata ad uno scacco, ma non è ancora finita.

 

 

(trattasi di un suggestivo promo spagnolo che ha fatto giustamente il giro della rete; l’idea di mostrare i personaggi del telefilm su una scacchiera è veramente ottima)

 

Così, alla soglia dell’ultima stagione, la serie ha dimostrato ancora una volta di sapersi rinnovare nella fedeltà a sé stessa. La cifra stilistica di LOST è la continua frattura tra fabula e intreccio, il mostrare dopo ciò che è venuto prima e viceversa, in un puzzle intricatissimo i cui tasselli sono distribuiti in ordine sparso e spetta all’intelligenza dello spettatore ricomporre l’ordine. Ciò che nelle prime tre stagioni furono i flashback, e nella quarta erano i flashforward, e nella quinta sono stati i “flash temporali”, ora nella sesta stagione saranno forse i “what if”: ciò che è successo se Juliet ha detonato la bomba atomica sotto la stazione Cigno, ciò che succede se il volo 815 atterra normalmente a Los Angeles. Una realtà separata?

(a proposito, chi è che trova la citazione?)

Ancora una volta il quadro si complica, si aggiunge un ulteriore livello narrativo, e le unità di spazio-tempo-azione sono ancor più deframmentate. Ma la fine della storia è ormai vicina, e la storia finisce solo una volta.

 

(e a proposito, nonostante io abbia cannato le mie precedenti elucubrazioni, voglio lanciarmi in un’altra teoria: il titolo dell’episodio conclusivo sarà proprio It Only Ends Once; non so perché, ma “ci sta” veramente bene)

 

(il Lost Supper, il poster promozionale della sesta stagione, con i personaggi in posa come nell’Ultima Cena di Leonardo; e naturalmente sono fioccate le interpretazioni sul significato delle posizioni dei personaggi in relazione al dipinto originale…)

 

 

 

P.S.

Oh, un’ultima cosa, last but not lost… cioè least.

Per la prima volta, credo, noi italiani aficionados delle serie americane abbiamo la possibilità di soddisfare la nostra passione in modo semplice ma irreprensibile, coniugando la nostra coscienza morale (quelli di noi che ne hanno una) e il rispetto della legge sui diritti d’autore. Come si spiega qui, Telecom mette a disposizione un sito da cui scaricare legalmente la puntata, già poche ore dopo che è andata in onda oltreoceano, in inglese con sottotitoli in italiano, al prezzo di 1,99 €.

Ci sono due ottimi motivi per aderire a un’iniziativa del genere. Innanzitutto perché è legale e si paga un prezzo equo, e perciò risolve i problemi del fedele spettatore di LOST, quello che non vuole aspettare che passino la serie in tv e non vuole aspettare l’uscita del cofanetto (che comunque comprerà), e che però un po’ si duole a scaricare da internet sia perché non è proprio legale (sì vabbé siamo a livello bagatellare però non è legale lo stesso) e sia perché non paga niente (e non è giusto usufruire gratis di qualcosa per cui qualcuno ha lavorato e merita di essere remunerato – che poi alla lunga è anche controproducente perché tante serie belle chiudono proprio in quanto non riescono a fare abbastanza ascolti televisivi, quando in realtà hanno un discreto seguito su internet di spettatori anche appassionati che però non sono paganti e perciò contano come il due di picche e alla fine assistono impotenti alla chiusura della serie).

Il secondo motivo, che poi deriva direttamente dal primo, è che bisogna dare un segnale e far vedere che l’iniziativa è buona e garantisce ritorni economici, perché questo è il futuro. Sono fermamente convinto che le serie televisive prima o poi si sganceranno dal medium tv, o almeno non sarà più questo il veicolo privilegiato, e saranno diffuse direttamente online. Non è altro che lo sbocco naturale di un processo ineluttabile nella crescita e maturazione del prodotto audiovisivo serializzato, meno episodi autoconclusivi e più trama orizzontale, e in questo processo evolutivo LOST ha rappresentato una fase profondamente significativa, forte anche del fenomeno della speculazione teoretica post-puntata (ovvero, dopo aver visto l’episodio il fedele spettatore va su internet a leggere teorie e discutere sui forum con altri spettatori). E insomma siccome prima o poi ci arriveremo, ma meglio prima che poi, è interesse di tutti gli appassionati che l’iniziativa abbia successo.

Perciò cari lettori appassionati di LOST e serie in genere, invece di farvi portare gratis la puntata dai vari quadrupedi e fiumiciattoli, fate un piccolo sforzo e pagateli questi 1,99 € a episodio. Ne vale la pena.

 

ΘΕΟΙ ΤΟΣΑ ΔΟΙΕΝ ΟΣΑ ΦΡΕΣΙ ΣΗΣΙ ΜΕΝΟΙΝΑΣ

ΘΕΟΙ ΔΕ ΤΟΙ ΟΛΒΙΑ ΔΟΙΕΝ

 

 


The Prisoner 2009

The Prisoner (2009)

 

 

 

Il più grande errore che si possa fare nel guardare Il Prigioniero del 2009, la nuova miniserie in sei episodi che è il rifacimento della celebre omonima serie del 1967, è aspettarsi qualcosa che ricalchi l’originale; e leggo su internet molte opinioni che si dichiarano deluse dalla miniserie proprio per questo motivo, perché “non è come la vecchia serie”.

Ma certo che non è come il Prigioniero originale! Non poteva e non doveva esserlo, altrimenti non avrebbe avuto senso. A me, che ho visto e ammirato il telefilm originale, questa miniserie è piaciuta moltissimo, e l’ho veramente apprezzata nel momento stesso in cui ho capito che dovevo smettere di fare continuamente il paragone con la vecchia serie.

Questo concetto è simboleggiato all’inizio stesso della miniserie, quando Numero 6 si risveglia nel deserto in prossimità del Villaggio e incontra il vecchio Numero 93 in fuga, vestito proprio come il 6 della serie originale, che gli dice “dì a tutti che me ne sono andato” e muore fuori dal Villaggio, finalmente libero. È noto che la produzione aveva chiesto a Patrick McGoohan stesso, il protagonista della serie originale, di interpretare Numero 93 (9-3=6); anche se poi lui ha rifiutato e per Numero 93 hanno trovato un altro attore che gli assomigliava, il messaggio è il medesimo: il vecchio Numero 6 è fuori dal Villaggio, è “out”, ora c’è un nuovo Numero 6 ed è diverso.

 

Detto questo, la mia interpretazione, opinabile ma spero non dissennata, è che fondamentalmente il Villaggio rappresenta l’ideologia: l’eterna tentazione dell’uomo di rendere perfetta la realtà costruendone una propria versione ridotta, illusoria, manipolabile a piacere. Di seguito vi espongo  la mia spiegazione, naturalmente spoiler sulla miniserie compreso il finale. Evidenziate per leggere.

 

 

 

 

Helen, la moglie di Curtis (Ian McKellen), ha scoperto che esistono ulteriori livelli di coscienza, più profondi dell’inconscio per come esso è comunemente inteso, e che esiste un modo biochimicamente indotto per creare una allucinazione collettiva inconscia. Tale allucinazione è condivisa da tutti coloro che vi prendono parte ed influisce sul loro comportamento conscio. Il Villaggio stesso è quest’allucinazione ed Helen è stata “la prima persona in assoluto nel Villaggio”, ergo lei è la Numero 1. Curtis l’ha raggiunta subito dopo e perciò è il Numero 2.

La particolarità della Numero 1 è che il suo sogno dà integrità strutturale all’allucinazione collettiva, perciò è impegnata a sognare continuamente ed è in costante fase onirica sia nel mondo reale e sia nel Villaggio stesso. Nelle occasioni in cui Numero 2 sentendo la mancanza della sua compagnia la risveglia (nel livello di coscienza del Villaggio), si producono i buchi nel terreno, ovvero dei veri e propri bug nel tessuto connettivo dell’allucinazione condivisa, che portano a ciò che giace al di sotto dell’ultimo livello di inconscio: la totale mancanza di coscienza, l’oblio.

L’esistenza della Numero 1 deve restare ignota agli altri abitanti del Villaggio, perché altrimenti essi prenderebbero coscienza della natura non reale dell’allucinazione condivisa, e perciò tutti ripetono che “non c’è Numero 1”.

 

Nel mondo reale Curtis ha fondato la Summakor, la società in cui Michael (Jim Caviziel)  lavorava come analista e da cui ha dato le dimissioni. Osservo che “Summakor” è una parola che mi sembra una crasi tra “summon”, evocare, e “maker” “creatore”, il che già suggerisce la sua funzione. Lo scopo ufficiale della Summakor è aiutare le persone che sono instabili e “difettose” a diventare migliori nel mondo reale (anche se aleggia il sospetto che il fine ultimo sia, come sempre, il potere). A questo scopo la società individua tramite gli analisti le persone adatte e somministra loro dei farmaci, probabilmente una variazione delle droghe che prende Numero 1 (questo particolare si evince dall’accenno finale di 147 nella realtà alla “pulizia del lobo frontale” che ha ricevuto): in questo modo i partecipanti all’allucinazione vivono, oltre alla ordinaria vita conscia nella realtà, una vita controllata nell’inconscio collettivo del Villaggio, in cui tutto dovrebbe essere perfetto ed essi possono sviluppare quelle “virtù” che hanno perduto nel mondo reale, virtù che consequenzialmente si manifestano anche nel loro comportamento conscio.

D’altra parte, notando la devozione verso Curtis di 147 (ovvero della persona reale che vive come 147 nel Villaggio), è facile intuire che chi controlla le persone nel Villaggio le controlla anche nella realtà.

Importante notare che la vita reale accade non “prima” della vita nel Villaggio, ma in parallelo. Alla fine si comprende che i “flashback” di Numero 6 sugli eventi successivi alle sue dimissioni non sono affatto dei flashback, e che Michael a New York e Numero 6 nel Villaggio agiscono all’incirca in contemporanea (alla fine del quinto episodio Michael vede Numero 6; quando nel sesto episodio incontra Sarah nel mondo reale, la riconosce proprio perché l’ha già conosciuta come 313). Probabilmente l’ingresso di Michael nell’allucinazione collettiva, il suo risveglio nel deserto come Numero 6, accade nel momento stesso in cui la Summakor viene a conoscenza delle sue dimissioni.

 

Ora, nell’ideologia si verifica sempre l’eterogenesi dei fini e tutti i tentativi di costruire un mondo perfetto sono destinati al fallimento. il Villaggio non sfugge a questa regola ineluttabile: gli abitanti che esistono anche nella realtà sentono che il luogo in cui vivono è comunque una prigione.  Essi sognano dei sogni dentro il sogno che sono la loro stessa vita reale, invertendo la relazione conscio/inconscio e perciò mettendo a rischio la finalità “terapeutica” e l’esistenza del Villaggio stesso. Perciò Numero 2 li sorveglia attentamente, instaurando un controllo pervasivo che non fa altro che ripetere alcuni difetti del mondo reale (delazioni, bugie, abusi psicologici, incarceramenti), e ricorrendo al Rover, la sfera bianca, per impedir loro di scappare.

Inoltre, non tutti gli abitanti del Villaggio esistono nella realtà: ci sono anche degli abitanti che sono delle pure proiezioni mentali dei sognatori e non hanno una vita parallela. Tutti i bambini che sono nati nel Villaggio non sono altro che l’allucinazione dei loro genitori; e probabilmente il “Modern Love Bureau”, l’agenzia di appuntamenti del Villaggio gestita da 1891 per accoppiare “scientificamente” le anime gemelle, non è che un modo per dare agli abitanti del villaggio che esistono anche nella realtà il partner “fittizio” che desiderano. Così, ad esempio, 147 può ritrovare nel Villaggio la moglie e la figlia che ha perso nel mondo reale per il suo cattivo comportamento.

Fa eccezione Lucy, la donna che Michael incontra al bar a New York e poi conosce nel Villaggio come 415: per svolgere il compito assegnatole da Curtis, lei entra davvero nell’allucinazione –  questo succede quando perde brevemente  i sensi fuori l’appartamento di Michael all’inizio del quarto episodio, verosimilmente dopo aver assunto le droghe allucinatorie – e il suo gettarsi alla fine nel buco dell’oblio è dovuto al fatto che nella realtà muore quando l’appartamento di Michael esplode.

 

Il primo abitante “fittizio” del Villaggio è stato 11-12, cioè appunto il figlio di Numero 1 e Numero 2, che è il più ragazzo più grande proprio perché è il figlio della prima coppia del Villaggio: il figlio che Curtis ed Helen non hanno potuto avere nel mondo reale. Tuttavia 11-12 diventa abbastanza maturo da percepire la propria natura di finzione, ne soffre profondamente e si ribella al padre in vari modi (anche attraverso la sua relazione con 909, il luogotenente di Numero 2, il che è davvero ironico se si considera che Ian McKellen è un attivista gay!).

Il sogno si oppone al sognatore, l’illusione ideologica fallisce e si rivela insostenibile: 11-12, deluso dal fatto che sua madre non può farlo nascere al mondo reale a cui anela,  la uccide nel Villaggio (determinando così il ritorno della coscienza di lei nel mondo reale) e si uccide.

Dopo la morte di Numero 1 e la conseguente comparsa di numerosi buchi, il Villaggio si avvia alla dissoluzione nell’abisso dell’oblio: ma Numero 2 trova la soluzione, perché manipola gli eventi in modo tale che dapprima Numero 6, portato a ciò dalla sua stessa bontà, sia tentato di assumere il ruolo di nuovo 1 per salvare gli abitanti del Villaggio  (gli abitanti del Villaggio gridano “Six is the One!”), e poi che 313 si offra volontaria e diventi lei la nuova sognatrice che dà integrità strutturale all’allucinazione condivisa.

A questo punto il suo compito è concluso, il figlio sognato è perduto, Helen è sveglia nella realtà: Numero 2 si uccide nel Villaggio e d’ora in poi Curtis vivrà solo nella realtà, ritirandosi con sua moglie a vita privata (la disillusione dopo l’ideologia?). Nel Villaggio Numero 6 diventa il nuovo Numero 2, mentre nella realtà Michael assume il controllo della Summakor, con la speranza di poter costruire un Villaggio migliore per i suoi abitanti e usare a fin di bene il potere della società.

 

Ma quella lacrima finale di 313 in stato catatonico suggerisce che la speranza è vana: dopo il fallimento di un’ideologia si cerca di sostituirla con un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, sempre con le migliori intenzioni… sempre inutilmente.

La realtà non può essere ridotta a un Villaggio.