Archivi categoria: serialità

Il mistero dell’Oggetto Eterno (2)

( continua da)

Spiegazione.
Chi mi conosce sa che a me piacciono molto le storie di fantascienza, e mi piacciono le storie di viaggi nel tempo e le speculazioni sui paradossi insiti nell’operazione. Sulla wikipedia inglese c’è una pagina molto interessante, di cui purtroppo non esiste la versione italiana (qualcuno la traduca!), che riporta numerosi esempi tratti dalla fiction di paradossi ontologici: cioè quelle situazioni in cui è l’esistenza stessa di qualcosa o qualcuno ad apparire impossibile, paradossale, una clamorosa deroga alla regola per cui ogni effetto è preceduto dalla causa.
La storia del precedente post è un esempio di paradosso ontologico basato su quel che a me piace chiamare un Oggetto Eterno, laddove eterno non significa “illimitato”, ma bensì qualcosa che è in qualche modo fuori dal tempo, sganciato dalla normale catena di cause ed effetti. La chiave della storia è un Oggetto Eterno: ogni versione temporale dell’uomo la riceve dalla versione precedente e la passa alla versione successiva, ma non si può capire in quale momento abbia fatto il suo ingresso nel tempo, e perciò non si capisce neppure chi l’abbia costruita – se mai lo è stata. La chiave è un effetto senza una comprensibile causa fisica: la sua storia è un circolo chiuso senza inizio e senza fine.
Affascinante, no?
E se ci fosse davvero, là fuori, qualcosa del genere? Cosa implicherebbe?

Naturalmente sarebbe facile liquidare facilmente la questione dicendo che gli Oggetti Eterni non esistono, o almeno non se ne è ancora scoperto uno, e che perciò queste sono chiacchiere inutili su argomenti vani.
È un approccio legittimo, ma forse un po’ troppo facile, perché “qualcuno” sostiene che una sorta di Oggetto Eterno esista davvero, e se è così, allora la sua esistenza pone delle domande che non possono essere liquidate così facilmente.
Chi sia questo qualcuno e quale sia la cosa misteriosa di cui stiamo parlando, sarà chiaro al prossimo post (ma qualcuno potrebbe anche capirlo prima).
Ora però, per spiegare al meglio le problematiche dell’argomento (ma in realtà è che mi sono divertito un sacco a scriverla), vi propino questa mia personale tassonomia super-nerd dei paradossi temporali. Se avete altri esempi da aggiungere alla collezione, siete invitati a contribuire. Buona lettura!

***

Il viaggio nel tempo come causa sui.
Un tipico paradosso del viaggio del tempo è quello in cui il viaggiatore torna indietro nel tempo e contribuisce a determinare le circostanze che provocato o reso possibile il viaggio nel tempo stesso. Esempi:

  • Il primo film di Terminator si basa su questo paradosso, perché John Connor manda indietro nel tempo Kyle Reese a proteggere sua madre Sarah, la quale fa l’amore con Kyle e concepisce John, il quale perciò ha fatto in modo che suo padre fosse suo padre.
  • In Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, Harry viene salvato dai Dissennatori grazie ad un incantesimo Patronus lanciato da se stesso dopo essere tornato di qualche ora indietro nel tempo; si specifica che Harry è stato in grado di lanciare il difficile incantesimo perché sapeva di averlo già lanciato.
  • Nel libro I.N.R.I. di Michael Moorcock, il protagonista è un nevrotico religioso (endiadi, ovviamente) che si procura una macchina del tempo e torna indietro per incontrare Cristo; dopo aver scoperto che il Gesù storico era solo uno scimunito deforme figlio di una sgualdrina, comincia a girare per la Palestina e impersona lui stesso il messia – tanto lo sanno tutti che i vangeli sono chiaramente stati scritti secoli dopo i fatti – fino a farsi crocifiggere.

Non si contano inoltre le numerose variazioni sul tema dell’inventore della macchina del tempo che torna indietro nel tempo e aiuta sé stesso a inventare la macchina del tempo (es. nel primo Ritorno al futuro Marty McFly fa vedere a Doc Brown la macchina del tempo che quest’ultimo costruirà trent’anni dopo).
In questi casi abbiamo un effetto – cioè il viaggio nel tempo – che non solo è precedente alla propria causa, ma che addirittura contribuisce alla catena causale che ha dato luogo all’effetto stesso, insomma è causa sui, causa di sé stesso.

***

Il paradosso del nonno.
L’inverso del paradosso precedente è l’ipotesi in cui il viaggiatore nel tempo, tornato nel passato, fa qualcosa che rende impossibile il viaggio nel tempo. Questa idea è nota come paradosso del nonno: un uomo torna indietro nel tempo e uccide suo nonno. Allora lui non nascerà. Ma se non nascerà, non tornerà indietro nel tempo e perciò non ucciderà suo nonno. Ma se non ucciderà suo nonno, allora lui nascerà e tornerà indietro nel tempo. Ma se tornerà indietro nel tempo, ucciderà suo nonno. Allora lui non nascerà. Ma se non nascerà…
Vedete bene che in realtà questo contorcimento logico è una variante spaziotemporale del paradosso di Epimenide cretese (“Epimenide dice che tutti i cretesi dicono sempre bugie, lui lo sa perché è di Creta e li conosce bene”), cioè un’auto-contraddizione. Un effetto che annulla la propria causa annulla non solo sé stesso, ma anche l’annullamento medesimo. Il primo Ritorno al futuro gioca con questo paradosso immaginando che Marty McFly, per aver ostacolato l’innamoramento dei suoi genitori, rischi di essere cancellato dalla foto di famiglia e dall’esistenza stessa – sennonché, se Marty fosse stato cancellato, non avrebbe mai potuto ostacolare l’unione che stava ostacolando…
Ci sono possibili linee di pensiero sulle conseguenze di questo paradosso. Una implica la coesistenza e/o il conflitto tra diverse linee temporali o “universi paralleli”. Il viaggiatore nel tempo, cambiando il passato, fa nascere una nuova linea temporale alternativa a quella da cui proviene. La linea temporale di provenienza può restare immutata e proseguire tranquillamente per il suo corso, oppure può essere “sovrascritta” e scomparire. Per esempi cinematografici vedere il secondo Ritorno al futuro oppure Donnie Darko. La quarta stagione di Fringe gioca con l’idea di un “palinsesto” temporale, con una Macchina che cambia retroattivamente un evento e costruisce un secondo passato che si sovrappone al primo, del quale però (come appunto in un palinsesto) affiorano tracce qua e là. Il concetto di riscrittura temporale è poi portato al parossismo nell’anime capolavoro Steins Gate, che cita John Titor (l’unico viaggiatore del tempo “ufficiale” finora conosciuto) e dipana un complicatissimo intreccio “circolare” in cui un team di giovani otaku scopre ben tre diversi modi per modificare il passato (mandando un sms indietro nel tempo; mandando la memoria di un individuo indietro nel tempo; con il “classico” viaggio fisico) e alterare le linee temporali, la cui divergenza rispetto alla linea originaria può perfino essere misurata con un apposito divergence meter!
Chi non crede alle diramazioni o sovrascritture temporali invece ritiene che questo paradosso non possa essere possibile: il viaggiatore nel tempo non riuscirà mai, qualsiasi cosa faccia, a uccidere il proprio nonno. Non può accadere una cosa simile proprio perché il viaggiatore nel tempo esiste e perciò non ha mai provocato il proprio annichilimento. Questa teoria, descritta in LOST come “meccanismo del course-correcting”, implica un principio di autoconservazione dell’Universo tale per cui, se si verificasse un paradosso del nonno, l’intero tessuto spaziotemporale ne sarebbe distrutto e non ci sarebbe né passato né presente né futuro né niente; tuttavia il fatto stesso che noi ora esistiamo è la prova tangibile che questo paradosso non si è mai verificato né mai si verificherà. Se poi questo principio di autoconservazione faccia parte delle leggi razionali intrinseche e soggiacenti alla struttura stessa dell’universo, oppure dipenda da una qualche Provvidenza benevola e trascendente che preserva il continuum, è argomento aperto alla speculazione.

***

L’invenzione senza autore, cioè l’Idea platonica.
Il paradosso dell’effetto causa sui si può presentare in una versione molto interessante e cioè nell’ipotesi di un’opera dell’ingegno il cui apparente autore, in realtà, non ha fatto assolutamente nessuno sforzo intellettuale.

  • Nel secondo film di Terminator, si scopre che il supercomputer Skynet è stato creato attraverso un reverse engineering a partire dai resti del T-1000 mandato nel passato da Skynet medesimo. Nessuno ha veramente concepito i circuiti di Skynet, ci si è limitati a copiarli.
  • Un fisico, dopo aver ricevuto una visita dal suo futuro sé stesso che gli spiega nei dettagli come costruire la macchina del tempo, segue pedissequamente le istruzioni e costruisce la macchina del tempo, dopodiché torna nel passato e istruisce nei dettagli il suo precedente sé stesso su come costruire la macchina del tempo.
  • Un uomo viaggia nel futuro, scopre di essere diventato un famoso scrittore, compra in libreria i libri che ha scritto, torna indietro nel tempo, copia i libri parola per parola e diventa un famoso scrittore.

Lo stesso concetto si può applicare a un quadro, a un teorema di matematica, a una qualunque manifestazione di creatività.
Questo paradosso è sostanzialmente una versione soft dell’Oggetto Eterno. Qui non è la concretizzazione materiale dell’idea ad essere a-causale, ma l’idea in sé: il contenuto letterario del libro, la trama e lo stile, la scelta delle parole e la loro disposizione, tutte cose che di cui l’autore materiale del libro non ha nessun merito.
Ma allora Chi è il vero autore del libro?
A pensarci bene, c’è qualcosa dell’idealismo platonico in questo paradosso: abbiamo un’Idea che entra nel tempo come se provenisse dall’iperuranio, un’Idea che preesiste alle sue applicazioni concrete e sussiste a prescindere dalla loro esistenza. Un’Idea che è stata soltanto imitata, non inventata; ma conviene notare che – poiché l’idealismo platonico non è idealismo nel senso corrente del termine, ma semmai una forma trascendente di realismo – invenio, inventare, originariamente significa proprio scoprire (qualcosa che già esiste).

***

La profezia auto-avverante.
La versione psicologica del paradosso precedente è data dall’ipotesi in cui qualcuno, venendo a conoscenza di una previsione che riguarda un suo comportamento futuro, tiene quel comportamento non perché lo desidera spontaneamente ma perché ritiene di dover agire come previsto. In tal caso sorge il quesito su chi sia stato a voler davvero quel comportamento, perché il soggetto agente appare in realtà come l’esecutore materiale di qualcosa che è stato già deciso al di fuori della sua volontà. Tutto ciò conduce a numerosi interrogativi sul libero arbitrio e sul determinismo. Esempi:

  • Tutta la serie televisiva FlashForward trattava questo dilemma. Ma lo faceva malissimo, infatti è stata cancellata.
  • Nel libro La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo, e nel film che ne è stato tratto (film a cui gli abominevoli distributori italiani hanno appioppato lo stucchevole titolo Un amore all’improvviso… vergogna!) la protagonista ha incontrato già da bambina l’uomo che amerà e sposerà, affetto da una malattia genetica che lo fa saltare avanti e indietro nel tempo, e nei momenti di crisi del suo matrimonio recriminerà inevitabilmente sul suo sentirsi vittima designata di un destino prestabilito.
  • Ma la miglior illustrazione di questo paradosso l’ho trovata in un bellissimo libro di Robert Silverberg, L’uomo stocastico, in cui il protagonista è un consulente specializzato in previsioni statistiche la cui vita è sconvolta dall’incontro con un uomo che invece “vede” il proprio futuro nel vero senso della parola. Il personaggio dell’uomo presciente è immensamente tragico: un individuo la cui volontà è stata annichilita dal determinismo, che vive la sua vita senza alcun desiderio e fa ciò che fa soltanto perché ha visto se stesso farlo, a cui la precognizione della propria morte ha tolto ogni possibile illusione d’immortalità e perciò aspetta con indifferenza, e infine con sollievo, la fine del “copione da recitare”.

***

L’antenato dell’antenato.
In una celeberrima puntata di Futurama, con la sua tipica sbadataggine Fry fa in modo che la navetta spaziale della Planet Express torni indietro nel tempo fino all’anno 1947 e provoca l’incidente di Roswell. Quando scopre che uno dei soldati della base militare è suo nonno, si impegna a proteggerlo, ma scemo com’è ottiene l’effetto contrario e ne provoca la morte in un incidente. A questo punto Fry dovrebbe smettere di esistere, anzi non essere mai esistito, ma quando ciò non accade capisce che quell’uomo non era veramente suo nonno. Tira un sospiro di sollievo e va a consolare la sua vedova, per poi finire a letto con lei… il mattino dopo Fry realizza che quella donna è proprio sua nonna e lui è il nonno di sé stesso.
Questa storia non è solo una soluzione ironica al paradosso del nonno, ma anche una versione biologica dell’Oggetto Eterno: in questo caso abbiamo un patrimonio genetico senza progenitori, una stirpe ciclica senza capostipite. Due racconti in particolare hanno portato al parossismo questo concetto:

  • All You Zombies (it. Tutti i miei fantasmi) di Robert Heinlein, nel quale un ermafrodito viaggiatore del tempo è simultaneamente padre e madre e figlio/figlia di sé stesso, un vero e proprio unicum genealogico;
  • Star, Bright (it. Star, brillante) di Mark Clifton, in cui alcuni bambini super-intelligenti imparano a viaggiare nel tempo e scoprono che gli uomini del futuro, quando la vita sulla Terra sarà sull’orlo dell’estinzione, torneranno in massa nel passato – perciò la storia dell’umanità è un nastro di Moebius: Darwin si sbagliava, l’uomo non discende dalle scimmie, discende da se stesso! E ora chi lo dice a Dawkins?

***

L’Oggetto Eterno.
Ma tutti i paradossi spazio-crono-ontologici fin qui esaminati impallidiscono a fronte di quello che è il paradosso per eccellenza: l’oggetto senza causa, l’oggetto eterno.
Perché nei precedenti esempi abbiamo sì una violazione della leggi della causalità, un attorcigliamento della catena causale su sé stessa, ma il flusso eracliteo della materia è comunque salvaguardato: tutto ciò che esiste deriva fisicamente la sua materia costitutiva da qualcos’altro. Per esempio, nell’invenzione senza autore, l’idea è di origine ignota, ma la sua realizzazione fisica è origine assolutamente normale, intra-temporale: la disposizione delle parole è stata concepita da non-si-capisce-cosa, ma gli atomi che compongono la carta del libro sono normalissimi atomi che vengono da qualunque cosa fosse la carta prima di essere trasformata in carta.
Nel caso dell’antenato dell’antenato siamo già a un livello più spinto, perché il corpo di A genera B e B genera A (oppure addirittura A genera A): ma il corto circuito può essere confutato ricordando che in realtà il nostro stesso corpo non ha mai continuità materiale, perché noi abbiamo un corpo (noi siamo un corpo) i cui atomi vengono sostituiti ad ogni istante (inspiriamo, espiriamo, mangiamo, beviamo, oriniamo, defechiamo, assorbiamo, sudiamo e così via). L’identità del corpo nel tempo non è meramente materiale ma bensì strutturale, e gli esseri viventi si distinguono dagli oggetti inanimati in quanto sono dinamici, ovvero sostituiscono ad ogni momento la materia del proprio corpo secondo un piano organizzato e teleologico (una roccia non mangia, non suda, non cambia le proprie molecole; un liquido può parzialmente evaporare, ma il liquido subisce questo cambiamento, non lo opera). Le molecole che compongono il corpo dell’antenato di sé stesso provengono comunque dall’esterno: è solo la costellazione genetica, l’informazione contenuta nella catena di nucleotidi, che resta entropicamente incomprensibile.
Ecco, l’Oggetto Eterno invece no. Queste considerazioni per l’Oggetto Eterno non valgono, perché è acausale non solo eziologicamente, ma anche materialmente. Le molecole che compongono l’Oggetto Eterno sono fuori dal panta rei, non vengono da nessuna parte: semplicemente sono lì. Continuano ad essere, e sono sempre state, e sempre saranno, in tutte le iterazioni che attraversa l’Oggetto nel suo ciclo continuo attraverso la limitata finestra temporale in cui esso esiste.
L’Oggetto Eterno è un mistero assoluto e una sfida tangibile al continuum.
Forse proprio per la complessità dei problemi ontologici che solleva, gli esempi di Oggetti Eterni nella fiction di fantascienza siano abbastanza rari.

  • Ci potrebbe essere la bussola in LOST, quella che nella quinta stagione Richard Alpert dà a Locke e poi Locke dà 50 anni prima a Richard Alpert, ma la questione è controversa e si discusso molto tra i fan se fosse davvero la stessa bussola (io dico di no, non è un circolo, è un loop; lunga storia).
  • Nel libro Piramidi di Terry Pratchett, il sacerdote Dios è stato consigliere dei faraoni per migliaia di anni, e alla fine torna indietro nel tempo e diventa il consigliere del primo faraone; ma ho già spiegato i motivi per cui un essere vivente, il quale sostituisce ordinatamente e gradualmente le proprie molecole, non può essere considerato a rigore un puro Oggetto Eterno.
  • Per fortuna mi soccorre la pagina di wikipedia che ho linkato all’inizio, che riporta qualche esempio che non conoscevo (es. gli occhiali magici della serie The Last Rune).

La storia che ho raccontato all’inizio è una mia piccola creazione: mi pare che la chiave funzioni abbastanza bene come Oggetto Eterno.

***

E allora, gente. Complimenti se siete riusciti ad arrivare alla fine.
Avviluppamenti temporali, effetti acausali, loop logici, di tutto e di più.
Ma di fronte a questi contorcimenti, come si pone la ragione? È ragionevole credere all’esistenza degli Oggetti Eterni?
Vorrei leggere, se possibile, il parere di atei / agnostici sull’argomento.

(continua)

(↓ commenti)


Sul concetto di paraculaggine dell’artista

Non avrei voluto tornare sull’argomento Castellucci, essendosene parlato già più di quanto meriti l’autore furbacchione, ma il dibattito intracattolico “bestemmia sì / bestemmia no” mi porta ad una breve ulteriore considerazione.

Avete mai visto la serie televisiva Boris? Meravigliosa. Trattasi di 3 stagioni + 1 film narranti le epiche gesta di una scalcinata troupe romana nel girare una scalcinatissima soap dall’inverecondo nome “Gli occhi del cuore 2”, un’emerita schifezza per ammissione di tutti gli addetti ai lavori che però ma che te frega pensa a magnà. Non manca nulla nel bestiario della serie che mostra il peggio del peggio del nostro paese: l’attrice cagna che va avanti a favori sessuali, gli stagisti schiavizzati sottopagati, i lavoratori incompetenti ma illicenziabili per protezione politica, eccetera.
Uno dei leitmotiv della seconda stagione è l’attentato al Conte. Qualcuno ha sparato al Conte, il grottesco cattivo della soap opera interpretato da un attore psicolabile con manie religiose, a sua volta interpretato da un Corrado Guzzanti ormai mitologico. Chi è stato a sparare? Beh, dipende. Non si sa, nel senso che non solo non lo sanno gli spettatori di “Gli occhi del cuore 2”, ma non lo sanno neanche gli autori perché non è stato ancora deciso chi dovrà scoprirsi essere il colpevole. Dipende da chi vince le elezioni. Infatti, come spiega il delegato di rete nell’attesa spasmodica degli exit poll, se vince la destra allora il colpevole deve essere il gay; ma se vince la sinistra, l’omosessuale diventa categoria sociale politicamente incriticabile, e perciò il colpevole deve invece essere l’agente di borsa o il commercialista calabrese. “Intanto si registra un lieve apprezzamento per la Lega, di cui però sarebbe folle non tenere conto… per cui bisogna eliminare tutti i riferimenti a Roma, tenersi sul vago… ah, il tossico sodomizzato non può essere più di Bergamo, questo è chiaro. Io direi Reggio Calabria, tanto è anche sordomuto.
Alla fine, siccome le elezioni si concludono con un pareggio, verrà deciso che il colpevole è un magistrato perché “attaccare la magistratura è un argomento straordinariamente bipartisan” (sic).

Ora voi direte, ma questo che c’entra. Io dico che, comparativamente, c’entra.
Domanda: Castellucci getta feci sul volto di Gesù? Risposta: beh, dipende. Una volta dice sì, una volta dice no, una volta dice boh. La sceneggiatura della pièce cambia a seconda delle convenienze del momento: la merda c’è in Francia, non c’è in Italia, è solida, è liquida, odora, non odora, sono sassi tirati da bambini, anzi no è liquame che cola, anzi ancora no è inchiostro biblico, insomma può essere qualunque cosa e il suo contrario.
Comodo.
Umberto Eco nelle postille al Nome della rosa dice che un racconto è una macchina per generare interpretazioni. Forse è vero, ma comunque il ventaglio di interpretazioni non è infinitabile: il racconto una volta che l’hai scritto resta là, scripta manent carta canta, il monaco cieco è cieco e punto stop. E pure l’Amleto tendenzialmente resta quello, non è che una volta Amleto muore e la volta dopo lo vedi trombare Ofelia mentre cala il sipario. Con questo facile teatro invece mi pare che tutto sia provvisorio, mutevole, a seconda di come ci gira, anzi di come gira il vento. Vogliamo accattivarci i laicisti? E allora bestemmia, libertà artistica, you are not my shepherd. Vogliamo accattivarci i cattolici? E allora preghiera testoriana, kenosi evangelica, tu non sei il mio pastore. Ci mancano i satanisti, ma forse c’è spazio pure per quelli.

Con permesso, sottovoce, senza clamore, esercito nel mio piccolo la mia umile libertà d’espressione (magari è pure una forma d’arte), sperando di non suscitare velleità censorie in chicchessia.
Castellucci, ma va’ a cagare. Almeno quella, merda è, merda rimane.


Giudicatemi (4×07 breaking bad)

GIUDICATEMI
 
(postilla all’episodio 4×07 di Breaking Bad)

 

Non giudicate, per non essere giudicati; Non giudicate e non sarete giudicati;
perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati;
e con la misura con la quale misurate sarete misurati. perdonate e vi sarà perdonato.
Matteo 7, 1-2 Lc 6, 37


 
Giudicare.
Che cosa significa giudicare? Che cosa significa condannare? Che cosa sta dicendo qui Cristo?
 
Quante volte ho sentito citare a sproposito questo “non giudicare” come una specie di manifesto relativista ante litteram: non appiopparmi la tua morale, non dirmi che sto facendo qualcosa di sbagliato, non parlarmi di peccato. Vado a letto con la mia fidanzata? Ma ci vogliamo bene. Evado un po’ di tasse? Ma pochissimo, soltanto quanto basta per difendermi da uno Stato sprecone e vessatore. Ho bevuto e mi metto al volante? Ma io guido benissimo comunque. [                                                                                                 ] (riempire con esempio a piacere). Embè? Ma che vuoi. Non farmi la predica. Come se invece tu fossi sempre perfetto e coerente. Ma chi sei tu per salire su un piedistallo e dire questo è bene questo è male. Lo dice anche il tuo gesù, non giudicare. Vivi e lascia vivere.
Ora, io non sono assolutamente un esperto biblista, non so quale fosse il testo in lingua originale e ignoro completamente quali sfumature di significato avesse quella parola che nella traduzione attuale viene resa con “giudicare”. Però sospetto che proprio su quella parola, “giudicare”, ci sia un malinteso radicale. Perché ciò di cui sta parlando qui Gesù non è il giudicare le azioni, ma il giudicare le persone; e in particolar modo con riguardo al Giudizio per antonomasia, quello ultimo, escatologico.
Noi non possiamo giudicare le persone, perché per farlo dovremmo poter scrutare i cuori, e questo può farlo solo Dio. La nostra conoscenza dell’altro è nel migliore dei casi approssimativa. Chi sa quali abissi di peccato si annidano in colui che crediamo il migliore degli uomini? Chi sa quali aneliti di virtù si agitano in colui che crediamo un mostro scellerato? Giudicare il nostro prossimo è un torto verso il prossimo, perché presumiamo di restringerlo alla nostra miope visione, e verso Dio, perché presumiamo di metterci al suo posto. Ma naturalmente noi giudichiamo il nostro prossimo cento volte al giorno, perché è sempre bello sentirci migliori di lui. Peggio ancora, lo osserviamo e pensiamo “questo è un uomo cattivo; questo è un uomo che andrà all’inferno, o che ci andrebbe se dipendesse da me”. Il che è precisamente l’atteggiamento da cui ci mette in guardia Cristo.
È degno di nota che la Chiesa, la quale si esprime in modo certo sulla salvezza dei beati, non si è mai espressa con analoga sicurezza sulla dannazione di qualcuno. Non esistono i santi del male. Neanche di Hitler, di Stalin, del peggior criminale che potete immaginare, si può stare sicuri che sia finito all’inferno. Perché ciò che accade in un’anima nell’ultimo istante, lo sa solo Dio. Neppure su Giuda, per il quale peraltro Gesù ha parole decisamente esplicite (Mt 26:24, Mc 14:21), la Chiesa ha mai osato sbilanciarsi.
Insomma, noi non possiamo giudicare le persone.
 
Ma le azioni invece sì.
Quelle possiamo, anzi dobbiamo, anzi non possiamo non giudicarle. Io non scruto il cuore del mio vicino, ma posso vedere un po’ di quello che fa, e posso giudicare quello che vedo, e dai frutti riconosco l’albero. Fare X è bene. Fare Y è male. Si potrà discutere all’infinito su chi o cosa decide X e Y, ma il giudizio morale fa parte della natura umana. Quella cosa chiamata coscienza può essere anestetizzata, distorta, orientata alle morali più eterogenee, ma non può essere cancellata. Tutti giudicano le azioni di tutti gli altri, e mi diverte sempre notare come qualunque relativista etico, chiunque teorizza l’inesistenza oggettiva del bene e del male, all’atto pratico e senza soluzione di continuità diventa immediatamente capace di riversare il proprio indignato biasimo su qualcuno-qualcosa (il tale politico, la tale chiesa, il tale dio) che ha fatto qualcosa di sbagliato.
Un mondo senza giudizi morali sulle azioni può esistere solo sulla carta, nella testa di un recluso in una torre d’avorio. Nella realtà un mondo simile è invivibile, perché è impossibile, perché è insensato.
 
Esempio.
 
Ho già parlato della serie televisiva Breaking Bad. Capolavoro. Scava letteralmente nell’anima dei personaggi. Non si pronunciano praticamente mai le parole “bene” o “male”, non si fa mai un predicozzo, eppure in fondo non si parla che della differenza tra fare cose giuste e fare cose sbagliate. Senza essere moralista, è un’opera profondamente morale.
La scena che segue è tratta dal settimo episodio della quarta stagione, “Problem Dog”. Devo per forza spoilerare qualcosa per spiegare il contesto. Il personaggio, Jesse, uno dei due produttori di metanfetamina protagonisti della serie, ha compiuto un’azione di cui non va fiero: ha ucciso un uomo. Si trattava di un altro chimico con cui il loro datore di lavoro, uno spacciatore di altissimo livello, voleva sostituirli. Per evitare di essere licenziati, leggi uccisi, Walt e Jesse hanno dovuto eliminare il concorrente. Walt ha dato le istruzioni e Jesse ha eseguito. Tremando e piangendo. Ha guardato negli occhi quest’uomo indifeso, mite, gentile, innocente, e gli ha sparato in faccia.
E ora ne è corroso dentro.
In questa scena lo vediamo tornare a un gruppo di supporto per tossicodipendenti che in passato aveva frequentato (anche se in realtà all’epoca ci andava perché voleva trovare dei clienti a cui spacciare droga: che bastardo! ops, l’ho fatto di nuovo…). Il leader di questo gruppo, sicuramente animato dalle migliori intenzioni, sforna il consolidato repertorio di luoghi comuni per aiutare i partecipanti al gruppo. Qui vediamo Jesse confessare nei limiti del possibile il suo gesto, dicendo di aver ammazzato “un cane” invece di un uomo.
 
 
 

 
(per la traduzione ho preso i sottotitoli di ITASA)
 
Leader: La verita' e' che non possiamo cambiare il passato: quello che e' fatto, e' fatto. Dobbiamo essere responsabili delle nostre azioni, ma mettere noi stessi sotto processo agendo come giudice, giuria e boia non e' la risposta. Perche' la maggior parte delle volte questo giudicarci ci fara' ripetere tutto da capo. Giusto? "Sono uno stronzo", "E' una situazione senza speranza", "A che scopo?", "Penso che mi faro' una dose". (guarda Jesse) Jesse? Cosa ti e' successo, ultimamente?
Jesse: Ehm.Sono tornato a farmi di cristalli (così nel gergo chiamano le metanfetamine).
Leader: Sei pulito adesso?
Jesse: Si'. Quattro giorni. Che risultato, eh?
Leader: Quattro giorni sono quattro giorni. Sei qui. Stai ancora lavorando in quella lavanderia? (il posto in cui ha detto di lavorare Jesse, che in realtà è dove producono la droga) Come vanno le cose li'?
Jesse: Fanno cagare.
Leader: C'e' qualcosa di cui vuoi parlare?
Jesse: Un paio di settimane fa, ho… ammazzato un cane.
Leader: L'hai investito con la macchina?
Jesse: No, l'ho… l'ho soppresso. L'ho guardato morire. L'ho guardato dritto negli occhi. Non capiva cosa stesse succedendo, non capiva il perche'… Era solo… spaventato, e un attimo dopo… era morto.
–       Se stava soffrendo, e' stato un gesto di compassione.
Jesse: No, non stava male. No, era tipo un… non so, tipo un… cane problematico.
–       Che aveva fatto? Aveva morso qualcuno?
Jesse: Questo cane non ha mai… mai morso nessuno. Era…
–       Una volta che raccogli la pietra, passi direttamente al lato oscuro. Puo' succedere di tutto.
Jesse: Non e' stata nessuna pietra a costringermi.
–       Ma qual era il problema? Perche' hai dovuto ammazzarlo?
Leader: Lasciatelo parlare, per favore. Forse non sono i dettagli che contano, giusto? Cosa provi per quello che hai fatto, Jesse?
Jesse: Non lo so.
–       Chi se ne frega di cosa provi? Che razza di persona ammazza un cane senza motivo?
Leader: Colleen…
–       Puoi mettere un'inserzione sul giornale. Puoi lasciarlo in un canile. Non te ne stai seduto a parlare di uccidere un povero animale innocente!
Leader: Colleen! Non siamo qui per giudicare.
Jesse: Perche' no? Perche' no? Magari… magari ha ragione. Magari avrei dovuto mettere un'inserzione sul giornale, o fare qualcosa di diverso. Il fatto e' che… se compi determinate azioni e non ci sono conseguenze… qual è il significato di tutto? Che senso ha?
Leader: Ok, tutto questo riguarda l'auto-accettazione. Tormentarti non ti aiutera' a dargli un senso.
Jesse: Quindi dovrei smettere di giudicare e accettarlo?
Leader: E' un inizio.
Jesse: Quindi qualsiasi cosa faccia, urra' per me, perche' sono una bella persona? Va tutto bene? Non importa quanti cani ammazzo, posso… farne un inventario, e accettarlo? Cioe', investi in retromarcia con un camion tuo figlio (si riferisce a quello che ha confessato di aver fatto il leader del gruppo quando era drogato), e puoi accettarlo? Che mucchio di stronzate!
Leader (sguardo infastidito): Ehi, Jesse, so che stai soffrendo…
Jesse: No, sai una cosa? Il vero motivo per cui sono qui? (pausa drammatica) Per vendervi metanfetamine! Per me non siete altro che clienti! Vi ho preso per il culo! Ti sta bene? Eh? Lo accetti?
Leader: (sguardo di pietra) No.
Jesse:  (si guarda attorno) Era ora (si alza e se ne va).


Futurama 6X09 A Clockwork Origin

Futurama 6×09, A Clockwork Origin, è una puntata molto divertente e perfino istruttiva, perciò se ne avete la possibilità guardatela. Altrimenti accontentatevi di questo post.

Tutto comincia quando il Professor Farnsworth incappa in una manifestazione di creazionisti, naturalmente raffigurati come deficienti anti-scientifici (c’è pure il Flying Spaghetti Monster). Il Professore cerca di convertirli all’evoluzionismo e litiga con uno scienziato antievoluzionista, restio a credere che i suoi antenati fossero scimmie, anche perché lui è un orangutango. Ogni tentativo del Professore, dall’illustrare ogni singolo passaggio della catena evolutiva al trovare egli stesso l’anello mancante, si rivela inutile.

Resosi conto dell’impossibilità di abbattere i dogmi dei creazionisti, il Professore sconfortato decide di abbandonare la Terra e auto-esiliarsi su un pianeta privo di forme di vita, dove si fa accompagnare dalla banda della Planet Express. Arrivati  sul pianeta deserto, il Professore libera alcuni microscopici robot da lui creati per depurare l’acqua. Sopresa: i nanobot evolvono istantaneamente in trilobots e fagocitano l’astronave, bloccando il suo equipaggio sul pianeta.
Per la bizzarra logica che governa il mondo di Futurama, l’evoluzione robotica segue lo stesso percorso di quella umana ma a ritmo esponenzialmente più veloce e così, dopo un paio di giorni di traversie tra dinosauri e cavernicoli,

i nostri incontrano una scienziata robotica di nome Widnar (ovvio anagramma), che esulta per aver trovato la conferma delle sue ardite teorie sulla vita a base di carbonio. La roboscienziata li porta al museo in città (vedi immagine iniziale, naturalmente è facile capire qual è la citazione…) per esporre alla comunità scientifica la sua grandiosa scoperta: dall’evoluzione casuale è nata non solo la vita robotica, ma anche la vita organica!
 

Ed ecco il bello: quando il Professore la contraddice e afferma di essere stato egli stesso a creare la vita robotica (poco tempo prima per lui, moltissimo tempo prima per loro), i robot lo contestano aspramente. C’è perfino un robofarrnsworth che dichiara di voler abbandonare il pianeta. Tutte le prove addotte dal Professore, come la foto di Bender che doma un robosauro, sono inutili. Il dogma dell’evoluzione casuale non può essere contestato: mentre fuori si è radunata una folla inferocita di manifestanti evoluzionisti (che usa gli stessi cartelli e slogan, ovviamente di segno inverso, che usavano i creazionisti sulla Terra), l’equipaggio della Planet Express è arrestato per “crimini contro la scienza” e portato in tribunale per il processo del secolo “tutti contro Farnsworth”.

La posizione processuale dei nostri eroi è debole, ma l’abile strategia dell’avvocato (Bender!) fa guadagnare tempo e convince la giuria a rimandare la decisione al giorno seguente. Sennonché mentre i nostri dormono l’evoluzione continua, e il mattino dopo i robot sono già diventati intelligenze gassose altamente astratte che ormai reputano tutti gli esseri fisici, compresi gli imputati, del tutto privi d’importanza e perciò liberi di andarsene.
 
Alla fine i nostri tornano sulla Terra con un’astronave fatta di rottami, e il Professore racconta le sue traversie allo scienziato orangutango. Il creazionista ammette che quei robot si sono evoluti in forme di vita a complessità crescente, e perciò l’evoluzionismo è plausibile; d’altra parte il Professore ammette che quell’evoluzione non è avvenuta per caso ma a partire da un atto di intelligenza creativa, e perciò anche il creazionismo è plausibile. L’unico che non si ritrova in questa ritrovata concordia è Bender, il quale suggerisce che l’evoluzione organica terrestre potrebbe essere stata iniziata da un’intelligenza creatrice robotica, ma entrambi  gli scienziati bollano questa teoria come ridicola dunque implausibile.
 
Volevo scrivere qualcosa di intelligente a commento, ma non ho abbastanza tempo ho fiducia nelle capacità del lettore di fare da solo le opportune considerazioni.


Il cerchio si apre, il cerchio si chiude

Il cerchio si apre, il cerchio si chiude

 

 

 

Niente spoiler sulla conclusione di Lost. Le due immagini sono abbastanza avulse dal contesto da essere non rivelatorie. Volevo solo dire che all’ultima scena mi sono commosso quasi alle lacrime. Finale epico e tristissimo e bellissimo e forse l’unico veramente adatto a coronare il tutto. Sì vabbè potevano risparmiarsi il tocco paraculo di sincretismo della vetrata con i simboli, chi ha visto mi capisce, ma pazienza. E pazienza pure per qualche mistero che si sono persi per strada e qualche domanda che non avrà risposta, alla fine la storia sono i personaggi e la mitologia è contorno. E Lost, al netto dei piccoli innegabili difetti, è una grande storia.  

Non posso dire di più. Non è tanto che non voglio spoilerare chi aspetta di vederlo, è che veramente non sono capace di dire di più, sono ancora troppo emotivamente sconvolto. Per adesso posso dire solo una cosa: chi non è da solo non è mai perduto.

 


LOST quinta stagione

 

(spoiler sulla quinta stagione di LOST, compreso il finale)

 

Sono già passati dieci mesi? Oh, finalmente l’attesa è finita. Stasera ricomincia LOST, grazie anche alla furbizia politica gentile disponibilità di Obama, e non sto più nella pelle: questa sarà l’ultima stagione, la conclusione della serie, il grande The End (?). L’evento merita un post.

 

A quanto pare le mie precedenti elucubrazioni sulla mitologia della serie si sono dimostrate al 90% sbagliate, ma chi se ne frega, l’evoluzione della storia ha se possibile addirittura superato le mie aspettative. Perché la rivoluzione cromatica (testo nero su sfondo bianco, cioè il contrario di com’è sempre stato) con cui si chiudeva The Incident, l’ultimo episodio della quinta stagione, non è semplicemente un fatto estetico. In LOST la forma è sostanza. Il rovesciamento tra bianco e nero ha un preciso significato simbolico, legato al finale col botto della puntata – quel candore abbacinante che ha riempito lo schermo e ha lasciato lo spettatore in ginocchio a urlare in balia di un cliffhanger angosciante a chiedersi se nella sesta stagione, per la discontinuità del continuum spazio-tempo-causale, tutto ciò che ha visto finora sarà cambiato – e alla lotta tra i due personaggi introdotti nell’inizio della puntata, i due avversari, l’uno vestito di bianco e l’altro di nero.

Anzi, rivediamoci il meraviglioso inizio di The Incident, naturalmente in lingua originale:

 

 

 

 

Ecco, questi pochi minuti sono pura tensione narrativa, sono puro LOST: nessun altro telefilm riesce a rivoluzionare completamente nel giro di pochi secondi quello che sapevi, quello che credevi di sapere, quello che pensavi di poter immaginare. Soddisfano un’attesa di lunghissima data e al tempo stesso fanno presagire un orizzonte narrativo completamente nuovo e inaspettato.

Jacob, finalmente. L’entità nascosta, il genius loci dell’Isola, il grande personaggio ignoto di cui sentiamo parlare da tanto tempo e di cui soltanto una volta (non) abbiamo sentito la voce nella misteriosa capanna nella giungla. Nell’epico finale di stagione l’abbiamo infine visto, abbiamo visto per intero la solenne Statua dal Piede a Quattro Dita su cui speculavamo da anni, e abbiamo scoperto che Jacob – ma chi è? che cosa è? – ha un avversario altrettanto misterioso, con cui tiene conciliabolo sulla spiaggia mentre la Black Rock, la nave destinata a finire collocata intatta nel bel mezzo della giungla, si avvicina all’Isola.

Jacob, vestito di bianco, ed Esaù il suo opponente (che i fan su internet hanno soprannominato “Esaù” per ragioni di tipo biblico-simbolico), vestito di nero, hanno un dialogo estremamente suggestivo e interessante. Il misterioso antagonista sembra disprezzare gli uomini e non volerli sull’Isola: They come, fight, they destroy, they corrupt; it always ends the same.” (Arrivano, combattono, distruggono, corrompono; finisce sempre allo stesso modo). Ma Jacob invece dimostra una prospettiva diversa: It only ends once; anything that happens before that, is just progress.” (Finisce solo una volta; tutto ciò che accade prima, è semplicemente progresso); si mostra più favorevole agli uomini e al loro libero arbitrio, alla loro capacità di migliorare nonostante tutti gli sbagli della storia, e pare propenso ad attirarli sull’Isola.

Il dissidio tra i due è altresì confermato dalla domanda retorica che l’antagonista pone tranquillamente a Jacob, il quale risponde altrettanto tranquillamente:

hai idea di quanto io desideri ardentemente ucciderti?”

“Sì.”

“Uno di questi giorni, presto o tardi, troverò una scappatoia, amico mio”.

 

Insomma, questi due avversari sembrano due esseri preternaturali: due entità antropomorfe che giocano tra di loro quella che sembra un’epica e ancestrale partita a backgammon, con regole prestabilite (es. non ci si può uccidere direttamente), l’Isola come posta in palio, il mondo come campo da gioco, e gli esseri umani come pedine.

Gli esseri umani come pedine: ma con approcci diversi. Laddove Jacob (che nei flashback della puntata scopriamo aver visitato in incognito e toccato tutti i protagonisti, anche nella loro infanzia, di modo che essi erano destinati ad andare sull’Isola…), conformemente alla idee espresse, sembra fare affidamento sulla scelta dei personaggi ed incoraggiarli, oppure compatirli per il loro ruolo tragico, il suo antagonista dimostra invece un approccio assai più manipolativo. E alla fine, quando scopriamo la verità sulla resurrezione di John Locke, quando vediamo qual è la scappatoia escogitata da questa arcana entità – che a questo punto possiamo supporre essere addirittura nientemeno che The Black Smoke Monster, il “Mostro di fumo nero” – per uccidere Jacob, non possiamo che restare attoniti nel capire che tutto ciò che abbiamo visto in questi cinque anni non è stato altro che una lunghissima, complicatissima, avvincente partita tra il Bianco e il Nero. Che è arrivata ad uno scacco, ma non è ancora finita.

 

 

(trattasi di un suggestivo promo spagnolo che ha fatto giustamente il giro della rete; l’idea di mostrare i personaggi del telefilm su una scacchiera è veramente ottima)

 

Così, alla soglia dell’ultima stagione, la serie ha dimostrato ancora una volta di sapersi rinnovare nella fedeltà a sé stessa. La cifra stilistica di LOST è la continua frattura tra fabula e intreccio, il mostrare dopo ciò che è venuto prima e viceversa, in un puzzle intricatissimo i cui tasselli sono distribuiti in ordine sparso e spetta all’intelligenza dello spettatore ricomporre l’ordine. Ciò che nelle prime tre stagioni furono i flashback, e nella quarta erano i flashforward, e nella quinta sono stati i “flash temporali”, ora nella sesta stagione saranno forse i “what if”: ciò che è successo se Juliet ha detonato la bomba atomica sotto la stazione Cigno, ciò che succede se il volo 815 atterra normalmente a Los Angeles. Una realtà separata?

(a proposito, chi è che trova la citazione?)

Ancora una volta il quadro si complica, si aggiunge un ulteriore livello narrativo, e le unità di spazio-tempo-azione sono ancor più deframmentate. Ma la fine della storia è ormai vicina, e la storia finisce solo una volta.

 

(e a proposito, nonostante io abbia cannato le mie precedenti elucubrazioni, voglio lanciarmi in un’altra teoria: il titolo dell’episodio conclusivo sarà proprio It Only Ends Once; non so perché, ma “ci sta” veramente bene)

 

(il Lost Supper, il poster promozionale della sesta stagione, con i personaggi in posa come nell’Ultima Cena di Leonardo; e naturalmente sono fioccate le interpretazioni sul significato delle posizioni dei personaggi in relazione al dipinto originale…)

 

 

 

P.S.

Oh, un’ultima cosa, last but not lost… cioè least.

Per la prima volta, credo, noi italiani aficionados delle serie americane abbiamo la possibilità di soddisfare la nostra passione in modo semplice ma irreprensibile, coniugando la nostra coscienza morale (quelli di noi che ne hanno una) e il rispetto della legge sui diritti d’autore. Come si spiega qui, Telecom mette a disposizione un sito da cui scaricare legalmente la puntata, già poche ore dopo che è andata in onda oltreoceano, in inglese con sottotitoli in italiano, al prezzo di 1,99 €.

Ci sono due ottimi motivi per aderire a un’iniziativa del genere. Innanzitutto perché è legale e si paga un prezzo equo, e perciò risolve i problemi del fedele spettatore di LOST, quello che non vuole aspettare che passino la serie in tv e non vuole aspettare l’uscita del cofanetto (che comunque comprerà), e che però un po’ si duole a scaricare da internet sia perché non è proprio legale (sì vabbé siamo a livello bagatellare però non è legale lo stesso) e sia perché non paga niente (e non è giusto usufruire gratis di qualcosa per cui qualcuno ha lavorato e merita di essere remunerato – che poi alla lunga è anche controproducente perché tante serie belle chiudono proprio in quanto non riescono a fare abbastanza ascolti televisivi, quando in realtà hanno un discreto seguito su internet di spettatori anche appassionati che però non sono paganti e perciò contano come il due di picche e alla fine assistono impotenti alla chiusura della serie).

Il secondo motivo, che poi deriva direttamente dal primo, è che bisogna dare un segnale e far vedere che l’iniziativa è buona e garantisce ritorni economici, perché questo è il futuro. Sono fermamente convinto che le serie televisive prima o poi si sganceranno dal medium tv, o almeno non sarà più questo il veicolo privilegiato, e saranno diffuse direttamente online. Non è altro che lo sbocco naturale di un processo ineluttabile nella crescita e maturazione del prodotto audiovisivo serializzato, meno episodi autoconclusivi e più trama orizzontale, e in questo processo evolutivo LOST ha rappresentato una fase profondamente significativa, forte anche del fenomeno della speculazione teoretica post-puntata (ovvero, dopo aver visto l’episodio il fedele spettatore va su internet a leggere teorie e discutere sui forum con altri spettatori). E insomma siccome prima o poi ci arriveremo, ma meglio prima che poi, è interesse di tutti gli appassionati che l’iniziativa abbia successo.

Perciò cari lettori appassionati di LOST e serie in genere, invece di farvi portare gratis la puntata dai vari quadrupedi e fiumiciattoli, fate un piccolo sforzo e pagateli questi 1,99 € a episodio. Ne vale la pena.

 

ΘΕΟΙ ΤΟΣΑ ΔΟΙΕΝ ΟΣΑ ΦΡΕΣΙ ΣΗΣΙ ΜΕΝΟΙΝΑΣ

ΘΕΟΙ ΔΕ ΤΟΙ ΟΛΒΙΑ ΔΟΙΕΝ

 

 


The Prisoner 2009

The Prisoner (2009)

 

 

 

Il più grande errore che si possa fare nel guardare Il Prigioniero del 2009, la nuova miniserie in sei episodi che è il rifacimento della celebre omonima serie del 1967, è aspettarsi qualcosa che ricalchi l’originale; e leggo su internet molte opinioni che si dichiarano deluse dalla miniserie proprio per questo motivo, perché “non è come la vecchia serie”.

Ma certo che non è come il Prigioniero originale! Non poteva e non doveva esserlo, altrimenti non avrebbe avuto senso. A me, che ho visto e ammirato il telefilm originale, questa miniserie è piaciuta moltissimo, e l’ho veramente apprezzata nel momento stesso in cui ho capito che dovevo smettere di fare continuamente il paragone con la vecchia serie.

Questo concetto è simboleggiato all’inizio stesso della miniserie, quando Numero 6 si risveglia nel deserto in prossimità del Villaggio e incontra il vecchio Numero 93 in fuga, vestito proprio come il 6 della serie originale, che gli dice “dì a tutti che me ne sono andato” e muore fuori dal Villaggio, finalmente libero. È noto che la produzione aveva chiesto a Patrick McGoohan stesso, il protagonista della serie originale, di interpretare Numero 93 (9-3=6); anche se poi lui ha rifiutato e per Numero 93 hanno trovato un altro attore che gli assomigliava, il messaggio è il medesimo: il vecchio Numero 6 è fuori dal Villaggio, è “out”, ora c’è un nuovo Numero 6 ed è diverso.

 

Detto questo, la mia interpretazione, opinabile ma spero non dissennata, è che fondamentalmente il Villaggio rappresenta l’ideologia: l’eterna tentazione dell’uomo di rendere perfetta la realtà costruendone una propria versione ridotta, illusoria, manipolabile a piacere. Di seguito vi espongo  la mia spiegazione, naturalmente spoiler sulla miniserie compreso il finale. Evidenziate per leggere.

 

 

 

 

Helen, la moglie di Curtis (Ian McKellen), ha scoperto che esistono ulteriori livelli di coscienza, più profondi dell’inconscio per come esso è comunemente inteso, e che esiste un modo biochimicamente indotto per creare una allucinazione collettiva inconscia. Tale allucinazione è condivisa da tutti coloro che vi prendono parte ed influisce sul loro comportamento conscio. Il Villaggio stesso è quest’allucinazione ed Helen è stata “la prima persona in assoluto nel Villaggio”, ergo lei è la Numero 1. Curtis l’ha raggiunta subito dopo e perciò è il Numero 2.

La particolarità della Numero 1 è che il suo sogno dà integrità strutturale all’allucinazione collettiva, perciò è impegnata a sognare continuamente ed è in costante fase onirica sia nel mondo reale e sia nel Villaggio stesso. Nelle occasioni in cui Numero 2 sentendo la mancanza della sua compagnia la risveglia (nel livello di coscienza del Villaggio), si producono i buchi nel terreno, ovvero dei veri e propri bug nel tessuto connettivo dell’allucinazione condivisa, che portano a ciò che giace al di sotto dell’ultimo livello di inconscio: la totale mancanza di coscienza, l’oblio.

L’esistenza della Numero 1 deve restare ignota agli altri abitanti del Villaggio, perché altrimenti essi prenderebbero coscienza della natura non reale dell’allucinazione condivisa, e perciò tutti ripetono che “non c’è Numero 1”.

 

Nel mondo reale Curtis ha fondato la Summakor, la società in cui Michael (Jim Caviziel)  lavorava come analista e da cui ha dato le dimissioni. Osservo che “Summakor” è una parola che mi sembra una crasi tra “summon”, evocare, e “maker” “creatore”, il che già suggerisce la sua funzione. Lo scopo ufficiale della Summakor è aiutare le persone che sono instabili e “difettose” a diventare migliori nel mondo reale (anche se aleggia il sospetto che il fine ultimo sia, come sempre, il potere). A questo scopo la società individua tramite gli analisti le persone adatte e somministra loro dei farmaci, probabilmente una variazione delle droghe che prende Numero 1 (questo particolare si evince dall’accenno finale di 147 nella realtà alla “pulizia del lobo frontale” che ha ricevuto): in questo modo i partecipanti all’allucinazione vivono, oltre alla ordinaria vita conscia nella realtà, una vita controllata nell’inconscio collettivo del Villaggio, in cui tutto dovrebbe essere perfetto ed essi possono sviluppare quelle “virtù” che hanno perduto nel mondo reale, virtù che consequenzialmente si manifestano anche nel loro comportamento conscio.

D’altra parte, notando la devozione verso Curtis di 147 (ovvero della persona reale che vive come 147 nel Villaggio), è facile intuire che chi controlla le persone nel Villaggio le controlla anche nella realtà.

Importante notare che la vita reale accade non “prima” della vita nel Villaggio, ma in parallelo. Alla fine si comprende che i “flashback” di Numero 6 sugli eventi successivi alle sue dimissioni non sono affatto dei flashback, e che Michael a New York e Numero 6 nel Villaggio agiscono all’incirca in contemporanea (alla fine del quinto episodio Michael vede Numero 6; quando nel sesto episodio incontra Sarah nel mondo reale, la riconosce proprio perché l’ha già conosciuta come 313). Probabilmente l’ingresso di Michael nell’allucinazione collettiva, il suo risveglio nel deserto come Numero 6, accade nel momento stesso in cui la Summakor viene a conoscenza delle sue dimissioni.

 

Ora, nell’ideologia si verifica sempre l’eterogenesi dei fini e tutti i tentativi di costruire un mondo perfetto sono destinati al fallimento. il Villaggio non sfugge a questa regola ineluttabile: gli abitanti che esistono anche nella realtà sentono che il luogo in cui vivono è comunque una prigione.  Essi sognano dei sogni dentro il sogno che sono la loro stessa vita reale, invertendo la relazione conscio/inconscio e perciò mettendo a rischio la finalità “terapeutica” e l’esistenza del Villaggio stesso. Perciò Numero 2 li sorveglia attentamente, instaurando un controllo pervasivo che non fa altro che ripetere alcuni difetti del mondo reale (delazioni, bugie, abusi psicologici, incarceramenti), e ricorrendo al Rover, la sfera bianca, per impedir loro di scappare.

Inoltre, non tutti gli abitanti del Villaggio esistono nella realtà: ci sono anche degli abitanti che sono delle pure proiezioni mentali dei sognatori e non hanno una vita parallela. Tutti i bambini che sono nati nel Villaggio non sono altro che l’allucinazione dei loro genitori; e probabilmente il “Modern Love Bureau”, l’agenzia di appuntamenti del Villaggio gestita da 1891 per accoppiare “scientificamente” le anime gemelle, non è che un modo per dare agli abitanti del villaggio che esistono anche nella realtà il partner “fittizio” che desiderano. Così, ad esempio, 147 può ritrovare nel Villaggio la moglie e la figlia che ha perso nel mondo reale per il suo cattivo comportamento.

Fa eccezione Lucy, la donna che Michael incontra al bar a New York e poi conosce nel Villaggio come 415: per svolgere il compito assegnatole da Curtis, lei entra davvero nell’allucinazione –  questo succede quando perde brevemente  i sensi fuori l’appartamento di Michael all’inizio del quarto episodio, verosimilmente dopo aver assunto le droghe allucinatorie – e il suo gettarsi alla fine nel buco dell’oblio è dovuto al fatto che nella realtà muore quando l’appartamento di Michael esplode.

 

Il primo abitante “fittizio” del Villaggio è stato 11-12, cioè appunto il figlio di Numero 1 e Numero 2, che è il più ragazzo più grande proprio perché è il figlio della prima coppia del Villaggio: il figlio che Curtis ed Helen non hanno potuto avere nel mondo reale. Tuttavia 11-12 diventa abbastanza maturo da percepire la propria natura di finzione, ne soffre profondamente e si ribella al padre in vari modi (anche attraverso la sua relazione con 909, il luogotenente di Numero 2, il che è davvero ironico se si considera che Ian McKellen è un attivista gay!).

Il sogno si oppone al sognatore, l’illusione ideologica fallisce e si rivela insostenibile: 11-12, deluso dal fatto che sua madre non può farlo nascere al mondo reale a cui anela,  la uccide nel Villaggio (determinando così il ritorno della coscienza di lei nel mondo reale) e si uccide.

Dopo la morte di Numero 1 e la conseguente comparsa di numerosi buchi, il Villaggio si avvia alla dissoluzione nell’abisso dell’oblio: ma Numero 2 trova la soluzione, perché manipola gli eventi in modo tale che dapprima Numero 6, portato a ciò dalla sua stessa bontà, sia tentato di assumere il ruolo di nuovo 1 per salvare gli abitanti del Villaggio  (gli abitanti del Villaggio gridano “Six is the One!”), e poi che 313 si offra volontaria e diventi lei la nuova sognatrice che dà integrità strutturale all’allucinazione condivisa.

A questo punto il suo compito è concluso, il figlio sognato è perduto, Helen è sveglia nella realtà: Numero 2 si uccide nel Villaggio e d’ora in poi Curtis vivrà solo nella realtà, ritirandosi con sua moglie a vita privata (la disillusione dopo l’ideologia?). Nel Villaggio Numero 6 diventa il nuovo Numero 2, mentre nella realtà Michael assume il controllo della Summakor, con la speranza di poter costruire un Villaggio migliore per i suoi abitanti e usare a fin di bene il potere della società.

 

Ma quella lacrima finale di 313 in stato catatonico suggerisce che la speranza è vana: dopo il fallimento di un’ideologia si cerca di sostituirla con un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, sempre con le migliori intenzioni… sempre inutilmente.

La realtà non può essere ridotta a un Villaggio.

 

 


La fiaccola dell'anarchia

La fiaccola dell’anarchia

 

 

Amleto si chiama Jax ed è un motociclista con il look da Kurt Cobain, la Marlboro sempre accesa e la carica di vicepresidente del Club. Sua madre si chiama Gemma ed è una vera tamarra di provincia americana con la pistola nella borsetta, la menopausa in arrivo e la preoccupazione che il figlio segua nel Club le orme del suo attuale marito. Il quale si chiama Clay, è il presidente del Club e il boss della città e tratta l’uno e l’altra con pugno di ferro in guanto di velluto, anche se le mani cominciano a soffrire l’artrite perché la vecchiaia è una stronza senza cuore implacabile. Il fantasma è un libro scritto dal defunto padre di Jax, primo marito di Gemma e fondatore del Club, morto in circostanze ignote, il quale vi aveva riversato tutta la sua amara delusione per ciò che era diventato il suo Club. Jax trova il libro e comincia a leggerlo e a farsi troppe domande.

 

E il Club, il sogno di Jax da tutta la vita, il mitico Club, il Club è il Sons of Anarchy Motorcycle Club Redwood Original, detto anche SAMCRO o Sam Crow. Ufficialmente un club di hippy appassionati di motociclette, tatuaggi, sbronze, squinzie ragazze di facili costumi. Non ufficialmente una gang criminale che traffica armi, chiede il pizzo, picchia, ricatta, uccide. La loro storia è la storia di Sons of Anarchy, la serie televisiva creata da Kurt Sutter già creatore di The Shield, la cui trama si districa tra guerre di delinquenti ed echi scespiriani. Una storia di libertà, di prepotenza, e dei confini labili tra le due cose. Una storia in cui non ci sono né bianchi né neri, ma solo diverse tonalità di grigio, e tutti sono a un tempo corrotti e corruttori.

Ma soprattutto la storia del conflitto di Jax, diviso tra un lato violento che vuole assecondare la ferocia di Clay e un lato buono che vorrebbe riportare il SAMCRO nei binari dell’idealismo originario. All’inizio della serie la sua parte buona è come assopita ma successivamente, vuoi perché gli affari sporchi del Club si complicano e gli eventi precipitano, vuoi per l’influenza del dattiloscritto di suo padre, e vuoi perché Jax è appena diventato a sua volta papà, la sua coscienza si risveglia progressivamente. In tutta la prima stagione, durante ogni episodio, Jax legge dei passi del libro che lo fanno ripensare e guardare con occhi nuovi a ciò che ha visto e ciò che ha fatto e ciò che ha lasciato succedere, e non sono belle cose (es. cancellare il tatuaggio del SAMCRO dalla schiena di un traditore… CON LA FIAMMA OSSIDRICA). Il libro è il vero personaggio fantasma della serie, carico di sogni e sentimenti, utopie di libertà assoluta, tristezza per aver visto la perversione di questa libertà, ammaestramenti morali derivanti dall’esperienza.

 

 

Ma pensiamoci bene: poteva forse andare diversamente? È mai andata diversamente? No. Tutti i profeti della libertà assoluta hanno sempre lasciato in eredità al mondo la violenza: la libertà senza regole e senza morale, la libertà affidata solo all’arbitrio e al sentimentalismo dell’uomo (come massa o come individuo), è sempre diventata la libertà dei forti di sottomettere i deboli, e la libertà dei deboli di… essere sottomessi, derubati, sfruttati, torturati, ammazzati.

Nella storia la fiaccola dell’anarchia ha sempre fatto divampare l’incendio della violenza, e ad esserne bruciato è sempre chi non può replicare con altrettanta violenza. Succedeva ieri, succede oggi. Per questo temo chi parla di libertà ma non parla mai di responsabilità, perché o gioca con i fiammiferi o è un altro piromane.

 

 


FlashForward

FlashForward

 

 

Ho cominciato a seguire FlashForward, la nuova serie della ABC, e sembra bella e interessante e tutto quanto, però c’è qualcosa che mi perplime.

 

L’idea base della serie è che all’improvviso tutta l’umanità nello stesso istante perde coscienza per 2 minuti e 17 secondi, durante i quali ciascuno “ricorda” un evento che non appartiene al passato ma al futuro di circa sei mesi dopo. Si tratta insomma di un flashforward (in avanti), il contrario di un flashback (all’indietro).

Dopo l’esperienza collettiva bisogna anzitutto fronteggiare le emergenze improvvise, perché il blackout globale ha provocato catastrofi immani, incidenti d’auto ovunque nel mondo, incendi, aerei contro palazzi, morti a decine di migliaia. Passato il momento di panico però ciascuno deve fare i conti con l’acquisita consapevolezza del proprio futuro e con le conseguenze che questa ha sul proprio presente: la single che sarà incinta e non sa di chi, la donna sposata che starà con un altro e mette in discussione il suo matrimonio, il quasi suicida che sarà vivo e felice, quello che non vede niente e teme che tra sei mesi sarà morto, etc. Oltre a tutto ciò la serie segue le vicende del protagonista agente dell’FBI il quale indaga sul possibile complotto che ha provocato il flashforward mondiale.

 

Bastano questi pochi cenni per capire che ci sono evidenti collegamenti con LOST: l’uso stesso del termine e del concetto di flashforward, quella che potremmo generosamente chiamare “filosofia di fondo” (destino VS libero arbitrio), un paio di attori in comune. È chiaro che la ABC cerca con FlashForward di bissare il successo di LOST e riempire il vuoto che lascerà quest’ultima serie, che è arrivata all’ultima stagione, attirando tutti i fan disperati perché non potranno più perdersi nei meravigliosi rompicapo mentali dell’Isola per eccellenza.

 

 

Però c’è un’incongruenza che non mi spiego. Secondo la trama, ogni persona sulla terra ha “ricordato” un evento che vivrà il 29 aprile 2010. Ebbene, in quegli eventi futuri quasi tutti staranno facendo cose assolutamente usuali, camminare, lavorare, andare in bagno, eccetera.

Questa cosa mi sembra molto strana, perché se io ora vedessi un momento del mio futuro che accadrà il tale giorno alla tale ora, verosimilmente poi arrivando a vivere quel momento lo riconoscerei. Cioè il 29 aprile 2010 probabilmente non farei altro che pensare “accidenti, è quel giorno che ho visto sei mesi fa, sto facendo proprio quella cosa che avevo visto”. E poi, arrivato al momento topico, è lecito presumere che sarei in certa misura emozionato.

Invece i flashforward di FlashForward sono, per la maggior parte e con alcune eccezioni, di una banalità tipicamente appartenente all’ordinaria normalità della vita di tutti i giorni.

 

La cosa potrebbe spiegarsi se il flashforward mostrasse un futuro lineare che però sarà modificato dal verificarsi del flashforward stesso.

Cioè: oggi (x) io vedo un futuro (x+1) che chiamerò futuro Alpha e che è il mio futuro come tenderebbe a verificarsi se gli eventi seguissero il loro corso “naturale”. Tuttavia, il fatto stesso che oggi io abbia visto il mio futuro Alpha modifica il mio comportamento attuale, perché ad esempio sapendo che sarò ucciso se girerò a destra è naturale che io abbia almeno la tentazione di girare a sinistra, e in ogni caso le modifiche sul comportamento altrui avranno influenze sul mio e viceversa.

E allora, siccome sono le persone a determinare gli eventi e non viceversa, il mio futuro non sarà (x+1 Alpha) ma bensì (x+1 Beta), e il flashforward che ho visto non si verificherà, ma sarà soltanto l’avvertimento di un futuro che è possibile ma di fatto lasciato comunque al libero arbitrio del veggente (ovvero all’incrociarsi e reciproco influenzarsi del libero arbitrio di tutte le persone sulla Terra).

 

Questa teoria mi piacerebbe molto, ma purtroppo non regge. Perché nella sceneggiatura di FlashForward c’è un paradosso, tipico di quando si va ad alterare il tessuto della causalità del continuum spaziotemporale, e cioè che il futuro mostrato dai flashforward è un futuro nel quale sono già inscritte le conseguenze del verificarsi del flashforward stesso.

Per chiarire: la dottoressa sposata vede un futuro nel quale non sta più con suo marito, ma ama un altro uomo, uno che neanche conosce. Ma più avanti lei fa effettivamente conoscenza di quest’uomo, che è il padre di un bambino che lei ha curato per essere rimasto ferito in un incidente provocato dal blackout globale. Ovvero: lei non avrebbe mai conosciuto quest’uomo in assenza del flashforward, il quale dunque mentre avveniva nel presente era già il passato del futuro (si capisce ciò che ho scritto?).

La cosa diventa addirittura ridondante con il protagonista agente dell’FBI, il quale nel proprio flashforward si trovava/si troverà davanti alla parete del proprio ufficio dove ha appuntato tutti gli indizi sull’indagine che ha per oggetto la causa del flashforward stesso. Sicché, e gli autori stanno un po’ abusando di questo comodo determinismo, troppo spesso il solerte detective per fare passi avanti nell’indagine può ricordare “ah già, questo indizio era appeso al muro nel mio flashforward, dunque adesso lo appendo al muro e investigo su di esso”. Problema dell’entropia a parte, così è troppo facile.

 

 

A questo punto l’incongruenza di cui dicevo resta intatta, e spero che in qualche modo sia risolta perché altrimenti mi diminuirebbe alquanto il valore dell’insieme (non puoi inventare una trama che si basa sull’alterazione del continuum temporale e poi perderti così nei fondamentali, o almeno non puoi farlo se non vuoi scendere ai livelli a cui è tristemente sceso Heroes).

Comunque FlashForward finora si fa guardare molto volentieri, non so se arriveremo ai livelli di LOST ma non si può avere tutto. Avanti così verso il futuro.

 


Dollhouse

Dollhouse

 

 

Ho 38 cervelli, e nessuno di loro pensa che si possa firmare un contratto

per essere schiavi. Specialmente ora che abbiamo un presidente nero.

 

 

Dollhouse è una serie di fantascienza molto interessante, frutto del genio creativo di Joss Whedon, già autore di serie cult come il teen horror Buffy The Vampire Slayer (il telefilm preferito di Massimo Introvigne!) e l’incompiuto meraviglioso western futuristico Firefly; una serie che pone molti interrogativi attorno a grandi temi come l’autonegazione della libertà, la degenerazione della fantasia, la tecnica asservita al potere assoluto dei pochi sui molti.

 

La Dollhouse è un’azienda segreta la cui esistenza è ufficialmente negata, una leggenda metropolitana per la gente normale, che offre con molta discrezione i suoi servizi soltanto a pochi eletti ricchi e potenti. La Dollhouse affitta persone: chiunque sia il lui o il lei di cui hai bisogno – squillo di lusso, professionisti espertissimi, qualcuno che sia veramente innamorato di te – loro possono accontentarti, impiantando l’opportuna personalità in una “Doll”: esseri umani a cui hanno resettato il cervello per rimuovere la personalità (la memoria, l’identità, la volontà, l’anima) e conservarla in un hard disk. Sono corpi vuoti, pronti ad essere riempiti all’occorrenza di personalità fasulle oppure ricavate da altre persone.

Quando non sono in missione le Doll, anche note come “Active”, abitano nella Dollhouse: un avveniristico edificio supersegreto nel quale vegetano in stato infantile e semicosciente, ripetendo le stesse frasi, nuotando placidamente in piscina, impegnate in attività elementari che tengono occupato al minimo il cervello, facendo molte docce in comune (miste: di regola gli Active non hanno impulsi sessuali), sempre sorridendo. Sempre sorridendo. Le Doll sembrano felici. Ed è importante notare che l’incarico di Doll è temporaneo, dura 5 anni (almeno così promette la Dollhouse) e soprattutto è volontario: tutti gli Active hanno scelto di diventarlo, hanno firmato il consenso, chi per soldi, chi perché la Dollhuose prometteva di risolvere qualche grosso guaio che avevano combinato, chi per disperata alternativa al suicidio contro l’intollerabile dolore di vivere.

Protagonista della serie è Echo, una Doll in qualche modo speciale, che riesce a pensare oltre gli stretti limiti del protocollo operativo di volta in volta impiantatole. Altri personaggi di rilievo: il supervisore di Echo, molto paterno nei suoi confronti e non privo di riserve morali sulla Dollhouse; un testardo agente dell’FBI, convinto che la Dollhouse esista davvero e deciso a smascherarla e salvare le Doll; e nell’ombra si muove il pericoloso Alpha, un Active ribelle fuggito dopo un sanguinoso incidente, dagli scopi misteriosi.

 

 

Queste le premesse, vorrei parlare un po’ dei temi etici sollevati dalla serie.

Anzitutto, la libertà. Questa è la grande domanda di fondo della serie: siamo liberi di perdere la nostra libertà? I volontari hanno “liberamente” scelto di diventare Doll, ma è possibile una tale scelta? L’autodeterminazione si può spingere all’autodistruzione?

Potete ben vedere che si tratta di domande di estrema importanza, soprattutto oggigiorno. Domande a cui la serie sembra fortemente suggerire una risposta negativa: consenso o non consenso, l’attività della Dollhouse è intrinsecamente immorale, oltre che pericolosa per le sue implicazioni sociali. Uno dei migliori episodi della prima stagione mostra spezzoni di interviste per strada a gente di varie condizioni, interrogandoli su questa fantomatica Dollhouse che di sicuro non esiste, non possono fare una cosa del genere, ma se esistesse tu che faresti? Le risposte sono le più disparate, c’è chi vorrebbe spassarsela con le Doll o addirittura essere una di loro (“fai di tutto. E in più non devi ricordarti niente. O studiare, o pagare l'affitto. E in cambio te la spassi con gente ricca per tutto il tempo. Dove devo firmare?”), e c’è chi la vede come la nuova frontiera della schiavitù (“C'è un solo motivo per cui una persona vorrebbe diventare uno schiavo: il fatto che lo sia già”). L’accidentato percorso della protagonista Echo la spinge a recuperare via via una sorta di autoconsapevolezza, fino a capire che non si può firmare il consenso per rinunciare al proprio consenso.

La questione diventa, per chi ha una particolare sensibilità a certi argomenti, ancor più interessante se la si associa a un’altra forma di autonegazione della libertà, che non è un ipotetico futuro ma un terribile presente: sto parlando ovviamente dell’eutanasia. L’argomento non è stato affrontato da Dollhouse, almeno finora e forse non lo sarà mai (anche perché, diciamocelo, a parlare contro la schiavitù son bravi tutti e si fa sempre bella figura, a parlare contro l’eutanasia si rischia qualcosa in termini di popolarità); ma c’è comunque la speranza che qualche giovane liberal, portato a riflettere sulle contraddizioni dell’autodeterminazione spinta all’estremo, spinga la sua riflessione oltre i limiti del politicamente corretto.

Grazie Joss, non è proprio il massimo, ma va bene così.

 

 

Seconda questione: la fantasia.

Per quel che si è visto finora nelle dodici puntate della prima stagione, ci sono fondamentalmente tre tipi di clienti della Dollhouse: i perversi, i pratici e i patetici. Tutti hanno molti soldi, probabilmente troppi.

I perversi sono quelli che affittano le Doll per fare sesso. Si tratta semplicemente di prostituzione, in certi elitari strati sociali la Dollhouse è l’ultima moda dell’escort. Che altro c’è da dire?

I pratici sono quelli che hanno bisogno di una personalità con determinate caratteristiche per un fine concreto, qualche volta perfino positivo. A un miliardario rapiscono la figlia: si rivolge alla Dollhouse per avere il miglior negoziatore possibile. Un uomo d’affari deve far rubare un oggetto e affitta una personalità stile Arsenio Lupen. Una task-force deve infiltrare un agente in una setta di fondamentalisti cristiani che usa la religione come copertura per loschi fini: mandano il miglior infiltrato possibile, cioè una Doll a cui hanno impiantato una personalità sinceramente credente (inevitabile il paragone tra il brainwashing della Dollhouse e quello della setta). A volte la Dollhouse assume perfino incarici pro bono, a gratis: una Doll può aiutare una bambina vittima di abusi a superare il trauma, trovando con lei l’empatia perché ha una personalità che ha subito quelle stesse esperienze.

In particolare, è molto interessante il caso della donna facoltosa che si fa fare periodicamente la scansione cerebrale: dopo che è stata uccisa, la sua personalità viene consapevolmente impiantata in una Doll per darle l’opportunità di smascherare il suo assassino e risolvere i conti in sospeso. Si allude agli enormi problemi derivanti da questa forma di immortalità immanente: il supervisore di Echo, moralmente più degno di tanti suoi colleghi, avvisa la direttrice della Dollhouse che “Vita eterna. È qualcosa che offriamo, adesso? Perché in quel caso si rende conto che questo segna l'inizio della fine? Una vita infinita. Tutti la desiderano. Il cristianesimo, le altre religioni… la moralità non esiste senza la paura della morte” (ah sì?), al che il boss replica “Non sto progettando di guidare la civiltà occidentale verso la sua fine. È solo per questa volta”. Sarà proprio vero?

Poi ci sono i patetici. Sono i più innocui, ma in un certo senso è qui che l’attività della Dollhouse è più pericolosa. I patetici sono quelli che si rivolgono alla Dollhouse per realizzare fantasie “normali” che non hanno la capacità di risolvere da soli. C’è quello che vuol il miglior appuntamento possibile, ma non riesce a trovare una ragazza con cui legare davvero: affitta una Doll e va sul sicuro. Qualcuno non riesce a farsi amici nella realtà e vuole una Doll soltanto per passare in allegria il compleanno. Una signora di mezza età sogna una fuga d’amore impossibile e si autoillude con un giovane aitante Active nei fine settimana. C’è un tipo a cui è morta la moglie poco prima che potesse dirle che aveva finalmente comprato la casa dei loro sogni: ogni anniversario affitta una Doll con la personalità artificialmente ricostruita della moglie, per mostrarle finalmente la casa, vedere la sorpresa e la felicità sul suo volto, dirle che l’ama (beh, anche fare sesso con lei).

I patetici sono i casi più tristi. Più triste del comprare sesso è il comprare sentimenti, ovvero illudersi di poterlo fare. S’intravede all’orizzonte un mercato fatto di consumatori individualisti e disillusi che hanno perso ogni capacità di costruire autentiche relazioni umane e preferiscono noleggiarle prefabbricate; incapaci di smussare il proprio carattere per adattarlo agli altri, preferiscono noleggiare un altro appositamente tarato per il proprio carattere; incapaci di sforzarsi per migliorare la propria realtà, preferiscono vivere una sterile fantasia. È il solipsismo massificato e commercializzato, la masturbazione elevata a sistema sociale.

È questo il destino dell’occidente sazio e disperato? E chi ne trae guadagno?

 

 

Ah, ma qualcuno che ci guadagna c’è sempre. C’è sempre qualcuno che trae guadagno dal convincere la gente che è meglio uccidersi che vivere, è meglio una relazione alla giornata che impegnarsi in qualcosa di duraturo. C’è sempre chi ha tutto l’interesse a convincere le persone che libertà vuol dire essere schiavi dei propri istinti, i quali spesso per essere soddisfatti necessitano di consumi crescenti e a pagamento. E c’è sempre chi vuole conseguire un potere smisurato per mezzo di una tecnologia sfrenata, e respinge ogni tentativo di mettere limiti con l’accusa di oscurantismo e la bandiera del Progresso.

La Dollhouse si occupa di fantasie: questo è il loro incarico, ma non è il loro scopo”, è il sibillino messaggio che arriva all’agente dell’FBI Ballard, che ha giurato a sé stesso di salvare Echo e distruggere la Dollhouse, da parte di un misterioso alleato. Ma la Dollhouse in sé è solo la propaggine di una più vasta consorteria occulta di illuminati, i cui obiettivi a lungo termine sono ben più grandi dell’affittare piacere a facoltosi debosciati. Ci sono Doll che non risiedono nella Dollhouse, ma vivono tra noi: Active “dormienti”, a cui è stata impiantata una personalità normale e di basso profilo, modificata con meccanismi nascosti che possono, ad un preciso impulso sensoriale, trasformarli in killer infallibili ed inconsapevoli. Il vaso di pandora è stato appena scoperchiato e c’è una quantità enorme di questioni da affrontare: qual è l’obiettivo ultimo di chi si nasconde dietro la Dollhouse? Un esercito, una società, un mondo fatto di Doll, di persone-cose? Una società in cui tutti hanno una personalità artificiale, controllabile e perfetta, il paradiso in terra sognato da tutte le illuminate utopie moderne? Ma quanto è facile rovesciare un paradiso nell’inferno? Dov’è il pericolosissimo Alpha, il figliol prodigo della Dollhouse, che si considera l’incarnazione dell’oltreuomo nicciano e ama sfregiare le persone con lame affilate? Dov’è la differenza tra una personalità naturale e artificiale? L’identità è solo la conseguenza della memoria? Le Doll hanno ancora il libero arbitrio? I corpi sono fungibili? L’anima esiste davvero, è separabile dal corpo e scaricabile in un hard disk, oppure è qualcosa di più che una configurazione neurale resettabile a piacere? Chi di noi potrebbe essere una Doll senza saperlo? E se fossimo tutti le Doll di Dio (il Dio di Lutero, di Calvino, forse anche di Hegel)?

 

 

Dollhouse è una serie veramente notevole. Ha un altissimo potenziale, ma purtroppo finora è riuscita a svilupparlo solo in parte, vuoi per l’estrema atipicità del prodotto (se la protagonista cambia personalità ad ogni episodio è difficile fidelizzare il pubblico), vuoi perché non sono moltissimi gli spettatori capaci di apprezzare le questioni sollevate, vuoi anche per innegabili difetti di regia e sceneggiatura. La prima stagione ha fatto ascolti bassi e la FOX ha concesso il rinnovo per la seconda stagione a fatica e in via sperimentale. Il rischio che Dollhouse faccia la stessa fine del compianto Firefly è molto concreto, e sarebbe davvero uno spreco, perché la mia sensazione è che Dollhouse abbia appena cominciato a dire quello che deve dire. Vedremo.