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Morale naturale for dummies (ivi incluso Paolo Flores d’Arcais).
Provo a spiegare in modo basilare e comprensibile che il bene oggettivo esiste; per fare ciò userò un esempio preso da LOST, la mia serie tv preferita.

(per inciso LOST è un capolavoro perché ha portato in tv la filosofia come genere narrativo, ma questo è un mio opinabile punto di vista e un discorso a parte; se non siete d’accordo, continuate pure)

Supponete che vi capiti di entrare in possesso di una scatola da cui dipende il destino dell’universo. Per comodità narrativa facciamo che la scatola è stata inventata da uno scienziato pazzo vostro amico – quel tipo di scienziato pazzo che quando va al bagno inventa il flusso canalizzatore per viaggiare nel tempo, quel tipo di scienziato pazzo delle cui capacità non dubitate affatto – che per bizzarri motivi vi affida la scatola scongiurandovi di farne saggio uso.
Il funzionamento della scatola è semplice. C’è un bottone che deve essere periodicamente premuto. Non è necessario che sia una periodicità di 108 minuti; per semplificare le cose ipotizziamo che sia un compito che non richiede alcun sacrificio. Se si preme l’interruttore, il mondo va tranquillamente avanti come ha sempre fatto. Se non si preme l’interruttore, parte una reazione a catena che provoca L’ANNICHILIMENTO DELL’UNIVERSO. Una specie di Big Bang inverso e istantaneo. Finisce tutto, non resta letteralmente più niente, nulla, zero, insieme vuoto, Ø, [   ].
Chiaramente la premessa richiede una certa dose di sospensione d’incredulità, ma fatela questa sospensione, perché qui non interessa la verosimiglianza tecnica della cosa – che peraltro è fantascientifica ma non necessariamente impossibile, o almeno non possiamo escluderlo a priori – ma piuttosto le implicazioni morali della stessa.
Allora insomma bisogna decidere, premere o non premere il bottone.
Domande:

  1. Cosa fate?
  2. Perché lo fate?
  3. Cosa è giusto fare?

 Andiamo oltre. Supponiamo che lo scienziato abbia affidato non a voi soli la scatola, ma a voi e un amico vostro. Ed ecco che, quando si arriva al dunque, l’amico se ne esce dicendo che no, lui il bottone non vuole premerlo. Non spiega perché, ma vuole che il mondo finisca, vuole che tutto smetta di essere. Qualcuno non è d’accordo? E chi se ne frega.
Piglia la scatola e scappa, per evitare che possiate premere il bottone.
Che fate, gli correte appresso?

L’esempio è estremo, ma l’intellettualismo postmoderno è arrivato a un tale punto di impazzimento che servono esempi estremi. Questo ci pone di fronte a un’alternativa infinitamente amletica: o l’essere o il niente, tertium non datur.

E dunque ditemi, cari lettori: vi passa seriamente per la capa di dire che le due opzioni – premere o non premere il bottone – sono oggettivamente indifferenti? Che l’una vale l’altra? Che è una questione di giudizio soggettivo, esclusivamente radicato nella “coscienza” autonoma e nella libera scelta del soggetto agente? Che non c’è nessun intrinseco “questo è meglio di quello”? Che se l’universo, le cose che sono, gli enti tutti quanti, la res cogitans e la res extensa, le sostanze gli accidenti e li mortacci tua, se essi potessero in qualche modo impersonificarsi per un istante e prendere parola, ci direbbero…?
ma sì, che ce frega, pigialo oppure non pigiarlo ‘sto bottone del cavolo: per noi è la stessa cosa!

Insomma: si può dire che da questo FATTO – l’universo è, le cose sono, noi esistiamo o quantomeno cogitiamo di esistere, e quello che è continua ad essere – non si può in alcun modo ricavare un qualche minimo VALORE di preferenza di un’opzione rispetto all’altra ?

 Presumo che una nutrita schiera di lettori – cattolici, teisti razionali, atei, vattelapesca – avrà già raggiunto la conclusione che SI DEVE premere quel fottuto interruttore. Che È MEGLIO rincorrere quello stronzo che se l’è data a gambe (qualcuno dalla regia aggiunge: dargli pure un fracco di botte) ed evitare che l’universo sprofondi nel nulla cosmico, e noi con esso.

 Invece i soggettivisti radicali, se volessero essere coerenti con i loro assiomi, dovrebbero rispondere sì a tutte quelle domande: perché secondo loro dal fatto (ciò che è) non si può dedurre l’etica (ciò che deve essere). Le cose che sono, “sono” e basta. Non esiste una natura che ci “dica” di fare qualcosa o di essere in un modo invece che in un altro: tutto ciò che esiste è già naturale di suo, “naturale” diventa parola priva di confini, dunque priva di significato. Al soggettivista radicale piace tanto un’espressione: “fallacia naturalistica”. Questa fallacia si ha quando da una descrizione si passa indebitamente ad una prescrizione. Esempio banale di fallacia naturalistica:

  1. Ci sono esseri umani che hanno la pelle chiara.
  2. Gli esseri umani devono avere la pelle chiara.
  3. Chi non ha la pelle chiara, non è un essere umano.

Purtroppo, il soggettivista radicale fa ampio abuso della fallacia naturalistica: è sempre pronto a tirarla fuori ovunque, una specie di arbitro della logica col cartellino rosso sempre alzato e il fischietto pronto a fischiare “fallacia naturalistica! Fallacia naturalistica!”. Dal fatto che esistono indebiti salti descrizione→prescrizione, il soggettivista radicale ricava (per inciso mi chiedo se non sia questa, essa stessa, una fallacia naturalistica) che non possono esisterne di debiti.

Come scrive Paolo Flores d’Arcais (La Stampa, 11/12/2012), “l’etica è soggettiva”:

 la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi […]
da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuori umani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip.
Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.

Sarebbe inutile obiettare a PFD’A che la sua visione del mondo è dannosa e agghiacciante, perché ci consegna dritti dritti alla guerra brutale del tutti contro tutti, alla legge del più forte. Che, così, contro lo stupratore l’assassino il genocida eccetera non possiamo portare argomenti (che non valgono, perché non esistono “valori” ma solo “valutazioni”); possiamo portare solo una corda per impiccarlo più in alto, perché «non è questione di conoscenza, ma di lotta», e noi prevaricheremo lui oppure lui prevaricherà noi, e la Storia è tutta qua.
Inutile, perché PFD’A non ci sente da quell’orecchio, è troppo inebriato dalla sua terrorizzante & ineludibile “responsabilità” (ma verso chi?). Come può essere brutto, un mondo in cui è “lui” a decidere? Come può essere spaventoso, un mondo in cui è “lui” ad essere creatore e signore del bene e del male?

Allora quello che bisogna obiettare, per avere la minima speranza di scuotere PFD’A e tutti i soggettivisti radicali dalla loro illusione (gnostica) di dominio etico, è che la tesi non è semplicemente dannosa: è sbagliata, anzi, è proprio scema.
Perché dei valori morali oggettivi esistono, ancorchè basilari e generali, e con l’esperienza e la ragione – la fede aiuta, ma viene dopo – qualunque essere umano mediamente pensante può arrivarci:

  • ESPERIENZA: il mondo esiste. È un’evidenza. Si mostra, non si dimostra.
  • ESPERIENZA: il mondo continua ad esistere, ed anche gli enti che ne fanno parte continuano ad esistere finchè possono. Gli esseri viventi, noi compresi, hanno volontà e istinto di autoconservazione. Gli oggetti inanimati non hanno “volontà” o “istinto”, ma hanno una “tendenza”: le pietre non si sgretolano da sole, la Terra non ridiventa plasma e polvere cosmica, la forza di gravità continua a “funzionare”.
  • RAGIONE: gli enti hanno un orientamento, una inclinazione, una propensione, una “preferenza”, un fine intrinseco, insomma una teleologia, per cui essere è meglio che non essere.
  • RAGIONE: non è vero che dall’essere non si può dedurre il dover essere; dall’essere si può dedurre almeno un grado minimo di dover essere, cioè il fatto di dover continuare ad essere.

GIUDIZIO DI FATTO:
ciò che è, “vuole”, “deve” continuare ad essere

GIUDIZIO DI VALORE:
PREMI QUEL C**** DI BOTTONE!!!

  Siamo scesi, mi pare, al grado minimo di etica naturale oggettiva. Più sotto c’è solo da scavare (una tomba, ché una società così intellettualmente spappolata da dimenticare l’istinto di conservazione, non ha futuro).
Eppure so già che amabili zuzzurelloni soggettivisti, o perché si divertono così o perché ci credono davvero, negheranno anche questo grado minimo. Non per niente questa è l’epoca disgraziata in cui ci tocca combattere per i prodigi visibili come se fossero invisibili.

 Ecco il valore morale base: essere è oggettivamente meglio che non essere. È “scritto” nel mondo, in ciò che noi stessi siamo, nel nostro “modo” di essere.
Definiamo “natura” (definizione vaga, ma per ora accontentiamoci) questo modo di essere dell’ente. Definiamo “naturale” ciò che asseconda questo modo. Definiamo “innaturale” ciò che lo contrasta.
È naturale, buono, premere il bottone.
È innaturale, cattivo, non premerlo.

MORALE NATURALE
essere = bene
non essere = male

Ora, il nostro è un esempio estremo. La stramaledetta scatola non conosce mezze misure: o l’essere, o il niente. Ci serve per partire proprio dall’ABC della morale naturale, perché a questo ci siamo ridotti.
Ma la vita quotidiana non è così estrema. Noi vediamo (e anche questo è un giudizio di esperienza + ragione) che nel mondo non si dà questa dualità brutale. Alzi la mano chi si è mai trovato davvero a dover decidere tra l’alternativa x e l’annichilimento immediato e totale di tutto ciò che esiste.
Ecco allora che ci accorgiamo che esiste una gradualità, tale per cui gli enti non si limitano semplicemente ad essere o non essere, ma conoscono una fascia di situazioni intermedie, di mescolanza tra essere e non essere.
Perciò la nostra povera grezza morale naturale può già essere riformulata in maniera un po’ meno grezza:

 MORALE NATURALE
+ essere = meglio
– essere = peggio

Buono è ciò che ci porta verso la pienezza dell’essere.
Cattivo è ciò che ce ne allontana.
Da ciò si potrà poi cominciare a concepire – sempre razionalmente – la differenza tra essere e divenire; la differenza tra uno e molteplice (dunque lo spazio); la differenza tra statico e dinamico (dunque il tempo); la differenza tra potenza e atto (dunque la causalità); la differenza tra sostanza e accidente (dunque la persona); la differenza tra singolo e organizzazione sociale (dunque la relazione personale); la differenza tra bene di uno e bene di molti (dunque la possibilità del sacrificio); la differenza tra necessario e contingente (dunque la libertà); la differenza tra immanente e trascendente (dunque la Divinità)…
Ma questi sono già discorsi ulteriori, ben oltre la spiegazione for dummies che mi proponevo. Il soggettivista radicale avrà già problemi a ruminare il concetto che essere è oggettivamente meglio che non essere.

A chi è interessato ad approfondire il discorso, e non è ostile per preconcetto alla roba cattolica (non necessaria, per capire cos’è la morale naturale, ma neanche inutile), segnalo questo testo che ho letto in questi giorni e non mi pare fatto male: “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”. In particolare mi ha aiutato la tripartizione (paragrafo 46) della morale naturale in tre precetti generali ovvero «insiemi di dinamismi naturali che agiscono nella persona umana»:

  1.  Il primo, che le è comune con ogni essere sostanziale, comprende essenzialmente l’inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza.
  2. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende l’inclinazione a riprodursi per perpetuare la specie.
  3. Il terzo, che le è proprio come essere razionale, comporta l’inclinazione a conoscere la verità su Dio e a vivere in società.

A partire da queste inclinazioni si possono formulare i precetti primi della legge naturale, conosciuti naturalmente. Tali precetti sono molto generali, ma formano come un primo substrato che è alla base di tutta la riflessione ulteriore sul bene da praticare e sul male da evitare.

Successivamente questi tre precetti morali naturali vengono descritti con maggiore precisione. Dai tre precetti generali saranno poi ricavati i precetti “secondi”, i quali poi dovranno essere calati nel concreto delle diverse culture e contigenze della vita reale, etc.


Conclusione.
La natura esiste. Il bene oggettivo esiste. La morale naturale esiste.
Se indaghiamo il “piano dell’essere” alla luce della ragione, scopriamo che in questo “piano” c’è una “scala” che ci porta al piano superiore, del “dover essere”. Un piano che non è costruito da noi, ma è oggettivamente dato, e fondato precisamente sul piano sottostante dell’essere (anche quello, non lo abbiamo costruito noi).
Noi non siamo i creatori e signori dell’etica: noi non decidiamo ciò che è bene o male. Invece noi decidiamo se fare il bene o il male, perché abbiamo il libero arbitrio.
Siamo liberi di fare la nostra musica; ma il pentagramma su cui la suoniamo, non ce lo siamo fatti da soli.


 


 


La grande marcia della distruzione intellettuale…

…terminerà.
Non potrà non terminare, perchè si basa su una bugia.
Proseguirà fino al suo apice. Seguirà l’inevitabile declino.

 Allora inizierà una una nuova grande marcia. La marcia della ricostruzione intellettuale. La marcia del ritorno alla realtà.
Tutto ciò che è reale sarà affermato.
Tutto ciò che non è reale sarà negato.
Ridiventerà ragionevole affermare le pietre della strada; ridiventerà un dogma fideista negarle.
Sarà di nuovo una forma dissennata di misticismo dire che siamo tutti immersi in un sogno; sarà di nuovo razionale asserire che siamo tutti svegli.

Noi saremo lì.
Attizzeremo i nostri fuochi per testimoniare che due più due fa quattro.
Sguaineremo le nostre spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate.
Noi ci ritroveremo a difendere non solo qualcosa di veramente credibile, come le virtù e la sensatezza della vita umana; cose che sono veramente credibili, perché SONO VERE; ma noi difenderemo qualcosa di più credibile ancora: questo immenso, evidente, evidente, EVIDENTE universo che ci fissa in volto.

Combatteremo per i prodigi visibili precisamente PERCHÈ SONO VISIBILI.

Guarderemo l’erba e i cieli straordinari con un coraggio più straordinario ancora.

Perchè noi saremo coloro che hanno visto.
E PROPRIO PER QUESTO hanno creduto.


Libertà religiosa e legge naturale

Traduco in forma libera un articolo apparso sulla CNA (Catholic News Agency).

 

SE Robert C. Morlino, SJ

Arlington (Virginia). 28 agosto 2013, 12:00 am (CNA/EWTN News)

 

Robert C. Morlino, vescovo della diocesi di Madison, nello Stato americano del Wisconsin, ha chiesto ai cattolici di schierarsi a favore della libertà religiosa e della verità dopo aver spiegato il nesso tra le due cose nella sua lezione tenuta il 23 agosto nella città di Arlington (Stato della Virginia) all’Istituto di Cultura Cattolica.

La libertà di religione, dice il vescovo, è il più basilare di tutti i diritti umani. Questo perché gli altri diritti umani riguardano solo questioni temporali, contingenti; la libertà di religione riguarda invece la mia salvezza eterna, che io sono libero di conseguire – per grazia di Dio – oppure no. Non c’è nulla di più importante di questo.

 Il vescovo Morlino ha parlato della Dignitatis Humanae, la dichiarazione del Concilio Vaticano II che descrive la relazione tra la Chiesa e gli Stati e la giusta comprensione del concetto di libertà religiosa. Spiegando lo sviluppo storico di tale concetto, ha detto che gli ultimi tre concili ecumenici – il Concilio di Trento, il Vaticano primo, il Vaticano secondo – sono la risposta della Chiesa alla modernità.
Il vescovo ha illustrato come, prima della filosofia moderna, sia la Chiesa sia la società civile fossero consapevoli che conoscere la verità significa che c’è una corrispondenza tra la mente e la realtà fuori da essa. Questa corrispondenza rende capace l’uomo di conoscere la legge naturale, che è “la partecipazione della ragione umana nella legge divina”.

Prima della filosofia moderna si sapeva che c’era una conformità della mente con ciò che era reale e indipendente dalla mente. Ma la filosofia moderna è stata una rivoluzione copernicana nel modo in cui l’essere umano concepisce la conoscenza; ha causato una visione più soggettiva della realtà, in cui è la percezione dell’individuo a determinare ciò che lui o lei crede essere reale.
In questa visione moderna, non è il mio pensiero ad essere responsabile verso ciò che è indipendente dalla mente, a dover rendere conto dei propri errori; invece è il mondo ad essere come io lo penso. Si è deciso che non c’è una realtà indipendente dal pensiero.

Questa visione della realtà e della verità ha profonde implicazioni per il significato della parola coscienza. Nel significato originale del termine, la legge naturale mantiene la coscienza responsabile, perché la coscienza guida l’individuo a riconoscere la verità ed agire secondo la legge morale naturale. La coscienza non ci dispensa da ciò che oggettivamente giusto, anche se è così che viene intesa oggi. Questo fraintendimento della coscienza ha trasformato gli argomenti di morale naturale in credenze confessionali prese per fede.

 Ma questo è sbagliato: noi cattolici osserviamo la legge naturale non solo perché siamo cattolici, ma soprattutto perché è vera.

 La legge naturale, in sé e per sé, non è una questione di fede, perché le posizioni di legge naturale possono essere capite con la sola ragione e valgono per tutti. Tuttavia, se ciascuno costruisce il suo proprio mondo, allora ci sarà per forza un conflitto; e il conflitto tra la modernità e la legge naturale ha avuto gravi implicazioni per le persone di fede.
La legge naturale mi rede libero di cercare la verità su Dio, dunque cercare la mia salvezza eterna. Nessuno ha il diritto di interferire nella mia relazione con Dio, nessuno ha il diritto di bloccare la mia abilità di fare ciò che è giusto.

La libertà religiosa è un problema unico nel suo genere, diverso dagli altri diritti umani, proprio perché ha conseguenze eterne e dunque non c’è nulla di più importante o fondamentale. Concepita nel modo corretto, la libertà religiosa è la libertà della persona dallo Stato su ciò che riguarda le questioni religiose. Ma questo non è il concetto di libertà religiosa che abbiamo oggi; invece abbiamo un secolarismo, imposto dallo Stato e dai mass media, che travalica ogni possibile confine. Questo secolarismo distrugge la coscienza, rigetta il diritto naturale, e vieta alle persone di agire secondo ciò che esse sanno (proprio attraverso la ragione e la legge naturale) essere vero.

 I cattolici devono migliorare la loro difesa della legge naturale e del giusto concetto di coscienza, allo scopo di promuovere il rispetto per ciò che la Chiesa insegna. Purtroppo invece molti di essi, mentre affermano a parole di testimoniare che Cristo è unito alla Chiesa, di fatto professano con le loro azioni che Cristo è diviso dalla Chiesa.
Ma nessuno può vivere per sempre nella contraddizione: queste persone inevitabilmente finiranno per affermare o l’una o l’altra cosa, o la fede che professano, o le regole mondane secondo cui vivono.

 Il vescovo ha esortato tutte le persone cui importa la libertà religiosa, e la libertà in generale, a parlare in difesa della legge naturale, per esempio scrivendo lettere ai giornali. In particolare, dice Morlino, noi cattolici dobbiamo smettere di stare zitti: i cattolici devono promuovere la legge naturale e la giusta interpretazione della coscienza, non solo perché noi siamo cattolici, ma prima di tutto perché esse sono vere. Altrimenti, se continuimo a perdere tempo senza fare niente, renderemo un terribile disservizio alla società.


Frasi perfette

Rifiutando di credere quello che si ritiene impossibile, si cade nell’inverosimile.

Andrè Frossard

 

Una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità.

 Sherlock Holmes


Meat Me

LXXXI:         Ma il titolo che significa?

 Claudio:         Si tratta di un gioco di parole che ha senso solo in inglese, una fusione tra i verbi eat e meet, che significano mangiare e incontrare. Il risultato è l’impossibile verbo meat, che non esiste perché meat è un sostantivo che significa carne, nel senso di carne da mangiare, come una bistecca. Il significato del gioco di parole sarà chiaro alla fine del post.

 LXXXI:         Insomma, incontrami + mangiami = “càrnami”. Ma come ti/mi/ci è venuto di fare un titolo così? E a proposito, perché stai/sto/stiamo scrivendo   questo post a mo’ di domande e risposte, se tu sei me e io sono te?

 Claudio:         Mi piacciono i titoli bizzarri, e questo voleva essere un omaggio ad Anthony Burgess. Anche a lui piacevano i giochi di parole. La forma e le riflessioni di questo post sono  ispirate al suo libro “1984 & 1985”, quello che ci/ti/mi ha regalato il commentatore piccic, che ringrazio ancora.

 LXXXI:         Grazie piccic anche da parte mia, cioè sua, insomma nostra, quello che è.

 Claudio:         Il libro è diviso in due parti. La prima è un saggio su 1984 di Orwell, anche se poi il discorso si allarga ad altre famose distopie letterarie, es. Brave New World di Huxley, Noi di Zamjatin, Arancia meccanica di Burgess medesimo…

 LXXXI:         Cosa significa distopia?

 Claudio:         Il contrario dell’utopia. Per utopia si intende una storia ambientata in un luogo immaginario (ou topos = luogo che non esiste) in cui va tutto bene. La distopia parla di un luogo, ma più spesso di un possibile futuro, in cui va tutto male. Peraltro Burgess conia e predilige i termini eutopia (eu = buono) e cacotopia (kakòs = cattivo), ma ormai le parole correnti sono utopia e distopia e perciò usiamo quelle.

 LXXXI:         Forse Burgess ne sarà dispiaciuto.

 Claudio:         Peggio per lui. Comunque, la particolarità della prima parte è che i capitoli sono scritti alternativamente in forma discorsiva e in forma di domanda e risposta. Pensa che all’inizio credevo che fossero una vera intervista, solo che non capivo se lui era la D. o la R., poi ho letto su wikipedia che si era auto-intervistato. Questo mi ha fatto venire l’idea per il post. La seconda parte invece è un lungo racconto distopico ambientato nel 1985, in un’Inghilterra messa in ginocchio dal socialismo, dell’ideologia della totale eguaglianza a tutti i costi che porta all’appiattimento verso il basso, dallo strapotere dei sindacati e dall’avanzante colonizzazione culturale dell’islam.

 LXXXI:         Può darsi che non siamo molto lontani dalla realtà.

 Claudio:         Eh già. Comunque, il libro è molto bello e interessante. Un vero nutrimento culturale, e l’espressione è da intendere alla lettera. Infatti una cosa che mi ha colpito particolarmente è la metafora che Burgess tira fuori a un certo punto a proposito di erbivori e carnivori dal punto di vista gnoseologico. Ne parla nel settimo capitolo della prima parte, “I figli di Bakunin”, una disamina estremamente acuta di quello che oggi chiameremmo giovanilismo. Parte analizzando la figura di Bakunin e il suo impatto sull’anarchismo, che è stato anzitutto un mito giovanile perché “Lo Stato è, e sbadigliamo a dirlo, un’immagine paterna”. Da qui passa all’eterno conflitto generazionale e le sue ricadute politiche: “La causa degli studenti diventa qualsiasi causa universale diventata di colpo urgente. In larga misura, gli studenti ribelli di Parigi del maggio 1968 furono diretti da agitatori adulti. I gruppi giovanili sono macchine utilissime: i giovani possiedono energia, sincerità e ignoranza.” Infatti nel libro 1984 i bambini sono fondamentali per il potere totalitario del Grande Fratello, il quale peraltro “ha il buon senso di non farsi chiamare Padre Nostro.

 LXXXI:         LOL.

 Claudio:         E poi, senti qua:

 In qualsiasi discussione sul futuro politico dei Paesi del mondo libero, dobbiamo prendere in seria considerazione il pericolo che i movimenti giovanili rappresentano per la causa della libertà tradizionale. Questa affermazione sembrerà priva di senso alla gioventù stessa, la quale è convinta di essere l’unica custode della libertà in un’epoca in cui i vecchi sembrano desiderosi di limitarla sempre più. È vero che la vecchiaia cerca di limitare la libertà della gioventù, ma solo perché questa libertà è licenza. Se gli uomini sono nati liberi, è solo nel senso socing che anche gli animali sono nati liberi: la libertà di scegliere fra due modi di azione presuppone la conoscenza di ciò che la scelta comporta. Noi acquistiamo conoscenza tramite l’esperienza diretta, come il bambino che si è scottato ha paura del fuoco, oppure tramite l’esperienza altrui, che è contenuta nei libri. La voce dei neoanarchici è quella del cineasta Dennis Hopper: “Non c’è niente nei libri, amico”, o quella del cantante pop inglese che dice “La gioventù non ha bisogno d’istruzione. La gioventù le cose se le cerca per conto suo”. Il dottor Samuel Johnson, dopo aver ascoltato un esponente del primitivismo, osservava: “Questo è molto triste, signore. Questo è animalesco”. Più che leonino è bovino. Ci vuole molto tempo per ottenere brucando in un prato la proteina che si trova in un rapido pasto di carne. Noi vecchi offriamo la carne dell’istruzione: la controcultura ritorna all’erba.

 LXXXI:         Quando dice che gli hippy tornano all’erba, allude alle canne?

 Claudio:         Non so il testo originale, può essere. Sarebbe un altro gioco di parole tipicamente burgessiano. Ma attenzione ai concetti fondamentali che qui sono espressi. Anzitutto c’è che la libertà presuppone la conoscenza di ciò che è vero; come in Gv 8: 32, “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”; come in 1984, “La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro.” È la verità a fondare la libertà e non viceversa. La libertà non è semplicemente la possibilità materiale di fare questo invece di quello, dire quest’opinione o quell’altra. Se io non so cosa è vero, se non conosco le vere cause e circostanze e conseguenze delle mie decisioni, allora la mia libertà è indebolita, perché non ho tutti gli elementi per compiere una scelta consapevole. Si scopre così che il primo ostacolo che la mia libertà incontra non è il prepotente che vuole opprimermi, ma il mio stesso istinto. Per istinto qui intendo l’impulso atavico a fare senza sapere, fare prima di pensare. Il nemico è dentro di me.

 LXXXI:         Questo mi ricorda quel proverbio Bene Gesserit che dice grossomodo “cerca i tuoi istinti e troverai la schiavitù, cerca la disciplina e troverai la libertà”. È una di quelle simpatiche citazioni con cui iniziavano i capitoli dei libri della saga di Dune.

 Claudio:         La terribile sorellanza non rientra tra le mie autorità morali predilette, ma questa l’hanno centrata. Un sistema di pensiero che ci incoraggia a perseguire la libertà in senso puramente materiale, trascurando l’importanza della verità oggettiva in favore dell’opinione che “decide” cosa è vero, di fatto indebolisce la libertà. Decidiamo senza sapere davvero cosa stiamo decidendo, e spesso (perché siamo ignoranti, perché siamo manipolabili) decidiamo quello che qualcun altro aveva già deciso che dovessimo decidere. Così il liberalismo estremo, la visione anarco-radicaloide, alla lunga si rivela illiberale.

 LXXXI:         Stai forse suggerendo che il paternalismo è una soluzione migliore?

 Claudio:         Dipende da cosa intendi per paternalismo. In linea generale, non voglio un’autorità che ci impedisca di agire, ma che ci avverta di ciò che veramente comporta il nostro agire. È una brutale semplificazione, ma diciamo grossomodo che sono paternalista per il sapere e liberalista per l’agire. Sto parlando insomma di educazione, che è il luogo dove il problema gnoseologico si lega al problema del libero arbitrio. Perché nessuno nasce con la conoscenza innata. Se non sbaglio, l’etimo di educare è tirare fuori. Ma tirare fuori lo si può fare solo, appunto, da fuori. Nessuno può educarsi da solo, proprio come nessuno può tirarsi fuori da un fosso prendendosi da solo per i capelli come faceva il barone di Munchausen­. Abbiamo bisogno di maestri. Ecco la fiducia. Ecco la dietetica conoscitiva di Burgess.

 LXXXI:         Erbivori e carnivori. La metafora cui accennavi all’inizio. “Noi acquistiamo conoscenza tramite l’esperienza diretta, come il bambino che si è scottato ha paura del fuoco, oppure tramite l’esperienza altrui, che è contenuta nei libri … Ci vuole molto tempo per ottenere brucando in un prato la proteina che si trova in un rapido pasto di carne”.

 Claudio:         Esatto. Il paragone cibo-conoscenza mi ha profondamente colpito. Sono andato su wikipedia a dare una rapida occhiata alla pagina sugli erbivori e ho appreso che “il ruolo funzionale dell’erbivoro nella catena alimentare è quello di trasformare le molecole vegetali (cellulosa, amido), in molecole animali (glicogeno), che poi potranno essere assimilate dai carnivori. La loro efficienza di assimilazione è molto bassa a causa della loro posizione anteriore nella catena.” Meravigliosamente affascinante, non trovi? Possiamo costruirci tutta un’articolata metafora nutritiva-gnoseologica.

 LXXXI:         Ok. Giochiamo a costruirla. Mi piacciono le metafore articolate. Se ci fossero anche figure geometriche sarebbe meglio, ma pazienza.

 Claudio:         Terra = realtà. Dico terra nel senso proprio di suolo, quello che abbiamo sotto le scarpe. La realtà come sostanza della conoscenza, substantia, sta sotto.

 LXXXI:         Malkhut.

 Claudio:         Lascia perdere le sephirot. Non complicare il discorso. Dunque, la terra è la realtà. Un terreno può essere fertile o infertile. Terra fertile = realtà conoscibile. I vegetali, strappati direttamente dal suolo, sono la conoscenza “grezza”, basilare, acquisita direttamente per esperienza personale. L’erbivoro gnoseologico è chi conosce fondamentalmente per esperienza. Come dice wikipedia (va’ a sapere se è vero, ma fidiamoci), la sua efficienza di assimilazione è molto bassa. Chi rifiuta per principio l’esperienza altrui, impara poco e male. Ma, al tempo stesso, l’erbivoro è indispensabile, perché la catena alimentare deve pur avere un inizio. Non ho alcuna particolare conoscenza etologica, ma sospetto che un ecosistema composto interamente di carnivori che si mangiano l’un l’altro sia insostenibile. Il carnivoro gnoseologico è chi conosce per fiducia, e come il carnivoro ha bisogno dell’erbivoro, così le catene della fiducia – credo la cosa che mi ha detto x e lui la crede perché gliel’ha detta y che la credeva perché gliel’aveva detta z che eccetera – iniziano sempre da qualcuno che ha fatto l’esperienza. Il discente apprende per fiducia verso il docente, ma il docente, o il docente del docente, ha appreso perché ha sperimentato. Posso credere senza vedere, purché qualcuno abbia davvero visto. Fatti, avvenimenti, incontri. D’altra parte il carnivoro ha un’efficacia di assimilazione molto maggiore dell’erbivoro: io posso imparare in dieci giorni un libro alla cui scrittura l’autore ha lavorato per dieci anni. E forse – mi arrischio a dire una cosa biologica che non so, in caso correggetemi – più lunga è la catena alimentare, più elaborate possono diventare le trasformazioni a cui sono sottoposte le molecole nutritive. Il discente che diventa docente rielabora, approfondisce, migliora ciò che ha “mangiato” del suo predecessore.

 LXXXI:         Ma non stai lasciando fuori qualcosa? Esperienza, fiducia. E dov’è la ragione? Nella tua metafora, come chiami colui che conosce per ragione?

 Claudio:         Lo zappatore.

 LXXXI:         …

 Claudio:         …

 LXXXI:         Mario Merola icona del razionalismo. Mi vergogno di essere te.

 Claudio:         Fammi spiegare. Se la terra fertile è quella parte di realtà che possiamo esperire, la terra infertile è la realtà oltre i nostri limiti percettivi. Il deserto, arido, privo di vita vegetale, è ignoto. Eppure la terra sterile può essere coltivata. Nessun deserto è per sempre. Ci sono animali che mangiano erba o carne o entrambi, ma solo l’uomo coltiva la terra; guarda caso, similmente gli animali fanno esperienze, e si fidano del branco, ma non hanno qualcosa di paragonabile alla nostra razionalità. La ragione è un ampliamento dell’esperienza, perché inferisce dai dati sensibili ciò che sta oltre il nostro piccolo limitato ambito percettivo: studio il passato per sapere il futuro, studio il vicino per sapere il lontano. Il contadino coltiva la terra per trarne frutto, il razionalista coltiva la realtà ignota e la rende nota. “Campi del sapere” è un’espressione assolutamente confacente.

 LXXXI:         Ma l’uomo, in sostanza, che animale gnoseologico è?

 Claudio:         Ah, qui arriviamo al clou. L’uomo è onnivoro. Deve esserlo, se vuole stare bene. Il principio basilare del mio piccolo sistema gnoseologico, quello che chiamo la tridimensionalità della conoscenza…

 LXXXI:         Hai presente quando i filosofi da strapazzo s’inventano nomi altisonanti che complicano idee semplici, per far credere di essere più intelligenti?

 Claudio:         Ehm. Touchè. L’idea è che, se pensiamo a esperienza ragione fiducia come alle tre dimensioni del sapere, la nostra conoscenza si muove sempre in uno spazio 3D. Ma d’ora in poi posso anche chiamarlo teoria dell’onnivoro gnoseologico. Non è che una cosa la sappiamo per esperienza e basta, un’altra per ragione e basta, un’altra ancora per sola fide… Ogni volta che sappiamo una cosa esercitando una di queste facoltà, la dobbiamo corroborare con le altre due. Insomma dobbiamo avere una dieta integrata. Il fideismo e l’ideologia sono l’equivalente gnoseologico dello scorbuto. Chi non mangia verdura fresca si ammala, perde i denti, avvizzisce. L’empiria e il raziocinio sono imprescindibili. È insano credere senza cercare conferme, senza voler capire ciò che è creduto. D’altra parte, chi rifiuta di mangiare carne, per compensare le mancanze proteiche, è costretto ad assumere quantità molto ingenti di vegetali, e non sono sicuro che basti. Chi rifiuta qualunque autorità educativa, è gnoseologicamente denutrito.

 LXXXI:         Sembra tutto molto interessante, ma è lapalissiano dirlo nella mia posizione. Adesso si spiega il titolo. Bella metafora.

 Claudio:         Per noi, non è una metafora.

 LXXXI:         Noi chi?

 Claudio:         Noi cattolici.

 LXXXI:         ?

Claudio:         Vedi, questa metafora del mangiare la conoscenza mi aveva molto impressionato la prima volta che l’ho letta, e l’ho masticata e ruminata – appunto – per un bel po’, prima di capire perché mi colpiva così. Perché è eucaristica. Perché per noi cattolici mangiare la verità non è una metafora, è un sacramento. La verità ci renderà liberi, c’è scritto nel vangelo, ma c’è di più. Cristo non ci ha semplicemente detto che ci stava dicendo la verità: ha detto di essere lui stesso, la verità. La catena della fiducia su cui si fonda la Chiesa comincia con l’esperienza degli apostoli, il loro incontro personale, i fatti che hanno visto e tramandato. Ma questa catena è alimentare nel vero senso della parola, perché si regge su davvero su una serie continua di pasti senza i quali crollerebbe. Se un maestro è uno che si fa metaforicamente mangiare per far assimilare agli altri ciò che lui ha imparato, noi abbiamo un Maestro che si offre letteralmente in banchetto e in olocausto. Il Cristo che nell’eucaristia si rende realmente presente, meetable, incontrabile, si fa anche realmente eatable, mangiabile. Carne. Meat. Una carne, che per fede sappiamo essere sostanzialmente carne, che però alla nostra esperienza sensibile è pane – cioè, fondamentalmente, un vegetale coltivato.

 LXXXI:         Esperienza.

 Claudio:         Ragione.

 LXXXI:        Fede.

 Claudio:         Prendete e mangiatene tutti.


L’Uomo con la U maiuscola

 Questo doveva essere un commento al precedente post sulla trilogia fantascientifica di Lewis, ma l’argomento merita un post a parte.
Abbiamo visto che Clive Staples Lewis era contrario alla colonizzazione interplanetaria, perché preoccupato della malvagità che l’uomo avrebbe potuto esercitare sulle specie aliene più deboli che avesse incontrato; difatti Lontano dal Pianeta Silenzioso è una specie di Avatar ante litteram (o meglio, è Avatar ad essere un LPS decristianizzato e risciacquato nel panteismo new age).
Per questo si era beccato le “blande canzonature” (sic) di Arthur C. Clarke, che invece alla colonizzazione interplanetaria ci credeva fervidamente e già nel 1947 aveva scritto Preludio allo spazio, un vero e proprio inno all’Homo Tecnologicus, anzi all’Uomo.
Con la U maiuscola, badate:

Un’obiezione al volo spaziale che questi critici portavano avanti era all’apparenza più convincente. Dal momento che l’uomo, sostenevano, aveva causato tanta infelicità sul suo mondo, ci si poteva fidare che si sarebbe comportato bene su altri mondi? E, soprattutto, l’infelice storia della conquista e della riduzione in schiavitù di una razza da parte di un’altra si sarebbe ripetuta senza fine e perennemente, quando la cultura umana si fosse estesa da un mondo all’altro?
Contro questa obiezione non ci poteva essere alcuna risposta del tutto convincente: solo uno scontro di fedi
[sic] contrastanti – l’antico conflitto tra pessimismo e ottimismo, tra coloro che credevano nell’Uomo e quelli che non vi credevano. Però gli astronomi avevano dato un contributo al dibattito, sottolineando la falsità dell’analogia storica. L’uomo, la cui civiltà aveva occupato solo un periodo equivalente a un milionesimo della vita del pianeta, probabilmente [sic] non avrebbe trovato su altri mondi razze abbastanza primitive da poter sfruttare o rendere schiave. Qualunque nave si fosse apprestata ad attraversare lo spazio con l’idea di costruire un impero interplanetario, avrebbe potuto trovarsi alla fine del viaggio con le stesse speranze di conquista di una flotta di canoe da guerra piene di selvaggi che entrasse lentamente nel porto di New York.
[…]
Cento anni come quelli non c’erano mai stati prima, e probabilmente non si sarebbero più ripetuti. A una a una le dighe erano saltate, le ultime frontiere della mente erano state spazzate via. Quando il secolo aveva albeggiato, l’Uomo aveva cominciato a prepararsi alla conquista dell’aria; alla sua fine l’Uomo stava raccogliendo le forze su Marte per balzare verso i pianeti esterni. […] Mentre salutava il secolo morente, il professor Alexson non provava rimpianti: il futuro, era troppo pieno di meraviglie e di promesse. Di nuovo le orgogliose navi spaziali stavano veleggiando verso terre sconosciute, portando i semi di nuove civiltà che, nelle età a venire, avrebbero superato quella vecchia. La corsa ai nuovi mondi avrebbe distrutto le soffocanti restrizioni che avevano avvelenato quasi mezzo secolo. Le barriere erano state infrante e gli uomini avrebbero potuto dirigere le proprie energie verso le stelle, invece che combattersi l’un l’altro. Uscito dalle paure e dalle miserie della Seconda Età Buia, e liberatosi  – oh fosse per sempre!  – delle ombre di Hiroshima e dei lager nazisti, il mondo stava dirigendosi verso la sua più splendida alba. Dopo cinquecento anni, c’era un nuovo Rinascimento. L’alba che sarebbe spuntata sugli Appennini alla fine della lunga notte lunare non sarebbe stata più radiosa dell’età che era appena incominciata.

 Puah.
Scusate, ma questo patetico peana sul glorioso futuro dell’Uomo mi fa venire il voltastomaco per quanto è grottesco.
Son proprio questi sermoncini, non infrequenti nei suoi romanzi (almeno quelli che ho letto), che mi fanno concludere che Clarke in un certo senso una persona profondamente religiosa, di una religione orribile però: la religione dell’Uomo, appunto. Ed è significativo che gli scappi di definire – almeno nella traduzione italiana, va’ a trovare il testo originale – il conflitto tra chi crede nell’Uomo e chi no, tra gli “ottimisti” e i “pessimisti” (ma io direi tra gli ingenui e i realisti), proprio come uno scontro di “fedi”; com’è significativo anche che, di fronte all’argomento storico della prepotenza del più forte come costante ineluttabile, non trova niente di meglio che rimuovere il problema perché tanto “probabilmente” non si presenterà ( molto open-minded, nevvero).

Ma c’è di peggio: Clarke, positivista illuminista scientista com’era, era un credulone. Assai più credulone, anzi, delle vecchiette sgranarosari e dei superstiziosi grattacoglioni e di tutte le altre macchiette care a un certo immaginario collettivo.
Facile dimostrarlo.
Esiste la prova evidente, irrefutabile, la “smoking gun”, dell’esistenza di Dio?
No. C’è la logica tomista, semmai, la quale però implica un ragionamento che evidente certo non è (si dimostra, non si mostra).
Esiste la prova evidente della NON esistenza di Dio?
No.
Esiste la prova evidente della NON esistenza dell’Uomo, con la U maiuscola?
Sì!!!
Certo che c’è, questa prova. La vediamo quando studiamo la nostra storia, ammesso che si voglia imparare davvero. La vediamo quando leggiamo i giornali. La vediamo quando ci guardiamo attorno. I più umili tra noi la vedono anche quando si guardano allo specchio.
Siamo noi la prova: gli uomini, senza maiuscola. Tutti, chi più chi meno, egoisti e ladri e bugiardi. E siamo qui. Non c’è bisogno di pregare per evocarci. Non si deve fare un atto di fede per credere alla nostra esistenza. Basta aprire gli occhi, cogliere l’evidenza, ragionare correttamente a partire dall’esperienza sensibile.

E allora, chi è il più credulone?


XXX e i pregiudizi, ovvero

come ho acquisito la mia nomea pornografica
a causa dell’id quod plerumque accidit

Il presente post vuole essere nell’ordine:

  • una richiesta d’aiuto informatico;
  • il racconto di un piccolo fatto di vita quotidiana;
  • un tentativo di estrapolare principi gnoseologici da tale fatto.

 Allora, è successo che da un po’ di tempo sono spam.
Così, all’improvviso, mi sono accorto che non vedevo più i commenti che scrivevo sui blog altrui. Finivo, e finisco tuttora, nella sezione dove si accumulano i commenti classificati a priori come indesiderati: i troll ostinati, le offerte di lavoro retribuito a 1.000 € l’ora, i miracoli farmaco-tecnologici per ingrandire il pene, eccetera.
La cosa ha assunto dimensioni di sublime tragicomicità quando, dopo aver qui risposto a un mio commentatore, ho realizzato sgomento che IL MIO STESSO BLOG  mi aveva messo in spam.
Non so, potrebbe essere un record.
(disgraziato, dopo che
t’ho salvato dall’oblio, così mi ringrazi?)

 Ovviamente sono andato nella coda di commenti spam e mi sono approvato da solo il commento. Successivamente ho chiesto a coloro dai quali commento più frequentemente di despammizzarmi. Naturalmente, alcuni di essi hanno notato la mia richiesta giorni o settimane dopo che l’avevo fatta.
Sfortunatamente, non posso contattare di persona la totalità dei blogger dell’universo mondo intero per chiedere l’approvazione dei commenti.
Lucyette mi ha fornito l’indirizzo mail del suo amato Anthony, il quale mi ha segnalato questo form “akismet support” da compilare; sono già passate due settimane, ma non è cambiato niente. Forse sono in spam anche da loro. Boh.

 Insomma, qualcuno mi aiuti.
Cheddevofà???

Quanto alle possibili cause della mia caduta in disgrazia, è un enigma aperto. Non ho fatto niente di male, lo giuro sui capelli che non mi so contare.
Berlicche
mi ha suggerito un’ipotesi, l’unica che riesco a congetturare: colpa del nome. Il nickname. ClaudioLXXXI. Potrebbe essere finito nelle maglie dei filtri, a seguito di una modifica antispam particolarmente drastica, in quanto contenente la tripla ics nel nome­. XXX. Per chi non lo sapesse, è la sigla che indica i contenuti di un certo tipo.
Del tipo porno, per la precisione.
Se è andata così, il programma informatico vede l’XXX nel mio nome e, vuoi perché non conosce i numeri romani, vuoi perché non ha intuito, non gli viene in mente che sia da leggersi in congiunzione con quella L antecedente e quella I susseguente.
Il programma non sa che ClaudioLXXXI è un blogger cattolico che non affitta carne umana né offre materiale per pippe ma banalmente, dovendo a suo tempo scegliersi un nickname, optò per la semplice soluzione di unire il proprio nome di battesimo all’anno di nascita, espresso però in cifre romane per darsi un tocco di distinzione. Il programma non si pone minimamente il problema. Gli hanno detto “blocca i contenuti con la XXX” e lui esegue, da brava macchina senz’anima. Ci vuole un qualche umano che mi sblocchi.

Ora, è bene che sappiate che, nel mio piccolo block notes cerebrale in cui appuntavo la prima stesura di questo post, la moraletta conclusiva che ricavavo da quanto sopra era una specie di consolazione post-luddista per la perdurante superiorità dell’uomo sulla macchina. Il computer è un intelligente idiota, il fattore umano è ancora necessario, Beccati Questa Deep Thought, cose così. Possiamo stare tranquilli, finché i programmi commetteranno questi errori marchiani, HAL 9000  e Skynet sono ancora di là da venire.
Tuttavia, mentre scrivevo effettivamente il post, ho realizzato che le cose non sono così semplici.
Perché anche noi spesso ragioniamo così.
Si chiama pregiudizio.

Le parole sono importanti. Pregiudizio è una parola oggigiorno fortemente connotata in senso negativo, eppure, se ci pensiamo bene, non necessariamente i pregiudizi sono una brutta cosa. Anzi perlopiù i pregiudizi svolgono una funzione positiva, direi fondamentale: ci fanno risparmiare tempo.
State camminando per strada. Vedete un leone, arrivata da chissà dove, che vi viene incontro. Cosa fate?

  1. Scappate, perché i leoni sono animali feroci e voi avete una paura fottuta di essere divorati;
  2. Vi fermate e pensate “ordunque, tale mio pregiudizio negativo sui leoni come animali feroci è deplorevole ed indegno di un umano civilizzato del XXI secolo: questa bestia potrebbe essere affamata e volermi mangiare, ma potrebbe altresì essere addomesticata e non avere alcuna intenzione ostile; io non posso saperlo finché non lo verifico per diretta esperienza personale, perciò restiamo qui e vediamo che succede” → in bocca al lupo (leone).

L’esempio è volutamente paradossale ed estremo, ma se ne potrebbero fare ben altri di scottante rilevanza politica – del tipo: siete da soli, in un vagone della metropolitana a mezzanotte, con alcuni rom: quali sono i vostri sinceri sentimenti?
In realtà il pregiudizio di per sé è una componente essenziale della vita, non solo in ambienti o situazioni potenzialmente ostili dove la velocità d’azione può essere necessaria alla sopravvivenza, ma anche in moltissime altre circostanze. Comprerò il nuovo libro di Stephen King perché, avendone letti già altri 63 di cui la maggior parte molto belli, ho un pregiudizio positivo sulle sue opere: potrei provare a dire al libraio “io non voglio avere pregiudizi, lasciami prima leggere il libro, poi se lo giudico bello ti pago”, ma dubito che approverebbe questa gnoseologia. Mangio il cibo che ho comprato al supermercato perché ho il pregiudizio che sia commestibile, salgo sull’autobus perché ho il pregiudizio che l’autista sappia portarmi a destinazione, eccetera. Insomma la nostra vita è piena di pregiudizi, non possiamo fare un passo senza farne uso.
Dico letteralmente non possiamo fare un passo: che alzo il piede per appoggiarlo a terra e spostare il mio baricentro, ho il pregiudizio che il pavimento reggerà il mio peso. Finora non sono mai sprofondato. Provate a immaginare quanto sarebbe produttiva la vostra vita se doveste ogni volta, ogni singola volta, tastare con circospezione davanti a voi per giudicare se potete camminarci su.

Possiamo allora definire approssimativamente il pregiudizio come una forma di fiducia radicata nell’esperienza.
Ma, naturalmente, un pregiudizio può essere sbagliato.

Chi dei lettori avesse un’infarinatura di giurisprudenza potrebbe forse ricordarsi di una formula nota come “id quod plerumque accidit”. È una di quelle locuzioni latine che gli autori dei manuali di diritto amano usare per far vedere quanto sono giuridicamente fighi. La traduzione letterale è ciò che accade nella maggior parte dei casi, ed è un concetto piuttosto importante nel diritto, perché il diritto è una regola per ciò che accade e per regolare qualcosa devi conoscerlo, ma (la grande domanda gnoseologica) come si fa a conoscere? Come fa il diritto, occasionalmente personificato in un giudice, a sapere che Tizio è davvero debitore di Caio o che Sempronio ha davvero sparato a Mevio?
Beh, si presume. Cioè si risale da un fatto noto a un fatto ignoto, seguendo quella che di solito è la catena causale. Se solitamente A causa B, allora vedendo B (fatto noto) posso indurre che c’è stato A pur se non l’ho direttamente visto (fatto ignoto). Per esempio, se Caio possiede una promessa di pagamento scritta con la calligrafia di Tizio, posso desumere che Tizio sia debitore di Caio, perché di solito se si firma una promessa di pagamento è proprio perché si è debitore. Se si trovano tracce di polvere da sparo sulla mano di Sempronio e le sue impronte digitali sulla pistola che ha sparato a Mevio, Sempronio è in grossi guai.
Ovviamente, queste presunzioni sono ben lungi dall’infallibilità. Fondamentalmente tutta la faccenda si basa sul metodo induttivo e tale metodo ha i suoi limiti, come mostra la tragica storia del tacchino induttivista. Quello che succede di solito non è detto che sia quello che succede sempre (contingente ≠ necessario). La promessa di pagamento potrebbe essere un falso calligrafico, e Tizio può proporre querela di falso, oppure Tizio ha già pagato Caio, e può dimostrarlo esibendo una quietanza di pagamento posteriore alla promessa (altra presunzione). Sempronio potrebbe essere stato abilmente incastrato, potrebbe aver sparato con quella pistola in circostanze lecite e poi della pistola si sarebbe impossessato il vero assassino: uno scenario complottista, ma astrattamente possibile.
In un certo senso la legge è fatta di pre-giudizi, i quali poi dovranno eventualmente essere vagliati e confermati da un giudice: cioè diventeranno, appunto, giudizi.

Così come la tigre di cui sopra potrebbe essere addomesticata a mangiare solo pollame, il prossimo libro di King potrebbe essere una schifezza, l’autista dell’autobus potrebbe essere ubriaco, eccetera.

E per tornare al caso da cui siamo partiti – e se l’ipotesi sul malfunzionamento di wordpress è corretta – il programma vede i commenti scritti da un tizio che ha XXX nel nome e pensa (metaforicamente) “uh, eccone un altro: id quod plerumque accidit i commenti che contengono XXX sono porno, questi commenti contengono XXX, ergo questi commenti sono porno, perciò buttiamoli nello spam”.
Insomma, wordpress non fa che applicare il pregiudizio che gli hanno insegnato.

Ma allora, qual è la vera differenza tra un computer e un cervello umano?

E io che devo fare per non essere più spam?


Contatto!

Anzitutto: buona Santa Pasqua a tutti voi lettori ed ai vostri cari!

***

Questo libro è bellissimo. Ne stavo preparando la scheda per il post sui libri del mese, ma mi è venuta un po’ lunga – e il libro è così interessante che se la merita – e allora ne faccio un post a parte.
Avevo già visto e apprezzato il film di Robert Zemeckis, ma la storia originale di Carl Sagan è ben superiore: descrive un “primo contatto” tra umani ed alieni e ne esplora le conseguenze politiche e teologiche. La protagonista, astronoma che partecipa al progetto SETI, capta un messaggio radio proveniente dallo spazio che non può essere casuale, perché è una successione ordinata e smisuratamente lunga di numeri primi. L’ordine implica razionalità, intelligenza, intenzionalità, logos: è un messaggio alieno.
(già, ma come si fa ad avere la sicurezza assoluta su base puramente razionale? La biblioteca di Babele…)
Una volta decifrato il contenuto informativo del messaggio, emerge dapprima una riproduzione del filmato di Adolf Hitler all’apertura delle Olimpiadi del ‘36 – il che genera comprensibile sconcerto, e che gli alieni sono nazisti?, ma c’è una spiegazione ragionevole – e poi una serie di istruzioni tecniche per costruire una macchina, si suppone una sorta di astronave per raggiungere gli alieni. L’umanità, con varie forme di choc culturale (rifiuto entusiasmo diffidenza etc.) segue le istruzioni e costruisce la macchina, e … contatto.

Il libro è stato pubblicato nel 1985 e l’autore immaginava che all’inizio del terzo millennio ci sarebbe ancora stato il comunismo, e descrive la relazione conflittuale tra istanze scientifiche e istanze politiche (guerra fredda, diffidenza tra scienziati e militari, etc.) in termini abbastanza comuni in questo tipo di letteratura ante 1989. Questa parte è stata pressoché omessa nel film del 1997. (uno degli scienziati sovietici, godendosi le libertà americane, sfoggia un distintivo goliardico universitario che dice “pregate per il sesso”;lo sfoggiava persino alle riunioni scientifiche e quando gliene si chiedeva la ragione, soleva dire: Nel vostro paese, è offensivo soltanto in un modo. Nel mio, invece, è offensivo in due modi indipendenti; LOL)
Molto più attuale è invece l’aspetto teologico. Carl Sagan professava quel che io chiamerei un agnosticismo aperto, e su wikipedia gli è attribuita la frase “Un ateo deve sapere molto di più di quello che so io. Un ateo è qualcuno che sa che Dio non esiste. Quello che alcuni chiamano ateismo è molto stupido”. Questo ci aiuta a capire il filo religioso della storia: la protagonista Ellie Arroway, teoricamente agnostica e praticamente atea, con molta antipatia verso la religione (in parte dovuta al suo dolore profondo per aver perso l’amatissimo padre da bambina e aver visto la madre risposarsi con un odioso bigottone), si trova a discutere delle implicazioni religiose del messaggio alieno con una coppia di predicatori cristiani che riassumono le diversità d’atteggiamento dell’opinione pubblica religiosa. Uno è un becero fondamentalista che sembra la summa dell’ignoranza arrogante e fideista, e con la sua opposizione ostinata alla scienza e al messaggio (ovviamente trappola del demonio) svolge in pratica la funzione narrativa di far fare bella figura all’altro predicatore, Palmer Joss, assai più pacato e ragionevole, con cui la protagonista instaura un rapporto di crescente stima. In tutte le loro discussioni la posizione di Ellie rimane religiosamente scettica: non nego in astratto la possibilità che Dio esista, ma non ci credo finché non lo vedo; voglio prove certe e tangibili, non mi fido di niente che non possa controllare con i miei occhi.
(nel film, approfittando di avere due attori di bell’aspetto come Jodie Foster e Matthew McConaughey, hanno fatto scoccare l’immancabile storia d’amore; hanno dovuto tagliare quelle numerose pagine di dense discussioni teologiche, cinematograficamente irriproducibili, ma le hanno riassunte in uno
scambio di battute estremamente efficace:
Ellie
:      [si parla dell’esistenza di Dio] Come fai a sapere che non ti stai illudendo? Quanto a me, io… io vorrei una prova.
Joss:      Ah, una prova. Volevi bene a tuo padre?
Ellie:      Come?
Joss:      Sì, gli volevi bene?
Ellie:      … Sì, moltissimo.
Joss:      Provalo.

Ellie
:      l’espressione che passa sulla faccia di Jodie Foster vale più di mille parole)

Ma insomma, qual è questo contatto?
Viene costruita la macchina. Cinque persone tra cui Ellie vengono scelte come equipaggio e l’attivano. Si apre una specie di tunnel dimensionale e la macchina “viaggia” fino a raggiungere quella che sembra una spiaggia tropicale, di chissà dove o chissà quando, dove appaiono finalmente gli alieni, ciascuno dei quali assume la forma di una persona significativa per uno dei viaggiatori. Ovviamente per Ellie è suo padre, che lei abbraccia con infinita gioia e gratitudine – e pazienza se quello non è proprio lui ma piuttosto la materializzazione del ricordo e dell’amore estratti dal cervello di lei, la scena è commovente e se Ellie non fa la puntigliosa a noi lettori va bene così.
Gli alieni rispondono a un sacco di domande dei viaggiatori, per poi rimandarli indietro colmi di gioia e speranza. I cinque tornano sulla Terra, già assaporando la gloria e le implicazioni scientifiche, e … sorpresa.
Per coloro che hanno visto la macchina dall’esterno, non è successo niente. I cinque sono entrati; hanno passato circa venti minuti là dentro; e poi sono usciti. Basta. La videocamera che avevano portato non ha registrato niente. Per i cinque è passato più di un giorno, per gli altri meno di mezz’ora. Ellie ipotizza di essere stata rimandata indietro nel tempo, ma è appunto una supposizione.
Non possono provare empiricamente.
Non possono spiegare razionalmente.
Possono solo sperare di essere creduti da coloro che li hanno mandati, i leader politici e scientifici, i pezzi grossi che hanno costruito quel costosissimo giocattolo dal valore approssimativo di 2.000.000.000.000.000.000,00 $ per ricavarne solo una bella storiella.
Non ci credono. I cinque vengono accusati di essersi inventati tutto, di far parte di un piccolo complotto accademico-industriale che ha falsificato il messaggio un po’ per la gloria, un po’ per il profitto della costruzione della macchina, un po’ per allontanare l’incubo della guerra mondiale dando ai due poli della guerra fredda un obiettivo comune su cui lavorare assieme. La storia di come Ellie ha riabbracciato l’immagine di suo padre viene fatta a pezzi con argomentazioni stringenti:

“lei, per Dio, ha ricevuto la visita del suo defunto padre che le dice che lui e i suoi amici sono stati impegnati a ricostruire l’universo, per Dio. ‘Padre nostro che sei nei cieli…’? Questa è pura religione. Questa è pura antropologia culturale. Questo è puro Freud. Non se ne accorge? Non solo lei dichiara che suo padre è ritornato dalla tomba, lei si aspetta veramente che noi crediamo che abbia fatto l’universo…”
“Lei sta travisando…”
“L’incontro con suo padre in cielo e tutto il resto, dottor Arroway, è significativo, perché lei è cresciuta nella cultura giudeo-cristiana. Lei è l’unica dei Cinque ad appartenere a tale cultura, e lei è l’unica che incontra suo padre. La sua storia è proprio troppo su misura. Non abbastanza fantasiosa.”

Per non perdere la faccia i governi mondiali mettono tutto a tacere, raccontando all’opinione pubblica che c’è stato un piccolo guasto e che riproveranno ad azionare la macchina quando l’avranno capita meglio; e minacciano i cinque di detenzione a vita se violeranno il segreto imposto.
E cosa fanno questi cinque, questi scienziati, che conoscono una verità che non possono provare scientificamente? Beh, se ne fregano del segreto militare, delle intimidazioni e tutto quanto. Perché la verità è più importante.

“Non importa quello che ci dicono di fare. L’importante è che siamo vivi. In seguito, racconteremo la nostra storia – noi cinque – in maniera discreta, naturalmente. Da principio, soltanto a coloro in cui abbiamo fiducia. Ma quelle persone la racconteranno ad altre. La storia si diffonderà. Non ci sarà modo di fermarla.”

Ebbene, se questa non è una catechesi universale, ci si avvicina molto. Non è quello che è successo con il cristianesimo? Persone che hanno fatto un’esperienza straordinaria e l’hanno raccontata ad altre persone, e queste altre persone ad altre ancora, e ancora, e ancora, e la storia si diffonde inarrestabile e cambia letteralmente il mondo. È la catena della fiducia.

Questo succede grossomodo anche nel film, dove la protagonista è l’unica a fare il viaggio e a tornare senza prove, chiedendo di essere creduta sulla base di un leap of faith – che solo Palmer Joss sarà disposto a fare.
Il libro di Sagan, però, non finisce qui, ma ha una conclusione molto più teologicamente impegnativa (che il film ha tagliato; eccheccavolo).
L’alieno con le sembianze di suo padre aveva confidato a Ellie un segreto: anche loro hanno trovato un Messaggio mandato da qualcun altro. Però questo è nella matematica, nel pi greco, nel rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro: una divisione che non ha mai fine, in un numero infinito di cifre. E tuttavia, se continui la divisione abbastanza a lungo, dice l’alieno,

“succede qualcosa. Le cifre che variavano a caso spariscono, e per un tempo incredibilmente lungo non ci sono altro che unità e zeri. E il numero di unità e zeri che si susseguono è uguale al prodotto di undici numeri primi.”
“Mi stai dicendo che c’è un messaggio in undici dimensioni celato in profondità all’interno del pi greco? Qualcuno nell’universo comunica con… la matematica? Ma… dammi una mano, sto davvero facendo fatica a capirti. La matematica non è arbitraria. Intendo dire che il pi deve avere lo stesso valore dovunque. Come si può nascondere un messaggio all’interno del pi? Fa parte della struttura dell’universo.”
“Esattamente”.

Tornata sulla Terra, costretta al silenzio ufficiale sulla sua esperienza, Ellie riprogramma uno dei computer del progetto SETI per cercare anomalie statistiche nelle cifre del pi greco, e infine – proprio nel momento preciso in cui fa un’importante scoperta personale su suo padre, che qui non rivelo – trova ciò che stava cercando:

L’anomalia si manifestava con maggiore evidenza nell’aritmetica a base 11, dove poteva essere trascritta interamente come zeri e unità. Confrontato con quello che era stato ricevuto da Vega, questo poteva essere al massimo un messaggio semplice, ma la sua rilevanza statistica era notevole. Il programma riuniva le cifre in un percorso di scansione quadrato, una quantità uguale da un capo all’altro e sotto. La prima riga era una fila ininterrotta di zeri, da sinistra a destra. La seconda riga mostrava un solo uno, esattamente al centro, con zeri ai lati, a sinistra e a destra. Dopo alcune altre righe, si era formato un inequivocabile arco, composto di unità. La semplice figura geometrica era stata costruita rapidamente, riga per riga, autoriflessiva, ricca di promesse. Emerse l’ultima riga della figura, tutti zeri tranne un solitario uno al centro. La linea susseguente era soltanto di zeri, parte della cornice.
Celato negli schemi che si alternavano di cifre, profondamente all’interno del numero trascendente, c’era un cerchio perfetto, dalla forma tracciata da unità in un campo di zeri.
L’universo era stato creato intenzionalmente, diceva il cerchio
. In qualunque galassia ci si trovi, si prende la circonferenza di un cerchio, la si divide per il suo diametro, si fa un calcolo abbastanza accurato e si scopre un miracolo: un altro cerchio, disegnato chilometri più in giù della virgola decimale. Proseguendo, ci sarebbero stati messaggi più ricchi. Non importa l’aspetto che si ha, o di che cosa si è fatti o da dove si proviene. Finché si vive in questo universo, e si possiede un modesto talento per la matematica, prima o poi la si troverà. E già qui. E all’interno di tutto. Non si è obbligati a lasciare il proprio pianeta per trovarla. Nella struttura dello spazio e nella natura della materia, come in una grande opera d’arte, c’è, scritta in piccolo, la firma dell’artista. Sopravanzando gli uomini, gli dei e i demoni, includendo i Guardiani e i Costruttori dei tunnel, c’è un’intelligenza che precede l’universo.

Logos.


Memento

IL SOLIPSISMO SECONDO WITTGENSTEIN
E IL REALISMO SECONDO MEMENTO


La lettura del libro di/su David Foster Wallace (Fate, Time and Language – an essay oh Free Will) sta andando molto a rilento, sia perché usa un inglese filosoficamente hardcore che mette a dura prova il mio upper intermediate, sia perché offre spunti di riflessione talmente interessanti che ogni poche pagine devo fermarmi per ruminare quanto assorbito. Già solo nell’introduzione di James Ryerson ho trovato materiale per almeno due post, di cui uno è questo.
L’introduzione (se v’interessa la trovate qui) comincia riassumendo il contenuto del libro, poi abbozza una biografia di DFW da giovane, poi parla del suo primo libro La scopa del sistema, poi parla di un argomento ivi emergente ovvero Ludwig Wittgenstein e il solipsismo. E a tal proposito:

For Wallace, the most disquieting feature of the Tractatus was its treatment of solipsism. Toward the end of the book, Wittgenstein concludes, “The limits of my language mean the limits of my world.” This is a natural corollary of the picture theory of meaning: Given that there is a strict one-to-one mapping between states of affairs in the world and the structure of sentences, what I cannot speak of (that is, what I cannot meaningfully speak of) is not a fact of my world. But where am “I” situated in this world? By “I,” I don’t mean the physical person whom I can make factual reports about. I mean the metaphysical subject, the Cartesian “I,” the knowing consciousness that stands in opposition with the external world. “Where in the world,” Wittgenstein writes, “is a metaphysical subject to be found?”
On the one hand, the answer is nowhere. Wittgenstein can’t make any sense of the philosophical self—any talk of it is, strictly speaking, nonsense. On the other hand, Wittgenstein can get some purchase on this question. He draws an analogy between the “I” (and the external world) and the eye (and the visual field): Though I cannot see my own eye in my visual field, the very existence of the visual field is nothing other than the working of my eye; likewise, though the philosophical self cannot be located in the world, the very experience of the world is nothing other than what it is to be an “I”. Nothing can be said about the self in Wittgenstein’s philosophy, but the self is made manifest insofar as “the world is my world”—or, as Wittgenstein more strikingly phrases it, “I am my world.” This, he declares, is “how much truth there is in solipsism.”

Ovvero (mia traduzione alla meno peggio; ho messo in rosso alcuni punti dove gradirei suggerimenti / correzioni):

Per Wallace, la caratteristica più inquietante del Tractatus era il suo trattamento del solipsismo. Verso la fine del libro, Wittgenstein conclude “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Questo è un naturale corollario della teoria raffigurativa del linguaggio: dato un rigoroso rapporto uno-a-uno tra le circostanze del mondo e la struttura delle frasi, ciò di cui non posso parlare (ovvero, ciò di cui non posso significativamente parlare) non è un fatto del mio mondo. Ma dov’è che “io” sono situato nel mondo? Per “io”, non intendo la persona fisica di cui posso concretamente parlare. Intendo il soggetto metafisico, l’Io cartesiano, la coscienza conoscente che sta in opposizione al mondo esterno. “Dov’è nel mondo”, scrive Wittgenstein, “che può essere trovato un soggetto metafisico?”
Da un lato, la risposta è da nessuna parte. Per Wittgenstein un sé filosofico non ha alcun senso; ogni discorso su di esso è , strettamente parlando, insensato. D’altra parte, Wittgenstein può trovare qualche appiglio su questo interrogativo, tracciando un’analogia tra la relazione “io” / mondo esterno e la relazione occhio / campo visivo: sebbene io non possa vedere il mio proprio occhio nel mio campo visivo, l’esistenza stessa del campo visivo non è altro che il prodotto del mio occhio; allo stesso modo, sebbene il sé filosofico non possa essere localizzato nel mondo, l’esperienza stessa del mondo non è altro che ciò che significa essere un “io”. Niente può essere detto circa il sé nella filosofia di Wittgenstein, eppure il sé si manifesta in quanto “il mondo è il mio mondo”, ovvero, come si esprime più marcatamente Wittgenstein, “io sono il mio mondo”. Questo, a suo dire, è “quanto c’è di vero nel solipsismo”.

Ah, il solipsismo.
Ora, devo confessare che io Wittgenstein non me lo ricordo granché bene, però a me non pare che fosse precisamente un solipsista – infatti se ci fate caso sopra non si dice l’esistenza ma l’esperienza del mondo, e le due cose coincidono solo per un solipsista – casomai da tutta l’introduzione evinco semmai l’impressione che sia James Ryerson a essere proprio lui solipsista, ma potrei sbagliare, comunque: il solipsismo.
Puah.
Se seguite questo blog, forse vi siete accorti che io tengo in forte disistima il solipsismo e in genere tutte le forme di idealismo. Buttiamo giù un po’ di nozionismo filosofico for dummies e diciamo rozzamente che ci sono grossomodo due tipi di ontologie (= “che cos’è l’essere? parliamone!”), il realismo e l’idealismo. Mentre per il realismo la realtà oggettiva è indipendente dal pensiero con cui il soggetto conoscente se la immagina / ricostruisce / rappresenta nella propria testa, per l’idealismo la realtà in un certo qual modo dipende dall’idea pensata dall’Io che la rappresenta / la traduce / la crea.
Sennonché, chi diamine è quest’Io? Sono io, sei tu, siamo tutti quanti? Fondamentalmente l’idealismo può essere individuale o collettivo. Il solipsismo è la forma estrema dell’idealismo individuale: ogni individuo, tutto da solo (= solus ipse), crea la realtà che lo circonda, perciò ci sono tante realtà quanti sono gli individui (perciò facilmente il solipsismo coincide con la versione diffusa del relativismo). L’estremo opposto è la filosofia hegeliana, ovvero la realtà è unica ma non perché sia oggettiva, bensì perché è il prodotto di un Io Assoluto rispetto al quale il nostro piccolo io individuale è soltanto una cellula (si ricorda che Hegel è la radice dei vari nazifasciocomunismi, perché la traduzione politica dell’Io Assoluto è precisamente lo Stato totalitario).
Bene, detto questo, professo la mia fede ontologica: io sono un realista. Le cose sono come sono e non come le percepiamo: l’esistenza del mondo non si riduce alla nostra esperienza di esso. Un gatto in una scatola è vivo o è morto, anche se nessuno apre la scatola per controllare. In sostanza, anche se l’analogia io / mondo esterno = occhio / campo visivo è affascinante, il fatto è che il mondo continua a esistere anche quando chiudo gli occhi.

§§§

Ed ecco che, dopo aver scritto l’ultima frase, mi sono ricordato di Memento.
Per chi se lo fosse perso, Memento ( = “ricordati” in latino) è il film che nel 2000 ha reso noto il regista Christopher Nolan. Come anche altri film di Nolan (principalmente Inception, ma da una particolare angolatura anche The Prestige), è basato sulla relazione-opposizione tra la realtà e la percezione, in questo caso quella particolare forma di percezione del passato che è la memoria. Memento, anche se la cosa può passare inosservata di fronte agli altri suoi numerosi meriti, è un film filosofico.
Di più: Memento è un film ontologicamente realista.
Evitando spoiler indesiderati sulla “fine” perché sarebbero un atto abominevole, diciamo solo che tutto si basa sulla contrapposizione tra la complessità labirintica del mondo esterno e la difettosità della ricostruzione soggettiva che ne fa il protagonista, Leonard, il quale perde la memoria a breve termine quando un paio di balordi fanno irruzione notturna in casa sua; Leonard ne uccide uno ma l’altro lo stordisce danneggiandogli il cervello, uccide sua moglie e poi scompare. Tutto ciò che gli succede dopo l’incidente è come scritto sulla sabbia nella sua memoria, che cancella ogni esperienza pochi minuti dopo averla vissuta (questa sindrome pare esista sul serio: ne parla Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello). Ciononostante Leonard insegue il suo desiderio di vendetta e dà la caccia con scopi omicidi all’assassino, l’inafferrabile “John G”, e per superare il suo handicap usa se stesso come post-it vivente tatuandosi sul corpo gli indizi che man mano raccoglie e conservando fotografie commentate di cose e persone, aiutato e/o intralciato nella sua ricerca da estranei, come l’enigmatico Teddy, che agiscono per i più vari motivi.
La particolarità che ha reso famoso il film è di essere girato al contrario, ovvero comincia dalla fine e termina con l’inizio. Più precisamente: se etichettiamo gli eventi della storia in ordine cronologico da A fino a Z, c’è una linea temporale girata a colori che parte da Z e arriva ad M e c’è una linea temporale girata in b/n che parte da A e arriva ad L, e le due linee si alternano sicché il film segue l’ordine

Z A V B U C T D S E R F Q G P H O I N L M

Non vi preoccupate se vi gira la testa, è normale, se poi lo vedete si capisce meglio. La parte in b/n è una serie di brevi flashback dove Leonard parla al telefono e spiega la sua condizione; la parte a colori è la sua “indagine”, la cui struttura a blocchi regressivi mette noi spettatori nella stessa condizione del protagonista, perché ci troviamo scaraventati nel flusso degli eventi senza conoscerne le cause: il che è molto comico, come nella scena della doccia “non mi sento ubriaco…”, oppure è molto drammatico, come quando all’inizio del film – “Z”, cronologicamente la fine – Leonard uccide Teddy, convinto che sia lui John G. Se abbia ragione o no, per capirlo bisognerà arrivare alla conclusione del film – “M” – dopo averlo visto andare avanti tra innumerevoli peripezie seguendo “ordine e metodo” che gli permettono di sopperire alle sue deficienze gnoseologiche.
Bene, perché dico che Memento è un film ontologicamente realista? Innanzitutto perché è lo stesso protagonista a prendere questa posizione. Posto di fronte ai limiti della sua coscienza conoscente, realizza quanto è assurdo porre il proprio Io come pietra angolare del mondo in cui vive. La percezione non è tutto, la memoria non è totalmente affidabile per nessuno: “i ricordi possono essere distorti, sono una nostra interpretazione, non sono la realtà, sono irrilevanti rispetto ai fatti”. A chi gli chiede che senso ha prendere l’assassino di sua moglie, perché “anche se ci riesci, poi non te lo ricorderai, non saprai mai che è successo”,  Leonard replica “mia moglie merita vendetta, che io lo sappia o no è indifferente. Il fatto che io ricordi o meno le cose non toglie nulla al senso delle mie azioni: il mondo continua ad esserci anche se chiudo gli occhi”, e ribadisce la sua ontologia realista nel monologo finale, quando lanciato a gran velocità al volante della sua macchina chiude gli occhi (!) e, mentre immagina un paradisiaco lieto fine in cui ha vendicato sua moglie (“I’VE DONE IT” scritto sul cuore) e lei è con lui, pensa:

Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente. Devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che quando chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci. Allora, sono convinto o no che il mondo continua ad esserci? C’è ancora? (riapre gli occhi alla realtà) Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo. Io non sono diverso. (dimentica quello che gli è successo poco fa) Allora, a che punto ero?

Ma naturalmente la filosofia di vita del protagonista, in generale e particolarmente in questo caso, non può essere automaticamente identificata con la filosofia di fondo del film. Memento è realista non solo e neanche tanto perché Leonard è realista, ma perché la storia mostra la contrapposizione tra l’Io del protagonista e quello che è il grande rimosso del solipsismo: l’Altro, anzi gli altri. Perché la verità è che Leonard, nonostante il suo sistema di ordine e metodo, è terribilmente indifeso di fronte alle complessità della vita e praticamente chiunque si può approfittare di lui. Il gestore del motel dove alloggia gli fa pagare due stanze, la misteriosa Natalie “chiede” il suo aiuto per liberarsi di uno scomodo creditore, e c’è di peggio: a un certo punto Leonard ha dei sospetti ed esclama “c’è qualche stronzo che vuole farmi uccidere la persona sbagliata!”, ma naturalmente se ne dimentica. E poi c’è Teddy, il misterioso comprimario che conosce molto bene Leonard (ma come?) e lo aiuta a tirarsi fuori da un paio di guai (ma perché?), e in cambio ha ricevuto / riceverà in “Z” una pallottola in testa in quanto identificato come John G (è vero?). Il rapporto tra Leonard e Teddy è chiarito soltanto alla fine del film ovvero all’inizio dell’indagine, in “M”, in un confronto che non è esagerato definire epistemologico (segue spoiler-spiegazione, evidenziate se volete leggere a vostro rischio e pericolo): §→ Teddy, ovvero John Edward Gammell, è il poliziotto che si era occupato dell’irruzione in casa di Leonard. Da quello che dice Teddy emergono diverse ipotetiche verità dei fatti:

•    che Leonard ha già trovato e ucciso il vero John G ma non se lo ricorda;

•    che non c’è nessun John G perché quella notte c’era solo un balordo, quello che aveva già ucciso sua moglie prima di essere ucciso da Leonard che poi ha battuto la testa scivolando in bagno;

•    che sua moglie in realtà era sopravvissuta all’aggressione ed è lui stesso ad averla uccisa per sbaglio, con una serie di ripetute iniezioni di insulina, e poi ha trasferito il ricordo troppo doloroso nella storia immaginaria di “Sammy Jankis” (un precedente caso di perdita di memoria a breve che Leonard racconta nei flashback in b/n), mentre ha alienato il senso di colpa sull’irreale John G a cui dare la caccia.

Tutte queste ipotesi sono possibili e nessuna è certa, fatto sta che da allora Teddy sfrutta Leonard mettendolo su una pista dopo l’altra onde fargli uccidere gente per i propri fini personali. Infatti in “L”, l’ultimo pezzo in b/n, vediamo Leonard strangolare Jimmy Grantz, il fidanzato di Natalie e l’ultimo dei John G designati (uno dei tatuaggi dice che il nome John poteva anche essere James), mandatogli da Teddy che compare a omicidio compiuto per rubare i soldi del morto. Ma Leonard ha capito da un particolare che Jimmy non è il “vero” John G e affronta Teddy, il quale gli dice cose contraddittorie da cui si ricavano le ipotesi qui sopra e soprattutto gli propone una visione decisamente relativista della vita: quando Leonard dice che Jimmy “non era l’uomo giusto”, l’altro risponde “lo era per te… tu non vuoi sapere la verità, tu crei la tua verità… tu vivi in un sogno”. Teddy non nasconde di ricavare un utile dalla caccia ai John G, ma al tempo stesso afferma di farlo per il bene di Leonard, perché fabbricandogli queste verità fittizie gli dà uno scopo di vita. Da spettatori possiamo pensare che ci sia un po’ di sincerità almeno in questa pretesa di buona fede… oppure possiamo pensare che in sostanza Teddy sta incoraggiando in Leonard una visione solipsista perché sa che questo è il miglior modo per sfruttarlo, perché tanto più intensamente crediamo che il nostro io sia il centro del nostro mondo, quanto più facilmente possiamo diventare burattini mossi da qualcun altro.

La nemesi per Teddy è che lui stesso è anagraficamente un altro John G; Leonard, per porre fine a questa catena di cacce all’uomo in cui il suo manipolatore lo ha intrappolato, gli rivolge contro il suo stesso meccanismo relativistico di creazione della verità. Sapendo che dimenticherà inevitabilmente l’epifania che ha appena avuto, segna come indizio da tatuarsi il numero di targa di Teddy, prevedendo che prima o poi “scoprirà” che John Edward Gammell è John G e lo ucciderà, come infatti è accaduto / accadrà in “Z”. ←§ Dopodiché si lancia nella corsa al volante a occhi chiusi e fa il monologo già descritto sopra, e dimentica l’esperienza precedente, e il film finisce.

Ed ecco allora perché l’assioma di (Ryerson che spiega) Wittgenstein per cui «l’esperienza stessa del mondo non è altro che ciò che significa essere un “io”» è falso: non è solo e neanche tanto l’esistenza del mondo ad essere indipendente dal nostro io (questo richiederebbe in un certo senso un atto di fede: Christopher Nolan ha affrontato anche questo problema ontologico in Inception – prima o poi ci farò un post…); è che proprio l’esperienza del mondo, il nostro continuo accumulare percezioni e ricordi di ciò che ci accade, non può essere ridotta al nostro io perché dipende sempre in qualche modo anche (e forse soprattutto) dagli altri. Può essere un bene o un male, ma così è. Gli altri sono a volte un paradiso e a volte un inferno, ma inevitabilmente sono, ci sono: agiscono, ci aiutano, ci intralciano, ci amano, ci odiano, ci salvano, ci uccidono, e tante altre cose.
Io non sono il mio mondo, io non potrò mai essere il mio mondo, perché nel mondo e anche nel “mio” mondo (la piccola parte di mondo che vivo) ci sono anche gli altri io. Oltre il mio ego ci sono gli altri, anche se questo non a tutti fa piacere. Il solipsismo è fondamentalmente un’auto-gratificazione per egocentrici: nessuno è il proprio mondo, tutti siamo un po’ il mondo di qualcun altro e viceversa.
Nessun uomo è un’isola, nessun io è un mondo a sè.

Ricordatevelo.


Elogio del dubbio

ELOGIO DEL DUBBIO

 
Sorpresi, eh?
 
In un post precedente ho trascritto una storiella didascalica raccontata dallo scrittore David Foster Wallace durante un discorso di fronte a dei neo-laureati. Devo purtroppo constatare che nei commenti successivi il significato della storia è stato quasi completamente ignorato o frainteso.
Vediamo cosa diceva Wallace nel suo discorso:
 
È facile analizzare questa storiella secondo i criteri classici delle scienze umanistiche: la stessa identica esperienza può significare due cose completamente diverse per due persone diverse che abbiano due diverse impostazioni ideologiche e due diversi modi di attribuire un significato all’esperienza. Siccome diamo grande valore alla tolleranza e alla diversità ideologica, la nostra analisi di stampo umanistico non ci consente nel modo più assoluto di dire che l’interpretazione dell’uno è vera e quella dell’altro è falsa o disdicevole. Il che va benissimo, solo che così facendo trascuriamo puntualmente l’origine di tali impostazioni e credenze individuali, la loro origine, cioè, all’interno di quei due tizi. Quasi che l’orientamento di fondo di una persona rispetto al mondo e al significato della sua esperienza fosse cablato in automatico, come l’altezza o il numero di scarpa, o assorbito dalla cultura come la lingua. Quasi che il nostro modo di attribuire un significato non fosse questione di scelta personale e deliberata, di decisione consapevole.

Messa così, potrebbe sembrare una specie di elegia del relativismo: c’è chi la pensa in un modo, c’è chi la pensa in un altro, stop. Ma vediamo come continua.
 
C’è poi la questione dell’arroganza. Il non credente liquida con estrema petulanza e sicumera l’eventualità che gli eschimesi avessero qualcosa a che fare con la preghiera di aiuto. D’altro canto i credenti che mostrano un’arrogante sicurezza nelle loro interpretazioni non si contano nemmeno. E forse sono anche peggio degli atei, almeno per la maggior parte di noi qui riuniti, ma il fatto è che il problema dei dogmatici religiosi è identico a quello dell’ateo della storiella: arroganza, convinzione cieca, una ristrettezza di idee che si traduce in una prigionia completa al punto che il prigioniero non sa nemmeno di essere sotto chiave. Il punto secondo me è che il mantra delle scienze umanistiche – «insegnami a pensare» – in parte dovrebbe significare proprio questo: essere appena un po’ meno arrogante, avere un minimo di «consapevolezza critica» riguardo a me stesso e alle mie certezze… perché un’enorme percentuale delle cose di cui tendo a essere automaticamente certo risultano, a ben vedere, del tutto erronee e illusorie. Io l’ho imparato a mie spese e altrettanto, ho il sospetto, toccherà a voi.
 
Questo cambia decisamente la prospettiva.
Il problema dell’ateo della storia è molto semplice: non sa o non vuole dubitare. Di fronte a quella che potrebbe essere o non essere una coincidenza, non si interroga minimamente, non mette in discussione le sue certezze (anche se forse lui le chiama “opinioni”, fa più modesto), non si chiede se la verità sia da qualche altra parte, insomma non ha il minimo dubbio. Lui sa già che Dio non esiste e che “tutta quella roba” non è vera; la sua preghiera disperata viene archiviata come un momento di debolezza, il giusto ordine del mondo (Io Ateo Intelligente. Tu Credente Cretino) viene ripristinato, e basta. Tutto torna come prima.
Se avesse dubitato. Se avesse preso davvero in considerazione quell’altro punto di vista, la possibilità che ci fosse Qualcuno che lo ha ascoltato. Se.
 
Che cosa sarebbero gli uomini senza la capacità di dubitare, di questionare le loro certezze pregresse, di cambiare idea? Sarebbero incatenati per sempre alla stessa visione del mondo, a prescindere dal suo essere vera o falsa. Un automatismo inamovibile, ineluttabile come la lingua d’origine che abbiamo imparato da bambini o i tratti genetici che abbiamo ereditato dai nostri avi. Una prigione invisibile, indistruttibile, inescapable. Non ci sarebbero conversioni, non ci sarebbero missionari, la Chiesa non sarebbe mai esistita. Sarebbe un mondo terribile. In un mondo così io non sarei mai diventato, da anticlericale che ero, cattolico. Brrrr.
Mi rendo conto che può suonare bizzarro, ma leggendo i Vangeli mi pare di trovare vari esempi positivi di dubbio, di gente che mette in discussione il vecchio modo di pensare per interrogarsi sulla persona e sulle parole di Gesù:
 
«Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?»
«Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?».
«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?»
Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?».
Quello si alzò e subito presa la sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!»
Gli replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?».
«Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?»
«Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai?
«Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?»
«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?»
 
Dubitare. Dubitare. Dubitare.
Ma che cos’è davvero il dubbio?
Oggi siamo circondati da filosofi alla moda che si riempiono la bocca sull’importanza del dubbio, anzi del Dubbio. Il dubbio è bene, perciò dobbiamo dubitare di tutto. Bisogna mettere tutto in discussione, sempre. Le certezze assolute uccidono, solo il relativismo salva la democrazia.
Che montagna di stronzate. Che clamoroso inganno. Che trucco fantastico per non capire e non far capire proprio un cazzo di niente sul mondo e sulla vita.
Il dubbio non serve a dubitare e basta: serve a passare da una presunta verità ad una verità effettiva. Il dubbio è un mezzo, non è un fine; è un processo, non è uno stato; è un viaggio, non è una destinazione. Il dubbio è il bulldozer che spiana le macerie di un vecchio palazzo, affinché si possano costruire solide fondamenta per quello nuovo. Il dubbio è la vanga che smuove le zolle di terra di un campo incrostato di false certezze, affinché il seminatore possa piantare nel profondo il seme che porta molto frutto. Il dubbio è l’anticorpo che cura la malattia, affinché il malato possa guarire e stare bene senza più medicine.
Quando sento il relativista medio vantarsi di non avere certezze ma solo dubbi, e vedo la gente intorno annuire con ammirazione (è così modesto…), mi sembra di sentire qualcuno vantarsi di essere perennemente malato e farmacodipendente; vedo un homeless orgoglioso di viaggiare sempre e non arrivare mai; sbriciolare la roccia per abitare torri di sabbia, zappare il pomeriggio per sradicare ciò che si è seminato la mattina, eccetera eccetera. Le metafore non sono abbastanza per esprimere l’assurdo e  la ridicolaggine del dubbio eretto a sistema totale.
Se il dubbio è il contrario dell’arroganza, allora il vero dubbio è umile. Non si bulla della propria grandezza e non erige statue a sé stesso. A volte non bussa prima di entrare, ma saluta sempre tutti prima di uscire. Fa quello che deve fare e quando ha finito si fa da parte e guarda soddisfatto il risultato. Il dubbio è l’apripista di sua sorella maggiore, che è la verità.
Avercene più spesso, dubbi così.
 
 
Dio mio, ti ringrazio perché mi hai fatto capace di dubitare. Quando ero lontano da te e non ti conoscevo, ero intrappolato nelle certezze sbagliate di un edificio intellettuale in rovina. Dei dubbi me ne hanno fatto vedere le crepe, dei dubbi mi hanno indicato la via di fuga, dei dubbi mi hanno condotto fino a te. Ho dubitato, ho dubitato, ho dubitato, e alla fine ho trovato la verità indubbia: ho trovato te, e in te ho trovato anche me stesso.