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Guidare col TomTom nel giardino dei sentieri che si biforcano

Da leggere e assaporare l’articolo di Diego Gabutti su Italia Oggi. Prendendo le mosse da un libro mezzo saggio storico e mezzo gioco ucronico (“La storia con i se. Dieci casi che potevano cambiare il corso del Novecento”) Gabutti sfotte di gusto Hegel, Benedetto Croce, lo storicismo e l’arroganza degli storicisti: cioè quella legione di pensatori tanto sicuri che la Storia è destinata ad andare proprio così e giammai cosà, perché le magnifiche sorti e il sol dell’avvenire e il progresso, signora mia, il progresso.
Lo leggo con piacere, approvo al 99% pressappoco, ma c’è un punto percentuale che mi stona: nel mazzo degli storicisti Gabutti – di cui ignoro la fede, e non capisco se un omonimo o il medesimo delle Altre ipotesi su Gesù (a naso direi il medesimo, lo stile di scrittura combacia) – ci butta dentro pure “le religioni, cristianesimo in testa” perché per esse la storia è “un treno in corsa verso le consolazioni e i castighi dell’aldilà”.

 Ma caro Gabutti, l’aldilà non è nella storia, è per definizione dall’altra parte! Rispetto alla storia è il post scriptum, il dopo i titoli di coda. L’aldilà arriva quando la storia è finita. Della fine della storia, al netto della simbologia apocalittica, sappiamo più meno che più: né il giorno né l’ora, né il come né il percome, appena il chi (tutti quanti) e il perché (entropia, se non altro). E su quello che ci sarà prima della fine, poi, un bel boh a forma di punto interrogativo. Di certo e sicuro c’è ben poco, solo che la Chiesa resisterà fino alla fine, per quanto – chiedendo Gesù retoricamente se troverà ancora la fede – sarà, probabilmente, ridotta al lumicino.
Proprio perché l’hegelismo e i suoi derivati, marxismo in testa, sono una religione rovesciata dove l’Uomo pretende di farsi dio, è lo storicismo ad essere la caricatura della provvidenza e non viceversa. La Provvidenza, quella vera, non è la Psicostoria di Asimov, dove un’equazione matematica determina quasi infallibilmente (evviva il Mulo!) il futuro di tutto quanto il fantastiliardo d’esseri umani della Galassia.
La volontà onnipotente di Dio deve arrangiarsi a fare i conti con il nostro libero arbitrio, e a chi dice che questa non è onnipotenza, rispondo che Dio è così onnipotente che può addirittura autolimitarsi: l’ha deciso, poteva farlo, l’ha fatto.

La Provvidenza è come un TomTom.
Tu guidi la tua vita e quella guida te, ha già mappato ogni percorso, tutto l’infinito dei compossibili, ogni assurdo universo, e ti vuole portare a destinazione nel miglior tragitto possibile. Poca benzina, minimo tempo, microscopica usura del mezzo: una pacchia, magari fosse.
Ma poi ci sono gli ostacoli. Trovi l’ingorgo. Distrattone, hai mancato la traversa giusta, dovevi girare di là e invece sei andato di qua. Oppure la vettura ha un sussulto di troppo e non avevi attaccato bene la ventosa e il TomTom si stacca e cade – quante volte m’è successo – ma ormai stai guidando e non puoi fermarti in mezzo al traffico né rischiare un incidente per raccoglierlo contorsionisticamente e allora pazienza, m’arrangio da solo, tanto ormai ho capito, la strada la so. Sì, sì, bravo, poi vedi. Oppure dici sai che c’è, ma chi l’ha detto che il TomTom ha ragione, perché mi devo fidare dei programmatori, che ne sanno loro, io voglio fare da solo l’esperienza, statti zitto fastidioso aggeggio ti spengo e la strada giusta la decido io, al limite chiedo a qualche tizio per strada che pare affidabile (si chiama Berlicche, ma questo non te lo dice).
Deviazione.
E il TomTom traccia un nuovo miglior percorso. Hai allungato un po’, ma se gli dai retta puoi ancora fare presto e bene. Ma non gli dai retta, o non riesci a sentirlo. Così altra deviazione. E poi ancora un’altra. Di nuovo. Di nuovo. Di nuovo. Ma come ho fatto ad arrivare all’autostrada? Ma all’inizio non avevo settato evita strade a pedaggio?
Paga.
Spia rossa. Devi fermarti e dire addio a un pregevole esemplare di architettura rinascimentale su sfondo arancione.
Paga.
Hai visto l’autovelox? No? Pazienza, lui ha visto te.
Pagherai.
Doveva essere il miglior percorso possibile, ti sembra di stare facendo la Parigi-Dakar.

Eppure il TomTom potrebbe ancora aiutarti. C’è ancora una via per arrivare dove volevi andare, forse non sarà breve e piacevole, ma è pur sempre il meglio che la geografia e la cartografia ti mettono a disposizione in questo stramaledetto, labirintico, multicentrico giardino dei sentieri che si biforcano.

E allora.
Che cos’è l’Incarnazione? Cosa sono il Natale, la Pasqua, la Pentecoste? Cos’è la Chiesa?
È Dio che dice, dopo il peccato originale:

“… RICALCOLO.”

tom tom ricalcolo


Meat Me

LXXXI:         Ma il titolo che significa?

 Claudio:         Si tratta di un gioco di parole che ha senso solo in inglese, una fusione tra i verbi eat e meet, che significano mangiare e incontrare. Il risultato è l’impossibile verbo meat, che non esiste perché meat è un sostantivo che significa carne, nel senso di carne da mangiare, come una bistecca. Il significato del gioco di parole sarà chiaro alla fine del post.

 LXXXI:         Insomma, incontrami + mangiami = “càrnami”. Ma come ti/mi/ci è venuto di fare un titolo così? E a proposito, perché stai/sto/stiamo scrivendo   questo post a mo’ di domande e risposte, se tu sei me e io sono te?

 Claudio:         Mi piacciono i titoli bizzarri, e questo voleva essere un omaggio ad Anthony Burgess. Anche a lui piacevano i giochi di parole. La forma e le riflessioni di questo post sono  ispirate al suo libro “1984 & 1985”, quello che ci/ti/mi ha regalato il commentatore piccic, che ringrazio ancora.

 LXXXI:         Grazie piccic anche da parte mia, cioè sua, insomma nostra, quello che è.

 Claudio:         Il libro è diviso in due parti. La prima è un saggio su 1984 di Orwell, anche se poi il discorso si allarga ad altre famose distopie letterarie, es. Brave New World di Huxley, Noi di Zamjatin, Arancia meccanica di Burgess medesimo…

 LXXXI:         Cosa significa distopia?

 Claudio:         Il contrario dell’utopia. Per utopia si intende una storia ambientata in un luogo immaginario (ou topos = luogo che non esiste) in cui va tutto bene. La distopia parla di un luogo, ma più spesso di un possibile futuro, in cui va tutto male. Peraltro Burgess conia e predilige i termini eutopia (eu = buono) e cacotopia (kakòs = cattivo), ma ormai le parole correnti sono utopia e distopia e perciò usiamo quelle.

 LXXXI:         Forse Burgess ne sarà dispiaciuto.

 Claudio:         Peggio per lui. Comunque, la particolarità della prima parte è che i capitoli sono scritti alternativamente in forma discorsiva e in forma di domanda e risposta. Pensa che all’inizio credevo che fossero una vera intervista, solo che non capivo se lui era la D. o la R., poi ho letto su wikipedia che si era auto-intervistato. Questo mi ha fatto venire l’idea per il post. La seconda parte invece è un lungo racconto distopico ambientato nel 1985, in un’Inghilterra messa in ginocchio dal socialismo, dell’ideologia della totale eguaglianza a tutti i costi che porta all’appiattimento verso il basso, dallo strapotere dei sindacati e dall’avanzante colonizzazione culturale dell’islam.

 LXXXI:         Può darsi che non siamo molto lontani dalla realtà.

 Claudio:         Eh già. Comunque, il libro è molto bello e interessante. Un vero nutrimento culturale, e l’espressione è da intendere alla lettera. Infatti una cosa che mi ha colpito particolarmente è la metafora che Burgess tira fuori a un certo punto a proposito di erbivori e carnivori dal punto di vista gnoseologico. Ne parla nel settimo capitolo della prima parte, “I figli di Bakunin”, una disamina estremamente acuta di quello che oggi chiameremmo giovanilismo. Parte analizzando la figura di Bakunin e il suo impatto sull’anarchismo, che è stato anzitutto un mito giovanile perché “Lo Stato è, e sbadigliamo a dirlo, un’immagine paterna”. Da qui passa all’eterno conflitto generazionale e le sue ricadute politiche: “La causa degli studenti diventa qualsiasi causa universale diventata di colpo urgente. In larga misura, gli studenti ribelli di Parigi del maggio 1968 furono diretti da agitatori adulti. I gruppi giovanili sono macchine utilissime: i giovani possiedono energia, sincerità e ignoranza.” Infatti nel libro 1984 i bambini sono fondamentali per il potere totalitario del Grande Fratello, il quale peraltro “ha il buon senso di non farsi chiamare Padre Nostro.

 LXXXI:         LOL.

 Claudio:         E poi, senti qua:

 In qualsiasi discussione sul futuro politico dei Paesi del mondo libero, dobbiamo prendere in seria considerazione il pericolo che i movimenti giovanili rappresentano per la causa della libertà tradizionale. Questa affermazione sembrerà priva di senso alla gioventù stessa, la quale è convinta di essere l’unica custode della libertà in un’epoca in cui i vecchi sembrano desiderosi di limitarla sempre più. È vero che la vecchiaia cerca di limitare la libertà della gioventù, ma solo perché questa libertà è licenza. Se gli uomini sono nati liberi, è solo nel senso socing che anche gli animali sono nati liberi: la libertà di scegliere fra due modi di azione presuppone la conoscenza di ciò che la scelta comporta. Noi acquistiamo conoscenza tramite l’esperienza diretta, come il bambino che si è scottato ha paura del fuoco, oppure tramite l’esperienza altrui, che è contenuta nei libri. La voce dei neoanarchici è quella del cineasta Dennis Hopper: “Non c’è niente nei libri, amico”, o quella del cantante pop inglese che dice “La gioventù non ha bisogno d’istruzione. La gioventù le cose se le cerca per conto suo”. Il dottor Samuel Johnson, dopo aver ascoltato un esponente del primitivismo, osservava: “Questo è molto triste, signore. Questo è animalesco”. Più che leonino è bovino. Ci vuole molto tempo per ottenere brucando in un prato la proteina che si trova in un rapido pasto di carne. Noi vecchi offriamo la carne dell’istruzione: la controcultura ritorna all’erba.

 LXXXI:         Quando dice che gli hippy tornano all’erba, allude alle canne?

 Claudio:         Non so il testo originale, può essere. Sarebbe un altro gioco di parole tipicamente burgessiano. Ma attenzione ai concetti fondamentali che qui sono espressi. Anzitutto c’è che la libertà presuppone la conoscenza di ciò che è vero; come in Gv 8: 32, “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”; come in 1984, “La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro.” È la verità a fondare la libertà e non viceversa. La libertà non è semplicemente la possibilità materiale di fare questo invece di quello, dire quest’opinione o quell’altra. Se io non so cosa è vero, se non conosco le vere cause e circostanze e conseguenze delle mie decisioni, allora la mia libertà è indebolita, perché non ho tutti gli elementi per compiere una scelta consapevole. Si scopre così che il primo ostacolo che la mia libertà incontra non è il prepotente che vuole opprimermi, ma il mio stesso istinto. Per istinto qui intendo l’impulso atavico a fare senza sapere, fare prima di pensare. Il nemico è dentro di me.

 LXXXI:         Questo mi ricorda quel proverbio Bene Gesserit che dice grossomodo “cerca i tuoi istinti e troverai la schiavitù, cerca la disciplina e troverai la libertà”. È una di quelle simpatiche citazioni con cui iniziavano i capitoli dei libri della saga di Dune.

 Claudio:         La terribile sorellanza non rientra tra le mie autorità morali predilette, ma questa l’hanno centrata. Un sistema di pensiero che ci incoraggia a perseguire la libertà in senso puramente materiale, trascurando l’importanza della verità oggettiva in favore dell’opinione che “decide” cosa è vero, di fatto indebolisce la libertà. Decidiamo senza sapere davvero cosa stiamo decidendo, e spesso (perché siamo ignoranti, perché siamo manipolabili) decidiamo quello che qualcun altro aveva già deciso che dovessimo decidere. Così il liberalismo estremo, la visione anarco-radicaloide, alla lunga si rivela illiberale.

 LXXXI:         Stai forse suggerendo che il paternalismo è una soluzione migliore?

 Claudio:         Dipende da cosa intendi per paternalismo. In linea generale, non voglio un’autorità che ci impedisca di agire, ma che ci avverta di ciò che veramente comporta il nostro agire. È una brutale semplificazione, ma diciamo grossomodo che sono paternalista per il sapere e liberalista per l’agire. Sto parlando insomma di educazione, che è il luogo dove il problema gnoseologico si lega al problema del libero arbitrio. Perché nessuno nasce con la conoscenza innata. Se non sbaglio, l’etimo di educare è tirare fuori. Ma tirare fuori lo si può fare solo, appunto, da fuori. Nessuno può educarsi da solo, proprio come nessuno può tirarsi fuori da un fosso prendendosi da solo per i capelli come faceva il barone di Munchausen­. Abbiamo bisogno di maestri. Ecco la fiducia. Ecco la dietetica conoscitiva di Burgess.

 LXXXI:         Erbivori e carnivori. La metafora cui accennavi all’inizio. “Noi acquistiamo conoscenza tramite l’esperienza diretta, come il bambino che si è scottato ha paura del fuoco, oppure tramite l’esperienza altrui, che è contenuta nei libri … Ci vuole molto tempo per ottenere brucando in un prato la proteina che si trova in un rapido pasto di carne”.

 Claudio:         Esatto. Il paragone cibo-conoscenza mi ha profondamente colpito. Sono andato su wikipedia a dare una rapida occhiata alla pagina sugli erbivori e ho appreso che “il ruolo funzionale dell’erbivoro nella catena alimentare è quello di trasformare le molecole vegetali (cellulosa, amido), in molecole animali (glicogeno), che poi potranno essere assimilate dai carnivori. La loro efficienza di assimilazione è molto bassa a causa della loro posizione anteriore nella catena.” Meravigliosamente affascinante, non trovi? Possiamo costruirci tutta un’articolata metafora nutritiva-gnoseologica.

 LXXXI:         Ok. Giochiamo a costruirla. Mi piacciono le metafore articolate. Se ci fossero anche figure geometriche sarebbe meglio, ma pazienza.

 Claudio:         Terra = realtà. Dico terra nel senso proprio di suolo, quello che abbiamo sotto le scarpe. La realtà come sostanza della conoscenza, substantia, sta sotto.

 LXXXI:         Malkhut.

 Claudio:         Lascia perdere le sephirot. Non complicare il discorso. Dunque, la terra è la realtà. Un terreno può essere fertile o infertile. Terra fertile = realtà conoscibile. I vegetali, strappati direttamente dal suolo, sono la conoscenza “grezza”, basilare, acquisita direttamente per esperienza personale. L’erbivoro gnoseologico è chi conosce fondamentalmente per esperienza. Come dice wikipedia (va’ a sapere se è vero, ma fidiamoci), la sua efficienza di assimilazione è molto bassa. Chi rifiuta per principio l’esperienza altrui, impara poco e male. Ma, al tempo stesso, l’erbivoro è indispensabile, perché la catena alimentare deve pur avere un inizio. Non ho alcuna particolare conoscenza etologica, ma sospetto che un ecosistema composto interamente di carnivori che si mangiano l’un l’altro sia insostenibile. Il carnivoro gnoseologico è chi conosce per fiducia, e come il carnivoro ha bisogno dell’erbivoro, così le catene della fiducia – credo la cosa che mi ha detto x e lui la crede perché gliel’ha detta y che la credeva perché gliel’aveva detta z che eccetera – iniziano sempre da qualcuno che ha fatto l’esperienza. Il discente apprende per fiducia verso il docente, ma il docente, o il docente del docente, ha appreso perché ha sperimentato. Posso credere senza vedere, purché qualcuno abbia davvero visto. Fatti, avvenimenti, incontri. D’altra parte il carnivoro ha un’efficacia di assimilazione molto maggiore dell’erbivoro: io posso imparare in dieci giorni un libro alla cui scrittura l’autore ha lavorato per dieci anni. E forse – mi arrischio a dire una cosa biologica che non so, in caso correggetemi – più lunga è la catena alimentare, più elaborate possono diventare le trasformazioni a cui sono sottoposte le molecole nutritive. Il discente che diventa docente rielabora, approfondisce, migliora ciò che ha “mangiato” del suo predecessore.

 LXXXI:         Ma non stai lasciando fuori qualcosa? Esperienza, fiducia. E dov’è la ragione? Nella tua metafora, come chiami colui che conosce per ragione?

 Claudio:         Lo zappatore.

 LXXXI:         …

 Claudio:         …

 LXXXI:         Mario Merola icona del razionalismo. Mi vergogno di essere te.

 Claudio:         Fammi spiegare. Se la terra fertile è quella parte di realtà che possiamo esperire, la terra infertile è la realtà oltre i nostri limiti percettivi. Il deserto, arido, privo di vita vegetale, è ignoto. Eppure la terra sterile può essere coltivata. Nessun deserto è per sempre. Ci sono animali che mangiano erba o carne o entrambi, ma solo l’uomo coltiva la terra; guarda caso, similmente gli animali fanno esperienze, e si fidano del branco, ma non hanno qualcosa di paragonabile alla nostra razionalità. La ragione è un ampliamento dell’esperienza, perché inferisce dai dati sensibili ciò che sta oltre il nostro piccolo limitato ambito percettivo: studio il passato per sapere il futuro, studio il vicino per sapere il lontano. Il contadino coltiva la terra per trarne frutto, il razionalista coltiva la realtà ignota e la rende nota. “Campi del sapere” è un’espressione assolutamente confacente.

 LXXXI:         Ma l’uomo, in sostanza, che animale gnoseologico è?

 Claudio:         Ah, qui arriviamo al clou. L’uomo è onnivoro. Deve esserlo, se vuole stare bene. Il principio basilare del mio piccolo sistema gnoseologico, quello che chiamo la tridimensionalità della conoscenza…

 LXXXI:         Hai presente quando i filosofi da strapazzo s’inventano nomi altisonanti che complicano idee semplici, per far credere di essere più intelligenti?

 Claudio:         Ehm. Touchè. L’idea è che, se pensiamo a esperienza ragione fiducia come alle tre dimensioni del sapere, la nostra conoscenza si muove sempre in uno spazio 3D. Ma d’ora in poi posso anche chiamarlo teoria dell’onnivoro gnoseologico. Non è che una cosa la sappiamo per esperienza e basta, un’altra per ragione e basta, un’altra ancora per sola fide… Ogni volta che sappiamo una cosa esercitando una di queste facoltà, la dobbiamo corroborare con le altre due. Insomma dobbiamo avere una dieta integrata. Il fideismo e l’ideologia sono l’equivalente gnoseologico dello scorbuto. Chi non mangia verdura fresca si ammala, perde i denti, avvizzisce. L’empiria e il raziocinio sono imprescindibili. È insano credere senza cercare conferme, senza voler capire ciò che è creduto. D’altra parte, chi rifiuta di mangiare carne, per compensare le mancanze proteiche, è costretto ad assumere quantità molto ingenti di vegetali, e non sono sicuro che basti. Chi rifiuta qualunque autorità educativa, è gnoseologicamente denutrito.

 LXXXI:         Sembra tutto molto interessante, ma è lapalissiano dirlo nella mia posizione. Adesso si spiega il titolo. Bella metafora.

 Claudio:         Per noi, non è una metafora.

 LXXXI:         Noi chi?

 Claudio:         Noi cattolici.

 LXXXI:         ?

Claudio:         Vedi, questa metafora del mangiare la conoscenza mi aveva molto impressionato la prima volta che l’ho letta, e l’ho masticata e ruminata – appunto – per un bel po’, prima di capire perché mi colpiva così. Perché è eucaristica. Perché per noi cattolici mangiare la verità non è una metafora, è un sacramento. La verità ci renderà liberi, c’è scritto nel vangelo, ma c’è di più. Cristo non ci ha semplicemente detto che ci stava dicendo la verità: ha detto di essere lui stesso, la verità. La catena della fiducia su cui si fonda la Chiesa comincia con l’esperienza degli apostoli, il loro incontro personale, i fatti che hanno visto e tramandato. Ma questa catena è alimentare nel vero senso della parola, perché si regge su davvero su una serie continua di pasti senza i quali crollerebbe. Se un maestro è uno che si fa metaforicamente mangiare per far assimilare agli altri ciò che lui ha imparato, noi abbiamo un Maestro che si offre letteralmente in banchetto e in olocausto. Il Cristo che nell’eucaristia si rende realmente presente, meetable, incontrabile, si fa anche realmente eatable, mangiabile. Carne. Meat. Una carne, che per fede sappiamo essere sostanzialmente carne, che però alla nostra esperienza sensibile è pane – cioè, fondamentalmente, un vegetale coltivato.

 LXXXI:         Esperienza.

 Claudio:         Ragione.

 LXXXI:        Fede.

 Claudio:         Prendete e mangiatene tutti.


holy shit!!!

E insomma questo tizio ha fatto uno spettacolo teatrale dove butta merda (non si capisce se organica o scenografica) sul Volto di Cristo.
Seguono contestazioni varie che si possono leggere in rete.
Mumble mumble
.
Quello che sto per scrivere potrà non piacere a molti.

Premesso che il tizio è uno stronzo, e che il suo spettacolo fa schifo (non è una valutazione artistica, bensì scatologica), io non prendo parte a tali proteste.
Mi offendo, sì, ed esprimo il mio ribrezzo. Però trovo questa campagna inutile anzi controproducente.
Cosa si vuole ottenere? Vietare a mezzo forza pubblica la rappresentazione teatrale? In quanto estimatore del libero arbitrio, sono decisamente contrario a tali mezzi. Ho il diritto, in certi casi il dovere, di biasimare pubblicamente qualcuno se bestemmia, ma non posso e non voglio impedirglielo.
Ci si aspetta che il disgraziato (nel senso etimologico del termine) interrompa spontaneamente la tournee, pentito e impressionato? Probabilmente il tizio si sta fregando le mani soddisfatto per la pubblicità gratuita, e spera che la campagna continui sempre più intensa. Forse era quello che si augurava fin dall’inizio. Qualunque deficiente può fare scandalo invece di fare arte.
Si vuole dare un segnale all’opinione pubblica per dire “guardate che noi cattolici ci siamo ancora”? Il segnale è contraddittorio, perché offre pretesti a chi pensa e vuol far pensare “i cattolici sono un pericolo per la mia e vostra libertà di pensiero”. Si possono dare segnali migliori.

E allora, cosa fare?
Piccoli suggerimenti:

  • Silenzio sdegnato: sì, lo spettacolo è osceno, ma di un’oscenità talmente misera (wow, la merda! Che idea originale!) che non merita neppure particolare attenzione. Manifestare contrarietà e passare ad altro argomento.
  • Evidenziare sarcasticamente che parecchi di questi cuor di leone sono coraggiosissimi a offendere i simboli cristiani, ma spesso diventano stranamente autocensuranti e ossequianti verso l’Islam, guarda un po’, chissà perché. Son tutti bravi a fare gli eroi della libertà a rischio zero. È lecito presumere che un Giordano Bruno, per dire, si sarebbe schifato assai di questi vigliacchetti.
  • Boicottaggio economico. Segnarsi i nomi di tutti i principali responsabili dello spettacolo escrementizio: Romeo Castellucci, regista; Andrée Ruth Shammah, direttore del Teatro Franco Parenti; Scott Gibbons, compositore delle musiche; Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Dario Boldrini, Vito Matera e Silvano Voltolina, attori; Socìetas Raffaello Sanzio, casa produttrice. Dopodiché, ripromettersi di non destinare nemmeno un centesimo, mai nella vita, a qualunque iniziativa in cui siano coinvolti i suddetti. Liberi loro di esprimersi “artisticamente”, liberi noi di consumare selettivamente.
  • Pregare (i rosari pubblici di riparazione, ecco, quelli sono un ottimo segnale).


Ab Aeterno

LOST 6X09: Ab Aeterno

 

 

        Who are you?

        My name is Jacob. I'm the one who brought your ship to this Island.

        You brought us here? Why?

        [picks up the bottle of wine] Think of this wine as what you keep calling hell. There's many other names for it too: malevalence, evil, darkness. Here it is, swirling around in the bottle, unable to get out because if it did, it would spread. The cork [raises cork] is this Island and it's the only thing keeping the darkness where it belongs. That man who sent you to kill me believes that everyone is corruptable because it's in their very nature to sin. I bring people here to prove him wrong. And when they get here, their past doesn't matter.

        Before you brought my ship, there were Others?

        Yes, many.

        What happened to them?

        They're all dead.

        But you brought them here. Why didn't you help them?

        Because I wanted them to help themselves. To know the difference between right and wrong without me having to tell them. It's all meaningless if I have to force them to do anything. Why should I have to step in?

        Because if you don't, he will.

[ Jacob pauses for a moment, taking Richard's words into consideration]

        Do you want a job?

        A job?

[ Jacob nods]

        Doing what?

        Well, I don't want to step in. Maybe you can do it for me. You can be my representative and intermediary between me and the people I bring to the Island.

 

 

Per una qualsiasi divinità benevola o approssimativamente tale, che voglia aiutare gli esseri umani senza costringerli (perché altrimenti It's all meaningless), ci sono solo tre possibilità.

Può farsi da parte e sperare che ce la facciano da soli. Ma così finisce sempre allo stesso modo, cioè male. “It always ends the same”.

Allora può scegliere qualcuno tra loro e dargli un incarico di fiducia, per assistere tutti gli altri. Un rappresentante, un intermediario, un profeta, un unto. Questo dà maggiori possibilità, ma ancora non c’è garanzia di successo: anche gli intermediari e i profeti cadono, falliscono, magari tradiscono. Può capitare. È accaduto in passato, anche oggi, e accadrà di nuovo e poi di nuovo. Come si diceva in un’altra eccezionale serie tv, “Tutto questo è già successo e succederà ancora”. Perchè la verità è che quell’uomo vestito di nero non ha torto: “everyone is corruptable because it's in their very nature to sin”. È proprio così. Non nella nostra natura per come doveva essere, ma nella nostra natura come è: corrotta. Tutti cadono. Tutti sbagliano. Tutti abbiamo il peccato nel dna, compresi i profeti. Dentro ognuno di noi ci sono la luce e l’oscurità, il bianco e il nero, e il risultato sono tante diverse gradazioni di grigio, e quell’uomo vestito di nero se ne approfitta. L’oscurità si diffonde. E gli uomini preferirono le tenebre alla luce.

 

E allora non resta che una sola possibilità. Bisogna entrare direttamente nella storia, agire in prima persona. Step in: camminare dentro qualcosa, intervenire, entrare dentro. Proprio con i piedi, con un corpo. Non più come un’entità astratta, benevola e però remota e nascosta; ma fisicamente, concretamente, tangibilmente. Con un corpo, dico: carne e sangue. Anche sporcandosi se necessario, fino a farsi male, a soffrire, a sanguinare. Morire. Perché nessun essere umano da solo può confutare quell’uomo vestito di nero. L’unico che potrebbe farlo sarebbe uno che fosse umano, sì, ma anche incorruttibile: più che umano. Quello sarebbe l’unico che potrebbe guarire la natura umana, dare scacco matto al male, illuminare l’oscurità e diradare il fumo. Questa è l’unica estrema possibilità che resta.

Ma per incamminarsi lungo questa strada, per poter fare quell’inaudito passo dentro la storia, non basta essere una qualsiasi divinità benevola o approssimativamente tale: bisogna proprio essere Dio.

 

 

 

P.S.: a quanto pare, assolvere dai peccati è un atto che richiede un potere maggiore del dare l’eterna giovinezza: difatti Jacob può fare la seconda cosa ma non la prima. Cfr Lc 5, 17-26.

 

P.P.S.: ho sbagliato ancora una volta: l’episodio finale di LOST non si intitolerà It Only Ends Once, come avevo pronosticato, ma semplicemente… The End !


The Prisoner 2009

The Prisoner (2009)

 

 

 

Il più grande errore che si possa fare nel guardare Il Prigioniero del 2009, la nuova miniserie in sei episodi che è il rifacimento della celebre omonima serie del 1967, è aspettarsi qualcosa che ricalchi l’originale; e leggo su internet molte opinioni che si dichiarano deluse dalla miniserie proprio per questo motivo, perché “non è come la vecchia serie”.

Ma certo che non è come il Prigioniero originale! Non poteva e non doveva esserlo, altrimenti non avrebbe avuto senso. A me, che ho visto e ammirato il telefilm originale, questa miniserie è piaciuta moltissimo, e l’ho veramente apprezzata nel momento stesso in cui ho capito che dovevo smettere di fare continuamente il paragone con la vecchia serie.

Questo concetto è simboleggiato all’inizio stesso della miniserie, quando Numero 6 si risveglia nel deserto in prossimità del Villaggio e incontra il vecchio Numero 93 in fuga, vestito proprio come il 6 della serie originale, che gli dice “dì a tutti che me ne sono andato” e muore fuori dal Villaggio, finalmente libero. È noto che la produzione aveva chiesto a Patrick McGoohan stesso, il protagonista della serie originale, di interpretare Numero 93 (9-3=6); anche se poi lui ha rifiutato e per Numero 93 hanno trovato un altro attore che gli assomigliava, il messaggio è il medesimo: il vecchio Numero 6 è fuori dal Villaggio, è “out”, ora c’è un nuovo Numero 6 ed è diverso.

 

Detto questo, la mia interpretazione, opinabile ma spero non dissennata, è che fondamentalmente il Villaggio rappresenta l’ideologia: l’eterna tentazione dell’uomo di rendere perfetta la realtà costruendone una propria versione ridotta, illusoria, manipolabile a piacere. Di seguito vi espongo  la mia spiegazione, naturalmente spoiler sulla miniserie compreso il finale. Evidenziate per leggere.

 

 

 

 

Helen, la moglie di Curtis (Ian McKellen), ha scoperto che esistono ulteriori livelli di coscienza, più profondi dell’inconscio per come esso è comunemente inteso, e che esiste un modo biochimicamente indotto per creare una allucinazione collettiva inconscia. Tale allucinazione è condivisa da tutti coloro che vi prendono parte ed influisce sul loro comportamento conscio. Il Villaggio stesso è quest’allucinazione ed Helen è stata “la prima persona in assoluto nel Villaggio”, ergo lei è la Numero 1. Curtis l’ha raggiunta subito dopo e perciò è il Numero 2.

La particolarità della Numero 1 è che il suo sogno dà integrità strutturale all’allucinazione collettiva, perciò è impegnata a sognare continuamente ed è in costante fase onirica sia nel mondo reale e sia nel Villaggio stesso. Nelle occasioni in cui Numero 2 sentendo la mancanza della sua compagnia la risveglia (nel livello di coscienza del Villaggio), si producono i buchi nel terreno, ovvero dei veri e propri bug nel tessuto connettivo dell’allucinazione condivisa, che portano a ciò che giace al di sotto dell’ultimo livello di inconscio: la totale mancanza di coscienza, l’oblio.

L’esistenza della Numero 1 deve restare ignota agli altri abitanti del Villaggio, perché altrimenti essi prenderebbero coscienza della natura non reale dell’allucinazione condivisa, e perciò tutti ripetono che “non c’è Numero 1”.

 

Nel mondo reale Curtis ha fondato la Summakor, la società in cui Michael (Jim Caviziel)  lavorava come analista e da cui ha dato le dimissioni. Osservo che “Summakor” è una parola che mi sembra una crasi tra “summon”, evocare, e “maker” “creatore”, il che già suggerisce la sua funzione. Lo scopo ufficiale della Summakor è aiutare le persone che sono instabili e “difettose” a diventare migliori nel mondo reale (anche se aleggia il sospetto che il fine ultimo sia, come sempre, il potere). A questo scopo la società individua tramite gli analisti le persone adatte e somministra loro dei farmaci, probabilmente una variazione delle droghe che prende Numero 1 (questo particolare si evince dall’accenno finale di 147 nella realtà alla “pulizia del lobo frontale” che ha ricevuto): in questo modo i partecipanti all’allucinazione vivono, oltre alla ordinaria vita conscia nella realtà, una vita controllata nell’inconscio collettivo del Villaggio, in cui tutto dovrebbe essere perfetto ed essi possono sviluppare quelle “virtù” che hanno perduto nel mondo reale, virtù che consequenzialmente si manifestano anche nel loro comportamento conscio.

D’altra parte, notando la devozione verso Curtis di 147 (ovvero della persona reale che vive come 147 nel Villaggio), è facile intuire che chi controlla le persone nel Villaggio le controlla anche nella realtà.

Importante notare che la vita reale accade non “prima” della vita nel Villaggio, ma in parallelo. Alla fine si comprende che i “flashback” di Numero 6 sugli eventi successivi alle sue dimissioni non sono affatto dei flashback, e che Michael a New York e Numero 6 nel Villaggio agiscono all’incirca in contemporanea (alla fine del quinto episodio Michael vede Numero 6; quando nel sesto episodio incontra Sarah nel mondo reale, la riconosce proprio perché l’ha già conosciuta come 313). Probabilmente l’ingresso di Michael nell’allucinazione collettiva, il suo risveglio nel deserto come Numero 6, accade nel momento stesso in cui la Summakor viene a conoscenza delle sue dimissioni.

 

Ora, nell’ideologia si verifica sempre l’eterogenesi dei fini e tutti i tentativi di costruire un mondo perfetto sono destinati al fallimento. il Villaggio non sfugge a questa regola ineluttabile: gli abitanti che esistono anche nella realtà sentono che il luogo in cui vivono è comunque una prigione.  Essi sognano dei sogni dentro il sogno che sono la loro stessa vita reale, invertendo la relazione conscio/inconscio e perciò mettendo a rischio la finalità “terapeutica” e l’esistenza del Villaggio stesso. Perciò Numero 2 li sorveglia attentamente, instaurando un controllo pervasivo che non fa altro che ripetere alcuni difetti del mondo reale (delazioni, bugie, abusi psicologici, incarceramenti), e ricorrendo al Rover, la sfera bianca, per impedir loro di scappare.

Inoltre, non tutti gli abitanti del Villaggio esistono nella realtà: ci sono anche degli abitanti che sono delle pure proiezioni mentali dei sognatori e non hanno una vita parallela. Tutti i bambini che sono nati nel Villaggio non sono altro che l’allucinazione dei loro genitori; e probabilmente il “Modern Love Bureau”, l’agenzia di appuntamenti del Villaggio gestita da 1891 per accoppiare “scientificamente” le anime gemelle, non è che un modo per dare agli abitanti del villaggio che esistono anche nella realtà il partner “fittizio” che desiderano. Così, ad esempio, 147 può ritrovare nel Villaggio la moglie e la figlia che ha perso nel mondo reale per il suo cattivo comportamento.

Fa eccezione Lucy, la donna che Michael incontra al bar a New York e poi conosce nel Villaggio come 415: per svolgere il compito assegnatole da Curtis, lei entra davvero nell’allucinazione –  questo succede quando perde brevemente  i sensi fuori l’appartamento di Michael all’inizio del quarto episodio, verosimilmente dopo aver assunto le droghe allucinatorie – e il suo gettarsi alla fine nel buco dell’oblio è dovuto al fatto che nella realtà muore quando l’appartamento di Michael esplode.

 

Il primo abitante “fittizio” del Villaggio è stato 11-12, cioè appunto il figlio di Numero 1 e Numero 2, che è il più ragazzo più grande proprio perché è il figlio della prima coppia del Villaggio: il figlio che Curtis ed Helen non hanno potuto avere nel mondo reale. Tuttavia 11-12 diventa abbastanza maturo da percepire la propria natura di finzione, ne soffre profondamente e si ribella al padre in vari modi (anche attraverso la sua relazione con 909, il luogotenente di Numero 2, il che è davvero ironico se si considera che Ian McKellen è un attivista gay!).

Il sogno si oppone al sognatore, l’illusione ideologica fallisce e si rivela insostenibile: 11-12, deluso dal fatto che sua madre non può farlo nascere al mondo reale a cui anela,  la uccide nel Villaggio (determinando così il ritorno della coscienza di lei nel mondo reale) e si uccide.

Dopo la morte di Numero 1 e la conseguente comparsa di numerosi buchi, il Villaggio si avvia alla dissoluzione nell’abisso dell’oblio: ma Numero 2 trova la soluzione, perché manipola gli eventi in modo tale che dapprima Numero 6, portato a ciò dalla sua stessa bontà, sia tentato di assumere il ruolo di nuovo 1 per salvare gli abitanti del Villaggio  (gli abitanti del Villaggio gridano “Six is the One!”), e poi che 313 si offra volontaria e diventi lei la nuova sognatrice che dà integrità strutturale all’allucinazione condivisa.

A questo punto il suo compito è concluso, il figlio sognato è perduto, Helen è sveglia nella realtà: Numero 2 si uccide nel Villaggio e d’ora in poi Curtis vivrà solo nella realtà, ritirandosi con sua moglie a vita privata (la disillusione dopo l’ideologia?). Nel Villaggio Numero 6 diventa il nuovo Numero 2, mentre nella realtà Michael assume il controllo della Summakor, con la speranza di poter costruire un Villaggio migliore per i suoi abitanti e usare a fin di bene il potere della società.

 

Ma quella lacrima finale di 313 in stato catatonico suggerisce che la speranza è vana: dopo il fallimento di un’ideologia si cerca di sostituirla con un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, sempre con le migliori intenzioni… sempre inutilmente.

La realtà non può essere ridotta a un Villaggio.

 

 


La fiaccola dell'anarchia

La fiaccola dell’anarchia

 

 

Amleto si chiama Jax ed è un motociclista con il look da Kurt Cobain, la Marlboro sempre accesa e la carica di vicepresidente del Club. Sua madre si chiama Gemma ed è una vera tamarra di provincia americana con la pistola nella borsetta, la menopausa in arrivo e la preoccupazione che il figlio segua nel Club le orme del suo attuale marito. Il quale si chiama Clay, è il presidente del Club e il boss della città e tratta l’uno e l’altra con pugno di ferro in guanto di velluto, anche se le mani cominciano a soffrire l’artrite perché la vecchiaia è una stronza senza cuore implacabile. Il fantasma è un libro scritto dal defunto padre di Jax, primo marito di Gemma e fondatore del Club, morto in circostanze ignote, il quale vi aveva riversato tutta la sua amara delusione per ciò che era diventato il suo Club. Jax trova il libro e comincia a leggerlo e a farsi troppe domande.

 

E il Club, il sogno di Jax da tutta la vita, il mitico Club, il Club è il Sons of Anarchy Motorcycle Club Redwood Original, detto anche SAMCRO o Sam Crow. Ufficialmente un club di hippy appassionati di motociclette, tatuaggi, sbronze, squinzie ragazze di facili costumi. Non ufficialmente una gang criminale che traffica armi, chiede il pizzo, picchia, ricatta, uccide. La loro storia è la storia di Sons of Anarchy, la serie televisiva creata da Kurt Sutter già creatore di The Shield, la cui trama si districa tra guerre di delinquenti ed echi scespiriani. Una storia di libertà, di prepotenza, e dei confini labili tra le due cose. Una storia in cui non ci sono né bianchi né neri, ma solo diverse tonalità di grigio, e tutti sono a un tempo corrotti e corruttori.

Ma soprattutto la storia del conflitto di Jax, diviso tra un lato violento che vuole assecondare la ferocia di Clay e un lato buono che vorrebbe riportare il SAMCRO nei binari dell’idealismo originario. All’inizio della serie la sua parte buona è come assopita ma successivamente, vuoi perché gli affari sporchi del Club si complicano e gli eventi precipitano, vuoi per l’influenza del dattiloscritto di suo padre, e vuoi perché Jax è appena diventato a sua volta papà, la sua coscienza si risveglia progressivamente. In tutta la prima stagione, durante ogni episodio, Jax legge dei passi del libro che lo fanno ripensare e guardare con occhi nuovi a ciò che ha visto e ciò che ha fatto e ciò che ha lasciato succedere, e non sono belle cose (es. cancellare il tatuaggio del SAMCRO dalla schiena di un traditore… CON LA FIAMMA OSSIDRICA). Il libro è il vero personaggio fantasma della serie, carico di sogni e sentimenti, utopie di libertà assoluta, tristezza per aver visto la perversione di questa libertà, ammaestramenti morali derivanti dall’esperienza.

 

 

Ma pensiamoci bene: poteva forse andare diversamente? È mai andata diversamente? No. Tutti i profeti della libertà assoluta hanno sempre lasciato in eredità al mondo la violenza: la libertà senza regole e senza morale, la libertà affidata solo all’arbitrio e al sentimentalismo dell’uomo (come massa o come individuo), è sempre diventata la libertà dei forti di sottomettere i deboli, e la libertà dei deboli di… essere sottomessi, derubati, sfruttati, torturati, ammazzati.

Nella storia la fiaccola dell’anarchia ha sempre fatto divampare l’incendio della violenza, e ad esserne bruciato è sempre chi non può replicare con altrettanta violenza. Succedeva ieri, succede oggi. Per questo temo chi parla di libertà ma non parla mai di responsabilità, perché o gioca con i fiammiferi o è un altro piromane.

 

 


FlashForward

FlashForward

 

 

Ho cominciato a seguire FlashForward, la nuova serie della ABC, e sembra bella e interessante e tutto quanto, però c’è qualcosa che mi perplime.

 

L’idea base della serie è che all’improvviso tutta l’umanità nello stesso istante perde coscienza per 2 minuti e 17 secondi, durante i quali ciascuno “ricorda” un evento che non appartiene al passato ma al futuro di circa sei mesi dopo. Si tratta insomma di un flashforward (in avanti), il contrario di un flashback (all’indietro).

Dopo l’esperienza collettiva bisogna anzitutto fronteggiare le emergenze improvvise, perché il blackout globale ha provocato catastrofi immani, incidenti d’auto ovunque nel mondo, incendi, aerei contro palazzi, morti a decine di migliaia. Passato il momento di panico però ciascuno deve fare i conti con l’acquisita consapevolezza del proprio futuro e con le conseguenze che questa ha sul proprio presente: la single che sarà incinta e non sa di chi, la donna sposata che starà con un altro e mette in discussione il suo matrimonio, il quasi suicida che sarà vivo e felice, quello che non vede niente e teme che tra sei mesi sarà morto, etc. Oltre a tutto ciò la serie segue le vicende del protagonista agente dell’FBI il quale indaga sul possibile complotto che ha provocato il flashforward mondiale.

 

Bastano questi pochi cenni per capire che ci sono evidenti collegamenti con LOST: l’uso stesso del termine e del concetto di flashforward, quella che potremmo generosamente chiamare “filosofia di fondo” (destino VS libero arbitrio), un paio di attori in comune. È chiaro che la ABC cerca con FlashForward di bissare il successo di LOST e riempire il vuoto che lascerà quest’ultima serie, che è arrivata all’ultima stagione, attirando tutti i fan disperati perché non potranno più perdersi nei meravigliosi rompicapo mentali dell’Isola per eccellenza.

 

 

Però c’è un’incongruenza che non mi spiego. Secondo la trama, ogni persona sulla terra ha “ricordato” un evento che vivrà il 29 aprile 2010. Ebbene, in quegli eventi futuri quasi tutti staranno facendo cose assolutamente usuali, camminare, lavorare, andare in bagno, eccetera.

Questa cosa mi sembra molto strana, perché se io ora vedessi un momento del mio futuro che accadrà il tale giorno alla tale ora, verosimilmente poi arrivando a vivere quel momento lo riconoscerei. Cioè il 29 aprile 2010 probabilmente non farei altro che pensare “accidenti, è quel giorno che ho visto sei mesi fa, sto facendo proprio quella cosa che avevo visto”. E poi, arrivato al momento topico, è lecito presumere che sarei in certa misura emozionato.

Invece i flashforward di FlashForward sono, per la maggior parte e con alcune eccezioni, di una banalità tipicamente appartenente all’ordinaria normalità della vita di tutti i giorni.

 

La cosa potrebbe spiegarsi se il flashforward mostrasse un futuro lineare che però sarà modificato dal verificarsi del flashforward stesso.

Cioè: oggi (x) io vedo un futuro (x+1) che chiamerò futuro Alpha e che è il mio futuro come tenderebbe a verificarsi se gli eventi seguissero il loro corso “naturale”. Tuttavia, il fatto stesso che oggi io abbia visto il mio futuro Alpha modifica il mio comportamento attuale, perché ad esempio sapendo che sarò ucciso se girerò a destra è naturale che io abbia almeno la tentazione di girare a sinistra, e in ogni caso le modifiche sul comportamento altrui avranno influenze sul mio e viceversa.

E allora, siccome sono le persone a determinare gli eventi e non viceversa, il mio futuro non sarà (x+1 Alpha) ma bensì (x+1 Beta), e il flashforward che ho visto non si verificherà, ma sarà soltanto l’avvertimento di un futuro che è possibile ma di fatto lasciato comunque al libero arbitrio del veggente (ovvero all’incrociarsi e reciproco influenzarsi del libero arbitrio di tutte le persone sulla Terra).

 

Questa teoria mi piacerebbe molto, ma purtroppo non regge. Perché nella sceneggiatura di FlashForward c’è un paradosso, tipico di quando si va ad alterare il tessuto della causalità del continuum spaziotemporale, e cioè che il futuro mostrato dai flashforward è un futuro nel quale sono già inscritte le conseguenze del verificarsi del flashforward stesso.

Per chiarire: la dottoressa sposata vede un futuro nel quale non sta più con suo marito, ma ama un altro uomo, uno che neanche conosce. Ma più avanti lei fa effettivamente conoscenza di quest’uomo, che è il padre di un bambino che lei ha curato per essere rimasto ferito in un incidente provocato dal blackout globale. Ovvero: lei non avrebbe mai conosciuto quest’uomo in assenza del flashforward, il quale dunque mentre avveniva nel presente era già il passato del futuro (si capisce ciò che ho scritto?).

La cosa diventa addirittura ridondante con il protagonista agente dell’FBI, il quale nel proprio flashforward si trovava/si troverà davanti alla parete del proprio ufficio dove ha appuntato tutti gli indizi sull’indagine che ha per oggetto la causa del flashforward stesso. Sicché, e gli autori stanno un po’ abusando di questo comodo determinismo, troppo spesso il solerte detective per fare passi avanti nell’indagine può ricordare “ah già, questo indizio era appeso al muro nel mio flashforward, dunque adesso lo appendo al muro e investigo su di esso”. Problema dell’entropia a parte, così è troppo facile.

 

 

A questo punto l’incongruenza di cui dicevo resta intatta, e spero che in qualche modo sia risolta perché altrimenti mi diminuirebbe alquanto il valore dell’insieme (non puoi inventare una trama che si basa sull’alterazione del continuum temporale e poi perderti così nei fondamentali, o almeno non puoi farlo se non vuoi scendere ai livelli a cui è tristemente sceso Heroes).

Comunque FlashForward finora si fa guardare molto volentieri, non so se arriveremo ai livelli di LOST ma non si può avere tutto. Avanti così verso il futuro.

 


Divieto di telefonino

 

 

Poiché mi annoiano tutte queste arzigogolate analisi politologiche post-elettorali sul chi sale e chi scende, voglio parlare di una cosa molto più interessante: perché non posso portarmi nella cabina elettorale il telefonino, o un altro aggeggio atto a riprodurre immagini fotografiche?

Non è una domanda oziosa: perché devo essere costretto a depositare in una vaschetta estranea un oggetto tanto importante e significativo della mia privacy? Oppure, in alternativa, a privarmene per tutto il tempo necessario all’andare al seggio elettorale e compiere le operazioni di voto e poi tornare a casa? E se volessi scattare una foto della scheda crocettata per motivi miei, per metterla in un album ricordo, per potermene meglio pentire o inorgoglire al momento giusto, per insindacabili ragioni private di cui non sono tenuto a dar conto a nessuno perché attengono esclusivamente La Mia Intangibile Volontà Personale?

 

In realtà la ratio della norma, a pensarci bene, è chiara: si vogliono impedire brogli e voti di scambio. Troppo facile sarebbe promettere al tale il proprio voto per motivi men che nobili e poi portare una foto a dimostrazione dell’adempiuta obbligazione, pretendendo mercede. Anzi, magari andasse sempre così, in certi brutali contesti è semmai più probabile l’inverso: ti consegno momentaneamente un telefonino e ti impongo di votare chi voglio e poi darmene prova fotografica, e se non lo fai ti aspetto fuori dal seggio e ti elargisco un’abbondante razione di sofferenza fisica. Credete che non possa succedere? Neanche in quei paesi dove lo Stato è una bandiera ammainata?

Insomma: lo Stato, per tutelare la mia libertà, deve limitare la mia libertà. È un controsenso? Solo per chi vive nel dogma dell’autodeterminazione assoluta; solo per chi – abituato ad adorare l’ideologia e snobbare la realtà – ha perso il buonsenso per capire che, in occasioni meno rare di quanto vorremmo, bisogna proteggere le volontà troppo deboli dalle volontà troppo forti.

 

Ma dove sono i paladini dell’autodeterminazione? Dove sono i rivali dello Stato etico, gli avversari del paternalismo, i nemici giurati di ogni provvedimento illiberale? Non protestano contro il divieto del telefonino al seggio? Strano. Non protestano neppure per le altre tante piccole e grandi norme che limitano la libertà del singolo: la libertà di lavorare per meno del minimo sindacale, la libertà di licenziarsi senza l’osservanza di certe forme, la libertà di stipulare rischiosi contratti di speculazione finanziaria senza dover provare di avere l’esperienza adatta (tutte le formalità della normativa MiFID!!!), la libertà di lavorare nei cantieri senza dover seguire tutte quelle rigide e tediose misure di sicurezza…

No, non protestano, almeno per il momento. La grande battaglia la fanno principalmente per il sacrosanto diritto di ammazzarsi, anzi nemmeno, il diritto di essere ammazzati a richiesta (forse).

 

Sorge il sospetto che la libertà di morire a qualcuno piaccia non perché significa libertà, ma perché significa morte. Degli altri.

 


Dollhouse

Dollhouse

 

 

Ho 38 cervelli, e nessuno di loro pensa che si possa firmare un contratto

per essere schiavi. Specialmente ora che abbiamo un presidente nero.

 

 

Dollhouse è una serie di fantascienza molto interessante, frutto del genio creativo di Joss Whedon, già autore di serie cult come il teen horror Buffy The Vampire Slayer (il telefilm preferito di Massimo Introvigne!) e l’incompiuto meraviglioso western futuristico Firefly; una serie che pone molti interrogativi attorno a grandi temi come l’autonegazione della libertà, la degenerazione della fantasia, la tecnica asservita al potere assoluto dei pochi sui molti.

 

La Dollhouse è un’azienda segreta la cui esistenza è ufficialmente negata, una leggenda metropolitana per la gente normale, che offre con molta discrezione i suoi servizi soltanto a pochi eletti ricchi e potenti. La Dollhouse affitta persone: chiunque sia il lui o il lei di cui hai bisogno – squillo di lusso, professionisti espertissimi, qualcuno che sia veramente innamorato di te – loro possono accontentarti, impiantando l’opportuna personalità in una “Doll”: esseri umani a cui hanno resettato il cervello per rimuovere la personalità (la memoria, l’identità, la volontà, l’anima) e conservarla in un hard disk. Sono corpi vuoti, pronti ad essere riempiti all’occorrenza di personalità fasulle oppure ricavate da altre persone.

Quando non sono in missione le Doll, anche note come “Active”, abitano nella Dollhouse: un avveniristico edificio supersegreto nel quale vegetano in stato infantile e semicosciente, ripetendo le stesse frasi, nuotando placidamente in piscina, impegnate in attività elementari che tengono occupato al minimo il cervello, facendo molte docce in comune (miste: di regola gli Active non hanno impulsi sessuali), sempre sorridendo. Sempre sorridendo. Le Doll sembrano felici. Ed è importante notare che l’incarico di Doll è temporaneo, dura 5 anni (almeno così promette la Dollhouse) e soprattutto è volontario: tutti gli Active hanno scelto di diventarlo, hanno firmato il consenso, chi per soldi, chi perché la Dollhuose prometteva di risolvere qualche grosso guaio che avevano combinato, chi per disperata alternativa al suicidio contro l’intollerabile dolore di vivere.

Protagonista della serie è Echo, una Doll in qualche modo speciale, che riesce a pensare oltre gli stretti limiti del protocollo operativo di volta in volta impiantatole. Altri personaggi di rilievo: il supervisore di Echo, molto paterno nei suoi confronti e non privo di riserve morali sulla Dollhouse; un testardo agente dell’FBI, convinto che la Dollhouse esista davvero e deciso a smascherarla e salvare le Doll; e nell’ombra si muove il pericoloso Alpha, un Active ribelle fuggito dopo un sanguinoso incidente, dagli scopi misteriosi.

 

 

Queste le premesse, vorrei parlare un po’ dei temi etici sollevati dalla serie.

Anzitutto, la libertà. Questa è la grande domanda di fondo della serie: siamo liberi di perdere la nostra libertà? I volontari hanno “liberamente” scelto di diventare Doll, ma è possibile una tale scelta? L’autodeterminazione si può spingere all’autodistruzione?

Potete ben vedere che si tratta di domande di estrema importanza, soprattutto oggigiorno. Domande a cui la serie sembra fortemente suggerire una risposta negativa: consenso o non consenso, l’attività della Dollhouse è intrinsecamente immorale, oltre che pericolosa per le sue implicazioni sociali. Uno dei migliori episodi della prima stagione mostra spezzoni di interviste per strada a gente di varie condizioni, interrogandoli su questa fantomatica Dollhouse che di sicuro non esiste, non possono fare una cosa del genere, ma se esistesse tu che faresti? Le risposte sono le più disparate, c’è chi vorrebbe spassarsela con le Doll o addirittura essere una di loro (“fai di tutto. E in più non devi ricordarti niente. O studiare, o pagare l'affitto. E in cambio te la spassi con gente ricca per tutto il tempo. Dove devo firmare?”), e c’è chi la vede come la nuova frontiera della schiavitù (“C'è un solo motivo per cui una persona vorrebbe diventare uno schiavo: il fatto che lo sia già”). L’accidentato percorso della protagonista Echo la spinge a recuperare via via una sorta di autoconsapevolezza, fino a capire che non si può firmare il consenso per rinunciare al proprio consenso.

La questione diventa, per chi ha una particolare sensibilità a certi argomenti, ancor più interessante se la si associa a un’altra forma di autonegazione della libertà, che non è un ipotetico futuro ma un terribile presente: sto parlando ovviamente dell’eutanasia. L’argomento non è stato affrontato da Dollhouse, almeno finora e forse non lo sarà mai (anche perché, diciamocelo, a parlare contro la schiavitù son bravi tutti e si fa sempre bella figura, a parlare contro l’eutanasia si rischia qualcosa in termini di popolarità); ma c’è comunque la speranza che qualche giovane liberal, portato a riflettere sulle contraddizioni dell’autodeterminazione spinta all’estremo, spinga la sua riflessione oltre i limiti del politicamente corretto.

Grazie Joss, non è proprio il massimo, ma va bene così.

 

 

Seconda questione: la fantasia.

Per quel che si è visto finora nelle dodici puntate della prima stagione, ci sono fondamentalmente tre tipi di clienti della Dollhouse: i perversi, i pratici e i patetici. Tutti hanno molti soldi, probabilmente troppi.

I perversi sono quelli che affittano le Doll per fare sesso. Si tratta semplicemente di prostituzione, in certi elitari strati sociali la Dollhouse è l’ultima moda dell’escort. Che altro c’è da dire?

I pratici sono quelli che hanno bisogno di una personalità con determinate caratteristiche per un fine concreto, qualche volta perfino positivo. A un miliardario rapiscono la figlia: si rivolge alla Dollhouse per avere il miglior negoziatore possibile. Un uomo d’affari deve far rubare un oggetto e affitta una personalità stile Arsenio Lupen. Una task-force deve infiltrare un agente in una setta di fondamentalisti cristiani che usa la religione come copertura per loschi fini: mandano il miglior infiltrato possibile, cioè una Doll a cui hanno impiantato una personalità sinceramente credente (inevitabile il paragone tra il brainwashing della Dollhouse e quello della setta). A volte la Dollhouse assume perfino incarici pro bono, a gratis: una Doll può aiutare una bambina vittima di abusi a superare il trauma, trovando con lei l’empatia perché ha una personalità che ha subito quelle stesse esperienze.

In particolare, è molto interessante il caso della donna facoltosa che si fa fare periodicamente la scansione cerebrale: dopo che è stata uccisa, la sua personalità viene consapevolmente impiantata in una Doll per darle l’opportunità di smascherare il suo assassino e risolvere i conti in sospeso. Si allude agli enormi problemi derivanti da questa forma di immortalità immanente: il supervisore di Echo, moralmente più degno di tanti suoi colleghi, avvisa la direttrice della Dollhouse che “Vita eterna. È qualcosa che offriamo, adesso? Perché in quel caso si rende conto che questo segna l'inizio della fine? Una vita infinita. Tutti la desiderano. Il cristianesimo, le altre religioni… la moralità non esiste senza la paura della morte” (ah sì?), al che il boss replica “Non sto progettando di guidare la civiltà occidentale verso la sua fine. È solo per questa volta”. Sarà proprio vero?

Poi ci sono i patetici. Sono i più innocui, ma in un certo senso è qui che l’attività della Dollhouse è più pericolosa. I patetici sono quelli che si rivolgono alla Dollhouse per realizzare fantasie “normali” che non hanno la capacità di risolvere da soli. C’è quello che vuol il miglior appuntamento possibile, ma non riesce a trovare una ragazza con cui legare davvero: affitta una Doll e va sul sicuro. Qualcuno non riesce a farsi amici nella realtà e vuole una Doll soltanto per passare in allegria il compleanno. Una signora di mezza età sogna una fuga d’amore impossibile e si autoillude con un giovane aitante Active nei fine settimana. C’è un tipo a cui è morta la moglie poco prima che potesse dirle che aveva finalmente comprato la casa dei loro sogni: ogni anniversario affitta una Doll con la personalità artificialmente ricostruita della moglie, per mostrarle finalmente la casa, vedere la sorpresa e la felicità sul suo volto, dirle che l’ama (beh, anche fare sesso con lei).

I patetici sono i casi più tristi. Più triste del comprare sesso è il comprare sentimenti, ovvero illudersi di poterlo fare. S’intravede all’orizzonte un mercato fatto di consumatori individualisti e disillusi che hanno perso ogni capacità di costruire autentiche relazioni umane e preferiscono noleggiarle prefabbricate; incapaci di smussare il proprio carattere per adattarlo agli altri, preferiscono noleggiare un altro appositamente tarato per il proprio carattere; incapaci di sforzarsi per migliorare la propria realtà, preferiscono vivere una sterile fantasia. È il solipsismo massificato e commercializzato, la masturbazione elevata a sistema sociale.

È questo il destino dell’occidente sazio e disperato? E chi ne trae guadagno?

 

 

Ah, ma qualcuno che ci guadagna c’è sempre. C’è sempre qualcuno che trae guadagno dal convincere la gente che è meglio uccidersi che vivere, è meglio una relazione alla giornata che impegnarsi in qualcosa di duraturo. C’è sempre chi ha tutto l’interesse a convincere le persone che libertà vuol dire essere schiavi dei propri istinti, i quali spesso per essere soddisfatti necessitano di consumi crescenti e a pagamento. E c’è sempre chi vuole conseguire un potere smisurato per mezzo di una tecnologia sfrenata, e respinge ogni tentativo di mettere limiti con l’accusa di oscurantismo e la bandiera del Progresso.

La Dollhouse si occupa di fantasie: questo è il loro incarico, ma non è il loro scopo”, è il sibillino messaggio che arriva all’agente dell’FBI Ballard, che ha giurato a sé stesso di salvare Echo e distruggere la Dollhouse, da parte di un misterioso alleato. Ma la Dollhouse in sé è solo la propaggine di una più vasta consorteria occulta di illuminati, i cui obiettivi a lungo termine sono ben più grandi dell’affittare piacere a facoltosi debosciati. Ci sono Doll che non risiedono nella Dollhouse, ma vivono tra noi: Active “dormienti”, a cui è stata impiantata una personalità normale e di basso profilo, modificata con meccanismi nascosti che possono, ad un preciso impulso sensoriale, trasformarli in killer infallibili ed inconsapevoli. Il vaso di pandora è stato appena scoperchiato e c’è una quantità enorme di questioni da affrontare: qual è l’obiettivo ultimo di chi si nasconde dietro la Dollhouse? Un esercito, una società, un mondo fatto di Doll, di persone-cose? Una società in cui tutti hanno una personalità artificiale, controllabile e perfetta, il paradiso in terra sognato da tutte le illuminate utopie moderne? Ma quanto è facile rovesciare un paradiso nell’inferno? Dov’è il pericolosissimo Alpha, il figliol prodigo della Dollhouse, che si considera l’incarnazione dell’oltreuomo nicciano e ama sfregiare le persone con lame affilate? Dov’è la differenza tra una personalità naturale e artificiale? L’identità è solo la conseguenza della memoria? Le Doll hanno ancora il libero arbitrio? I corpi sono fungibili? L’anima esiste davvero, è separabile dal corpo e scaricabile in un hard disk, oppure è qualcosa di più che una configurazione neurale resettabile a piacere? Chi di noi potrebbe essere una Doll senza saperlo? E se fossimo tutti le Doll di Dio (il Dio di Lutero, di Calvino, forse anche di Hegel)?

 

 

Dollhouse è una serie veramente notevole. Ha un altissimo potenziale, ma purtroppo finora è riuscita a svilupparlo solo in parte, vuoi per l’estrema atipicità del prodotto (se la protagonista cambia personalità ad ogni episodio è difficile fidelizzare il pubblico), vuoi perché non sono moltissimi gli spettatori capaci di apprezzare le questioni sollevate, vuoi anche per innegabili difetti di regia e sceneggiatura. La prima stagione ha fatto ascolti bassi e la FOX ha concesso il rinnovo per la seconda stagione a fatica e in via sperimentale. Il rischio che Dollhouse faccia la stessa fine del compianto Firefly è molto concreto, e sarebbe davvero uno spreco, perché la mia sensazione è che Dollhouse abbia appena cominciato a dire quello che deve dire. Vedremo.

  

    

 


Il sentiero e il deserto

Il sentiero e il deserto

 

 

Questo è per Nic, Ste, Fra, di cui sono amico

 

 

Due uomini liberi s’incontrarono.

Accadde nel deserto, il grande deserto. I due si videro da lontano e si vennero incontro a vicenda, perché entrambi sentivano il bisogno di compagnia. Si dissero i propri nomi e al calare della notte sedettero assieme accanto al fuoco.

Uno disse:

“Io sono libero. Vivo nel Deserto e vado dove voglio.”

L’altro disse:

“Anche io sono libero. Vivo nel deserto e seguo il grande Sentiero che mi è stato posto innanzi.”

“Di quale sentiero stai parlando? Qui siamo nel Deserto e non ci sono sentieri.”

“Il Sentiero esiste. Non è facile vederlo, perché i suoi segnali non sono evidenti, ed anzi a volte sono molto difficili a capirsi, e molti non ci riescono. Ma chi lo vede una volta, di solito poi lo vede per sempre.”

“Non capisco. Ti riferisci ai segni che abbondano nel Deserto? La conformazione delle dune cangianti, gli avvallamenti, le depressioni… il vento soffia a caso e crea queste meraviglie sempre nuove. Il Deserto è meraviglioso, così vario, mai uguale a sé stesso.”

“Sì, è vero, il deserto è meraviglioso. Ma i segni non sono a caso: indicano il Sentiero, ed io vado avanti seguendo la sua direzione, un giorno dopo l’altro.”

“È un sentiero che solo pochi riescono a vedere?”

“Oh, io credo che tutti abbiano la capacità di vederlo, anche se non tutti sono così fortunati da essere educati ad usarla.”

“Chi ti ha detto di seguire questo sentiero?”

“Un giorno vagavo perduto, e incontrai qualcuno che mi insegnò a vedere i segni e capirli, e mi disse che alla fine del Sentiero c’è qualcosa di bellissimo che mi aspetta. È passato molto tempo da allora, e ho continuato ad avanzare.”

“Come fai a sapere cosa c’è alla fine del sentiero, se non ci sei ancora arrivato?”

“Lo capisco dai segni che vedo. Seguendo il Sentiero ho trovato in questi anni oasi meravigliose, con acque limpide e profonde, e spero che alla fine arriverò all’oasi più grande e più bella che occhio umano possa contemplare.”

“Già. Meraviglioso è il Deserto, e meravigliose sono le oasi che danno ristoro a chi ha sete. Ma io non vedo sentieri e neppure ne sento il bisogno. Il Deserto è già in sé una tale sterminata bellezza, che basta a sé stesso. Perché pretendere di più?”

“Sì, il deserto è bellissimo, ma contiene anche luoghi spiacevoli.”

“È vero, esistono nel Deserto anche luoghi spaventosi. Ho sempre cercato di evitarli.”

“Io no, non sempre. A volte mi sono reso conto che il Sentiero mi faceva passare proprio per quei luoghi: pianure dove la sabbia è secca e il sole impietoso e non c’è acqua né vita, distese di pietre aguzze e cactus spinosi che mi ferivano i piedi, voragini che rischiavano di risucchiarmi e farmi sprofondare nel grande abisso sotto la terra. Ho avuto anche momenti fastidiosi, perfino momenti dolorosi.”

“Ma perché sei passato per quei fastidi e quei dolori, perché non li hai evitati?”

“Perché dovevo seguire il Sentiero.”

“Non hai mai provato ad allontanartene?”

“Sì, più di una volta, e forse ci proverò ancora perché conosco la debolezza della mia volontà. Ma tutte le volte che ho deviato, per quanto all’inizio fosse piacevole, alla fine si è sempre rivelato un danno.”

“Ma la tua è vera libertà? Tu non vai dove vuoi, ma solo dove il sentiero ti dice di andare.”

“Io sono libero. Nessuno mi obbliga a seguire il Sentiero: sono io che per mia volontà vado dove mi conduce.”

“Sicuro? Verresti con me domani? Decidiamo assieme, oppure tiriamo a caso.”

“No. Non rifiuto la tua compagnia, ma non posso allontanarmi dal Sentiero.”

“Lo vedi? Scegliere la propria schiavitù non significa essere liberi. Amico, fai come me: non avere sentieri, non dare troppi significati ai segni che il caso ti depone davanti, scegli da solo la tua direzione, sii veramente e completamente libero.”

“Io sono libero, ma non devierò dal Sentiero. Non devo, non posso, non voglio.”

 “Ma perché subordinare la tua volontà a un’entità esterna? Un sentiero di cui non hai mai visto la fine, e che ti fa passare anche tra fastidi e dolori? Dovessi mai condurre con te una persona che ami, saresti così crudele da far passare anche lei per quei fastidi e dolori?”

“Sarebbe per il suo bene. Le insegnerei a vedere il Sentiero, e poi la lascerei libera di seguirlo.”

“Dammi retta, amico, sii davvero libero. Io non ho nessuno che mi indichi una direzione o l’altra, non riconosco sentieri prestabiliti: decido da solo.”

“Ma la tua è vera libertà? Perché vai in una direzione piuttosto che in un’altra?”

“Perché la mia volontà decide dove vuole andare.”

“In che modo? Se tutto ciò che esiste nel deserto viene ugualmente dal vento che soffia a caso, allora le oasi meravigliose e le terribili desolazioni non sono la stessa cosa? Perché andare nelle une e non nelle altre? Che differenza c’è?”

“La differenza è nella mia sopravvivenza, nel mio piacere… ed anche in quello di chi è con me, se sono in compagnia.”

“E se la tua volontà decidesse liberamente di condurre qualcuno nelle sabbie mobili, e lì lasciarlo morire per il tuo interesse?”

“Non farò mai una cosa del genere. So che nel Deserto abitano anche predoni e banditi, gente che ruba e uccide, ma io non sono come loro.”

“Allora anche tu hai una via. È mai possibile che tu segua il Sentiero senza rendertene conto? Vieni con me, t’insegnerò a vederlo con i tuoi occhi.”

“Amico, lascia stare. Io non seguirò mai altro che la mia libera volontà.”

“Allora sia amicizia tra noi, anche se abbiamo idee diverse sulla libertà.”

 

Il giorno dopo, i due si salutarono e si scambiarono doni, lasciandosi in pace e cordialità, e si separarono. L’uomo del deserto andò là dove la sua volontà lo portava. L’uomo del sentiero seguì la sua via.

Quest’ultimo, più tardi, notò che c’erano alcuni segni preoccupanti. L’aria si era fatta pesante; nel cielo strani uccelli volavano in stormi disordinati, in preda al panico; la terra sotto di lui gli comunicava un lieve tremore. L’uomo vide, sentì, capì, e si preoccupò per l’amico che si era lasciato alle spalle.

Stava arrivando una tempesta di sabbia.