Libero arbitrio in libero Stato,
ovvero
Manifesto per
la laicità cattolica
Avvertenza: questo post (per compensare il silenzio mantenuto finora) è lungo, denso, verboso e concettoso, pretenzioso e filosofeggiante. Insomma mi ci sono applicato, e non ho neppure detto tutto quello che ho da dire sull’argomento. Scusate tanto, sono fatto così.
Una delle prime cose che gli studenti di giurisprudenza imparano (o non imparano) nel corso di Teoria generale del diritto, infelicemente ribattezzato dopo la riforma universitaria Metodologia delle scienze giuridiche, è una simpatica formula secondo la quale il diritto esiste ne cives ad arma veniant; ovvero affinché le persone non vengano alle armi per risolvere i propri conflitti, essendo protette da leggi e tribunali contro la prepotenza altrui. Insomma, non il diritto della forza ma la forza del diritto. A questo scopo l’autorità sociale (che nel presente momento storico è lo Stato) emana delle norme, ovvero dei precetti rivolti alle persone che le obbligano a tenere un certo comportamento (si devono pagare le tasse, non si deve uccidere, il tale contratto va stipulato per iscritto) e che se trasgrediti provocano una sanzione variamente configurata (la prigione, il pagamento di denaro, l’invalidità o l’inefficacia di un atto giuridico). La norma giuridica necessita ineluttabilmente di una sanzione che garantisca l’osservanza del precetto, e il relativo potere coercitivo è affidato allo Stato e solo ad esso. È comune tra i teorici del diritto la costruzione della norma come di un periodo ipotetico: se A, allora B; se si viola il precetto, si è puniti con la sanzione.
Ma ecco un’altra elegante frase latina: cogitationis poenam nemo patitur. L’ho appresa studiando diritto penale, e significa che lo Stato non può punire la semplice intenzione di commettere un illecito. Sia perché la psiche interna di un individuo è indagabile con estrema difficoltà (a meno che non si possieda l’abilità della Psicopolizia di 1984), sia perché l’allarme sociale è attualmente inesistente fintantoché il reato resta solo un desiderio, per quanto ardente, nella mente dell’eventuale autore. È solo quando egli compie un atto materiale (che può anche essere la semplice istigazione verbale affinché qualcun altro commetta qualcosa, o l’omissione di un atto da lui dovuto) che sorge la punibilità, foss’anche a titolo di tentativo. Questo principio di materialità è cristallizzato nel diritto penale, ma può essere esteso a tutto il sistema giuridico dello Stato.
Della norma giuridica, dunque, posso dire che:
a) proviene non dalla volontà dell’individuo ma da un’autorità superiore, la quale è dotata di potere coattivo per costringere all’obbedienza. Nella democrazia liberale questa caratteristica è attenuata, perché la norma è espressione della volontà collettiva, ma non eliminata perché l’individuo dissenziente è comunque tenuto al rispetto della legge.
b) riguarda non tanto la volontà interiore delle persone (che nel suo nucleo più intimo, per quanto educabile, è incoercibile – questa distinzione però non è condivisa da tutti, e porterebbe a discutere di plagio e indottrinamento), ma la loro condotta materiale. Non che la prima sia insignificante: ma essa rileva proprio in quanto presupposto della seconda.
Non a caso ho voluto descrivere, di tutte le caratteristiche della norma giuridica, proprio queste due che hanno a che fare con la volontà. Ma andiamo oltre.
Passiamo alla norma morale. Il mio preferito tra i filosofi non credenti, Immanuel Kant, nella Critica della ragion pratica definisce morale autonoma quella che deriva dalla volontà umana libera e non influenzata, soggetta a null’altro che alla propria ragione; viceversa la morale eteronoma deriva da fattori esterni come il comando divino oppure il piacere personale.
In quest’ultima si realizza un imperativo ipotetico: se vuoi ottenere questo, devi fare quest’altro; sicché il fine della volontà non è il bene, ma l’oggetto ulteriore desiderato. Coerentemente il filosofo di Königsberg non assegna alla norma eteronoma un vero valore morale, poiché l’atto compiuto per un secondo fine (sia esso il Paradiso, l’evitare la galera, la soddisfazione del proprio ventre o del proprio intelletto) non è intrinsecamente buono. È solo nella morale autonoma che si realizza quella legge morale che, al pari del cielo stellato, “riempie l’animo di ammirazione e venerazione”: l’imperativo categorico dal valore assoluto e universale, non condizionato da alcun utile personale. Devi fare questo perché devi farlo, perché la ragione ti dice che è bene, pur se non ne ricaverai nulla.
Questo è quanto mi dice la memoria e mi conferma il mio vecchio libro di testo. Mi permetto, dal basso della mia cultura filosofica da liceo classico arricchita da letture personali, di avanzare alcune osservazioni. Innanzitutto la struttura dell’imperativo ipotetico è proprio quella che i teorici di diritto assegnano alla norma giuridica, la quale dunque rientra nella definizione kantiana di eteronomia. Il cittadino forse osserva la legge anche perché la vuole osservare, ma sicuramente vuole evitare di essere punito ed è su questo timore che lo Stato fa leva; giustamente, perché affidarsi esclusivamente al buon cuore degli individui garantirebbe una brevissima pace sociale.
Sarebbe inoltre bello riflettere sul fatto che il cristianesimo, che non è e non vuol essere definibile come razionale secondo i criteri illuministi, non per questo può essere rigettato in blocco come irrazionale; piuttosto si configura come metarazionale, che va oltre la ragione ma non la contraddice (assunto che l’illuminismo non accetta, guai a deviare di una sola virgola dalla razionalità pura); e da qui si va alla distinzione del cardinale Newman tra razionale e ragionevole, all’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et Ratio, e a tante altre belle cose che mi conservo per un’altra notte insonne.
Ma la cosa che mi sta più a cuore adesso è quella distinzione secca tra autonomia ed eteronomia della morale. Se proviene dalla volontà razionale dell’individuo è autonoma, se proviene da un ente superiore è eteronoma. Con tutta la stima per il buon Kant, che spero sinceramente di incontrare dall’altra parte, vorrei provare qui a superare il suo rigido aut-aut e definire la morale cattolica, che contempla il libero arbitrio, come una morale eteronoma che diventa autonoma.
La diatriba tra determinismo e libero arbitrio è una questione filosofica e teologica che muove da millenni (credo sia dai tempi delle controversie di Sant’Agostino contro i manichei prima e Pelagio poi, fino all’opposizione unanime contro il determinismo calvinista, che nella Chiesa si discute e si questiona) e non sarò certo io a risolverla una volta per tutte. Mi prenderò in futuro un po’ di spazio per parlarne diffusamente e spiegare perché, l’ho detto fin dall’inizio, credo nel libero arbitrio e rifiuto il determinismo: qui mi limiterò a esporre certe mie riflessioni sulla libertà e preminenza della volontà umana.
“Ama e fa’ ciò che vuoi”. Quant’è meravigliosa questa frase dell’Ipponate. Quant’è semplice. Quant’è completa, perché contiene tutto: la libertà e il comandamento dell’amore,
la Grazia
e la volontà. Quant’è complessa, perché è una frase che si presta a pericolosi fraintendimenti: quelli operati da qualche elitaria setta gnostica del passato (siamo così puri che possiamo permetterci di fare ogni cosa, qualsiasi schifezza, tanto nulla può contaminare gli eletti) e quelli affermati da qualche consolatorio protestantesimo che esaltando la fede svaluta le opere (C.S. Lewis nel Cristianesimo così com’è, mettendo in guardia da questa teologia, la sintetizza così: “pecca pure, figliolo, vai e divertiti, e il sangue di Cristo risolverà tutto”). Del resto sono secoli che Sant’Agostino se lo contendono cattolici e protestanti.
Ma il senso della frase è ben altro: chi ama Dio può davvero fare tutto ciò che vuole, perché la sua volontà non si dirigerà mai verso qualcosa che offende Dio, verso il male. È la libertas maior che si coniuga con
la Grazia
, che nel racconto biblico godevano Adamo ed Eva prima del peccato originale, che limitatamente sperimenta in questa vita chi è in stato di grazia e definitivamente assaporano nell’altra i santi ormai cristallizzati nell’eterna beatitudine. Libertas maior, ovvero scegliere tra diversi tipi di bene, che si distingue dalla libertas minor ovvero scegliere tra il bene e il male.
Parlando precedentemente di Amadeus, il film di Milos Forman, avevo criticamente stigmatizzato il personaggio di Salieri: “uno che segue i precetti di Dio, ma non esattamente per amore di Dio, e s’infuria quando vede uno che non li ha mai seguiti ed è trattato meglio di lui. La sua fede è prettamente utilitaristica, legata ai vantaggi materiali che egli consegue o crede di conseguire in virtù di essa”. Kantianamente parlando, questa è una morale puramente eteronoma: faccio il bene non perché la mia intima volontà tende al bene, non perché amo Dio, ma per ottenere un utile terreno o celeste. Torno a dire che non è così che si deve vivere la religione, che questo è un subdolo e insidioso pseudo-cristianesimo. Il comandamento supremo è il comandamento dell’amore: amare Dio e amare il prossimo. Da esso seguono consequenzialmente tutti gli altri. Il “rapporto causa–effetto”, se così si può definire, va invertito: il vero cristiano non vuole il bene come fine strumentale per poi andare in Cielo, il vero cristiano va in Cielo come conseguenza per l’aver voluto il bene.
La volontà è più importante anche del comportamento materiale: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.” Ed io sono fermamente convinto che questa frase di Cristo, benché rivolta all’adulterio, sia estensibile a tutto il resto. La morale cristiana non si ferma superficialmente alla condotta esterna, ma coinvolge il più intimo nucleo interiore dell’uomo, il suo cuore, ovvero la sua volontà. La esatta formulazione del comandamento non è “non devi rubare, non devi fornicare, non devi uccidere”, ma bensì “non devi voler rubare, non devi voler fornicare, non devi voler uccidere”. Voler peccare è già peccare: il resto è conseguenza.
Ma come si fa a dire “devi volere”? Non si tratta di un ossimoro? La volontà è incoercibile. L’amore, che è la base su cui si edifica la costruzione morale cristiana, è incoercibile. Nessuno può obbligarmi ad amare Dio e amare i miei simili, neppure Dio stesso (che altrimenti violerebbe le regole che si è dato). Il mio corpo può essere costretto con le catene; il mio animo può essere intimorito dalla minaccia; il mio intelletto può essere educato, finanche ingannato; ma la pura volontà e l’amore non possono essere oggetto di obblighi.
Siamo arrivati al dunque. Nel momento in cui io scelgo di amare Dio e volere il bene, la morale eteronoma diventa autonoma. Per chi esercita la libertas maior (gli angeli che non sono caduti, i beati in cielo, le anime purganti) essa lo è ormai definitivamente; per chi si trova nella libertas minor (noi, Chiesa militante in terra, in ogni momento della nostra vita fino al momento ultimativo della nostra morte) essa lo diventa con l’atto di volontà, che è innanzitutto volontà d’amare. Quando avviene l’interiorizzazione del comportamento virtuoso, esso non è più un mero comando, ma un fine della nostra volontà che si è armonizzata alla volontà divina e con essa vibra all’unisono.
Della norma morale cattolica, dunque, posso dire che:
a) proviene dall’autorità superiore di Dio, ma diventa autonoma nel momento in cui la volontà dell’individuo liberamente acconsente, scegliendo di conformarsi ad essa e farla propria.
b) riguarda non tanto la condotta materiale delle persone, ma la loro volontà interiore. Non che la prima sia insignificante: ma essa rileva in quanto conseguenza della seconda. “Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie”.
La conclusione, a questo punto, è palese: il diritto dello Stato e la morale cattolica sono incommensurabili e speculari. Non limitiamoci a usare la parola “separati”, che può essere intesa in tanti modi differenti (alcuni dei quali oltremodo inesatti); diciamo che essi si pongono su due piani nettamente distinti. L’uno ha riguardo al comportamento materiale, e può efficacemente influenzarlo perché è dotato di sanzione. L’altra si rivolge alla volontà interiore, ma può solo fare appello al libero arbitrio perché non esiste coercizione all’amore. Ebbene, la laicità non è altro che avere sempre a mente tale differenza essenziale.
Ma se il diritto statale e la morale cattolica sono nettamente distinti, non per questo sono assolutamente distanti (scusate: i giochi di parole esercitano un fascino perverso su di me). In molte questioni, essi si troveranno a convergere. Non coincidere: convergere, ovvero arrivare alla stessa conclusione da origini diverse. Per esempio, l’articolo 575 del codice penale punisce chiunque cagiona la morte di un uomo con la reclusione non inferiore ad anni ventuno, e l’articolo 56 punisce il tentativo in tal senso; ma l’articolo 115 dichiara non punibili, salva l’applicazione di misure di sicurezza, l’accordo e l’istigazione a commettere un reato che poi non sia stato effettivamente commesso. Specularmente, il quinto comandamento prescrive di non uccidere, ma l’ho già violato se ardentemente desidero la morte del mio prossimo. In questo caso (come in molti altri) il peccato e il reato hanno lo stesso oggetto, ma ciascuno nel proprio ordine e per i propri motivi. Il che già basterebbe per criticare chi in Italia, per ovvi motivi politici, usa l’aggettivo “laico” come se fosse l’opposto di “cattolico”.
D’altra parte, ci sono molti altri svariati esempi in cui ciò che è peccato non è reato, e viceversa. Ed è giusto che sia così: né
la Chiesa
può obbligare all’amore per Dio e per il prossimo; né lo Stato può pretendere di avere dominio sull’anima del cittadino oltre che sul suo corpo, se non vuol essere uno Stato totalitario (figlio dello Stato etico di matrice hegeliana). Avevo di sfuggita citato all’inizio
la Psicopolizia
di 1984; adesso copio un paragrafo dal libro nel libro, “La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico” di Emmanuel Goldstein, il libro proibito che il protagonista Winston Smith legge poco prima del suo arresto:
Paragonate con quella in atto ai nostri giorni, tutte le tirannie del passato si debbono considerare fiacche, mantenute su compromessi, e soprattutto inefficienti. I gruppi di governo erano sempre più o meno partecipi di ideologie liberali e tolleravano scappatoie d’ogni genere, giudicando solo degli atti materiali e palesi e disinteressandosi di quel che i sudditi effettivamente pensavano dentro le loro coscienze. Persino
la Chiesa Cattolica
del Medio Evo, considerata secondo lo standard odierno, era abbastanza tollerante. Tra le ragioni per questo comportamento c’era anche quella che i governi del passato non avevano il potere e i mezzi di tenere i cittadini sotto una sorveglianza costante e continua. L’invenzione della stampa, tuttavia, rese più semplice il compito di manipolare l’opinione pubblica, e il cinematografo e la radio perfezionarono non poco tale tecnica e ne accrebbero le possibilità. Con l’invenzione e lo sviluppo della televisione, e il progresso tecnico che rese possibile di ricevere e trasmettere simultaneamente sullo stesso apparecchio, il concetto di vita privata si poteva considerare del tutto scomparso. […] La possibilità d’ottenere non solo una totale ubbidienza alla volontà dello Stato, ma anche una completa uniformità di vedute su tutti gli argomenti, esistette, da allora, per la prima volta.
La considerazione della Chiesa come di una precorritrice dei regimi totalitari, che ne avrebbe raggiunto le stesse vette di oppressione se solo avesse avuto gli strumenti adatti, è ricorrente nel libro di Orwell ed è comune del resto a un bel po’ di pensatori liberali e socialisti; ma le discussioni storiche (senza acquiescenze alle varie “leggende nere”, ma anche senza tentazioni d’insostenibile revisionismo) teniamocele da parte. Diciamo solo che lo Stato totalitario, così come la teocrazia stile sharia islamica, sono incompatibili con il libero arbitrio e con la laicità. In questo frangente politico, tuttavia, entrambe queste forme di assetto statale sono (nonostante le lamentele di clerical harrassment da parte della Bonino) abbastanza lontane e decisamente improbabili. Troppo vicina, semmai, è la tentazione del laicismo, che è un modo scorretto di intendere la laicità di cui spesso e volentieri usurpa il nome (vero, Luzzatto?).
Ma questa è per un’altra volta, ché oggi ho messo già abbastanza carne al fuoco, e non so chi avrà la pazienza di digerirla tutta. Per adesso spero solo di avervi dato, se siete arrivati a leggermi fino alla fine, un’idea di quanto io consideri importante il libero arbitrio.