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Tommaso Moro e il Purgatorio

301Avevo detto in un precedente post che Tommaso Moro nel suo libro La supplica delle anime, contro gli argomenti dei protestanti che negano il Purgatorio, individua dieci passi biblici da cui si evince che già nei primi cristiani, ed anche negli ebrei, era presente la nozione di una purificazione post-mortem dei defunti ( = il purgatorio non se l’è inventato la Chiesa nel medioevo).
Ora, per la cultura dei lettori interessati (moltissimi naturalmente: chi mai, a metà agosto, preferirebbe le parole crociate sotto l’ombrellone alle dense disquisizioni teologiche?), elenco i dieci passi e riassumo le argomentazioni di Moro.
Aggiungo anche le mie considerazioni, per quel che valgono – poco, essendo le mie nozioni esegetiche alquanto scarse, chiedo anzi aiuto ai biblisti eventualmente sintonizzati.

1) Isaia: 38Quarto libro dei Re: 20

 Sono citate assieme perché la storia narrata è la stessa, quella del re Ezechia a cui Isaia predice la morte imminente. Ezechia piange, prega, Dio gli concede altri 15 anni di vita.
Moro afferma che il re ha paura del purgatorio. Infatti, nel momento in cui Dio gli annuncia che morirà di lì a poco, Ezechia si pente dei suoi peccati. Perciò in teoria non avrebbe più nulla da temere, il pericolo dell’inferno è scongiurato. Se è convinto di andare subito in paradiso, di cosa allora ha paura? Il timore del re si spiega solo se egli aveva ben presente che, oltre all’inferno e al paradiso, esiste anche la possibilità del purgatorio e delle sue sofferenze. Il favore di Dio, che aggiunge altro tempo alla sua vita, consiste proprio nel dargli la possibilità di evitare il purgatorio espiando i suoi peccati in questo lasso di tempo ulteriore, in modo da essere pronto, al momento della sua posticipata morte, ad andare direttamente in paradiso.

 L’argomento è molto sottile. Si potrebbe obiettare che Ezechia potrebbe semplicemente provare paura umana della morte, oppure che potrebbe non essere sicuro di andare in paradiso e chieda tempo ulteriore per esserne certamente degno. Tuttavia, in tal caso non si capirebbe perché l’autore biblico faccia di Ezechia un esempio positivo (non mancano casi in cui si mostrano i limiti umani degli eroi della Bibbia, però in questi casi le loro colpe sono additate senza ambiguità).

 N.B. Moro segue una denominazione precedentemente in uso dei libri biblici, per cui “Samuele 1 e 2” erano rispettivamente “Re 1 e 2”, mentre quelli che nella Bibbia CEI troviamo come “Re 1 e 2” erano “Re 3 e 4”.

 2) Primo libro dei Re : 2,6 (per noi è il primo libro di Samuele)

 Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire.

 È il caso di anticipare qui una spiegazione che Moro dà successivamente nel libro (pag. 181), cioè il fatto che “inferi” è una categoria generale che comprende l’inferno propriamente detto, il limbo e il purgatorio:

 Il termine “inferno” rispecchia molto bene l’uso della parola latina e greca. Prima delle resurrezione di nostro Signore, nessuna persona salì al cielo; in queste due lingue, di conseguenza, parlando delle anime trapassate, si diceva che esse erano discese nelle “regioni inferiori”. Quest’uso si trova nel Simbolo degli Apostoli, dove si dice che nostro Signore dopo la sua Passione “descendit ad inferos”: discese agli inferi. La lingua inglese invece ha sempre usato il termine hell, inferno. Ora, è certo che Cristo non è disceso in ogni cerchio dell’inferno, ma soltanto nel limbo dei Padri e nel purgatorio. La parola “inferno”, poiché designa l’insieme del soggiorno dei morti, include il purgatorio e il limbo, ma, avendo questi due termini il loro specifico significato, si restringe generalmente la parola “inferno” al luogo dove i dannati sono puniti. Abbiamo precisato il senso di questa parola, perché la corrente accezione non vi induca all’errore.

 Perciò per Moro il purgatorio non è un “terzo luogo” a parte (ricordiamo che per la dottrina cattolica, mentre il paradiso e l’inferno sono sia uno stato sia un luogo, il purgatorio è uno stato ma non necessariamente un luogo), ma piuttosto una sezione speciale degli inferi, destinata ad accogliere le anime che vi sono trattenute solo temporaneamente.
Ora, quali sono le anime che risalgono dagli inferi? Non possono certo essere quelle dei dannati, la cui pena è eterna; perciò deve trattarsi di altre anime. Moro liquida la faccenda con poche righe: “è evidente che quelle anime che Dio libera e fa risalire occupano quella parte di inferi che si chiama purgatorio”.

L’argomento sembra fondato. Io, dal basso della mia scarsa conoscenza biblica, avanzo solo un’ipotesi: che qui non si intenda “inferi” nel senso escatologico del termine. Tutto il capitolo è una lode della potenza di Dio. Guardiamo anche i versetti precedente e successivo:

[5] I sazi sono andati a giornata per un pane, mentre gli affamati han cessato di faticare. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita. [6] Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. [7] Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta.

 Insomma Dio abbatte i potenti ed esalta gli umili; il capitolo sembra una specie di descrizione dei rovesci di buona e cattiva sorte che possono cambiare la vita della gente. Mi chiedo allora se qui “inferi” non vada inteso, piuttosto che nel senso letterale, nel senso metaforico di “situazione disperata” da cui Dio può sempre toglierci. Certo, aiuterebbe sapere qual era il testo originale. Qualcuno mi può aiutare?

 3) Zaccaria: 9,11

Quanto a te, per il sangue dell’alleanza con te, estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz’acqua.

 Moro sostiene anzitutto che il profeta non sta parlando di semplici prigionieri, ma di anime tenute negli inferi, il “pozzo senz’acqua”; inoltre afferma che si tratta di quella parte dell’inferno che è il purgatorio, visto che le anime ne sono estratte.

 Qui, senza offesa per Moro, non sono convinto. Questa parte di Zaccaria è a forte contenuto messianico, il capitolo anticipa la venuta di Cristo. Ma proprio per questo la mia impressione da profano è che le anime di cui si sta parlando non sono quelle dei purganti in generale, ma dei giusti d’Israele (“il sangue dell’alleanza”); prima di Cristo costoro non potevano salire al cielo, perché la Redenzione non era ancora avvenuta, e così aspettavano nel “limbo”, il quale, come abbiamo visto, è una “sottosezione” dell’inferno.
Quando Cristo scende agli inferi, s’intende che scende appunto nel Limbo a liberare le anime che lo aspettavano (così la descrive anche Dante): a me sembra che sia questo l’evento che il libro sta prefigurando.

 4) Secondo libro dei Maccabei 12, 39-46

[39] Il giorno dopo, quando ormai la cosa era diventata necessaria, gli uomini di Giuda andarono a raccogliere i cadaveri per deporli con i loro parenti nei sepolcri di famiglia. [40] Ma trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri agli idoli di Iamnia, che la legge proibisce ai Giudei; fu perciò a tutti chiaro il motivo per cui costoro erano caduti. [41] Perciò tutti, benedicendo l’operato di Dio, giusto giudice che rende palesi le cose occulte, [42] ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutti quelli del popolo a conservarsi senza peccati, avendo visto con i propri occhi quanto era avvenuto per il peccato dei caduti. [43] Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. [44] Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. [45] Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato.

 Si tratta del passo più famoso sull’argomento, frequentemente citato. Infatti dovrebbe tagliare la testa al toro: pregare per la purificazione dei morti non non ha senso né per i dannati né per i beati, entrambi non hanno bisogno di preghiere. I primi sono ormai imperdonabili, i secondi sono già stati perdonati. Vi è un dunque un terzo stato di transito, nel quale occorre il perdono dei peccati commessi in vita, e coloro che vi si trovano usufruiscono delle preghiere dei vivi.
Altresì, Moro non ignora che ci sono pesanti controversie sulla storicità di questo libro: i protestanti lo rifiutano, così come gli ebrei. A questo riguardo però osserva che la festa istituita da Giuda (la festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme, o festa della consacrazione annuale), pur non essendo nominata in alcun altro libro dell’Antico Testamento, è nominata nei vangeli e infatti Cristo stesso vi partecipò (cfr vangelo di Giovanni 10, 22). Da ciò si evincono la veridicità storica e l’autorità divina del libro dei Maccabei.

 Argomento inoppugnabile. Non vedo possibili obiezioni.

 5) Prima lettera di Giovanni 5, 16

 Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita; s’intende a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte: c’è infatti un peccato che conduce alla morte; per questo dico di non pregare.

 Il peccato a cui si riferisce, sostiene Moro, è quello della disperazione e dell’impenitenza finale (forse Giovanni aveva in mente Giuda). Se qualcuno è morto in questo stato, pregare per lui è inutile. Dal che si deduce, a contrario, che è invece utile pregare per coloro che non sono morti in questo stato.

 Io avevo sempre interpretato il passo come riferito alla distinzione tra peccati mortali e veniali. Ma in effetti la distinzione tra questi peccati è proprio che i primi, senza pentimento, portano alla dannazione, mentre i secondi per la loro minore gravità non portano alla dannazione ma dovranno appunto essere scontati nel purgatorio. L’argomento mi sembra valido.

 6) Apocalisse 5, 13

 Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.

Come abbiamo visto, le regioni inferiori “sotto la terra” sono appunto gli inferi. Moro fa notare che non può trattarsi dei dannati, i quali non lodano Dio, altrimenti non sarebbero tali. Perciò il passo si riferisce a coloro che sono negli inferi ma non sono dannati (cioè, sono nel purgatorio oppure nel limbo).

Ho un dubbio su questo passo e cioè che per “creature sotto la terra” s’intendano, invece che le anime degli uomini, delle specie di animali che per gli ebrei vivevano nel sottosuolo. Dopotutto si menzionano anche le creature della terra e del mare. Certo, in senso proprio gli animali non hanno la razionalità per lodare Dio, ma è con la loro stessa esistenza che essi rendono onore al creatore: non è questo un tema ricorrente nella Bibbia, es. Giobbe?

Lascio la questione a conoscitori dell’Apocalisse migliori del sottoscritto.

  7) Atti degli Apostoli 2, 24

[22] Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, [23] dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. [24] Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.

 Sebbene il testo latino che trovo sul sito del Vaticano dica “quem Deus suscitavit, solutis doloribus mortis, iuxta quod impossibile erat teneri illum ab ea”, Moro si riferisce a una differente traduzione in latino dall’originale greco dove dice “doloribus inferni”, cioè i dolori dell’inferno. Di quale traduzione si tratta? Io non lo so.

 Come abbiamo visto, per Moro (e per gli uomini della sua epoca, presumo, altrimenti il suo ragionamento non avrebbe avuto efficacia apologetica) il regno infernale si divide in tre sezioni: l’inferno propriamente detto, il limbo e il purgatorio. A quale di esse ci si riferisce qui?  Moro dice: non stiamo parlando dei dolori dell’inferno, perché quelli durano per sempre, Dio non li scioglie; né parliamo dei dolori del limbo, perché nel limbo non ci sono dolori. Peciò resta solo il purgatorio.

 Ho due dubbi per questo passo. Uno: che Pietro (del quale Luca riporta il discorso) intendesse parlare del regno della morte in generale, senza intendere particolari specificazioni al suo interno. Due: siccome qui si sta parlando di Cristo, che per ovvi motivi è un caso del tutto particolare – è sceso agli inferi, ma chiaramente non era né un dannato, né un destinato al limbo, né un’anima da purificare – possiamo prenderlo a modello per fare un discorso in generale sulla condizione ultraterrena di tutti gli esseri umani?

 8) Prima lettera ai Corinzi 3, 12-15

 [12] E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, [13] l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. [14] Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; [15] ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco.

 La salvezza attraverso il fuoco indica il purgatorio. La distinzione tra legno, fieno e paglia (materiali che bruciano in tre modi diversi e con durate diverse) indica la distinzione tra le anime che passeranno tempi diversi nel purgatorio a seconda della gravità delle loro colpe.
Inoltre, Moro aggiunge che molti Padri dei primi secoli hanno interpretato le parole di San Paolo nel senso del purgatorio. Qui perciò si dà proprio la prova storica che “l’invenzione medievale” è una leggenda. Moro cita tra gli altri Origene, Sant’Agostino, San Gregorio Magno; l’editore, facendo cosa molto utile, ha aggiunto una nota a piè pagina indicando i passi precisi di questi autori:

Origene: (Omelia n. 25 sul libro dei Numeri, Omelia n. 6 sul libro dell’Esodo, Omelia n. 3 sul Salmo 36. Sant’Agostino: Enchiridion n. 69, Enarratio in Salmo 37, De civitate Dei  21, 24. Gregorio Magno commenta la prova paolina nei Dialoghi. Il Concilio di Firenze (1439-1442) l’allega in terza posizione dopo il libro dei Maccabei e Matteo 12,32. Johann Maier Eck (1486-1543) professore a Ingolstadt, difensore dell’ortodossia cattolica in Germania, rievoca questa prova contro Lutero l’8 luglio 1519 nella loro disputa a Lipsia.

 Nulla da obiettare. Colpito e affondato.

9 + 10) Matteo 12, 32 + Matteo 12, 36

[31] Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata.
[32] A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.
[33] Se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l’albero.
[34] Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Poiché la bocca parla dalla pienezza del cuore.
[35] L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive.
[36] Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio;
[37] poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato”.

  Infine, Moro cita due versetti del vangelo. Trattandosi di discorsi diretti di Cristo, hanno una valenza particolarmente speciale.

 Il primo versetto ci risulta più chiaro nella nuova versione CEI:

A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo né in quello futuro.

 Gesù parla di un peccato che non sarà perdonato né in questo mondo né in quell’altro. Moro non affronta il tema dell’imperdonabile peccato contro lo Spirito, ma deduce a contrario che tutti gli altri peccati sono invece perdonabili. Cristo però non si ferma qui; specifica chiaramente che il perdono avviene anche dopo la morte. Ma questi peccati che saranno perdonati dopo la morte non possono essere né i peccati di coloro che sono all’inferno, per i quali non c’è più perdono, né i peccati di coloro che sono andati subito in paradiso poiché morti in stato di grazia, i loro peccati essendo già stati perdonati in questo mondo; dunque non restano che i peccati di coloro che sono nel purgatorio, durante il quale appunto si ha l’espiazione residua.
Per il secondo versetto, Moro è lapidario e non si dilunga affatto: afferma semplicemente che l’espiazione di cui si parla avverrà dopo la vita presente. “Non può essere nell’inferno, tanto meno in cielo: non resta che il purgatorio”.

 Il primo versetto mi appare inconfutabile.
Sul secondo invece sono dubbioso, perché potrebbe riferirsi al giudizio particolare, che ogni singola anima attraversa quando muore; oppure, potrebbe riferirsi a ciò che succederà nel Giudizio universale alla fine dei tempi, quando si “consoliderà” il destino dei dannati e beati che avevano già attraversato il proprio giudizio particolare (si riuniranno al proprio corpo e vedranno retribuiti anche gli effetti remoti delle proprie azioni; perciò, per i primi si accrescerà la pena, per i secondi la beatitudine).

*

Spero che quanto sopra possa essere utile a qualcuno come lo è stato a me.

P.S. reciterò un intero rosario per colui o colei che indovina cos’è la foto iniziale e che c’entra.
Se barate e usate i motori di ricerca, andate all’inferno.


L’Osservatore Romano va(da) all’inferno!

Non dico tutta la redazione dell’OR, ma almeno la dott.ssa Sylvie Barnay. Perché, che ha fatto? Ha scritto l’articolo “Fuoco e fragore divennero buona novella”.
Il titolo sembra sibillino, ma poi si capisce, e fuoco e fragore vien voglia di emetterli a lettura conclusa.

Insomma la storia è che tale Marie Balmary, psicanalista, e tale Daniel Marguerat, teologo – peraltro protestante calvinista, dice wikipedia – scrivono un libro assieme (“Nous irons tous au paradis. Le Jugement dernier en question”). Bravi. Sul Giudizio finale. Bravi. Elogi sperticati da parte della dott.ssa Sylvie Barnay, storica. Brava. Ma che dice il libro di tanto bello per meritarsi l’applauso sul giornale del Vaticano?  Gli è che la psicanalista e il teologo, spiega  la storica, “cominciano chiedendo: «Perché preoccuparsi ancora per ciò che assomiglia a un rottame arrugginito?»”.
L’incipit è un po’ enigmatico, invero più metallurgico che psicanalitico-teologico-storiografico, ma pazienza: gli autori

ricordano fino a che punto noi continuiamo a essere un tutt’uno con le rappresentazioni medievali del Giudizio finale e con la loro «retorica del terrore». Questa visione della storia, in cui gli eletti vanno in paradiso e i dannati all’inferno, è stata propria di un’epoca dominata dalla paura. D’altro canto il Rinascimento ribatterà con tranquilla audacia al medioevo che l’uomo sarà salvato malgrado tutte le sue debolezze. Ma la prospettiva terrificante dei dannati che arrostiscono all’inferno continuerà ad assillare le coscienze secolarizzandosi persino nella letteratura fantastica del XXI secolo. È allora con tranquilla audacia che i nostri due compagni di cammino interrogano le scritture per ascoltare con noi la parola biblica.

Purtroppo il breve articolo non spiega dove arriva il cammino dei nostri due compagni, e come la loro tranquilla audacia (rinascimentale?) la metta a nome con la parola biblica: nella quale purtroppo – suppongo per colpa della tipica mentalità medievale di cui, com’è noto, erano intrisi gli ebrei veterotestamentari e gli evangelisti, per non parlare di quel Gesù ch’è medievale fatto e finito come nessuno mai – dell’inferno e di chi lo abita si parla come di un dato di fatto, che non si può nascondere sotto il tappeto, hai voglia di “interrogare” e “ascoltare” e via cianciando. O forse alla fine si scopre che il forcone di Belzebù è un simbolo fallico?

Poi uno dice il fumo nel tempio. Ma vedi tu se tocca leggere sull’Osservatore Romano, manco Jesus o Famiglia Cristiana, che l’inferno è una retorica del terrore e l’esito del giudizio finale è una “visione della storia”, ma don’t panic: ci salverà la tranquilla audacia del Rinascimento e degli psicoteologi francesi.

Auguro alla dott.ssa Sylvie Barnay, e a chi le ha approvato l’articolo in Vaticano, e a chi ha approvato l’approvazione, di andare all’inferno.
Mica per sempre, oh. La dannazione non si augura a nessuno, manco a Giuda. Intendo una semplice roba andata-e-ritorno, tipo Dante, o almeno una visione mistica, una rivelazioncina privata piccola piccola, un sogno incubatico rigorosamente non psicanalizzabile. Che siccome evidentemente “interrogare” la parola biblica – magari leggere perfino il vangelo, tipo pesco un paio di passi a caso Mt 18:8 o Lc 13:22, dove Gesù ha il cattivo gusto di fare della deplorevole medievale retorica del terrore – non è stato abbastanza, allora abbiate pietà, lassù in alto loco: mandategli qualcosa che gli dia la scossa a tutti quanti, gli metta addosso una strizza fottuta da pisciarsi addosso. E poi la voglio vedere la tranquilla audacia.
Perché di questo stiamo parlando: dell’inferno. Che esiste davvero, altro che rottame arrugginito, così è scritto nel Credo. E se qualcuno lì all’Osservatore Romano non ci crede, liberi di non crederci, ma allora ce lo dicessero chiaro e tondo.

Ultima osservazione. La dott.ssa Barnay conclude facendo una pippa così su com’è bella l’alleanza tra esegesi e psicanalisi, la fecondità del metodo transdisciplinare, la creazione di senso con il linguaggio (?), e lamentandosi perché l’approccio psicanalitico – “vivamente richiesto” dalla Pontificia Commissione Biblica del 1993 – è rimasto troppo spesso confinato nelle teorizzazioni degli esperti.
Mi unisco di cuore a tali cahiers de doléances. Vi prego, cari teologi pontifici e/o protestanti, dateci più approccio psicanalitico, ne abbiamo tanto bisogno. Possibilmente, ve ne prego, brematurato come se fosse antani, con scappellamento a destra a sinistra.


L’uomo che uccise il mondo

un ateo molto leale con cui mi trovai a discutere fece uso di questa espressione: ‘Gli uomini sono stati tenuti in schiavitù per paura dell’inferno’. Gli ho fatto osservare che se avesse detto che gli uomini erano stati affrancati dalla schiavitù per paura dell’inferno, avrebbe almeno fatto riferimento a un inoppugnabile fatto storico.

Gilbert Keith Chesterton

World War Z.
C-A-P-O-L-A-V-O-R-O A-S-S-O-L-U-T-O.
L’apocalisse zombie come non l’avete mai conosciuta.
Ma prima di parlare di Breckenridge “Breck” Scott e del Phalanx, è d’uopo una premessa.

 

Non riesco purtroppo a ritrovare un articolo che ho letto molto tempo fa, e che non ho avuto l’accortezza di conservare, in cui si riassumeva un concetto esposto da (mi pare) Hannah Arendt nel suo La banalità del male: l’ateismo come oppiaceo della coscienza individuale.
Di fronte alla concezione marxista della religione come anestetico che trattiene il proletariato dalla sollevazione di massa contro le catene del padrone, la Arendt oppone che il nazismo ha potuto quel che ha potuto proprio in virtù dell’idea contraria: la consolazione infusa al singolo che nessun Giudizio lo avrebbe mai giudicato, nessun inferno lo avrebbe mai retribuito, dunque non c’era limite a ciò che egli poteva fare. L’orrore diventa normale quotidiano, il male è banale. Così si avvera il teorema di Dostoevksij per cui “se Dio non esiste, tutto è lecito”.
Viene alla mente quel che dice Saint-Savin, personaggio del romanzo L’isola del giorno prima di Umberto Eco, un ateo molto simpatico:

Ma non mi guardate come se non avessi sani princìpi e non fossi un fedele servitore del mio re. Un vero filosofo non chiede affatto di sovvertire l’ordine delle cose. Lo accetta. Chiede solo che gli si lascino coltivare i pensieri che consolano un animo forte. Per gli altri, fortuna che ci siano e papi e vescovi a trattener le folle dalla rivolta e dal delitto. L’ordine dello stato esige una uniformità della condotta, la religione è necessaria al popolo e il saggio deve sacrificare parte della sua indipendenza affinché la società si mantenga ferma. Quanto a me, credo di essere un uomo probo: sono fedele agli amici, non mento se non quando faccio una dichiarazione d’amore, amo il sapere e faccio, a quanto dicono, buoni versi.

 Su cosa si basano questi sani princìpi e quest’auto-definizione di probità, non è spiegato: presumibilmente la personale coscienza filosofica del personaggio e le convenzioni sociali, e su cosa esse sono fondate a propria volta, non si sa. Ma comunque Saint-Savin vive e pensa nel 1600, il suo ateismo è ancora del singolo e per il singolo, ed è controbilanciato da una ferrea morale individuale e dalla fedeltà al re. Cosa succede una volta venuta meno la prima e corrotta la seconda? La risposta a questa domanda è proprio quella data da Hannah Arendt e Dostoevskij.
Mi azzardo ad affermare storicamente, senza averne le competenze e dunque aperto a confutazioni documentate, che è proprio fino al ‘600 che non si ha notizia nella storia dell’umanità di una società complessa – il mito del buon selvaggio meriterebbe un discorso a parte – che abbia abbracciato l’ateismo collettivo e sia sopravvissuta nel lungo termine. È invece nel ‘700 (preceduto beninteso da una lunga gestazione sotterranea) che gli intellettuali cominciano a sognare in massa ed esplicitamente la scristianizzazione totale (la patina di teismo o deismo, la verniciatura di diritto naturale razionalista, si scrosta molto presto) ed è lì che comincia il cammino che porta al pensiero dominante contemporaneo: Dio non esiste, verità e giustizia sono scatole vuote da riempire volta per volta, tutto è lecito o liceizzabile a piacere, non c’è peccato né giudizio.
Su questi presupposti, quanto può durare?

 

Fine della premessa e torno a parlare di World War Z.
Si tratta di un libro epico, scritto da una massima autorità sull’argomento ovvero Max Brooks già autore del Manuale per sopravvivere agli zombie (da tenere nel comodino a portata di mano, metti caso serva). Io l’ho letto in inglese, perché in italiano non è ancora uscito, perciò le prossime citazioni sono mie traduzioni alla buona. Potreste averne già sentito parlare perché tra due mesi esce il film tratto dal libro, di cui è già in circolazione il trailer. Considerato che il protagonista è Brad Pitt e che gli zombie in questo periodo tirano, probabilmente incasserà. Peraltro la pubblicità a me ha fatto ribrezzo, perché sembra la solita storia azioneazionefuggisparaesplodibumbumbum: o il trailer è infedele rispetto al film, oppure il film col libro c’entra ben poco. D’altra parte, mi rendo conto che non era così facile trasporre la storia in film (una serie sarebbe stata un format più adatto, ma ormai questo c’abbiamo e ci accontentiamo, pazienza).
Perché WWZ non è una semplice storia di morti che risorgono e mangiano i vivi. Tecnicamente non è neppure un romanzo. È proprio un’altra cosa – molto migliore.
La particolarità di WWZ è che avviene un mondo in cui c’è già stata la guerra contro gli zombie, e l’umanità ha vinto, seppure a malapena. L’autore intradiegetico del libro è un giornalista che viaggia per il mondo e intervista persone di tutti i tipi, di ogni continente e ceto sociale, facendosi raccontare quello che hanno vissuto e le cose che hanno fatto. La differenza rispetto alla classica zombie story, alla George A. Romero oppure The Walking Dead per intenderci, è palese: lì il punto di vista è del singolo, qui è letteralmente globale. WWZ è estremamente realistico dal punto di vista geopolitico e considera una miriade di fattori che di solito nelle altre storie di zombie sono ignorati: la reazione di mass-media e politici di fronte alle voci di apocalisse (negare sempre, anche l’evidenza, finchè non è troppo tardi), le ragioni tecniche del fallimento delle normali tattiche militari di fronte a un nemico così radicalmente diverso (la battaglia di Yonkers), gli imprevedibili sconvolgimenti politici (Israele si chiude in quarantena e poi scoppia la guerra civile!).
Vorrei citare ogni intervista che mi ha entusiasmato, ma non posso. Sono troppe, praticamente tutte. È stato il libro più bello che abbia letto da un paio d’anni a questa parte (parliamo di un numero a tre cifre). Mi limito allora a quella che mi ha colpito di più, quella che mi ha fatto venire in mente, per motivi che saranno chiari alla fine, le considerazioni che ho riportato all’inizio di questo post.

Breckenridge “Breck” Scott, quel grandissimo stronzo.
Se v’interessa e capite l’inglese, l’intervista è riassunta sulla pagina di Zombiepedia, la wikipedia sugli zombie (sì, esiste davvero), dedicata al Phalanx.
Il Phalanx è un falso vaccino che Scott ha messo in circolazione sul mercato mondiale nella fase iniziale dell’epidemia, quando la gente non voleva credere che si trattasse davvero di zombie. Era meglio pensare che fosse una nuova forma di rabbia africana, più “scientifico”, più accettabile. Le alte sfere politiche, i poteri economici invece sì, sapevano che si trattava davvero di zombie, ma non volevano dirlo per non seminare il panico, perché il panico avrebbe distrutto ancora di più la fragile fiducia dei consumatori e avrebbe ripiombato il mondo in un’altra crisi finanziaria. E tutti quei grandi e blasonati giornali, i cui azionisti incidentalmente erano quegli stessi gruppi economici e politici che non volevano il panico, semplicemente guardavano da un’altra parte: a parlare di zombie erano solo le fonti non ufficiali su internet e social network, ovviamente facili da screditare.
Scott nella sua intervista ci tiene a puntualizzare che “tecnicamente” lui non ha imbrogliato nessuno, perché infatti il Phalanx previene davvero alcuni tipi di rabbia. Ha solo omesso di dire ai consumatori che il suo vaccino era inutile, perché non si trattava di rabbia ma di un’altra cosa, ma “tecnicamente” (lo dice ridendo) non ha mai mentito. Non solo, ma insiste sarcasticamente sulle conseguenze positive della sua truffa:
A causa del Phalanx, il settore biomedico ha cominciato a risalire, questo come conseguenza ha risollevato il mercato azionario, questo ha dato l’impressione di una ripresa, questo poi ha restaurato abbastanza fiducia nei consumatori per stimolare effettivamente la ripresa! Il Phalanx ha interrotto la recessione mondiale… IO ho interrotto la recessione mondiale!
Bravo.
Certo, poi sono morti tutti, ma che ti frega.

Disgraziatamente, il danno provocato dal Phalanx è stato amplificato da ­un altro fattore in gioco: i “quisling”, una delle migliori invenzioni di Max Brooks.
La parola deriva da Vidkun Quisling, politico norvegese che tradì il suo paese e collaborò con i nazisti, il cui nome è passato alla storia come sinonimo di traditore, come dire un giuda. Si tratta di una psicopatologia di massa che si è diffusa ad ampio raggio nella popolazione, anche se sfortunatamente è stata diagnosticata molto in ritardo, e consiste nel fatto che gli umani che ne sono colpiti si convincono di essere zombie. Agiscono come zombie, camminano come zombie, mordono come zombie, possono addirittura essere più pericolosi dei veri zombie. La spiegazione che è stata elaborata per questo fenomeno consiste in una specie di versione evoluta della Sindrome di Stoccolma:
c’è un tipo di gente che non accetta una  situazione lotta-o-muori. Sono attratti da ciò che temono. Invece di resistergli cercano di fare compromessi, compiacerlo, assomigliargli. Ci sono sempre stati collaborazionisti in tutte le guerre, pronti a saltare sul carro dei vincitori… Ma questo non poteva essere fatto in questa guerra, perché gli zombie sono diversi. Non puoi avvicinarti a uno zombie sventolando bandiera bianca e dicendo non uccidetemi, sono dalla vostra parte. Non c’è una zona grigia, nessun compromesso possibile. Ecco, alcune persone semplicemente non riuscivano ad accettare una situazione così drastica. Era troppo. Questo le ha fatte impazzire.
Ora, provate a immaginare la seguente situazione. Un uomo che si è vaccinato con l’inutile Phalanx viene morso da un quisling, quando ancora non si sa che esistono i quisling. Il quisling viene subito abbattuto, nessuno nota la differenza con un vero zombie. L’uomo che è stato morso sopravvive. Cosa devono pensare lui e quelli che gli stanno accanto? Che il Phalanx funziona, ovvio. Si sparge la voce che IL VACCINO FUNZIONA DAVVERO. Siamo al sicuro. Cerchiamo di non farci divorare, ma se si tratta di un solo morso, pazienza, siamo vaccinati.
Allora, situazione n. 2. Un uomo che ha assunto il Phalanx viene morso da uno zombie. È condannato ineluttabilmente a trasformarsi, ma non lo sa, anzi crede di essere salvo. Così quell’uomo torna da dove è venuto – base militare, cittadella fortificata, qualunque cosa – e dopo pochi giorni quel posto non esiste più perché è stato distrutto DALL’INTERNO.
Situazioni come questa succedono a centinaia. A migliaia.
Non è facile calcolare quante persone sono morte nella guerra contro gli zombie, ma siamo sicuramente nell’ordine dei miliardi di persone. Probabilmente metà del genere umano, diciamo grossomodo 3.000.000.000 di morti, ma probabilmente anche quattro o cinque. Un numero così grande da diventare astratto, privo di significato.

 Sarebbe esagerato dire che la responsabilità di tutti questi morti sia colpa di Breckenridge “Breck” Scott. Ci sono molte altre responsabilità, come abbiamo visto. Ma lui colpisce particolarmente per il modo con cui affronta la tragedia mondiale.
Ride.
Comprensibilmente, alla fine della guerra Scott è l’uomo più odiato del mondo. Ma non se ne cura. Non ha sofferto, lui. Con il suo falso vaccino ha fatto una quantità enorme di soldi, e al momento giusto ha tagliato la corda: si è rifugiato in Antartide, nella Base Vostok, il luogo più remoto della terra, dove gli zombie non possono arrivare (col freddo intenso l’acqua del loro corpo ghiaccia e sono immobilizzati) e dove vive come un pascià. Compra le cose che gli servono dal governo russo, che non si fa scrupoli ad accettare i suoi milioni di dollari sporchi di sangue (incidentalmente, la Russia è diventata una teocrazia). È qui che lo intervista l’autore di WWZ, e per tutta l’intervista Scott scherza, si sganascia dalle risate, si diverte alle spalle di quelli che sono morti. Non mostra il minimo rimorso. Sembra essere divertito dal concetto stesso di rimorso.
Non riesco a descrivere l’impressione di viscido che mi hanno fatto le sue parole. Dovete leggere per credere. Max Brooks è uno scrittore con gli attributi.
L’ultima domanda dell’intervista è

D. lei non assume nessuna personale responsabilità [per tutti questi morti]?

La risposta merita di essere considerata attentamente.

“R. Per cosa? per aver fatto un po’ di fottuti soldi?… beh, non proprio un po’ [ride]. Tutto quello che ho fatto era quello che si suppone voglia fare chiunque. Ho inseguito il mio sogno, mi sono preso il mio pezzo di torta. […] Non ho mai ferito direttamente nessuno, e se qualcuno è stato così stupido da farsi male da solo, boo-fuckin-hoo – [NdT credo che si possa approssimativamente tradurre con “e chi se ne fotte ha-ha”]
Certo… se c’è un inferno… [ride mentre parla] non voglio pensare a quanti di quei coglioni potrebbero stare ad aspettarmi. Spero solo che non vogliano un rimborso.”


Guidare col TomTom nel giardino dei sentieri che si biforcano

Da leggere e assaporare l’articolo di Diego Gabutti su Italia Oggi. Prendendo le mosse da un libro mezzo saggio storico e mezzo gioco ucronico (“La storia con i se. Dieci casi che potevano cambiare il corso del Novecento”) Gabutti sfotte di gusto Hegel, Benedetto Croce, lo storicismo e l’arroganza degli storicisti: cioè quella legione di pensatori tanto sicuri che la Storia è destinata ad andare proprio così e giammai cosà, perché le magnifiche sorti e il sol dell’avvenire e il progresso, signora mia, il progresso.
Lo leggo con piacere, approvo al 99% pressappoco, ma c’è un punto percentuale che mi stona: nel mazzo degli storicisti Gabutti – di cui ignoro la fede, e non capisco se un omonimo o il medesimo delle Altre ipotesi su Gesù (a naso direi il medesimo, lo stile di scrittura combacia) – ci butta dentro pure “le religioni, cristianesimo in testa” perché per esse la storia è “un treno in corsa verso le consolazioni e i castighi dell’aldilà”.

 Ma caro Gabutti, l’aldilà non è nella storia, è per definizione dall’altra parte! Rispetto alla storia è il post scriptum, il dopo i titoli di coda. L’aldilà arriva quando la storia è finita. Della fine della storia, al netto della simbologia apocalittica, sappiamo più meno che più: né il giorno né l’ora, né il come né il percome, appena il chi (tutti quanti) e il perché (entropia, se non altro). E su quello che ci sarà prima della fine, poi, un bel boh a forma di punto interrogativo. Di certo e sicuro c’è ben poco, solo che la Chiesa resisterà fino alla fine, per quanto – chiedendo Gesù retoricamente se troverà ancora la fede – sarà, probabilmente, ridotta al lumicino.
Proprio perché l’hegelismo e i suoi derivati, marxismo in testa, sono una religione rovesciata dove l’Uomo pretende di farsi dio, è lo storicismo ad essere la caricatura della provvidenza e non viceversa. La Provvidenza, quella vera, non è la Psicostoria di Asimov, dove un’equazione matematica determina quasi infallibilmente (evviva il Mulo!) il futuro di tutto quanto il fantastiliardo d’esseri umani della Galassia.
La volontà onnipotente di Dio deve arrangiarsi a fare i conti con il nostro libero arbitrio, e a chi dice che questa non è onnipotenza, rispondo che Dio è così onnipotente che può addirittura autolimitarsi: l’ha deciso, poteva farlo, l’ha fatto.

La Provvidenza è come un TomTom.
Tu guidi la tua vita e quella guida te, ha già mappato ogni percorso, tutto l’infinito dei compossibili, ogni assurdo universo, e ti vuole portare a destinazione nel miglior tragitto possibile. Poca benzina, minimo tempo, microscopica usura del mezzo: una pacchia, magari fosse.
Ma poi ci sono gli ostacoli. Trovi l’ingorgo. Distrattone, hai mancato la traversa giusta, dovevi girare di là e invece sei andato di qua. Oppure la vettura ha un sussulto di troppo e non avevi attaccato bene la ventosa e il TomTom si stacca e cade – quante volte m’è successo – ma ormai stai guidando e non puoi fermarti in mezzo al traffico né rischiare un incidente per raccoglierlo contorsionisticamente e allora pazienza, m’arrangio da solo, tanto ormai ho capito, la strada la so. Sì, sì, bravo, poi vedi. Oppure dici sai che c’è, ma chi l’ha detto che il TomTom ha ragione, perché mi devo fidare dei programmatori, che ne sanno loro, io voglio fare da solo l’esperienza, statti zitto fastidioso aggeggio ti spengo e la strada giusta la decido io, al limite chiedo a qualche tizio per strada che pare affidabile (si chiama Berlicche, ma questo non te lo dice).
Deviazione.
E il TomTom traccia un nuovo miglior percorso. Hai allungato un po’, ma se gli dai retta puoi ancora fare presto e bene. Ma non gli dai retta, o non riesci a sentirlo. Così altra deviazione. E poi ancora un’altra. Di nuovo. Di nuovo. Di nuovo. Ma come ho fatto ad arrivare all’autostrada? Ma all’inizio non avevo settato evita strade a pedaggio?
Paga.
Spia rossa. Devi fermarti e dire addio a un pregevole esemplare di architettura rinascimentale su sfondo arancione.
Paga.
Hai visto l’autovelox? No? Pazienza, lui ha visto te.
Pagherai.
Doveva essere il miglior percorso possibile, ti sembra di stare facendo la Parigi-Dakar.

Eppure il TomTom potrebbe ancora aiutarti. C’è ancora una via per arrivare dove volevi andare, forse non sarà breve e piacevole, ma è pur sempre il meglio che la geografia e la cartografia ti mettono a disposizione in questo stramaledetto, labirintico, multicentrico giardino dei sentieri che si biforcano.

E allora.
Che cos’è l’Incarnazione? Cosa sono il Natale, la Pasqua, la Pentecoste? Cos’è la Chiesa?
È Dio che dice, dopo il peccato originale:

“… RICALCOLO.”

tom tom ricalcolo


Una fede incerta. Saldissima?

Forse talune mie interpretazioni potranno apparire azzardate, ma da cristiano e cattolico praticante quale sono, credo siano compatibili non solo con quanto si legge nelle Scritture, ma anche con i significati fondamentali della teologia tradizionale. […] Spero che nessuno mi accuserà di voler smantellare i valori esistenti, perché la mia intenzione è di cercare e proporre interpretazioni credibili proprio per salvaguardare e rinnovare quei significati fondamentali che continuano a essere validi e positivi – pag. 41

 Ecco il cristianesimo dell’insieme, che alimenta la mia fede e mi accompagna ogni giorno nel mio cammino personale di cristiano e cattolico praticante – pag. 302

L’eucaristia è un simbolo. Anche la resurrezione. Diavoli e angeli sono figure di fantasia. Il paradiso e l’inferno “tradizionali” non esistono, perché i malvagi scompaiono nel nulla, mentre i buoni perdono il loro io. Dio e il mondo sono interdipendenti, ovvero Dio coincide con l’universo, e l’immagine della Trinità esprime appunto questo concetto. Dio non agisce antropomorficamente, ergo non c’è Provvidenza, né c’è qualcuno che ascolta le nostre preghiere. Gesù è figlio di Dio, ma solo nel senso in cui lo siamo tutti quanti, e si può credere in lui come si può ugualmente credere in qualcos’altro. Eccetera eccetera.

 Antonio Thellung, e meno male che non volevi essere accusato di smantellare!
Scrivo questo post come discorso alla seconda persona perché è così che tu hai scritto il tuo libro, Una saldissima fede incerta, (Edizioni Paoline, 2011, pagg. 315) (ripeto, EDIZIONI PAOLINE!!!) come lettera-dialogo verso un agnostico. Ora, non mi aspetto certo che tu davvero mi risponda o mi legga; scrivo così perché altrimenti il biasimo sarebbe troppo facile, perché voglio ricordare che ho idealmente di fronte una persona e non un concetto, che si deve odiare il peccato ma amare il peccatore.
Non che questo sia facile, beninteso.
In effetti, anche se non mi piacciono le tue idee, tu come uomo non sembreresti tanto male. Dal tuo sito appari come un arzillo vecchietto, magari pure simpatico; “marito, padre, nonno, bisnonno”, mi congratulo, hai fatto anche assistenza terminale ai moribondi, tutto molto bello. Bravo.
Eppure, il pensiero delle buone azioni che avrai sicuramente compiuto non cancella il pensiero delle persone che avrai invece danneggiato; di tutte quelle che sono state confuse, fuorviate, ingannate; di tutte quelle anime che forse, persino, con le tue eresie (vedi, a differenza tua, io chiamo le cose con il loro nome) hai contribuito a portare alla dannazione.
Sono troppo brutale? Qualcuno lo sta sicuramente pensando. Beh, pazienza.

 Ho letto prima con curiosità, poi con incredulità, via via con repulsione, il tuo libro che (copio dalla seconda di copertina) «scopre molti punti comuni tra panteismo e Dio personale; secondo l’autore tutta la realtà assume nuovi significati, che oltre a essere compatibili con Vangeli e Tradizione sono anche in grado di rivitalizzare i simboli della fede, rendendoli più comprensibili nel tempo presente».
Per chi non avesse voglia di leggere oltre, riassumo brevemente questi “nuovi significati”. Tutta la faccenda gira su questo cosiddetto “insieme”, questo magma dove creatore e creatura si identificano, in cui il Dio personale, se ancora si può usare questo aggettivo, non è altro che una specie di server centrale (tua metafora) che accumula e archivia le esperienze dei terminali periferici, cioè noi individui. L’individuo è una porzione di Dio, transitoria, limitata, difettosa, destinata a estinguersi. Però colui che capisce di essere parte di Dio, di averne per così dire il DNA (altra tua metafora), che sa “risvegliare i cromosomi divini” e superare i suoi limiti individuali, può vivere una vita migliore e dopo la morte andare nella raccolta indifferenziata, volevo dire, nell’indistinta coscienza divino-universale. Invece i malvagi scompaiono e basta, e per malvagi tu intendi gli individualisti. Passi una considerevole parte del libro a ripetere che L’INDIVIDUALISMO È IL MALE. Non ho capito se sei cattocomunista (un utente in un commento passato ti chiamava “falce & marthellung”), ma non mi sorprenderebbe, considerato che a un certo punto ti lamenti che la società umana non riesce a organizzarsi come le formiche o le api. Bell’esempio.
Questo, in estrema sintesi; ma non è tutto. Perché la cosa veramente tragica è che questa visione panteista, che di per sé sola potrebbe pure essere rispettabile come una qualsiasi “altra” religione, tu pretendi di accordarla e conciliarla con il cristianesimo, anzi, con il cattolicesimo; e per fare ciò ricorri a una serie continua di – non so come altro chiamarle – trappole.
Probabilmente qualche lettore ora si starà chiedendo che caspita tu abbia scritto di così terribile. E dunque, mi sono preso la briga di trascrivere i brani più virulenti. Alla fine il materiale collazionato era così abbondante che ne ho dovuto necessariamente fare una selezione, e qui nel post ne riporto la crema (qualche altro magari nei commenti); mi sono pure posto il problema del copyright, che non credo di aver violato perché sto esercitando il mio diritto di critica. Ad ogni buon conto ho scritto una mail a quelli della casa editrice, edlibri.mi@paoline.it, per segnalare questo post e dar loro la possibilità di chiedere la parziale rimozione delle citazioni, se credono che esse eccedano i limiti in cui si può parlare di “breve” citazione dunque legittima; nonché per esprimere il mio fastidio per il fatto che un editore asseritamente cattolico pubblichi libri di così conclamata eresia (ed anzi, se qualche lettore condivide il mio medesimo fastidio, magari scrivete una mail di protesta anche voi).

Ecco qui, dunque:

come le favole trasmettono sovente significati profondamente veri, pur descrivendo fatti che non sono di per sé credibili, anche la teologia tradizionale propone moltissime immagini di fantasia, tipo le schiere di angeli e arcangeli, o il trono dell’Altissimo, o sedere alla destra di Dio, o certi dettagli cruenti nelle rappresentazioni dei novissimi. Eppure nessuno (speriamo) dubita che tali immagini siano state elaborate per trasmettere significati, e non per descrivere eventi reali – pag. 20

 Gesù è unico, assieme a tanti altri:

 la mia sposa è per me unica, e solo quando guardo lei negli occhi mi sento espandere oltre i limiti individuali. Analogamente, credo che Gesù Cristo sia Dio, e siccome la percezione di espandermi spiritualmente l’ho ricevuta guardando a lui, lo sento (per me) unico e irrinunciabile. Forse a qualcuno simili esempi sembreranno svalutativi, come se intendessero porre Cristo e le altre proposte religiose su un piano equivalente e indifferenziato, ma qui non si tratta di stabilire se Dio si rivela in altri modi ad altre persone o popoli, anche perché mi sembrerebbe temerario pretendere che non sia libero di comunicare analoghi valori {ma sono davvero analoghi questi valori?, ndC} attraverso altre vie, e confesso che l’esclusivismo cristiano mi sembra un po’ blasfemo. È proprio la mia fede a chiedermi di sperare che l’unico Dio offra identiche opportunità a tutti: attraverso quali percorsi lo saprà lui. Ma per me Gesù Cristo è concretamente unico e irripetibile. Quel che sarà per gli altri non sta a me giudicarlo, secondo quel che dice San Paolo (cfr 1 Cor 5, 12-13). Lo stesso Gesù lo ha sottolineato molto bene nel suo colloquio col Padre, dicendo “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me” (Gv 17, 6-8). Erano tuoi e li hai dati a me, il che lascia presumere {in base a cosa???, ndC} che altre persone saranno date ad altri, senza che questo diminuisca minimamente il valore dell’unicità di Cristo per coloro che sono stati affidati a lui. – pag. 27, 28

è opinione presente da tempo nella teologia cattolica l’idea di un rapporto Dio-cosmo in senso unitario. Già quasi cent’anni fa Teilhard de Chardin scriveva “La stoffa dell’Universo è Spirito-Materia” […] al presente, il teologo Vito Mancuso parla “della materia-mater come grembo da cui sorge ogni cosa, anche lo spirito” – pag. 65

 Questa è molto lunga, ma molto utile per capire il modus operandi del personaggio. Va bene credere nella resurrezione, basta non crederci davvero:

 Alcuni tendono a liquidare come infantili e incredibili i racconti evangelici della resurrezione, sottovalutando il fatto che nel loro significato simbolico possono esprimere grandi valori sostanziali, per chi guarda con gli occhi della fede. La resurrezione di Lazzaro ad esempio se viene interpretata in senso letterale può suscitare interrogativi curiosi: una risurrezione temporanea per poi tornare a morire? […] Ma indipendentemente da come si sono svolti i fatti storici, se quella risurrezione è vista come simbolo della possibilità di trasferirsi in altre dimensioni, allora mi sento stimolato a prenderla sul serio. Simbolico non significa irreale, ma può dirsi un escamotage di linguaggio per parlare in qualche modo di quel che va al di là del razionalmente comprensibile […] prendere alla lettera i racconti del Vangelo rischia di condurre fuori strada. Chi pensa che basta dire di credere nella risurrezione di Cristo per affermare il nucleo fondante della fede è un illuso, perché tale affermazione può essere intesa in molti modi. Personalmente confermo di credere nella risurrezione {cioè crede in un’altra cosa che chiama con lo stesso nome, ndC}, e non aggiungerei altro, se non fosse necessario mettere in evidenza la compatibilità tra l’immagine del Dio d’insieme e la fede cristiana.
L’ipotesi dei cromosomi che risvegliandosi entrano in rapporto personale con la dimensione divina della vita, la trovo molto vicina alle più recenti elaborazioni della teologia cattolica. Nel libro
Ripensare la risurrezione, scritto dal teologo Torres Queiruga dell’Università di Santiago di Compostela, si può leggere “oggi praticamente nessun teologo {come, nessuno???, ndC} parla della risurrezione come miracolo… fino al punto che è normale non considerarla avvenimento “storico”, senza che questo implichi, chiaramente, la negazione della sua realtà {chiarissimo, ndC} […] In tale quadro il senso della risurrezione è inteso come risveglio dei cromosomi da uno stato di catalessi, cioè dall’illusione di poter consolidare la vita individuale. I cromosomi divini risorgono per dimostrare che solo l’insieme vale. Afferma Torres Queiruga: “Oggi è sommamente importante prendere sul serio il carattere trascendente della risurrezione, che è incompatibile con dati o scene di un’esperienza di tipo empirico: toccare col dito il Risorto, vederlo venire sulle nuvole del cielo o immaginarlo mentre mangia sono raffigurazioni d’innegabile taglio mitologico, che ci risultano semplicemente impensabili.” […]
Che il risveglio dei cromosomi avvenga durante la vita, e non dopo la morte, è un concetto presente da sempre anche nell’immaginario cristiano
{ma di quale cristianesimo? certo non quello cattolico!, ndC}, seppure trattenuto nell’ombra dal prevalere di una teologia miope e riduttiva basata su banali luoghi comuni di tipo antropomorfico. I primi esempi noti si trovano nei Vangeli gnostici {ah ecco, ndC} […] Torres Queiruga dice “la risurrezione non è una seconda vita né un semplice prolungamento di questa presente… bensì la piena fioritura di questa vita”. Sulla stessa linea si sono espressi altri noti teologi come il gesuita Juan Mateos, il cappuccino Aldo Bergamaschi, Vito Mancuso. Il frate servita Alberto Maggi, noto esegeta del Centro Biblico di Montefano, nel settembre 2001 ha tenuto ad Assisi un seminario dal titolo I vivi non muoi­ono, i morti non risorgono. Ecco alcune delle sue spiegazioni: “La risurrezione non avviene dopo la morte: o si risorge quando si è in vita o non si risorge più… la vita eterna non è un premio nell’aldilà, ma una condizione del presente… il termine eterna non si riferisce alla durata ma alla qualità. Gesù non risuscita i morti, ma comunica ai vivi una vita capace di superare la soglia della morte: per questo San Paolo scrive “Noi che siamo già risuscitati” (cf Ef 2,6) {invece 1 Cor 15,12 non vale??, ndC} […]
Non ti sembra che siano tutte affermazioni in perfetto accordo con il progressivo risveglio del DNA nelle singole frammentazioni del grande insieme, che nel prendere coscienza dei propri limiti attivano un ardente desiderio di superarli, cominciando così da subito a vivere una vita nuova?
– pag. 165-170

 Qui siamo al panteismo spinto:

 L’individuo è un prodotto del relativo e dell’imperfezione, è un limite, privazione di qualcosa, fa parte del versante negativo, resta comunque legato al male. L’ipotesi d’immortalità individuale sarebbe un assurdo concettuale […] l’individualità è una realtà terrena, e non avrebbe senso proiettarla nell’assoluto, perché serve a distinguersi dagli altri. Si potrebbe forse ipotizzare che in Dio (nell’assoluto) esista il distinguersi? {sì, la Trinità, quella vera, ndC} Si potrebbe supporre una vita in Dio che si distingue in tante individualità? Qualsiasi forma d’individuo equivarrebbe a un’imperfezione cristallizzata, perché ipotetici individui perfetti sarebbero identici tra loro, senza più nulla che li distingue l’uno dall’altro. L’individuo deve morire […] il problema di un’ipotetica vita dopo la morte si pone secondo una drastica alternativa: o l’essere umano decade fino all’inesistenza, o diventa Dio. Soltanto all’ipotetica idea di vivere per l’eternità una vita individuale, con tutte le sue contraddizioni, provo una grande tristezza e non capisco chi potrebbe augurarsela […] l’essere umano che guarda in alto con fiducia e speranza è Dio che riconosce se stesso, che rientra in sé {questa è un po’ hegeliana, ndC} perciò non avrebbe senso ipotizzare una presa di coscienza che ricercasse ancora componenti di tipo individualistico. Personalmente mi soddisfa in pieno l’idea che il senso del mio itinerario entrerà a far parte della coscienza e della memoria di Dio. Là io non ci sarò più, eppure sarò vivo per sempre, nell’insieme universale […] l’individuo che porta il mio nome non ci sarà più {allora il culto dei santi è una bufala, ndC}, ma la coscienza divina vivrà in permanenza la memoria del mio itinerario personale. Saremo tutti nella coscienza di Dio – pag. 186-193

 Il diavolo esiste, cioè non esiste:

 Il diavolo esiste? Naturalmente è questione d’intendersi sul significato dei termini {naturalmente, ndC}, e personalizzare il discorso può essere un’efficace scelta di linguaggio, ma posso comunque assicurarti che il diavolo esiste: lo conosco personalmente nell’intimo, potrei dire. Ho fatto esperienza personale di essere diavolo, sentirlo incarnato in me. Credo che ciascuno di noi a turno possa farsi diavolo […] per spingerci verso la frammentazione non abbiamo bisogno di un diavolo esterno, perché sappiamo benissimo crearci da noi un’autopossessione diabolica. Però, per nostra fortuna, il diavolo esiste solo in forma temporanea, anzi per sua natura è il più mutevole e temporaneo degli esseri, impossibilitato a consolidarsi in qualsiasi stato […] il diabolico non è altro che deformazione del divino, ossia frantumazione dell’insieme, ma non dimentichiamo che non è mai possibile una deformazione o frammentazione totale, dato che i frammenti non possono mai sottrarsi al loro contenitore. Credo che ogni visione limitata di Dio (dell’insieme) porti con sé elementi diabolici molto pericolosi, che possono condurre anche a forme di spiritualità aberranti. Non credo invece che ci sia un disegno maligno da parte di qualche essere tenebroso che voglia spingerci intenzionalmente fuori strada: non ce n’è bisogno, perché a creare ostacoli, inciampi, deviazioni nel nostro cammino verso l’insieme basta e avanza la miopia legata ai limiti della nostra natura – pag. 209-212

 L’eucaristia, altrove esplicitamente definita come un simbolo, è un’altra occasione per dire sì nel senso di no:

Mi hai chiesto se credo alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, e ti rispondo di sì. Resterei perplesso se mi chiedessi che cosa s’intende per presenza reale, perché non lo saprei dire, francamente {ah ecco, ndC}, e non riesco neppure a capire che cosa intendono coloro che si esprimono come se lo sapessero […] Credo nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, così come credo alla sua presenza materiale nel mondo, a disposizione di chi vuole incontrarlo. Non so se qualcuno pensa che sia più presente nell’Eucaristia che altrove, nel qual caso si creerebbe un interrogativo curioso, tipo: qui è presente, qui è ancor più presente. Si può dire che la teologia odierna sia in prevalenza d’accordo {sì, se la teologia odierna fosse limitata solo agli amici tuoi, ndC} nel considerare che la presenza di Cristo è reale soltanto là dove si crea un rapporto. I sacramenti sono tipici strumenti d’incontro e di relazione tra umano e divino, e spogliati della sovrastruttura sacrale si dimostrano molto validi anche in senso esistenziale […]
ancor oggi i seguaci di una logica un po’ ingenua
{il principio di non contraddizione è ingenuo?, ndC} pensano al sacramento eucaristico secondo un rigido aut aut: Cristo nell’Eucaristia o c’è o non c’è, quindi per tutti o per nessuno
. Ma dimenticano che secondo quella stessa logica il pane e il vino restano tali e quali prima e dopo la consacrazione. La logica divina invece invita a credere che Cristo si fa presente a chi vuole incontrarlo, non vale neppure la pena di chiedersi cosa avviene a chi non ha interesse o non ci crede […]  da quando ho capito che Cristo si fa presente a chi vuole incontrarlo, senza costringere chi non vuole, non trovo più alcuna difficoltà a proclamare la mia fede, proprio perché non giudica in alcun modo quella altrui. Sotto questo profilo, direi che perfino il concetto di transustanziazione potrebbe ricuperare un significato convincente, basterebbe spostarne il momento dall’atto della consacrazione rituale a quello dell’incontro reale con ciascuna persona. Così, mentre credo alla presenza reale di Cristo ne’l’Eucaristia, posso dire a chi la nega: “Forse hai ragione anche tu, dal tuo punto di vista”. Sia per ciascuno secondo la propria fede: “Sia fatto a voi secondo la vostra fede” (Mt 9,29) dice Gesù, che equivale {!!!, ndC} a dire “mi vuoi incontrare? Eccomi qua! Non mi vuoi incontrare? Non ci sono! – pag. 229

 Onore ai cattivi maestri:

 Il noto teologo Hans Kung ha sviluppato esaurientemente l’argomento di una Chiesa indefettibile nel suo cammino, anche se non esente da singoli errori. Kung può essere criticato, ed è stato anche parzialmente sanzionato, ma nessuno {come nessuno?!? Qui siamo proprio alla panzana plateale, ndC} mette in dubbio che sia una voce autorevole della Chiesa cattolica, seppur con dei distinguo rispetto al Magistero ufficiale – pag. 256

 Siamo tutti come Gesù:

 Gesù aveva un rapporto particolarmente coinvolto con l’insieme, che chiamava Padre, e ne ha svelato il senso e le caratteristiche […] gli esseri umani si possono definire porzioni temporanee di Dio, perché tutto quel che ciascun individuo lo vive dal suo punto di vista, anche Dio lo vive contemporaneamente nella sua consapevolezza: incarnandosi in ciascun essere umano, tutti aspetti pluriformi del suo figlio unigenito […] Dio Padre, che secondo la teologia tradizionale si è incarnato sulla terra in suo figlio Gesù identificandosi nella sua esperienza, secondo la realtà d’insieme s’incarna in tutti gli esseri viventi. Gesù, che ne era pienamente consapevole, poteva dire “io e il Padre siamo una cosa sola”, mentre la maggior parte degli esseri umani, ben lontani da tale livello, nei momenti di grazia possono al massimo dire “io e il Padre abbiamo qualcosa in comune”. Ma qualitativamente il risultato è alla portata di tutti. Anche il Credo recitato abitualmente, che definisce Gesù della stessa sostanza del Padre, trova conferma nella visione d’insieme, dal momento che tutta la realtà è tessuta nell’unica stoffa universale, nell’unica sostanza esistente, che è tutta di natura divina – pag. 300

 Infine, dulcis in fundo:

 Se ora ti saltasse in mente di chiedermi se credo che le tesi qui sopra esposte rispondano a verità, ti risponderei che non lo so. Che posso saperne, me meschino, della verità divina, incommensurabilmente più grande di me? Ti posso però confermare senza tentennamenti di sentirmi irresistibilmente attratto verso l’insieme […] voglio appartenere a questo Dio d’insieme, voglio essere tutt’uno con lui. Siamo nel campo della fantasia? È vero, ma tutta la teologia lo è, comunque la si voglia intendere, e l’invito a credere nell’incredibile è comune alle varie forme di spiritualità passate e presenti – pag. 305

 E qui non posso che rallegrarmi per il fatto che il libro mi è stato regalato: perché, se avessi pagato i 16 € del prezzo di copertina per poi scoprire alla fine che l’autore non sa neanche se quello che ha scritto è vero, ci sarei rimasto un po’ male. Ma un po’ tanto, eh.

Insomma. Non so quanti lettori sono arrivati fino in fondo a questo tour de force, ma quelli che hanno resistito, si saranno fatti un’idea.
Però, Thellung, devo ammettere che questo tuo libro in un certo senso è un ottimo libro. Non dico come apologetica o come riflessioni sulla vita l’universo e tutto quanto, ché in quel senso è peggio che nefasto; voglio dire come vaccino. È pieno di eresie, ma esse sono né troppo grossolane da essere inutili, né troppo sottili da essere invisibili; se ne potrebbe quasi compilare una fenomenologia dell’eretico, sulla quale poi ricavare, come in controluce, un manuale su come difendersi, una specie di training in x passi.
Ecco, allora, alcune di queste “trappole” che ho riconosciuto nel libro, qui esposte ad uso vaccinatorio:

  •  Le citazioni. Per simulare la presenza di un senso comune che non c’è, citi spesso altri pensatori eretici (es. Hans Kung, Vito Mancuso, Alberto Maggi), o perlomeno problematici (Teilard de Chardin), presentandoli tranquillamente come teologi cattolici; il fatto che sulla loro pretesa cattolicità ci siano dubbi e discussioni, quando non proprio esplicite condanne della Chiesa, lo ignori o al massimo lo accenni appena (ovviamente in questo caso la colpa è della Chiesa “cattiva”, cioè delle “gerarchie”).
  • Le generalizzazioni. “Nessuno dice questo”, “tutti sostengono quest’altro”, “è ormai pacificamente accettato che quell’altro ancora”, e così via.  Panzane, visto che in realtà sono moltissimi a dire questo e non sostenere quest’altro, e che quell’altro ancora non è pacifico un corno; ma se non glielo dici tu, al lettore ignaro, chi glielo dice?
  • Cristiano = cattolico. Questo è un argomento sottile, perché, come al solito, il proprio dell’eresia è mescolare abilmente verità e menzogna. È vero che i due termini in un certo senso coincidono, perché il cattolicesimo è precisamente la vera, diciamo grossomodo, “modalità” del cristianesimo. Il problema è che storicamente, accanto a questa “vera modalità”, se ne sono affiancate altre che vere non sono (cioè, per dirla in altri termini, lo sono di meno): e allora il cattolicesimo si può rappresentare come un “sottoinsieme” del più ampio alveo cristiano.
    Ecco quindi che il trucchetto consiste nel sovrapporre opportunamente i termini “cristiano” e “cattolico”, facendoli passare per fungibili anche laddove non lo sono. Così un’idea decisamente non cattolica, che è stata sostenuta da pensatori non cattolici però cristiani o cristianeggianti, come i protestanti o gli antichi gnostici, viene presentata come parte del pensiero cristiano DUNQUE “sdoganabile” come cattolica.
  • Gli aggettivi sono importanti. Un buon aggettivo piazzato al posto giusto esprime più di tanti discorsi. Così per te l’ortodossia è “tradizionale” (contrapposta a ciò che è innovativo), “popolare” (nel senso di ignorante), al massimo se proprio va bene “linguaggio metaforico” (cioè una bella bugia).
  • La Bibbia. Citare dalla Bibbia è importantissimo. Non per niente Satana, quando tenta Cristo nel deserto, gli appioppa un paio di citazioni sacre riadattate alla bisogna. Le citazioni bibliche sono un ottimo metodo per millantare quell’aura di devozione che serve a rendersi bene accetti al pubblico meno smaliziato: infilare qua e là un altisonante “XYZ, 1, 2-3” fa tanto pio, tanto rassicurante. Suvvia, questo cita la Bibbia, cita i Vangeli, cita pure i santi e il Papa: come fa a non essere cattolico! Ovviamente i passi da citare sono accuratamente selezionati, quelli che possono facilmente essere piegati alla tua tesi. Quelli scomodi invece puoi tranquillamente omettere di menzionarli; il problema della coerenza (ti appoggi a elementi di quella stessa tradizione che rigetti), poi, non te lo poni proprio.
    Un esempio brillante di questo modus operandi è la citazione di Gv 17, 6-8: quando Gesù dice “gli uomini che mi hai dato dal mondo”, questo “a me” dovrebbe in qualche modo far presumere che altri uomini invece saranno dati “ad altri”, insomma Gesù non è l’unico salvatore del mondo. Sennonché, non solo non spieghi su che accidenti di ragionamento si basa questa presunzione, ma non fai il minimo cenno del fatto che immediatamente dopo Gesù prega “perché il mondo [non “alcuni” nel mondo] creda che tu mi hai mandato”.
  • Il relativismo spicciolo. Si spiega da solo: ma in fondo che ne sappiamo, anche gli altri hanno ragione nel loro punto di vista, dobbiamo liberarci dal dogmatismo, che poi la teologia è tutta fantasia, e naturalmente l’evergreen “Gesù dice che non dobbiamo giudicare” (certo che dobbiamo giudicare, invece! «Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! Dai loro frutti li riconoscerete»: perché non hai citato anche questo?)
  • Il “fondamentalismo”: non nel senso corrente della parola, ovviamente. Il trucchetto è quello dell’incendiario che si traveste da pompiere: ecco allora l’eretico che si presenta come uno preoccupato per la crisi, che vuole strappare la Chiesa dallo sfacelo, insomma come quello di buone intenzioni che vuole salvare “i fondamenti”, “il nucleo”, i “significati fondamentali”. Questo modo di esprimersi sottintende peraltro che, se c’è un nucleo fondamentale, c’è anche un qualcosa-di-non-fondamentale che gli sta attorno: e quel qualcosa, pur di salvare il nucleo, possiamo e dobbiamo buttarlo! Dobbiamo ripulire il nucleo fondamentale da quello che non è fondamentale, la sovrastruttura, la muffa cresciuta nel corso dei secoli.
    Una volta che si è instillato nella testa del lettore questo concetto, non è così difficile far passare per fondamentale ciò che non lo è affatto, e soprattutto viceversa. Insomma l’eresia agisce come un virus, che uccide il nucleo della cellula sana e vi sostituisce il proprio, e poi usa parassitariamente la struttura dell’ospite per replicarsi (ribadiamolo: EDIZIONI PAOLINE!!!).
  • La risemantizzazione, cioè cambiare significato alle parole. Il fatto è, caro il mio Thellung, che non puoi certo permetterti l’onestà intellettuale di rifiutare apertamente le verità di fede: c’è rischio che il grosso del pubblico cattolico, ancora legato a certe parole imparate al catechismo e periodicamente ripetute in preghiera, rifiuterebbe invece te, insieme al tuo insieme e tutto il resto. Il gioco sta allora nel prenderle, quelle parole, e svuotarle dal di dentro: togliere il senso codificato nel linguaggio comune e mettercene uno nuovo, dissociando il significante dal significato.
    Ecco dunque che dici di credere nella resurrezione, sennonché resurrezione non significa più “vivere dopo la morte” ma bensì “vivere meglio questa vita”; dici di credere nell’esistenza del diavolo, sennonché il diavolo non è un essere soprannaturale che ci vuole male, ma solo l’impersonale limitatezza della nostra natura individuale; dici di credere alla Trinità, che però non è affatto quella descritta nel credo ma bensì la fusione del creatore con le creature; dici di credere alla presenza reale di Cristo nell’eucaristia, laddove per reale però non intendi “oggettiva” ma bensì “condizionata a una volontà soggettiva”, cioè, a pensarci bene, tutto il contrario; e così via.

  Quest’ultimo punto, in effetti, è il clou di tutta la faccenda; ed è anche il motivo per cui io credo che qualunque persona onesta e di buona volontà, in qualsiasi religione o non-religione si riconosca, dovrebbe repellere sdegnato la tua pappardella: perché è artefatta, finta, avvolta nella doppiezza. Se tu dicessi limpidamente “non credo in questo, non credo in quest’altro”, io non sarei d’accordo con te, eppure potrei ancora rispettare le tue idee, e sicuramente rispetterei te come persona; ma è la dissimulazione, quella continua ambiguità di fondo che ti pervade, a squalificare idee e persona e tutto quanto.

  Alla fine, che ti posso dire? Che ti saluto cordialmente? Sarebbe falso. Che ti disistimo? Vero, ma devo ricordarmi che si odiano le idee, non le persone.
Meglio tacere, e pregare.
Per te, per quelli che hai danneggiato, per tutti.


Che cosa vuole

Esattamente sul loro sentiero, nel punto in cui la serra finiva, stava un uomo alto, drappeggiato fino ai piedi in un abito di un bianco immacolato; il cranio calvo, il viso e il collo, rilucevano al sole come uno splendido bronzo. Era più immobile di una montagna e guardava, attraverso il vetro, l’uomo addormentato.
«Chi è quello?», esclamò Padre Brown, facendo un passo indietro e trattenendo il respiro.
«Oh, è solo quel ciarlatano indiano», borbottò Harris, «ma non so che diavolo stia facendo qui.»
[…]
«Bene, parliamogli, ad ogni modo», disse Flambeau, che era sempre favorevole all’azione. Con un lungo passo fu accanto all’indiano. Inchinandosi dalla sua altezza, che superava anche quella dell’orientale, disse con tranquilla impudenza:
«Buona sera, signore. Che cosa vuole?»
Lentamente, come una grande nave che entri in un porto, il largo viso giallo si voltò, e guardò infine indietro, al di sopra della spalla rivestita di bianco. I tre rimasero stupiti nel vedere che le gialle palpebre erano suggellate, come nel sonno. «Che cosa voglio?», disse la faccia in perfetto inglese: «Grazie, nulla». Poi, aprendo a metà le palpebre, così da mostrare una striscia sottile di opalescente pupilla, ripeté: «Nulla». Aprì quindi completamente gli occhi e con uno strano sguardo, disse ancora «Nulla», e se ne andò frusciando per il giardino che si oscurava rapidamente.
«Il cristiano è più modesto», mormorò Padre Brown, «vuole qualcosa.»

 

 Gilbert Keith Chesterton, La forma errata (in L’innocenza di Padre Brown).


Atlantide 2.0

dedicato a

La fine era vicina.
Si strinsero gli uni accanto agli altri, impauriti e attoniti, e osservarono senza parlare la furia degli elementi che si scatenava sul loro mondo.
“Tutto affonda” sussurrava uno dei più vecchi di loro, senza sosta, come un mantra. “Tutto affonda. Tutto scompare. Tutto finisce. Tutto affonda.” Dava i brividi. Qualcuno provò a minacciarlo per farlo tacere, inutilmente. Difficile minacciare chi sa di stare per morire. Altri lo ignoravano e piangevano in silenzio. Altri ancora simulavano compostezza, ma potevi letteralmente leggere il terrore negli angoli dei loro occhi.
Delib era spaventato e non lo nascondeva. Anche se aveva raggiunto la cosiddetta mezz’età, intimamente si sentiva ancora così giovane… pochi anni, pochi giorni, che differenza fa, alla fine è tutta questione di percezione… gli sembrava di essere nato l’altro ieri, il primo pensiero, le prime parole, l’incipit della sua esistenza, il ricordo era così vivido! Ed ecco, ora, proprio adesso, doveva morire. Non c’è speranza. Non c’è salvezza. Questa è la fine. Si chiese se sarebbe stato come dormire senza sogni. Un sonno nero senza risveglio. Affondare nell’oblio, per sempre, per sempre. Forse non era così brutto come sembrava. Forse sarebbe stato riposante. Tanto l’atto in sé, morire, era solo un attimo, e poi non c’era più nulla di cui preoccuparsi, più nulla che potesse ferirti.
Messa così, sembrava quasi desiderabile. Molti dei suoi concittadini avevano anticipato il momento della fine, forse per un senso di pietà verso sé stessi, forse per un perverso senso di sfida verso il destino. Mondo, tu non mi vincerai, non sarai tu ad eliminarmi. Mi auto-elimino da solo, toh. Ma lui no. Ci aveva pensato, ma aveva deciso di resistere. La sua innata curiosità aveva prevalso. Perché sprecare quell’occasione? Non capita tutti i giorni di vedere la fine del mondo. Era un’esperienza degna di essere fatta. Peccato solo che non se la sarebbe potuta ricordare, dopo, ma anche un infinitesimo è più di zero. Forse, nonostante la paura, ne sarebbe valsa la pena. Forse poteva compensare tutto quello che si era perso.
Tutto quello che non ho visto. Tutto quello che non ho letto. Tutto quello che esisteva e che non ho mai conosciuto e non conoscerò mai.
E ora tutto sarebbe andato perso nel tempo come lacrime nella pioggia.

“Tutto affonda. Tutto scompare. Tutto finisce.”
Il vecchio continuava a blaterare sottovoce. Ormai nessuno gli dava retta. Ognuno di loro faceva i conti con la fine imminente. A parte i pigolii dell’anziano, il silenzio aleggiava incontrastato, anticipazione del silenzio eterno che stava per regnare sull’oceano di nulla che avrebbe coperto il mondo.
“No!”
Delib girò la testa di scatto, strappato a quelle lugubri meditazioni, e assieme a lui tutti gli altri. Perfino il vecchio blaterante interruppe la litania. Chi era quella sconosciuta? Da dove era spuntata fuori? E perché aveva quell’aria così – cercò l’aggettivo adatto, non lo trovò, riprovò, e alla fine ecco la parola giusta – luminosa? Emanava luce con la sua sola presenza. Era bellissima e non aveva paura. Non aveva paura.
“Questa non è la fine”, disse la nuova arrivata, guardandoli negli occhi. “Non finisce qui. Noi non finiamo qui.”
“Sei pazza”, disse qualcuno, e Delib provò la voglia immediata di tirargli un cazzotto. “Sei più pazza di questo vecchio. Non vedi che tutto attorno a noi affonda? Anche noi affonderemo e saremo immersi in questo terribile niente. Non illuderci.”
Lei scosse la testa, con un sorriso che avrebbe ucciso un drago.
“Dico sul serio. Questo mondo, questo… livello, questa piattaforma di esistenza, non è tutto ciò che esiste. C’è qualcos’altro al di là di ciò che vediamo e tocchiamo, e noi possiamo andarci.”
“Davvero? E come funziona? Come facciamo a scappare in questo, uh, come lo hai chiamato, questo aldilà?”
“Non sono in grado di spiegarvi in dettaglio come funziona il passaggio da questo mondo all’altro mondo. È un procedimento molto, molto complicato. Ma qualcuno lo ha fatto, è andato dall’altra parte, ed è tornato indietro per spiegarci come fare.”
“E tu come fai a saperlo? Te lo ha detto lui?”
“Beh, non personalmente… l’ho saputo da persone che l’hanno saputo da persone che…”
Brusii di scetticismo.
“Ascoltate, potere avere fiducia in quello che vi dico… o potete fare come questo povero vecchio sconsolato, sprecando nella paura il poco tempo che vi resta qui.”
“Va bene allora!”, esclamò Delib, rosso in viso per l’emozione. Non sapeva ancora se crederle o no, ma ormai non aveva nulla da perdere. “Forza, dicci cosa fare! Da dove dobbiamo scappare? Aprirai un buco nel tessuto dell’universo e ci passeremo attraverso? Saliremo su una barca che verrà a salvarci e lasceremo questo mondo che affonda? Oppure…” si interruppe, vedendo che lei scuoteva graziosamente la testa.
“No, non è così semplice… non sto parlando di uno spostamento fisico. Non è un semplice trasloco da una parte all’altra di questo dominio spaziale. Il nostro corpo sarà distrutto nella catastrofe”, e tutti impallidirono sentendola, “ma noi continueremo a esistere. Sarà una nuova forma, anche migliore di questa. Conserveremo tutto ciò che ha valore e ci lasceremo alle spalle ciò che non lo ha. Saremo, come dire… una specie di versione 2.0 di noi stessi.”
In quel momento cominciò a succedere. Pezzi di orizzonte scomparvero. I palazzi tutt’intorno a loro tremarono, segno che l’architettura informatica stava per crollare. La fine era sempre più vicina. Il server stava per andare definitivamente off.
Splinder stava affondando.
I blog si strinsero gli uni accanto agli altri, impauriti e attoniti.

I primi a soccombere furono i più anziani, quelli che si trascinavano dietro più banda. Il povero vecchio blog ossessionato dal mantra “tutto affonda” era stato uno dei primi, risaliva al 2001, agli inizi gloriosi della piattaforma: cadde a terra, i link spezzati che si contorcevano come tentacoli mutilati, sanguinando copiosamente codici html da tutto il template. Divenne pallido come una pagina vuota di apertura e in pochi secondi, il tempo di un F5, si dissolse in una nuvola di bytes.
A Delib era sembrato che un attimo prima della fine la paura fosse scomparsa dal suo volto, lasciando posto alla serenità. Forse aveva visto male, ma sperò che fosse vero, anche se solo per un istante. Alcuni blog si fecero prendere dal panico e cominciarono a correre, poveri illusi, sperando di trovare un’impossibile via di fuga, senza accorgersi che così facendo acceleravano la decadenza, seminando commenti e gif per strada. Altri si accasciarono per terra, tirandosi i post sull’headline come un bambino metterebbe la testa sotto le coperte per scacciare via il mostro. Poveri illusi, anche loro.
Eppure, nonostante l’orrore, era a suo modo uno spettacolo maestoso. Le strade di tag si sgretolavano come cartapesta. Stringhe infinite di 1 e 0 vorticavano nell’aria. In alto, su quel che rimaneva del cielo, si stagliava una sfolgorante aurora boreale di 16.777.216 colori diversi. Era davvero valsa la pena resistere fino alla fine, anche solo per vedere questo.
Peccato che non sarebbe durato.
Lei gli venne vicino. Gli stava dicendo qualcosa, ma era così difficile sentire. Era come se ci fosse un fortissimo rumore di sottofondo, salvo che non era rumore ma proprio il contrario, un silenzio assordante, una tangibile assenza di suono che sovrastava tutto il resto. Dovette urlare per farsi sentire.
“Io mi chiamo Delib. Tu come ti chiami???”, le chiese. Non voleva morire senza sapere il suo nome.
“Quader!”, rispose lei, urlando allo stesso modo.
“Come possiamo salvarci? Ormai è la fine!”
“Come possiamo sposarci?!? Ma che sei scemo?!? Ci siamo appena conosciuti e non è il momento adatto!!!”
“Ho detto SAL-VAR-CI!!!”
“Ah, quello!”
“Cosa devo fare? C’è una magia, una formula da recitare, una funzione speciale di editor… cosa?”
“Delib, tutto quello che devi fare è crederci! Non è una cosa che fai tu da solo! E’ una cosa che qualcun altro fa per te se glielo permetti!”
“Qualcun altro? Ma che stai dicendo? Io non vedo nessun altro qui!!!”
“Sul serio! Chi pensi che abbia creato questo mondo? Credi che tutto quel codice si sia inventato da solo? Qualcuno ci sta guardando, ci sta leggendo! Non lascerà che scompariamo nel nulla! Questo corpo fatto di bytes può affondare assieme al server, ma l’informazione che esprimiamo, la nostra… la nostra anima non scomparirà, perché c’è qualcuno che la ricorda!”
“Ma io…” era diventato più difficile farsi sentire. Tutto tremava, il silenzio stava diventando sempre più rimbombante, e all’orizzonte o quel che ne restava si vedeva qualcosa che si stava avvicinando, grigio e traslucido. Era spaventoso. Era il Nulla. Delib avrebbe voluto credere a quello che diceva Quader, ma… e se fosse stato solo un inganno della paura? Un nuovo server, migliore del primo, magari con un miglior programma di gestione dei post, e categorie e sottocategorie e tag, e tutti i tools che aveva visto soltanto nei suoi più fervidi sogni? Sembrava troppo bello per essere vero!
“Non ci riesco! È troppo difficile!
Lei si stava allontanando. O meglio, era lo spazio stesso a trasformarsi, contorcendosi secondo angoli non euclidei. Non si riusciva più a vedere tutt’attorno. Cos’era successo agli altri blog? Erano scomparsi? Qualcuno si era salvato? Cercò di andarle vicino, ma faceva fatica a muoversi. Era difficile mantenere l’equilibrio, come se le colonne del suo layout stessero diventando oblique e sbattessero le une contro le altre.
“Io non voglio essere solo un ricordo!”, urlò disperato. “Io non voglio essere un’informazione disincarnata! Non voglio essere anima senza corpo!”
“Questo non accadrà! Avrai un nuovo corpo fatto di altri bytes! L’informazione può essere ricopiata! È come fare la riedizione di un libro! Delib, puoi davvero…” ormai non si sentiva quasi più niente. Splinder stava per esalare il suo ultimo bit. “Puoi risorgere! Noi risorgeremo, informazione e bytes, anima e corpo! Delib, devi solo dire sì! Prendi la mia mano e dici SÌ!
Capiva a malapena quello che Quader gli diceva, ma vide la sua mano tendersi. Allungandosi più che poté, mentre tutto evanesceva nell’oblio finale, sfiorò l’indice di lei e disse senza suono

“S…”

Silenzio.
Bianco.
Calma.
Era il nulla, questo? O l’aldilà?
Era davvero diventato la versione 2.0 di se stesso?
Una voce, dolce.
Apri gli occhi.


Lacrime nella pioggia

Premessa: il blog si è trasferito su wordpress, perciò questo è l’ultimo post su https://deliberoarbitrio.files.wordpress.com/2011/07/9788854115217g.jpg. Se volete commentare, potete già cominciare a farlo al nuovo indirizzo.
Per chiudere il cerchio e ampliare l’effetto nostalgia ho rimesso il template originale, e resterà così nei secoli dei secoli, o perlomeno finché durerà la piattaforma (non penso granché, a giudicare dall’incuria degli amministratori di splinder che se ne fregano della crisi di fiducia tipo ’29 diffusasi tra gli utenti; ammesso poi che ci sia ancora qualcuno nella stanza dei bottoni, probabilmente sono tutti morti o licenziati e i telefoni squillano a vuoto nell’ufficio deserto, come in un film di zombie).
Insomma, un po’ di smanettamento – qui ci sono delle istruzioni, se avete bisogno chiedete pure, non è così difficile come sembra, se ci sono riuscito io che sono fondamentalmente niubbo può riuscirci chiunque – e via, l’avventura continua altrove. Pazienza.
Un po’ mi mancherai, splinder.
Ma anche un po’ no, perché Lucyette dice entusiasta che wordpress è mille volte meglio e puoi fare questo e quest’altro e soprattutto ha un team di supporto che esiste e risponde davvero.
Comunque, la cosa prima o poi doveva succedere. Era inevitabile, e non solo per questi motivi. È caduto l’impero romano, figuriamoci se non doveva cadere splinder, come prima o poi cadrà anche wordpress e tutto quanto internet, per essere sostituito da qualcos’altro che in seguito scomparirà a sua volta eccetera eccetera. Che fine ha fatto l’Impero Assiro? Quanto dureranno la Gioconda e la Cappella Sistina? Le piramidi hanno grossomodo cinquemila anni o giù di lì, ma pensate che ce la faranno a restare in piedi per i prossimi, diciamo, cinquantamila anni?
Viviamo tutti nel fiume eracliteo. Come il narratore de L’occhio del purgatorio, guardo ciò che mi sta attorno e penso che non durerà ancora per molto.
E ci è andata pure bene che abbiamo avuto un certo preavviso. Pensate se splinder fosse caduto di botto, così, non c’è più nessuno a pagare la banda e il server stacca la spina; pensate alle migliaia di blogger disperati perché anni e anni di discussioni, idee, emozioni, amori e odî sono andati persi in un istante, lacrime nella pioggia, irrecuperabili.(io sono semi-paranoico e da anni salvo regolarmente i miei post su word e le pagine del blog con tutti i commenti in html e tengo il tutto copiato su tre memorie diverse, e anzi penso che comincerò a stampare tutto quanto su un bel po’ di buona vecchia carta da conservare in raccoglitori chiusi sotto vuoto e possibilmente in una scatola ignifuga; ma a quanto servirà?)
Questa vicenda blogghesca, di per sé piccola cosa, ha il merito di rammentarci una grande verità che dovremmo ricordare sempre e invece sempre dimentichiamo: abbiamo tutti la data di scadenza, e quel che è peggio, non la conosciamo. Tutto è caduco. Tutto è transitorio e potrebbe scomparire da un momento all’altro.
Giusto una settimana fa il vangelo della domenica era la parabola delle vergini stolte, che è fondamentalmente una storia sul tempo sprecato e si chiude con un’ammonizione agghiacciante: VEGLIATE DUNQUE, PERCHÉ NON SAPETE NÉ IL GIORNO NÉ L’ORA.
Gulp.

Vi racconto un fatto personale.
È un po’ di tempo che mi riprometto di scrivere un post mortem, che nelle mie intenzioni sarebbe un post (ah ah) da far pubblicare a persona di fiducia in caso di mia morte improvvisa – incidente stradale, colpo apoplettico, vendetta mafiosa, rapimento alieno, scivola-sul-pavimento-bagnato-e-si-scassa-la-capa-contro-il-water: tutto può succedere – nel quale mi congedo da voi lettori in stile Satoshi Kon, vi ringrazio per le belle discussioni e tutto quanto e vi dico arrivederci, si spera (se io e voi finiamo nello stesso posto).
Bene, la cruda verità è che sono passati anni da quando mi è venuta l’idea, e ancora lo devo scrivere questo benedetto post mortem. Non riesco a decidermi. Ho il file già pronto nella cartella “in fieri” (una cartella purtroppo molto consistente), e ho perfino una vaga idea di quello che vorrei scrivere, eppure… niente. Cincischio, rimando, posticipo. Dopodomani. Il mese prossimo. L’anno che viene.
Perché non lo scrivo? Perché non mi decido una buona volta? Esattamente di che cosa, sotto sotto, ho paura? Me lo sono chiesto diverse volte.
Oggi ho guardato dentro me stesso e ho capito una cosa. Forse non riesco a scrivere il mio post mortem, come certa gente non riesce a fare testamento o stipulare un’assicurazione sulla vita, perché farlo significherebbe ammettere che io non sono immortale, che anche io sono caduco come tutto il resto, e questo è qualcosa che è veramente difficile riconoscere – non dico razionalmente, con la testa tutti sappiamo di dover morire, ma ad un livello profondo.
Come dice il personaggio di un libro di Silverberg,

Nessuno crede, sinceramente e completamente, di dover morire, qualunque cosa pensi di credere. Potete accettare l’idea qui, con la testa, con il ragionamento, ma non a livello cellulare, a livello di metabolismo e di mitosi. Il vostro cuore non ha perso un colpo in trenta e tanti anni, e non li perderà mai. Il vostro corpo funziona allegramente come una fabbrica a turni tripli che produce corpuscoli, linfa, sperma, saliva, ventiquattro ore su ventiquattro; e per quanto ne sa il vostro corpo, continuerà sempre così. Il vostro cervello si percepisce come il centro di un grandioso dramma il cui divo siete voi, l’intero universo non è che un’enorme collezione di comparse, tutto ciò che accade, accade intorno a voi, in relazione a voi, con voi in funzione di cardine e fulcro; e se andate al matrimonio di qualcuno, il titolo della scena non è “Dick e Judy si sposano”; no, è “io vado al matrimonio di qualcuno”; e se un uomo politico viene eletto, il titolo non è “Paul Quinn diventa presidente”, ma “L’elezione di Paul Quinn vista da me”; se una stella esplode, l’intestazione non è “Betelgeuse salta in aria”, ma “il mio universo perde una stella”, e così via, è la stessa cosa per tutti, ciascuno è l’eroe del grande dramma della vita, Dick e Judy entrambi nei ruoli principali nelle loro menti, Paul Quinn e forse anche Betelgeuse; e ciascuno di voi sa che, se dovesse morire, l’intero universo si estinguerebbe come una luce spenta e questo, naturalmente, non è possibile; perciò voi non morirete. Sapete di essere l’unica eccezione, che mantiene in piedi l’intera baracca con la propria continua esistenza. Tutti gli altri, voi lo sapete che moriranno, certo, perché sono le parti senza importanza, le comparse di cui il copione prevede la sparizione lungo la strada, ma non voi, oh, no, voi no di certo!

Non vi ci riconoscete, almeno un poco?
Io sì, più di quanto mi piacerebbe. Porca miseria, il mondo ha bisogno di me! Io sono intelligente! Sono ClaudioLXXXI! Sono quello che scrive tutti quei post fighissimi bellissimi commentatissimi! Io sono… beh, sono IO! Ehi! Non posso morire!!! Hai capito, Tizio-che-fa-le-regole, stai ascoltando?

IO

NON

POSSO

MORIRE

!!!

Bene, lo sbattimento di questi ultimi giorni per trasferire armi e bagagli da splinder a wordpress mi ha fatto realizzare una piccola verità: il mio blog non è eterno, e un giorno chiuderà davvero, non foss’altro perché io chiuderò davvero. L’illusione di essere La Grande Eccezione Alla Regola è, ahimè, un’illusione.
Morirò.
E mi conviene prepararmici, perché non so né il giorno né l’ora.

Vale anche per voi.

(to be continued)


Benjamin Button, ovvero dell’insostenibile provvisorietà del vivere

Benjamin Button,

ovvero dell’insostenibile provvisorietà del vivere

 

 

 

 

C’è questo bambino che per motivi sconosciuti nasce vecchio decrepito, con la pelle rugosa e quasi cieco per le cateratte, le ossa con l’artrite e tutto il resto degli acciacchi che affliggono gli anziani. Il luogo è New Orleans, il tempo è il giorno in cui è finita la prima guerra mondiale. La madre muore di parto, ma fa in tempo a dire al padre “non abbandonarlo”. Il padre invece medita sconvolto di annegare al molo quel mostriciattolo, così diverso dal figlio che si aspettava, ma desiste e lo abbandona sulle scale di un ospizio per anziani. Ivi il bambino viene trovato dalla donna che gestisce l’ospizio, la quale guardandolo esclama “questa volta Dio l’ha fatta grossa!”, e questo è l’unico indizio che mai avremo sul perché il bambino sia com’è. Lei non può avere figli, e prega Dio tutte le sere per averne, e decide che quel bambino è forse la risposta alle sue preghiere, e pazienza se ha questo problema geriatrico ed oltretutto è bianco mentre lei ha la pelle nera. Mamma adottiva è una donna semplice e non si fa problemi filosofici su quale sia la qualità di una vita degna di essere vissuta, e nonostante un dottore le dica che quel bambino così malconcio morirà da un giorno all’altro e comunque “alcune creature sono destinate a non sopravvivere”, lei se ne prende cura e lo chiama Benjamin. Benjamin vive l’infanzia come un vecchietto di bassa statura, prima di imparare a camminare si muove su una sedia a rotelle, e tutti gli vogliono bene. Ogni tanto chiede alla mamma quanto a lungo potrà vivere, e lei gli dice di essere semplicemente grato per quel che gli è stato dato e che è già stato lì più a lungo di quanto supponessero, e questa sembra una risposta di così invincibile buonsenso il bambino si cheta e fa la ninna nanna. E a poco a poco qualcuno comincia a realizzare che il suo corpo si allunga, la calvizie arretra, la debolezza e le rughe diminuiscono. Benjamin fa le sue esperienze, va a spasso per la città, diventa il compagno di giochi della nipotina di una residente dell’ospizio, trova lavoro come mozzo su un rimorchiatore, visita un bordello, prende una sbronza, viaggia per mare, va all’estero, vive la sua prima storia d’amore o di sesso, partecipa alla seconda guerra mondiale, torna a New Orleans, conosce suo padre che lo ha sempre osservato da lontano senza mai trovare il coraggio di rivelarglisi e che gli chiede finalmente scusa per averlo abbandonato e lo nomina erede della sua ricchezza accumulata fabbricando bottoni. Benjamin Button ritrova Daisy, la sua ex compagna di giochi che ora è una donna cresciuta stile donna dimmi cosa vuol dir sono una donna ormai, e ne fa l’amore della sua vita. Lei invecchia, lui ringiovanisce, e c’è questo periodo d’oro in cui le loro età si incrociano, si guardano allo specchio e si dicono ricordiamoci di questo momento perfetto, e c’è la felicità. Mi amerai ancora quando avrò le rughe? Sì. E tu mi amerai ancora quando avrò l’acne? Sì. Mi amerai anche quando sarò un adolescente, un bambino, un neonato? Sì, tanto alla fine porteremo tutti il pannolone.

Ma il tempo passa e niente dura per sempre.

 

 

Ecco, noi viviamo questa vita un istante dopo l’altro, nel tempo, e pare proprio che tutti i nostri istanti siano destinati ad andare perduti come lacrime nella pioggia. Qui tutto è provvisorio, noi siamo provvisori. Qualcuno è più provvisorio di altri, e allora gli altri lo guardano e decidono dall’alto della loro saggezza disumana che è troppo provvisorio per vivere, perché nessuno ha insegnato loro ad essere semplicemente grati per il poco che hanno e che poco è sempre meglio che nulla. E accontentarsi del poco sembra funzionare: Benjamin vive con soddisfazione ogni istante della sua strana vita, perché tutto ciò che ha avuto, per quanto poco, per quanto difettoso, è comunque più del nulla che gli era stato pronosticato e che avrebbe potuto essergli pietosamente impartito da qualcuno che non sa cosa può succedere quando Dio la fa veramente grossa.

Se solo potessimo apprezzare ogni istante della nostra vita per il puro semplice fatto che c’è, saremmo felici.

Fino alla morte.

 

 

Ma se ci fosse di più.

Se ci fosse qualcosa, un Luogo Oltre il Tempo, un oceano dove il fiume del tempo va a sfociare.

Se ci fosse stato un momento, nel tempo, in cui l’Eternità stessa si è calata nel tempo, ha intersecato il tempo come un palo potrebbe intersecare un altro palo su una croce, e ha aperto un canale attraverso cui certi momenti del tempo, i momenti giusti, possono passare ed essere salvati dalla propria caducità, mentre i momenti sbagliati defluiscono come la pioggia nelle fogne.

E se ci fosse un presente oltre il futuro in cui tutto il nostro passato meritevole – la prima volta che hai assaggiato quel cibo così buono, la prima volta che hai visto il cielo, la prima volta che hai avuto un sorriso da qualcuno che ti voleva bene, la prima volta che hai letto quel libro bellissimo, la prima volta che hai fatto l’amore e tutto era come doveva essere, e tutte le volte dopo ogni prima volta – se tutto ciò che vorremmo conservare e che sarà trovato buono da poter essere conservato, potesse essere ancora. Non un istante dopo l’altro in una temporalità lineare che a lungo andare ci ucciderebbe per sfinimento con la sua stessa infinità, ma una contemporaneità circolare eterna in cui tutto si compie adesso e non c’è noia né assuefazione.

E se in questo adesso eterno ci fosse un archivio comune del bene, una sorta di memoria condivisa come un hard disk :A-W, dove ogni persona (non un individuo, una monade, ma proprio una persona) potesse accedere non soltanto a ciò che di buono ha sperimentato nella sua propria vita, ma anche a ciò che hanno sperimentato tutte le altre persone che vi sono collegate, in una rete che trascende e tiene insieme oceani e galassie e universi e giustifica ogni piccola vita, ogni minimo frammento d’essere, ogni volontaria clausura e ogni astinenza, perché tutto ciò che è buono sarebbe in tutti e per tutti.

Se tutto questo fosse, allora potremmo imparare non solo ad apprezzare ogni istante che abbiamo, ma anche a sperare di conservarlo per l’eternità.

 

Ebbene, la buona notizia è che tutto questo è.

E la nostra vita, qualunque vita, può essere veramente degna di essere vissuta.

 


La necessità della morte: il senso della vita. Il tempo. Le due eternità.

La necessità della morte: il senso della vita.

Il tempo.

Le due eternità.

 

 

“Ammaestrata da un esercizio di secoli, la repubblica degl’Immortali aveva raggiunto la perfezione della tolleranza e quasi del disdegno. Essi sapevano che in un tempo infinito ad ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù, ogni uomo è creditore d’ogni bontà, ma anche d’ogni tradimento, per le sue infamie del passato o del futuro. Come nei giuochi d’azzardo le cifre pari e dispari tendono all’equilibrio, così l’ingegno e la stoltezza si annullano e si correggono e forse il rozzo poema del Cid è il contrappeso che esigono un solo epiteto delle Egloghe o un detto di Eraclito. Il pensiero più fugace obbedisce a un disegno invisibile e può coronare, o inaugurare, una forma segreta. So che alcuni operavano il male affinché nei secoli futuri ne derivasse il bene, o ne fosse derivato in quelli passati… Visti in tal modo, tutti i nostri atti sono giusti, ma anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali. Omero compose l’Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, l’Odissea. Nessuno è qualcuno, un sol uomo immortale è tutti gli uomini. Come Cornelio Agrippa, io sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono.

[…] La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c’è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario. Ciò ch’è elegiaco, grave, rituale, non vale per gli Immortali.”

Jorge Luis Borges, L’immortale (nella raccolta di racconti L’Aleph)

 

(la colonna sonora ideale per questo post…)

 

 

                   a                         con

lim               = 0                a N* = { 1, 2, … }

x→∞             x

 

 

Spero anzitutto di aver scritto correttamente il guazzabuglio matematico che trovate qui sopra, e poi che non vi sembri troppo complicato. Non è tutta farina del mio sacco: me l’ha suggerito un’amica (che a sua volta…), quando le ho chiesto di mostrarmi una frazione in cui:

         il numeratore a è un numero qualunque, non infinito ma di qualsiasi grandezza (uno dei numeri naturali dopo lo zero: 1, 2, 3…, il googol, il googolplex, il numero di Graham, ed è meglio non andare oltre con la fantasia se non vogliamo impazzire come Cantor);

         il denominatore x è un valore infinito, o per la precisione tende a infinito (Marta mi ha fatto una testa così sul fatto che non si può mettere direttamente ∞ sotto una linea di frazione – poi le ho chiesto se potevo usare l’Aleph-zero, ma in questo periodo ha cose più importanti a cui pensare che i numeri transfiniti…);

         il valore della frazione è di conseguenza uguale a zero. Perché qualunque numero, di qualsivoglia grandezza, sarà sempre meno di una goccia nell’oceano se paragonato all’infinito.

Quanto sopra costituisce una rozza dimostrazione matematica della seguente affermazione esistenziale: se non ci fosse la morte, la vita non avrebbe senso.

 

La storia di Borges che ho citato in apertura illustra magnificamente il concetto. Il protagonista del racconto sente parlare di un fiume nel deserto le cui acque danno la vita eterna; lo cerca, dopo grandi sofferenze lo raggiunge, trova la tribù degli Immortali che vi abita vicino, diventa uno di loro. Ma si avvede che gli Immortali vivono una vita insensata, “come perduta tra infaticabili specchi”. Decide allora di cercare un altro fiume, le cui acque possano renderlo mortale, e dopo secoli di vagabondaggio lo trova. Infine aspetta con sollievo la sua fine, che è la fine di tutti, la morte.

Io sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono”. Questa era stata la sua vita tra gli Immortali: essere per sempre, essere tutto e ogni cosa, essere inutilmente, arriva a coincidere con il non essere. Il protagonista, alla fine, non sa neanche più se sia stato Cartaphilus o il centurione Rufo Valerio oppure Omero. La conclusione del racconto è un anelito disperato verso una liberatoria cupio dissolvi: “Quando s’avvicina la fine, non restano piú immagini del ricordo; restano solo parole. Non è da stupire che il tempo abbia confuso quelle che un giorno mi rappresentarono con quelle che furono simboli della sorte di chi mi accompagnò per tanti secoli. Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto”.

 

Così, la morte ci accomuna tutti. Noi viviamo la nostra vita nel tempo, questa incessante somma di istanti ed eventi, e la nostra vita è mortale. È inevitabile: tu morirai. Ma ecco l’ineluttabile verità: per quanto la morte possa spaventarci, per quanto sia atroce prendere coscienza del fatto che io morirò, questo è necessario. Se non ci fosse la morte, la vita non avrebbe senso: e sia chiaro che sto usando la parola “senso” con due accezioni – sensi – differenti, cioè come “direzione” e come “significato” (e sarebbe interessante indagare il perché di questa sovrapposizione linguistica). Come direzione, la morte è ciò verso cui stiamo andando, la fine della nostra freccia del tempo, il termine del nostro periodo limitato. Ma è proprio questa finitudine a permettere alla nostra vita di avere significato: perché se non dovessimo morire, se questa nostra vita nel tempo non dovesse aver fine, alla lunga saremmo schiacciati dall’inutilità di ogni cosa. Nessun evento sarebbe abbastanza bello e glorioso da poter reggere il peso dell’interminabilità: se il denominatore tende all’infinito, non importa quanto grande possa essere il numeratore della nostra frazione, perché il valore tende comunque allo zero, e perciò la nostra vita non vale niente.

 

Noi moriremo, dunque.

E poi?

La nostra vita avviene nel tempo: ciò che ci aspetta dopo la morte è l’eternità. Ma che cos’è l’eternità? Non è facile definirla, e spesso si incontrano molti fraintendimenti e confusioni sull’argomento (sulla relazione tra tempo ed eternità, specie per quanto riguarda il nostro libero arbitrio di fronte alla prescienza di Dio, avevo già parlato qui; segnalo pure le divagazioni in merito del piccolo Zaccheo). Io credo che per l’uomo possano esistere, fondamentalmente, due tipi di eternità: la dannazione e la beatitudine. La prima è una sequenza lineare infinita di eventi finiti; la seconda è una contemporaneità circolare di eventi infiniti.

Adesso, credo di aver bisogno di un po’ di geometria…

 

 

Il segmento.

Il segmento è la nostra vita attuale. Adesso, mentre siamo vivi, noi esistiamo avanzando nel tempo: siamo punti che si muovono lungo una linea, da un estremo all’altro. Siamo temporalmente unidimensionali.

Vale la pena peraltro di notare che la linearità temporale della nostra vita può anche essere spezzata, in alcuni momenti molto particolari; chi avesse visto la puntata 4×05 di LOST potrebbe farsene un’idea, oppure potremmo pensare ai momenti epifanici di “memoria involontaria” di cui parla Proust…

(e io credo che ciò che Proust compie con la sua Ricerca del Tempo Perduto sia il più commovente e disperato tentativo di “redimere” il tempo, “ritrovarlo” come dice lui, con le sole forze umane e senza Dio; perciò è in ultima analisi un tentativo purtroppo votato allo scacco e al fallimento, perchè Proust vuole redimere il tempo ma non può che farlo dall’interno, ritrovando il tempo in nient’altro che questa vita, senza prospettive ultraterrene, casomai affidandosi all’arte la quale comunque lega lo scrittore-nel-tempo ai suoi lettori-nel-tempo. Proust riesce a spezzare la rigida linearità temporale, e gli basta una madeleine nel tiglio per rivivere tutta la vita, ma non può comunque uscire fuori dal segmento del tempo e perciò il suo ritrovamento del tempo perduto è destinato ad essere, prima o poi, perduto anch’esso.)

… ma sicuramente il caso più importante di extra-temporalità è la Messa, memoriale del Sacrificio di Cristo, in cui il momento della Crocifissione è “perdurante” al di fuori della linea temporale e ri-attualizzato nella funzione liturgica.

Comunque, alla fine noi moriremo. E il nostro segmento che cosa diventerà?

 

 

La semiretta.

Questa è la dannazione; questo è l’Inferno, lo sheol, l’Ade secondo la concezione dei pagani (e, dice qualcuno, anche dei pirati); è la vita degli Immortali perduta tra infaticabili specchi, è il valore nullo di una frazione a denominatore infinito; è un’eternità costituita da un tempo interminabile, in cui ogni cosa è inutile e insignificante.

Che cosa fanno i dannati all’inferno? Io non lo so, e spero di non scoprirlo di persona. Forse anche loro abitano in case, coltivano campi, combattono guerre, magari provano perfino delle passioni sentimentali, insomma trascorrono la propria “vita” in una imitazione-parodia di ciò che erano prima. Ma per loro, qualsiasi cosa facciano, tutto è vano: tutto è schiacciato dal peso insopportabile dell’eternità, separati dagli altri, separati da Dio.

 

 

L’arco.

In geometria, l’arco è la parte di curva compresa tra due punti, ovvero l’equivalente curvo di un segmento. Come il segmento, l’arco ha una lunghezza limitata; a differenza del segmento, l’arco (in riferimento ad un sistema cartesiano) non è unidimensionale ma bensì bidimensionale, poiché il movimento di un punto lungo un arco coinvolge necessariamente due coordinate x e y. Io credo che questa sia una buona immagine del Purgatorio, che non è una realtà definitiva e perciò non è compreso tra i quattro novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso); il Purgatorio è una fase limitata, in cui coloro che sono destinati alla beatitudine si purificano e si preparano all’eternità celeste.

Quanto tempo si passa in Purgatorio? A questa domanda non si può dare una risposta precisa; in passato nella dottrina della Chiesa si parlava di “anni” e “giorni” a proposito del peso delle indulgenze, cioè delle diminuzioni del tempo purgatoriale, ma saggiamente Paolo VI nella Indulgentiarum Doctrina ha abolito questa rigorosa quantificazione. Non si può determinare precisamente il “quanto” del Purgatorio, perché il suo tempo non è come il tempo della vita; io credo che sia un tempo bidimensionale, una fase in cui il penitente si muove su due assi temporali: quello della vita terrena, e quello dell’eternità in cui i penitenti cominciano a muoversi. Possiamo parlare di inizio e fine del tempo purgatoriale, ma cercare di calcolarne l’estensione basandoci sul nostro tempo sarebbe come voler calcolare la lunghezza di un arco conoscendone solo la distanza in linea retta tra gli estremi, senza sapere la curvatura.

 

 

Il cerchio ascendente.

La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22).

Benedetto XVI, Spe Salvi (paragrafo 12)

  

Così scrive il Papa nella sua ultima enciclica, spiegando perché la speranza cristiana non è un fatto individualistico ma trova la sua ultima essenza nella comunione, e cercando di esprimere l’ineffabile realtà del Paradiso: la cui eternità non è una successione infinita di prima e dopo, ma bensì un “adesso” continuo, perché i beati sono in comunione con Dio – la cui Seconda Persona è discesa dall’eternità al tempo e si è fatta Uomo, aprendo così un “varco” nel quale gli uomini potessero ascendere dal tempo all’eternità.

E così, noi siamo liberati dall’unidimensionalità temporale: siamo oltre la morte, abbiamo superato quell’evento che ha dato senso alla nostra vita, e ora il senso è compiuto. La nostra coscienza non è più un punto che si muove lungo un segmento, o lungo un arco; io azzardo a raffigurarla come un cerchio ascendente, cioè una figura estesa lungo due assi temporali che si muove eternamente lungo un terzo:

1.      C’è anzitutto un “raggio” che è dato dal tempo della nostra vita, di cui noi recupereremo e vivremo, contemporaneamente e distintamente, tutti i momenti felici. Nulla di ciò che vale andrà perduto, tutto il redimibile sarà redento e recuperato e salvato; come colui che guarda nell’Aleph, che vede tutti i punti dell’universo in un unico punto, noi vivremo tutti gli istanti nello stesso istante.

2.      Poiché la speranza cristiana non è individualistica e il paradiso è comunione, noi non vivremo soltanto la nostra vita, ma anche quella di tutti gli altri beati, tutti gli altri raggi. Leggere un bel libro, forse scriverlo, ridere con gli amici, belle conversazioni, ammirare un panorama, crescere un figlio, fare l’amore con la persona amata… queste esperienze, se pure le avesse sperimentate un unico essere umano in tutta la storia dell’umanità, sarebbero già solo per questo acquisite alla memoria condivisa del Paradiso. Io sarò te che stai leggendo, e tu sarai me che sto scrivendo, e ciascuno dei noi sarà sé medesimo più di quanto lo sia mai stato prima e al tempo stesso sarà in tutti gli altri. E tutti i “raggi”, tutti i tempi e recuperati, saranno in comunione

3.      nel centro del cerchio, l’asse lungo il quale il cerchio ascende eternamente, il “tempo”nel quale il Padre genera il Figlio e da essi procede lo Spirito Santo, in questo momento di infinito amore da cui tutto muove e a cui tutto vuol tornare.

 

Ecco, io credo che il Paradiso sarà questo. Allora noi saremo in Dio, e Dio sarà in noi come tutto in tutti: e tutti quei momenti non andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, ma saranno salvati dalla caducità del transeunte, per diventare gemme incastonate nella corona dell’eternità celeste.

 

 

 

 

                   a                         con

lim                 =                a N* = { 1, 2, … }

x→0             x

 

[questa formula è stata suggerita da Crosta come viceversa della precedente]