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Caritas in veritate 8

(8) Un riassunto della Caritas in Veritate

(indice + sintesi)

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

Capitolo quarto: sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

Capitolo quinto: la collaborazione della famiglia umana

Capitolo sesto: lo sviluppo dei popoli e la tecnica

 

Conclusione

 

Lo sviluppo umano ha bisogno di Dio.

78. Dio è necessario all’uomo, e perciò è necessario allo sviluppo umano. Come diceva Paolo VI nella Populorum progressio, l’uomo non può gestire da solo il progresso perché non può fondare da solo un vero umanesimo. Lo sviluppo intiegrale è aiutato da un umanesimo cristiano, al servizio della carità e guidato dalla verità, mentre è ostacolato dalla ostilità ideologica a Dio e dall’ateismo indifferente. L’Amore di Dio  ci evita di diventare schiavi delle mode momentanee e ci sostiene nel laborioso impegno per la giustizia e lo sviluppo dei popoli, ci dà il coraggio di operare anche quando ciò che otteniamo è meno di ciò che desideriamo, perché Dio è la nostra maggiore speranza.

 

 

Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani che pregano. Auspicio finale della riunione della famiglia umana nella preghiera del Padre nostro. Citazione di San Paolo. Preghiera alla Vergine Maria.

79. Lo sviluppo ha pertanto bisogno di cristiani che pregano, consapevoli che l’amore nella verità non è un prodotto dell’uomo ma un dono ricevuto. Così si può rendere più degna la vita dell’uomo sulla terra, nella speranza che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come Padre nostro.

Benedetto XVI conclude l’enciclica citando San Paolo (amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno) e invocando la protezione della Vergine Maria, Mater Ecclesiae, e la sua intercessione per ottenere la forza necessaria a realizzare quello sviluppo integrale di cui parlava la Populorum progressio, lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.

Con la tradizionale preghiera alla Madonna, con cui abitualmente si chiudono le encicliche, finisce la Caritas in veritate e finisce anche questo riassunto commentato, che spero possa essere di qualche utilità a qualche visitatore, e in ogni caso è servito a me.

Nella stessa speranza aggiungo qui di seguito un sintetico riassunto finale di ogni capitolo e, per aiutare il lettore a orientarsi nel testo dell’enciclica se volesse trovare velocemente un argomento in particolare, un “indice” dei paragrafi.

 

 

 

Introduzione

 

Nei paragrafi introduttivi Benedetto XVI illustra il concetto della carità nella verità, che è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa,  e il rapporto irrinunciabile tra la carità e la verità. La carità della Chiesa non è un generico filantropismo umanitario perché nasce direttamente dalla Trinità, dall’amore tra le Persone di Dio, e si diffonde attraverso la Chiesa nella società contribuendo allo sviluppo del mondo. La dottrina sociale è proprio il modo corretto di diffondere quest’amore nella società e come tale ha sempre fatto parte della dottrina della Chiesa, anche se l’espressione “dottrina sociale” è relativamente recente.

 

1.     La carità nella verità come principale fonte di sviluppo.

2.     Veritas in caritate + caritas in veritate: concetti complementari.

3.     La carità senza verità è sentimentalismo.

4.     La carità senza verità è sostanzialmente irrilevante.

5.     La carità nasce dalla Trinità, è donata all’uomo e trasmessa al suo prossimo.

6.     Il criterio della giustizia. Carità > Giustizia.

7.     Il criterio del bene comune. La politica è un’altra forma di carità.

8.     L’importanza della Populorum Progressio.

9.     La dottrina sociale della Chiesa non ha soluzioni tecniche e non fa intromissioni politiche, ma serve la verità.

 

 

 

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

 

Nel primo capitolo Benedetto XVI tratta della Populorum progressio, l’importante enciclica sociale di Paolo VI sullo sviluppo umano, e ne attualizza l’insegnamento analizzando i problemi contemporanei che erano già sorti in quel momento storico. Il Papa lega inoltre questa enciclica agli altri insegnamenti di Paolo VI sullo sviluppo e approfondisce il concetto di sviluppo umano integrale, cioè uno sviluppo che riguarda l’intero ambito di ciò che è umano e l’intera totalità degli esseri umani.

 

10.  Leggere oggi la Populorum progressio: interpretazione alla luce della Tradizione.

11.  Legame della Populorum progressio con il Concilio Vaticano II. Carità non è mero assistenzialismo. Per uno sviluppo umano integrale serve una prospettiva eterna. Insufficienza delle istituzioni.

12.  Legame della Populorum progressio con la Tradizione preconciliare. Coerenza come fedeltà dinamica. Compito profetico dei Pontefici.

13.  Legame della Populorum progressio con il magistero complessivo di Paolo VI.

14.  La Octogesima adveniens. Utopie tecnocratiche VS utopie naturalistiche: entrambe separano il progresso dalla valutazione morale.

15.  L’Enciclica Humanae vitae e l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi.

16.  Lo sviluppo umano è vocazione.

17.  Lo sviluppo umano non è automatico perché non dipende solo dall’uomo. La libertà responsabile.

18.  Il vero sviluppo umano è integrale, cioè riguarda ogni ambito umano e ogni persona umana.

19.  Lo sviluppo umano presuppone la carità fraterna. La globalizzazione e la ragione da sole non bastano.

20.  Persistenza dell’urgenza delle riforme chieste dalla Populorum progressio.

 

 

 

Capitolo secondo: Lo sviluppo umano nel nostro tempo

 

Nel secondo capitolo Benedetto XVI analizza i problemi contemporanei dello sviluppo che all’epoca della Populorum progressio non si erano ancora manifestati. Il Papa tratta in particolare della globalizzazione e delle sue conseguenze politiche, economiche, culturali, religiose. Inoltre approfondisce ulteriormente il concetto di sviluppo umano, che non è un semplice incremento delle risorse.

 

21.  Nuovi problemi rispetto ai tempi di Paolo VI. Il profitto non è il fine ma un mezzo. Serve una nuova sintesi umanistica.

22.  Non c’è più una divisione netta tra paesi ricchi e poveri. Elenco di responsabilità economiche e culturali.

23.  Fine del comunismo e dei “blocchi contrapposti” à necessità di ripensare lo sviluppo.

24.  All’epoca di Paolo VI: poca globalizzazione, ambito economico = ambito politico, poteri pubblici forti. Oggi: globalizzazione avanzata, commercio e finanza internazionali, poteri pubblici deboli à sussidiarietà.

25.  Delocalizzazione produttiva, diminuzione delle reti di sicurezza sociale, mobilità lavorativa, disoccupazione.

26.  Interazione culturale: dialogo e perdità dell’identità, pericoli opposti  eclettismo VS appiattimento, separazione tra cultura e natura. L’uomo ridotto a cultura senza natura è facilmente manipolabile.

27.  La fame nel mondo e metodi per superarla. Lo sviluppo dei paesi poveri può aiutare i paesi ricchi a uscire dalla crisi.

28.  L’apertura alla vita. La mentalità antinatalista si trasmette dai paesi ricchi a quelli poveri e condiziona anche gli aiuti allo sviluppo. Questa mentalità a lungo andare è un ostacolo allo sviluppo integrale.

29.  La libertà religiosa ostacola lo sviluppo. Fanatismo religioso e ateismo pratico negano la libertà religiosa. Dio garantisce lo sviluppo autentico, mentre ridurre l’uomo a frutto del caso lo limita. Incremento sviluppo. Supersviluppo economico / sottosviluppo morale.

30.  Collaborazione interdisciplinare. Interazione tra intelligenza e carità.

31.  Dimensione interdisciplinare della dottrina sociale della Chiesa. Serve un allargamento della ragione.

32.  L’economia deve basarsi su una visione integrale dell’uomo: i costi umani sono costi economici. Breve periodo e lungo termine. Ripensare l’economia e il modello di sviluppo attuale.

33.  Interdipendenza planetaria, opportunità e rischio. Dilatare la ragione.

 

 

 

Capitolo terzo: Fraternità, sviluppo economico e società civile

 

Il terzo capitolo dell’enciclica è di argomento prevalentemente economico. Benedetto XVI tratta della visione cristiana del mercato e di come la giustizia può realizzarsi nella logica economica, del ruolo degli operatori economici e delle loro responsabilità.

 

34.   La gratuità e il dono. L’illusione di autosufficienza e la sottovalutazione del peccato originale sono pericolose. Legame tra la speranza cristiana e la carità nella verità.

35.  Il mercato non è solo giustizia commutativa, ma anche distributiva e sociale. I poveri come risorsa del mercato.

36.  Il mercato non è cattivo di per sé ma lo diventa se gestito male. Il mercato non è mai culturalmente neutro. Necessario spazio per la gratuità e il dono.

37.  La giustizia non può essere posticipata rispetto alla produzione della ricchezza ma deve essere subito rispettata. Presenza di soggetti economici a fine non lucrativo. La globalizzazione, le tre forme di giustizia e il dono.

38.  Richiamo alla Centesimus annus: sistema tripartito mercato + Stato + società civile. La gratuità risiede naturalmente nel terzo ambito, ma deve essere presente anche negli altri due.

39.  Richiamo alla Rerum novarum: il binomio mercato – Stato non è più sufficiente. Necessarie forme economiche solidali aperte alla gratuità.

40.  Gestione aziendale e responsabilità manageriale. Stake-holders e share-holders. Responsabilità dell’investimento finanziario e della delocalizzazione produttiva.

41.  Significato articolato dell’imprenditorialità. Significato articolato dell’autorità politica.

42.  La globalizzazione: serve un orientamento culturale attento alla persona e alla trascendenza. Rischio ed opportunità.

 

 

 

Capitolo quarto: Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

 

Il quarto capitolo dell’enciclica è di argomento “ecologico”, posto che con questo aggettivo Benedetto XVI si riferisce non solo alle problematiche relative al rispetto dell’ambiente, ma anche a quella che egli chiama ecologia umana e attiene al rispetto dell’uomo per sé stesso, ad esempio in ambito sessuale o economico. Queste due forme di ecologia sono strettamente collegate.

 

43.  I diritti, senza doveri e slegati da un fondamento oggettivo, si trasformano in arbitrio e ostacolano la solidarietà universale.

44.  Problema demografico e sessualità. L’apertura alla vita è una risorsa, la denatalità è un problema.

45.  L’etica nell’economia. Abuso della parola etica. La vera etica economica rispetta l’inviolabile dignità della persona umana e il valore delle norme morali naturali.

46.  Area intermedia tra imprese profit e non profit: esempi. Occorre una configurazione giuridica e fiscale particolare.

47.  Gli aiuti allo sviluppo nei Paesi poveri. Sussidiarietà. Per evitare disfunzioni della cooperazione internazionale serve trasparenza sui fondi e sul loro uso.

48.  L’ambiente. La natura non è frutto del caso o del determinismo. Due errori opposti: neopaganesimo / tecnica. La natura è una vocazione. Giustizia intergenerazionale.

49.  Risorse non rinnovabili e solidarietà. Riduzione del fabbisogno energetico, redistribuzione planetaria.

50.  Alleanza tra l’uomo e l’ambiente. Chi usa delle risorse comuni ambientali non può scaricarne il costo su altri.

51.  Ecologia ambientale ed ecologia umana. La natura non è una variabile indipendente. Antinomia della mentalità contemporanea, che chiede di rispettare l’ambiente mentre non rispetta l’essere umano.

52.  La verità e l’amore sono prodotti da Dio e accolti dall’uomo. Essi indicano la strada verso il vero sviluppo.

 

 

 

Capitolo quinto: La collaborazione della famiglia umana

 

Nel poderoso quinto capitolo dell’enciclica sono trattati vari argomenti attinenti alle relazioni tra gli esseri umani e ai modi in cui essi possono aiutarsi gli uni con gli altri. In particolar modo il Papa spiega il rapporto tra la persona e la comunità, il rapporto tra l’unica natura e le diverse culture, alcune problematiche educative ed economiche. Benedetto XVI auspica inoltre una riforma dell’ONU che renda davvero efficaci le norme internazionali a tutela dei più deboli.

 

53.  Povertà e solitudine. Vicinanza e comunione. La relazionalità come componente dell’essere umano. La persona sta alla comunità come un tutto sta a un altro tutto.

54.  Trinità e relazionalità umana.

55.  Anche le culture e religioni non cristiane contribuiscono allo sviluppo, ma bisogna distinguere. Esempi di atteggiamenti negativi.

56.  Laicismo e fondamentalismo minacciano la partecipazione di Dio alla sfera pubblica, e ostacolano la collaborazione per lo sviluppo tra ragione e fede religiosa.

57.  Collaborazione tra credenti e non credenti. Benefici del principio di sussidiarietà.

58.  Sussidiarietà e solidarietà. Gli aiuti internazionali e il commercio dei prodotti dei Paesi in via di sviluppo.

59.  Cooperazione allo sviluppo e dialogo. Superiorità tecnologica ≠ superiorità culturale. Pluralismo di culture e legge morale naturale.

60.  L’aiuto allo sviluppo dei PVS è creazione di valore. Eliminare gli sprechi interni. Sussidiarietà fiscale.

61.  Educazione della persona. Turismo internazione: momento educativo (conoscenza culturale) o diseducativo (edonismo, turismo sessuale).

62.  Migrazioni e problematiche connesse. Necessaria collaborazione tra i Paesi di partenza e arrivo. Utilità economica e diritti umani dei lavoratori stranieri.

63.  Nesso tra povertà e disoccupazione. Significati di decenza del lavoro.

64.  Il ruolo dei sindacati. Problemi contemporanei. Distinzione tra sindacati e politica.

65.  Responsabilità del risparmiatore. Microfinanza, microcredito, difesa dall’usura.

66.  Responsabilità del consumatore.

67.  Riforma dell’ONU. Auspicio di una Autorità politica mondiale e di un grado superiore di ordinamento internazionale.

 

 

 

Capitolo sesto: Lo sviluppo dei popoli e la tecnica

 

Il sesto capitolo dell’enciclica è incentrato sul tema della tecnica e sui rischi della mentalità tecnicistica, che cioè crede di poter risolvere tutti i problemi dell’uomo attraverso la tecnica fino a poter ricreare l’uomo stesso.

 

68.  Libertà e dono, “io” costruito e “sé” ricevuto. Degenerazioni dello sviluppo dei popoli.

69.  Lato positivo della tecnica: realizza la vocazione allo sviluppo e il mandato biblico del lavoro.

70.  Ambiguità della tecnica, che può diventare la nuova ideologia. “Come fare” e “perché fare”. Libertà e responsabilità morale.

71.  Tecnicizzazione dello sviluppo.

72.  Tecnicizzazione della pace.

73.  Tecnicizzazione della comunicazione: apparente neutralità e sostanziale subordinazione a poteri economici e ideologici. Necessario un fondamento antropologico per i mass media.

74.  Bioetica: razionalità aperta alla trascendenza VS razionalità chiusa nell’immanenza. Necessario binomio di ragione e fede.

75.  La questione sociale è diventata questione antropologica. La lotta contro povertà e contro la cultura della morte è un tutt’uno.

76.  Riduzionismo psicologico e neurologico. Unità di anima e corpo. Sofferenza spirituale nelle società opulente.

77.  Lo sviluppo umano integrale ha bisogno di una dimensione spirituale.

 

 

 

Conclusione

 

Benedetto XVI conclude la sua enciclica sociale ribadendo l’importanza per lo sviluppo umano della presenza di Dio e invocando l’aiuto della Madonna.

 

78.  Lo sviluppo umano ha bisogno di Dio.

79.  Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani che pregano. Auspicio finale della riunione della famiglia umana nella preghiera del Padre nostro. Citazione di San Paolo. Preghiera alla Vergine Maria.


Caritas in veritate 7

(7) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

Capitolo quarto: sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

Capitolo quinto: la collaborazione della famiglia umana

 

Capitolo sesto: Lo sviluppo dei popoli e la tecnica

 

 

Libertà e dono, “io” costruito e “sé” ricevuto. Degenerazioni dello sviluppo dei popoli.

68. La persona umana è dinamica, costantemente spinta verso lo sviluppo. Questo sviluppo non è meccanicamente predeterminato, perché noi siamo liberi, ma non è neanche completamente affidato alla nostra volontà, perché la nostra libertà non è assoluta ma è determinata dal nostro essere originario e dai nostri limiti. Noi non ci siamo autogenerati, ma siamo un dono ricevuto da noi stessi: ognuno costruisce il proprio “io” sulla base di un “sé” che ha ricevuto.

Se la persona s’illude di essere l’unica produttrice di sé stessa, il suo sviluppo ne soffre. Analogamente lo sviluppo dei popoli degenera se l’umanità crede di potersi ricreare grazie alla tecnologia, così come lo sviluppo economico si deteriora se fa affidamento su artifizi finanziari per inseguire una crescita innaturale. A fronte di questi pericoli bisogna sostenere una libertà non arbitraria, che riconosca il bene e sia orientata verso di esso.

Con questo che è l’ultimo capitolo dell’Enciclica, Benedetto XVI fa un discorso organico su un argomento emerso più volte nella Caritas in veritate: l’ambivalenza della tecnica, la pericolosa illusione di onnipotenza di chi si affida ad essa per ricreare completamente il mondo e l’umanità.

 

Una riflessione particolare. Io non ho alcuna competenza personale in tema di body building (come chiunque può evincere dell’esiguità del mio tono muscolare!), ma ne ho conosciuto alcuni appassionati che mi hanno descritto in toni addirittura entusiastici lo sforzo che fa il culturista per potenziare il proprio fisico, nonché il pericolo che corre se insegue il miraggio di uno sviluppo abnorme senza tenere in considerazione il limite oggettivo della propria struttura fisica per come è e non per come la desidera. Pare che negli ospedali sia pieno così di aspiranti forzuti che hanno esagerato, non hanno rispettato il programma che gli aveva dato l’allenatore e hanno pensato di bruciare le tappe illudendosi di poter diventare He-Man con poco tempo e non troppa fatica, finché una lesione o peggio distrugge il miraggio e li riporta bruscamente alla realtà. Per non parlare di tutto il marcio che gira intorno al mondo del doping, i cui catastrofici effetti spesso si rivelano davvero a distanza di anni.

Tenendo presente tutto questo, trovo particolarmente suggestiva e illuminante questa distinzione che fa il Papa tra “io” e “”, tra il nostro essere che costruiamo dinamicamente giorno per giorno e l’originario stato di partenza che abbiamo ricevuto e che non possiamo rinnegare. Mi sembra che Benedetto XVI stia proprio mettendo in guardia da una sorta di doping spirituale, tecnologico, economico, umano: l’ebbrezza di una libertà assoluta svincolata da ogni limite, l’illusione di potersi ricreare completamente, uno sviluppo impazzito e degenerato che si maschera da progresso ma che in realtà porta verso la distruzione.

 

 

Lato positivo della tecnica: realizza la vocazione allo sviluppo e il mandato biblico del lavoro.

69. Il progresso tecnologico è legato alla libertà dell’uomo. La tecnica diminuisce le difficoltà materiali per l’uomo, e dunque può anche permettergli di dedicarsi con maggiore dedizione al suo lato spirituale. Come nel lavoro, anche nella tecnica l’uomo può realizzare la propria vocazione allo sviluppo e la propria umanità. Perciò la tecnica va vista alla luce del mandato biblico “custodite e coltivate la terra” dato da Dio all’uomo, nel quale si consacra il lavoro umano e il rispetto dell’ambiente.

 

 

Ambiguità della tecnica, che può diventare la nuova ideologia. “Come fare” e “perché fare”. Libertà e responsabilità morale.

70. Ma la tecnica ha anche un volto ambiguo. Quando all’uomo interessa solo il “come fare” e non anche il “perché fare”, quando si illude che la tecnologia sia autosufficiente e possa dare da sola la felicità grazie ad una libertà illimitata, allora l’uomo è in pericolo. Dopo la caduta delle ideologie politiche, la tecnica può diventare una nuova ideologia: essa rinchiude l’essere umano in un mondo sostanzialmente privo di verità, perché fa coincidere il vero con il fattibile e l’utile.

Questo nega il vero sviluppo, il quale non risiede innanzitutto nel “fare” ma nell’intelligenza che governa il fare e gli dà senso. La tecnica amplia le possibilità operative e la libertà dell’uomo, ma non è svincolata dalla sua responsabilità morale.

 

 

Tecnicizzazione dello sviluppo.

 71. Un esempio di distorsione della tecnica è dato dal fatto che sempre più spesso lo sviluppo dei popoli è visto in modo tecnicistico: è cioè considerato come un problema che si può risolvere con l’ingegneria finanziaria e gli investimenti e le riforme e così via. Insomma ci si limita al fatto tecnico, come se il sottosviluppo fosse una macchina che si può aggiustare con uno sforzo impersonale e senza bisogno di buona volontà. Eppure è sotto gli occhi di tutti questo non funziona, perché per lo sviluppo non bastano le misure politico-economiche ma c’è innanzitutto bisogno di uomini giusti e sensibili all’appello del bene comune.

 

 

Tecnicizzazione della pace.

72. Analogamente, anche la pace tra i popoli rischia di essere vista solo come un problema tecnico, che necessita soltanto di rapporti diplomatici ed economici e progetti condivisi e così via. Tutte queste cose sono davvero necessarie, ma non sono sufficienti, perché per essere efficaci devono appoggiarsi su valori concreti e radicati nella verità.

 

 

Tecnicizzazione della comunicazione: apparente neutralità e sostanziale subordinazione a poteri economici e ideologici. Necessario un fondamento antropologico per i mass media.

73. Bisogna poi considerare la questione dei mass media, che grazie alle nuove tecnologie hanno raggiunto una pervasività altissima. Chi ne sostiene l’intrinseca neutralità e l’autonomia rispetto alla morale, considerando solo l’aspetto tecnico della comunicazione, in realtà ne favorisce la subordinazione a certi poteri economici e certi progetti ideologici di imposizione culturale. In realtà i mass media, per la loro estrema importanza nell’influenzare la gente e determinare il modo di percepire la stessa realtà, devono essere oggetto di attenta riflessione e devono trovare il proprio senso in un ben preciso fondamento antropologico. I mezzi di comunicazione di massa permettono l’interconnessione globale e la circolazione delle idee, ma ciò non favorisce di per sé la libertà e la democrazia e  lo sviluppo: a questo scopo è necessario che i mass media siano orientati al servizio delle persone, della carità e della verità.

Questo paragrafo riprende un concetto già espresso ai nn. 19 e 53, ovvero che la “vicinanza” propria della globalizzazione e dei mezzi di comunicazione di massa non si traduce automaticamente in “fratellanza”. Allo stesso modo la diffusione delle idee non garantisce automaticamente la conoscenza e la libertà, anzi è fin troppo facile che essa sia usata nel senso opposto. I regimi totalitari del ‘900 hanno ben saputo utilizzare per i propri fini la radio e il cinematografo, così come le ideologie antiumani di oggi fondano la propria forza anche sulla disinformazione tramite la televisione ed internet.

Si tratta insomma di un discorso estremamente importante ed attuale, come insegna anche la recente vicenda del caso Boffo. Molto facilmente la comunicazione di massa può essere usata per trasmettere la falsità invece della verità. Comunicare non è solo un fatto tecnico: i mass media non sono mai neutrali rispetto alla visione del mondo che trasmettono, anzi spesso si rivendica una falsa neutralità ed autonomia soltanto per meglio perseguire un progetto di disinformazione e manipolazione.

 

Questo porta anche al difficile e spinoso problema del controllo sui mass media, della sua opportunità e ragion d’essere, delle sue forme e dei suoi limiti. Esprimo qui una riflessione personale: pensare di poter rimediare agli abusi e alle storture dei mass media con un controllo pervasivo e preventivo, con la censura, è sbagliato per almeno tre motivi.

1) Anzitutto per una questione morale, e cioè perché cercando di impedire l’uso errato della libertà si va a finire quasi sicuramente per coartare la libertà stessa. Il Concilio Vaticano II ha espresso molto bene questo concetto, ma esso è respinto da una certa visione del cattolicesimo che si identifica con un ultra-tradizionalismo molto critico verso ogni forma di liberalismo, e che anzi a mio parere non riesce neppure a distinguere tra diversi tipi di liberalismo, e pertanto ritiene che un liberalismo cattolico non possa essere altro che una versione camuffata del liberalismo anticattolico. Ma in realtà questo “liberalismo cattolico”, o in qualunque modo lo si voglia chiamare, ha ben poco da spartire con la tipica mentalità liberal intrisa di relativismo. Quest’ultima basa la libertà di parola sull’equivalenza tra verità e falsità, sull’astratta tolleranza verso ogni idea qualunque purchessia (una tolleranza spesso ipocrita e selettiva, è da aggiungere); invece il Concilio Vaticano II lega la libertà di parola alla persona, non all’idea. Non sono le idee sbagliate ad aver diritto di essere diffuse, ma sono le persone che hanno la libertà di diffondere idee sbagliate perché hanno un libero arbitrio che non si può sopprimere senza provocare un danno maggiore. Naturalmente questo uso distorto della libertà è sbagliato, e da esso ci si deve difendere, ma senza che questa difesa sfoci nella negazione della libertà stessa.

(per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, ho trovato questo concetto spiegato egregiamente nel libro “Confini”, un dialogo tra il cardinale Camillo Ruini e lo storico Ernesto Galli Della Loggia, di cui consiglio vivamente la lettura)

2) In secondo luogo è irrealizzabile, perché la storia insegna che bloccare la circolazione delle idee è fattibile soltanto nel breve periodo, mentre nel medio e lungo termine è impossibile. E se questo è stato vero per i periodi storici in cui la conservazione e divulgazione del sapere si affidava soltanto alla trasmissione orale e ai manoscritti, è esponenzialmente più vero per il presente momento storico pervaso dalla comunicazione globale immediata. I pastori hanno il dovere di proteggere il gregge dai lupi, ma non si può riuscire a tenere il gregge in un recinto che sia una campana di vetro.

3) In terzo luogo la censura è controproducente, per vari motivi: per il perverso fenomeno del “frutto proibito” per cui ciò che è vietato diventa più attraente; perché chi viene censurato può spacciarsi per martire, e atteggiarsi a tale anche quando l’idea censurata era completamente sbagliata, ed anzi un’idea completamente infondata può ammantarsi di verità ed essere percepita come vera proprio in quanto è stata inizialmente censurata; e perché affidare a un’istituzione ecclesiastica un potere così grande, decidere a priori cosa deve o non deve essere obbligatoriamente conosciuto dalla totalità delle persone, rischia di corromperla, posto che la grazia di stato non implica che gli ecclesiastici siano automaticamente immuni dai difetti e dalle tentazioni del potere.

 

 

Bioetica: razionalità aperta alla trascendenza VS razionalità chiusa nell’immanenza. Necessario binomio di ragione e fede.

74. Il conflitto tra le due prospettive sulla tecnica, quella assolutista e quella legata alla responsabilità morale dell’uomo, si vede soprattutto nel campo della bioetica. Qui emerge in tutta la sua drammaticità l’illusione dell’uomo di produrre sé stesso dimenticando di dipendere da Dio. Bisogna allora scegliere tra una razionalità aperta alla trascendenza e una razionalità chiusa nell’immanenza; quest’ultima forma di ragione però in ultima analisi dimostra di essere irrazionale poiché rifiuta ogni senso intrinseco dell’esistenza e ogni valore, e poiché non riesce a spiegare come possa essere sorto l’essere dal nulla e come sia nata l’intelligenza dal caso. Qui si vede come la fede e la ragione hanno ciascuna bisogno dell’altra, perché la ragione che è senza fede e centrata solo sul puro “come fare” tecnico alla fine si perde nell’illusione di onnipotenza, mentre una fede senza ragione estrania la gente dalla vita concreta.

 

 

La questione sociale è diventata questione antropologica. La lotta contro povertà e contro la cultura della morte è un tutt’uno.

75. Oggigiorno la questione sociale è diventata una questione antropologica: la lotta alla povertà non può essere separata dalla difesa della vita. La manipolazione dell’uomo con le biotecnologie, la diffusione dell’aborto, la pianificazione eugenetica delle nascite, l’eutanasia per le vite considerate indegne di essere vissute, tutte queste manifestazioni della “cultura della morte” sono negazioni della dignità umana che incidono negativamente sullo sviluppo. Mentre il mondo povero soffre nel degrado e nella miseria, spesso il mondo ricco è indifferente e privo di compassione, e con stupefacente selettività si scandalizza di cose marginali e tollera ingiustizie inaudite.

 

 

Riduzionismo psicologico e neurologico. Unità di anima e corpo. Sofferenza spirituale nelle società opulente.

76. L’assolutismo della tecnica tende a ricondurre tutti i problemi non materiali a una questione psicologica, fino al riduzionismo neurologico. Così viene svilita la complessità dell’animo umano, si riduce l’io alla psiche e si confonde la salute dell’anima con il benessere emotivo. Ma lo sviluppo integrale non può ignorare la crescita spirituale oltre che materiale, perché la persona umana è unità di anima e corpo. Nonostante la ricchezza le società opulente sono colme di alienazioni sociali e nevrosi, di suicidi e schiavitù della droga, anche perché gli uomini sono allontanati da Dio. 

La persona umana è una unità di anima e corpo, un “sinolo” se vogliamo usare la terminologia aristotelica: non una unità monolitica e indifferenziata, e neppure un dualismo di elementi separabili e di per sé unitari, ma piuttosto un “uno-da-due” ovvero un insieme unico che nasce dalla congiunzione di due sostanze intrinsecamente legate che si appartengono l’un l’altra. In un certo senso il cristianesimo non è una religione spirituale, ma è profondamente materialista: il corpo non è la prigione dell’anima, anzi  è importante proprio quanto l’anima. Vale anche qui quel principio di et-et di cui parlavo commentando il paragrafo 59: come in passato si tendeva a svilire il corpo e considerare importante solo ciò che è spirituale e disincarnato, così oggi si eccede nel verso opposto e si disprezza tutto ciò che è spirituale inseguendo la brama di piacere materiale e animalesco. Il cristiano deve evitare entrambi gli errori.

 

 

Lo sviluppo umano integrale ha bisogno di una dimensione spirituale.

77. L’assolutismo della tecnica è incapace di capire tutto ciò che non si spiega con la semplice materia. Eppure tutti noi sperimentiamo aspetti immateriali e spirituali nella nostra vita, perché il conoscere implica sempre andare oltre il dato empirico e sperimentare un plusvalore che è un dono ricevuto. Lo sviluppo dell’uomo e dei popoli necessita di una dimensione spirituale che le dia un “oltre” che la sola tecnica, la sola visione materialistica del mondo, non può dare. Solo così è possibile perseguire uno sviluppo umano integrale, orientato dal criterio della carità nella verità.

Con questo paragrafo, che richiama alla fine il titolo dell’Enciclica, si conclude l’ultimo capitolo della Caritas in veritate. Ora restano soltanto i due paragrafi finali della conclusione.

(e se sapevo che era ‘sta faticaccia, forse non m’imbarcavo nell’impresa….)

 

 


Caritas in veritate 6

(6) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

Capitolo quarto: sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

 

Capitolo quinto: La collaborazione della famiglia umana

 

 

Povertà e solitudine. Vicinanza e comunione. La relazionalità come componente dell’essere umano. La persona sta alla comunità come un tutto sta a un altro tutto.

53. Spesso la povertà nasce dall’isolamento, dal rifiuto dell’amore di Dio, dall’alienazione di chi crede di essere un ente insignificante in un universo casuale. La solitudine è essa stessa una profonda povertà. Ma oggigiorno, ora che l’umanità è estremamente interconnessa, la vicinanza deve diventare vera comunione. I popoli devono riconoscere di essere una sola famiglia e devono integrarsi nel segno della solidarietà.

Questo auspicio ci porta ad approfondire il concetto di relazione. La creatura umana si realizza nelle relazioni interpersonali, nelle quali trova anche la propria identità personale. L’uomo, sia come singolo che come popolo, realizza sé stesso ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. In questo modo la rivelazione cristiana offre ispirazione alla ragione: mentre nei totalitarismi la comunità assorbe la persona annientandone l’autonomia, nella visione cristiana ciò non può accadere perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto. La persona è valorizzata, non assorbita. L’unità della famiglia umana non annulla le diverse popolazioni e le diverse culture, ma li unisce nelle loro legittime diversità.

Con questo paragrafo Benedetto XVI espone sinteticamente la visione cattolica della società, già accennata al paragrafo 7 dell’introduzione. Non vi è luogo per l’individualismo, perché ogni persona ha in sé stessa la tendenza a relazionarsi con gli altri, anzi senza la relazione con gli altri neanche potrebbe realizzarsi: nessuno è veramente self made man. D’altra parte non c’è posto neppure per il totalitarismo perché la persona ha un valore infinito, e perciò non può essere considerata semplicemente una frazione della comunità: la persona sta alla comunità non come la parte sta al tutto, ma (e qui il Papa cita in nota San Tommaso d’Aquino * ) come un tutto sta a un altro tutto.

 

Questa suggestiva immagine del “tutto al tutto” mi fa venire in mente, per un’associazione d’idee forse peregrina ma spero utile alla comprensione, la questione degli insiemi infiniti di Cantor. Ne accenno qui in modo non rigoroso, più intuitivo che analitico (ma sostanzialmente corretto secondo la mia matematica di fiducia, Crosta – grazie!), soltanto al fine di aiutare il lettore a visualizzare mentalmente l’idea di “tutto al tutto”.

Considerate l’insieme N dei numeri naturali {1,2,3,4,5…} e vi avvederete facilmente che è infinito: non esiste un numero così grande da non poter aggiungere ancora +1 e proseguire la serie. Ma ora considerate l’insieme dei multiplidi un qualunque numero, per esempio l’insieme P dei numeri pari {2,4,6,8…}. E’ chiaro che P è un sottoinsieme di N, ma è minore di N? Sembrerebbe ovvio rispondere sì, perché tutti gli elementi di P sono contenuti anche in N ma non è vero il contrario (i numeri dispari sono in N ma non sono in P). Saremmo addirittura tentati di dire che P è proprio la metà di N. Ecco però che ci accorgiamo che P è anch’esso infinito, perché non esiste un numero pari a cui non si possa ancora aggiungere ancora +2. Addirittura tra P e N c’è corrispondenza biunivoca, perché ad ogni elemento di N corrisponde precisamente un elemento di P e viceversa (ogni numero e il suo doppio). Insomma, l’insieme P è contenuto in N eppure non è minore di N (in termini tecnici si dice che P è “equipotente” a N e che i due insiemi hanno la stessa “cardinalità”). Quando si ha a che fare con numeri che coinvolgono l’infinito, la matematica “normale” non funziona più.

 

Ecco, io penso che possiamo usare quest’esempio dell’infinito nell’infinito per capire meglio quello che dicono San Tommaso e Benedetto XVI. Ogni persona ha sempre un valore infinito e perciò non diventa mai una semplice parte della comunità, un’appendice marginale e fungibile. Io sono nella comunità, ma al tempo stesso ho – passatemi la metafora matematica – la medesima “cardinalità” rispetto ad essa, in termini di valore della persona. Corollario principale di questa concezione è che il mio benessere non può essere “matematicamente” sacrificato al benessere della maggioranza: se io facessi parte di una comunità di 10 persone, e le altre 9 decidessero arbitrariamente che la mia morte le renderebbe tutte molto felici, loro non potrebbero comunque decidere di sopprimermi (almeno, non in una comunità che ha conservato il concetto cristiano di persona). Un voto 9 a 1 sulla mia uccisione non sarebbe valido. Non potrebbero argomentare che il piacere che io provo nel vivere vale proprio 1/9 del piacere che loro proverebbero alla mia morte. Non potrebbero farlo perché non si può applicare questa matematica al valore infinito della persona, perché rispetto alla comunità io non sono una parte ma un tutto infinito rapportato a un altro tutto.

Se casomai l’esempio della vita giudicata un n-esimo rispetto a una comunità di n membri vi sembrasse spinto troppo oltre, allora conviene notare che è proprio a questo che arriva l’utilitarismo contemporaneo. Proprio questo è ciò che teorizza un riverito filosofo come Peter Singer, il quale tra gli applausi sostiene tra l’altro che non c’è una differenza intrinseca di valore tra vita umana e animale, che le vite umane non sono tutte uguali ma hanno valore differente a seconda della “qualità della vita”, che la bioetica deve essere basata sull’utilitarismo, che i neonati e gli invalidi gravi non sono persone in quanto privi di consapevolezza e autonomia e perciò se indesiderati possono essere soppressi nonché vivisezionati per la ricerca scientifica… Capito? Bentornato totalitarismo.

 

* Per una traduzione delle citazioni dell’Aquinate (“ratio partis contrariatur rationi personae” e “Homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua”) riporto quanto gentilmente spiegatomi dal mio tomista di fiducia, piccolo Zaccheo (grazie!):

La prima citazione è tratta dal III libro del Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, distinctio V, quaestio 3, articulus 2. E’ un celebre assunto di Tommaso, secondo il quale, letteralmente, “il concetto di parte è contrario al concetto di persona”, vale a dire che i due concetti, quello di parte (di una totalità) e quello di persona, sono in opposizione fra di loro: la singola persona umana non può essere considerata come parte di un tutto, implicando con ciò che essa non avrebbe esistenza al di fuori di questo tutto, o che vivrebbe in funzione di questo tutto. La persona non è una “parte”, è irriducibile a parte di un tutto: perché essa stessa è un “tutto”.

In termini più chiari, la stessa cosa viene espressa nella seconda citazione, tratta dalla Summa Theologica, Prima (pars) secundae (partis), quaestio 21, articulus 4, in risposta al terzo argomento. La frase può essere tradotta così: “L’uomo non è fatto per (letteralm.: non è ordinato a, non ha come fine ultimo) l’associazione politica interamente e in tutto ciò che egli ha”; al contrario, prosegue Tommaso, “tutto ciò che l’uomo è, può ed ha, deve essere ordinato (o diretto) a Dio” (sed totum quod homo est et quod potest et habet ordinandum est ad Deum). Bellissimo concetto, che allontana Tommaso da qualunque visione immanentista e totalitaria di Stato. Potremmo dire in chiave moderna: non la persona è il fine dello Stato, ma il fine dello Stato è la persona.

 

Un’ultima riflessione sul paragrafo, prima di tornare al riassunto dell’Enciclica. Trovo particolarmente utile e interessante la distinzione che fa Benedetto XVI tra vicinanza e comunione, specie nell’epoca di Internet. Tutti i mezzi di comunicazione istantanea che noi possiamo utilizzare – telefonini, blog, chat, facebook, qualsiasi cosa – di per sé non ci rendono affatto più amici. Siamo virtualmente vicini, ma questo non vuol dire che ci vogliamo bene. Potrei avere tanti “amici” su facebook e tanti commenti sul blog e ciononostante sentirmi disperatamente solo e infelice fino a desiderare la morte. Quante persone “di successo”, quanti professionisti strapieni di relazioni pubbliche, quanti con l’agendina affollata improvvisamente si ammazzano lasciando “amici” e “conoscenti” nello sbalordimento totale?

Internet è una grandiosa opportunità di stringere amicizie, ma non è niente di più che questo, un’opportunità, destinata ad essere vana se non sappiamo trovare dentro noi stessi la capacità di relazionarci veramente con gli altri e uscire dal nostro isolamento e dalla nostra povertà affettiva.

Però, d’altra parte, io credo che valga anche la considerazione inversa. Se c’è quel contatto umano, se c’è quella comunione chiamata amicizia a cui ogni ognuno anela e di cui nessuno può fare a meno senza lesionarsi, allora la distanza chilometrica non conta. A questo scopo la vicinanza virtuale non è meno reale della vicinanza fisica. Ci sono varie persone che ho conosciuto su internet, delle quali non ho mai neppure visto il volto o sentito la voce, a cui posso dire: voi siete veramente miei amici.

 

 

Trinità e relazionalità umana.

54. L’unione di tutte le diverse persone e popolazioni in una sola famiglia umana è un argomento che può essere meglio compreso alla luce del mistero trinitario che ci è stato rivelato. La Trinità è assoluta unità perché le tre divine Persone sono pura relazionalità. Similarmente, la relazione tra gli uomini non significa dispersione ma compenetrazione. Anche noi esseri umani possiamo, conservando perfettamente la nostra identità, diventare una cosa sola con altri esseri umani, come nell’amore sacramentale che unisce i coniugi, come nella concordanza con cui pensano liberamente all’unisono le menti che hanno trovato la verità.

 

 

Anche le culture e religioni non cristiane contribuiscono allo sviluppo, ma bisogna distinguere. Esempi di atteggiamenti negativi.

55. La rivelazione cristiana insegna che la relazionalità è un elemento costitutivo dell’essere umano. D’altra parte vi sono anche altre culture e religioni che insegnano la fratellanza, e pertanto sono molto importanti per uno sviluppo umano integrale. Tuttavia vi sono altresì anche atteggiamenti culturali e religiosi in cui il principio dell’amore e della verità fa fatica ad affermarsi, e perciò ostacolano lo sviluppo umano: ad esempio quelle culture religiose che perseguono unicamente la gratificazione psicologica dell’individuo, la dispersione dei percorsi religiosi “fai-da-te” e del sincretismo, la permanenza di caste sociali che ingessano la società, le credenze magiche ed occultistiche. A fronte di tutto questo, è necessario riconoscere che la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso. Le religioni non sono tutte uguali ed è necessario discernere circa il diverso contributo che possono dare allo sviluppo.

Ecco un paragrafo molto politicamente scorretto, che afferma una verità “scandalosa” per gli uni e per gli altri: anche le culture e le religioni non cristiane sono importanti per lo sviluppo, ma bisogna distinguerne i vari aspetti. Benedetto XVI fa un riferimento in nota alla famosa (per tanti, anche nominalmente cattolici, “famigerata”) Dominus Jesus, cioè la Dichiarazione circa l’unicità e la l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa emanata da lui stesso quand’era alla Congregazione per la Dottrina della Fede. In quel testo il cardinale Ratzinger fondamentalmente ricordava che i cristiani cattolici sono tali se e solo se, ma guarda un po’, credono in Cristo e nella Chiesa cattolica e non credono in altre cose incompatibili: e molti reagirono male a questa pretesa così arrogante, così inammissibile, così contraria alla modernità…

 

 

Laicismo e fondamentalismo minacciano la partecipazione di Dio alla sfera pubblica, e ostacolano la collaborazione per lo sviluppo tra ragione e fede religiosa.

56. Il cristianesimo e le altre religioni possono essere d’aiuto allo sviluppo solo se Dio trova posto nella sfera pubblica. Ciò oggi è minacciato e impedito sia dal laicismo, che esclude ogni religione dall’ambito pubblico, e sia dal fondamentalismo, che impone a forza una religione sopprimendo le altre. In questo modo si indeboliscono i diritti umani, o perché privati del loro fondamento trascendente o perché è tolta la libertà personale; e si perde la possibilità di una collaborazione proficua tra la ragione e la fede religiosa, le quali hanno ciascuna bisogno dell’altra.

 

 

Collaborazione tra credenti e non credenti. Benefici del principio di sussidiarietà.

57. Il dialogo tra fede e ragione incentiva altresì la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti, tra cui ci sono importanti punti di contatto già affermati nella Gaudium et spes. I credenti sanno che il mondo non viene dal caso o dalla necessità, ma da un progetto di Dio; essi devono sforzarsi di fare effettivamente corrispondere il mondo a questo progetto, e a questo scopo devono unire i propri sforzi con tutte le persone di buone volontà, anche di altre religioni o non credenti.

A questo scopo, essi devono ispirarsi al principio di sussidiarietà. Secondo tale principio, si deve offrire aiuto alle persone ed ai soggetti sociali quando essi non riescono a raggiungere da soli i propri obiettivi. Con questo criterio si garantisce l’autonomia dei corpi intermedi, e si favoriscono tanto la libertà personale quanto l’assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità umana ed ostacola l’assistenzialismo paternalista, perché ha a cuore la reciprocità dell’aiuto e vede nella persona un soggetto capace non solo di chiedere, ma anche e innanzitutto di dare. Ed essa è imprescindibile se si vuole governare la globalizzazione, orientarla verso un vero sviluppo umano, senza sfociare in un pericoloso potere universale monocratico.

 

 

Sussidiarietà e solidarietà. Gli aiuti internazionali e il commercio dei prodotti dei Paesi in via di sviluppo.

58. La sussidiarietà deve essere strettamente connessa alla solidarietà: la prima senza la seconda scade nel particolarismo sociale, ma la solidarietà senza sussidiarietà scade nell’assistenzialismo umiliante. Questa regola vale anche per gli aiuti internazionali allo sviluppo, che nonostante le buone intenzioni possono mantenere situazioni di dipendenza e perfino di sfruttamento. Gli aiuti devono essere erogati sempre tenendo presente la sussidiarietà e cioè coinvolgendo i diretti interessati, facendoli partecipare dal basso, valorizzando le risorse locali.

I Paesi in via di sviluppo hanno altresì bisogno di inserire i loro prodotti nei mercati internazionali. Se gli aiuti creano soltanto mercati marginali per i prodotti locali dei PVS, non servono a molto. Bisogna aumentare la domanda di tali prodotti, e per fare ciò bisogna anzitutto aiutare i PVS a migliorarne la qualità. Molti temono la concorrenza delle importazioni di prodotti dai PVS, specie dei prodotti agricoli, ma per tali Paesi poter commercializzare i propri prodotti significa garantirsi la sopravvivenza nel lungo periodo a prescindere dagli aiuti internazionali. Un commercio internazionale bilanciato può portare benefici a tutti.

Con questo paragrafo il Papa, dopo aver spiegato il concetto generale di sussidiarietà, ne dà un esempio concreto e tocca un argomento assai controverso, ovvero quello della concorrenza internazionale tra produttori dei Paesi sviluppati e produttori dei PVS (Paesi in via di sviluppo), specie per quanto riguarda i beni agricoli. E’ comprensibile che i primi temano la concorrenza dei secondi, così come è comprensibile che ad un commerciante possa sembrare assurda l’idea di sostenere i propri potenziali concorrenti (ed anzi preferisca dar loro una magra elemosina “una tantum” che abbia proprio come fine, dichiarato o nascosto, quello di mantenerli eternamente nella subalternità economica).

Eppure ciò che dice Benedetto XVI è che aiutare i produttori dei PVS non è soltanto “buono” dal punto di vista morale, ma in prospettiva anche “utile” dal punto di vista economico: rendere i PVS capaci di sostenersi da soli ridurrebbe la necessità degli aiuti internazionali, fino a poterne definitivamente fare a meno. Ed è inoltre il caso di ricordare quanto si diceva al paragrafo 27, perché sostenere la redditività dei PVS significa sostenerne anche il potere di acquisto, il che in prospettiva va a vantaggio anche e proprio dei produttori dei Paesi avanzati, specialmente nei periodi di recessione in cui si contraggono le spese dei consumatori dei Paesi sviluppati.

Insomma, ancora una volta l’operatore economico è posto di fronte al dilemma: badare in modo egoistico e miope al proprio “particulare” immediato, oppure agire in modo solidale e mirato in vista del bene comune e di un futuro ritorno economico.

 

 

Cooperazione allo sviluppo e dialogo. Superiorità tecnologica superiorità culturale. Pluralismo di culture e legge morale naturale.

59. La cooperazione allo sviluppo non riguarda solo l’aspetto economico: essa può diventare una grande occasione di incontro culturale. I soggetti della cooperazione non possono svolgere efficacemente il proprio compito se ignorano l’identità culturale dei paesi poveri, né questi ultimi possono conseguire un autentico sviluppo se accettano acriticamente ogni proposta culturale delle società cosiddette progredite. Superiorità tecnologica non significa superiorità culturale. Le società avanzate devono riscoprire alcune virtù ora spesso dimenticate che sono alla base del proprio successo, e le società in via di sviluppo devono rimanere fedeli a quanto c’è di buono nelle proprie tradizioni.

Tutte le culture del mondo hanno convergenze etiche e tratti in comune che esprimono la radice di una medesima natura umana e una stessa legge morale naturale. Questa base comune permette il dialogo e consente un pluralismo positivo. E d’altra parte nessuna cultura può dirsi perfetta, ognuna ha delle ombre da cui deve purificarsi. La fede cristiana non si identifica con una cultura particolare, ma si incarna nelle culture trascendendole, e con ciò può aiutarle a crescere nella solidarietà universale per lo sviluppo umano.

Anche questo paragrafo tratta un argomento complesso ed importante. Il tema del rapporto tra le culture era già stato affrontato al paragrafo 26, in cui il Papa aveva parlato dei pericoli opposti di eclettismo e appiattimento culturale; ora Benedetto XVI amplia il discorso e si sofferma sul nesso tra natura, culture e cristianesimo.

Breve premessa. La logica cattolica si muove sovente all’insegna di un principio chiamato et – et, che sinteticamente consiste nell’associare due idee in relazione dialettica tra di loro. Ciò perché spesso è proprio questa relazione dialettica a dare luogo alla molteplicità del reale, all’immensa varietà e complessità della vita. Il tragico sbaglio dell’eresia, nonché di quella forma secolare di eresia che è l’ideologia, è spezzare questa relazione e separare le idee assolutizzando l’una e negando l’altra. Così l’ideologia perde la possibilità di capire appieno il reale e ne vede soltanto una frazione, scambiandola per il tutto. Questo è particolarmente dannoso quando l’ideologia è parzialmente corretta, abbastanza da convincere parecchia gente (fosse completamente sbagliata e slegata dalla realtà, non convincerebbe nessuno), tuttavia è ancor più incorretta e perciò provoca disastri.

 

In questo caso le due idee in relazione sono l’unità della natura umana e la pluralità delle culture. La vulgata diffusa del relativismo nega la prima idea, non esiste la natura e non c’è una morale naturale valida per tutti, e ammette solo l’esistenza delle diverse culture. E poiché non esiste un parametro universale di bene e male queste culture sono moralmente incommensurabili, non possono essere comparate tra loro, non si possono fare paragoni di superiorità e inferiorità e soprattutto non si può dire “la mia cultura è migliore della tua” perché questa è la scusa preferita dei colonialisti e degli invasori. Quello che non ci piace delle altre culture dobbiamo tollerarlo, non possiamo criticarlo. Questa mentalità provoca molti danni soprattutto in un tempo di migrazioni come questo. Interi gruppi socialmente chiusi si trasferiscono nelle nostre nazioni ma non si integrano con la nostra cultura, alcuni adattandosi a fatica e controvoglia alle nostre leggi, e si tende nel nome del politicamente corretto a tollerare da parte loro comportamenti intollerabili da parte degli autoctoni. Una società basata su una simile idea di tolleranza si avvia inesorabilmente verso la disgregazione; basta guardare cosa sta succedendo in Olanda e in Inghilterra, dove l’introduzione di tribunali che applicano la sharia per i musulmani non è più un’ipotesi inaudita e impensabile.

L’errore opposto è la negazione della pluralità di culture. Esiste una sola cultura valida, c’è un solo pervasivo e onnicomprensivo pensare che deve andar bene per tutti gli esseri umani. Questa cultura è assolutamente “giusta” mentre tutte le altre culture sono radicalmente “sbagliate” e devono essere eliminate. Cosa molto importante, Benedetto XVI ci fa notare che questo errore non è legato soltanto alle forme esplicite di colonialismo militare del passato e del presente; esso si presenta anche in forme più sfumate e subdole, tramite un’idea di progresso tecnocratico ed edonistico che vorrebbe cancellare, con un’accorta penetrazione culturale e ricatti economici e limitando la loro possibilità di esprimersi nel dibattito pubblico, tutte le antiche culture e tutti i tradizionali modi di pensare che si oppongono alle “magnifiche sorti e progressive”.

Il Papa, ovvero la dottrina sociale della Chiesa, respinge entrambi questi errori e coniuga l’unicità della natura con la pluralità delle culture. La natura sta alla cultura come la radice sta alla declinazione. Il pluralismo culturale è legittimo nella misura in cui le diverse culture sviluppano diversi aspetti positivi della comune natura umana. Ma poiché la natura umana non è perfetta, neanche le culture possono esserlo e ciascuna di esse contiene, in varia misura, degli aspetti negativi. Un confronto tra le culture in termini di maggiore o minore bontà può essere fatto, proprio perché c’è un parametro oggettivo di riferimento che è la natura umana, e deve essere fatto, nell’ottica della correzione fraterna, ma nessuna cultura può pretendere di essere assolutamente valida e imporsi come pensiero unico alla totalità del genere umano.

 

Come si inserisce il cristianesimo nel rapporto tra natura e culture? Il cristianesimo non è una cultura perché non deriva dalla natura ma da Dio, dal suo incontro personale con l’uomo, che completa e purifica la natura per mezzo della Grazia. Il cristianesimo di per sé non coincide con nessuna cultura specifica, anche se alcune in particolare gli sono maggiormente congeniali (vedi per esempio il “famigerato” discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sull’incontro provvidenziale con la razionalità greca e le conseguenze negative della dis-ellenizzazione del cristianesimo), mentre altre gli sono più ostili. Ma in linea generale il cristianesimo può (anzi deve, e ormai nell’epoca della globalizzazione non può non) adattarsi alle diverse culture, attraverso quel processo difficile ma doveroso che è chiamato inculturazione.

 

 

L’aiuto allo sviluppo dei PVS è creazione di valore. Eliminare gli sprechi interni. Sussidiarietà fiscale.

60. L’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri va considerato come un investimento per creare valore e ricchezza di cui tutti potranno beneficiare. In questa prospettiva, è opportuno per gli Stati avanzati destinare maggiori quote del prodotto interno lordo agli aiuti; questo sforzo economico può essere agevolmente sostenuto eliminando gli sprechi al proprio interno, in particolare nell’assistenza sociale. Un’ulteriore possibilità di aiuto può venire dall’applicazione della sussidiarietà fiscale, permettendo ai cittadini di decidere sulla destinazione di una quota delle imposte statali, purché si evitino degenerazioni particolaristiche.

 

 

Educazione della persona. Turismo internazione: momento educativo (conoscenza culturale) o diseducativo (edonismo, turismo sessuale).

61. Tra i compiti della solidarietà vi è anche garantire un maggiore accesso all’educazione. “Educare” non significa semplicemente dare un’istruzione o preparare al lavoro, ma riguarda la formazione integrale della persona, della quale perciò bisogna conoscere la natura. L’educazione diventa pertanto molto difficile in un contesto di relativismo che ostacola la percezione della morale naturale; e ne è compromesso l’aiuto fornito alle popolazioni bisognose, le quali necessitano non solo di mezzi economici ma anche di mezzi pedagogici che li portino a realizzarsi.

Un esempio del problema educativo è dato dal fenomeno del turismo internazionale. Esso può essere veicolo di sviluppo economico e di crescita culturale, momento educativo di conoscenza reciproca. Ma può essere altresì occasione di sfruttamento e degrado, esperienza diseducativa sia per il turista che per le popolazioni locali: ciò accade particolarmente nel caso del turismo sessuale, che non risparmia i bambini, perfino con l’avallo dei governi locali e dei governi da cui provengono i turisti nonché la complicità degli operatori turistici. Ed anche quando non si scende tanto in basso, è comunque frequente il turismo vissuto come evasione dalla morale quotidiana e sfogo edonistico. Bisogna perciò incoraggiare il turismo visto come educazione e dialogo culturale, con l’aiuto della cooperazione internazionale e l’imprenditoria per lo sviluppo.

 “Educare” deriva dal latino ed unisce la particella “ex-“ (fuori da) con il verbo duco (guidare, condurre). Educare vuol dire guidare fuori, far uscire allo scoperto qualcosa che è già presente nel soggetto educato; il quale pertanto non è un contenitore vuoto da riempire come pare e piace, ma possiede una natura intrinseca già presente che va rispettata e aiutata a svilupparsi.

Chiaramente si tratta di una concezione di educazione incompatibile con una visione relativista dell’uomo. Se non c’è natura ma soltanto cultura, allora educare diventa come creare un robot: l’uomo è una tabula rasa, un foglio bianco su cui l’autorità può tracciare il disegno che vuole per i propri fini. Qui si capisce meglio quanto Benedetto XVI diceva al paragrafo 26, e cioè che l’uomo separato dalla natura e ridotto a mero prodotto culturale può essere manipolato con estrema facilità da chi ha il potere.

 

 

Migrazioni e problematiche connesse. Necessaria collaborazione tra i Paesi di partenza e arrivo. Utilità economica e diritti umani dei lavoratori stranieri.

62. Un altro aspetto collegato allo sviluppo umano integrale è il fenomeno delle migrazioni. Si tratta di una questione che richiede una fortissima collaborazione tra i Paesi di provenienza e di arrivo dei migranti, nonché un’accorta legislazione che sappia salvaguardare sia i diritti umani delle persone e famiglie emigrate e sia le esigenze delle società di approdo. Nessun Paese può sperare di risolvere da solo i problemi legati ai flussi migratori. Peraltro, i lavoratori stranieri comportano un carico di difficoltà legate alla loro integrazione, ma recano un innegabile contributo allo sviluppo economico del Paese ospite e tramite le rimesse finanziarie anche al Paese originario; e non bisogna mai dimenticare che ogni migrante è una persona umana che possiede diritti fondamentali e inalienabili.

 

 

Nesso tra povertà e disoccupazione. Significati di decenza del lavoro.

63. C’è un evidente nesso diretto tra la povertà e la disoccupazione. La povertà nasce spesso dall’impossibilità di lavorare o dalla violazione dei diritti del lavoratore al giusto salario e alla sicurezza personale. Giovanni Paolo II nel 1 maggio del 2000, in occasione del Giubileo dei Lavoratori, lanciò un appello mondiale per un lavoro decente: intendendo con questa parola ad esempio un lavoro scelto liberamente, che contribuisce allo sviluppo della comunità e lascia spazio per ritrovare le proprie radici, che consente di mantenere e scolarizzare i figli senza costringerli al lavoro infantile, in cui i lavoratori non sono discriminati e possono organizzarsi liberamente e ricevono un trattamento dignitoso quando giungono alla pensione.

 

 

Il ruolo dei sindacati. Problemi contemporanei. Distinzione tra sindacati e politica.

64. È altresì urgente che le organizzazioni sindacali dei lavoratori si aprano alle nuove prospettive emergenti nel mercato del lavoro. Oggi negli studi di scienze sociali si parla di conflitto tra persona-lavoratrice e persona-consumatrice, e c’è chi parla di un compiuto passaggio dalla centralità del lavoratore alla centralità del consumatore: si tratta di un mutamento che i sindacati non possono ignorare. Parimenti i sindacati nazionali non possono limitarsi alla difesa esclusiva dei propri iscritti, ma devono rivolgersi anche ai non iscritti, e in particolare ai lavoratori dei Paesi in via di sviluppo dove i diritti sociali sono violati. La Chiesa ha sempre sostenuto le organizzazioni dei lavoratori, ricordando l’opportuna distinzione di ruoli e funzioni tra sindacati e politica. Tale distinzione individua nella società civile l’ambito proprio all’azione sindacale.

 

 

Responsabilità del risparmiatore. Microfinanza, microcredito, difesa dall’usura.

65. È necessario che la finanza, emendata dal cattivo uso che ha danneggiato l’economia reale, torni ad essere finalizzata allo sviluppo. Gli operatori finanziari devono riscoprire il fondamento etico della loro attività e non devono abusare di strumenti sofisticati per tradire i risparmiatori. La regolamentazione del settore deve tutelare questi ultimi, i quali devono peraltro essere consapevoli della propria responsabilità in relazione all’uso dei loro soldi, e alle conseguenze economiche e morali di quest’uso. A questo riguardo va notato che l’esperienza della cosiddetta microfinanza si è dimostrata molto utile – si pensi ai Monti di Pietà – e va ulteriormente rafforzata per dare aiuti concreti ai ceti deboli della società. Bisogna inoltre educare i soggetti deboli a difendersi dall’usura e a trarre reale vantaggio dal cosiddetto microcredito.

Il concetto di responsabilità del risparmiatore-investitore si lega a quanto già detto ai paragrafi 40 e 45.

Con microfinanza s’intende generalmente la prestazione di servizi economici e finanziari per cifre di importo relativamente esiguo e preferenzialmente rivolti alle fasce svantaggiate della società. Fondamentalmente la parte più importante della microfinanza è il microcredito, con il quale si concedono prestiti esigui ma utilissimi a soggetti imprenditoriali che non sono in grado di offrire le garanzie tipicamente richieste dalle banche tradizionali; si tratta di un mezzo di enorme aiuto nei Paesi in via di sviluppo e viene spesso ascritto all’inventiva del banchiere Muhammad Yunus, Nobel per la Pace 2006. Inoltre il microcredito e la microfinanza si vanno diffondendo anche nei Paesi sviluppati, anche se qui bisogna distinguere (e mi pare che Benedetto XVI ne faccia cenno) tra il microcredito effettivamente utile perché rivolto ai poveri e quelle forme di credito che sono invece rivolte a chi si indebita a cuor leggero, per beni superflui e in una spirale di consumismo crescente.

Infine è il caso di notare che l’accenno del Papa ai Monti di Pietà non pare casuale, ma sembra quasi “rivendicare” l’importanza del contributo cristiano e cattolico all’economia: i Monti di Pietà nascono già nel XV secolo per iniziativa dei Francescani e possono essere a tutti gli effetti considerati delle forme di microfinanza e microcredito ante litteram.

 

 

Responsabilità del consumatore.

66. L’interconnessione mondiale ha fatto emergere il fenomeno delle associazioni dei consumatori. È bene che le persone prendano consapevolezza che acquistare è un atto morale oltre che economico, e che esiste una responsabilità sociale del consumatore. Possono sorgere forme di cooperazione all’acquisto, come le cooperative di consumo; ed è opportuno privilegiare l’acquisto di prodotti provenienti da aree povere, in cui i produttori sono decentemente retribuiti. I consumatori possono e devono svolgere un ruolo importante di democrazia economica, facendo attenzione a non farsi strumentalizzare da associazioni non veramente rappresentative.

 

 

Riforma dell’ONU. Auspicio di una Autorità politica mondiale e di un grado superiore di ordinamento internazionale.

67. Infine, l’interdipendenza mondiale e la recessione globale richiedono urgentemente una riforma dell’ONU e dell’architettura economica internazionale, come pure nuovi modi per attuare il principio della responsabilità di proteggere e per implementare la partecipazione delle Nazioni povere alle decisioni comuni. Vi sono obiettivi impellenti di un buon governo della globalizzazione, del risanamento dell’economia, del disarmo, della tutela dell’ambiente e della disciplina dei flussi migratori. Per tutto ciò è necessaria una vera Autorità politica mondiale, che già fu auspicata dal Beato Papa Giovanni XXIII. Questa Autorità dovrebbe esercitare il proprio potere sulla base dei principi di sussidiarietà e solidarietà, essere impegnata ad uno sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità, essere dotata poteri effettivi per far rispettare le proprie decisioni: altrimenti il diritto internazionale continuerà ad essere condizionato dagli equilibri di potere dei più forti. Ai fini dello sviluppo integrale e della collaborazione internazionale deve essere istituito un grado superiore di ordinamento internazionale, di tipo sussidiario, che finalmente attui quanto già scritto nello Statuto delle Nazioni Unite circa la corrispondenza tra sfera morale e sociale, politica ed economica.

Questa parte ha fatto molto discutere i commentatori “laici” dell’Enciclica. Cosa vuol dire il Papa con questa Autorità politica mondiale? Sta forse auspicando uno Stato Mondiale? Che cosa dovrebbe essere un “grado superiore di ordinamento internazionale”? Una riforma dell’ONU in che senso?

In realtà, ciò che qui dice il Papa non è affatto nuovo o inaudito. Probabilmente molti non si sono neanche accorti che il paragrafo in effetti riprende fedelmente il Discorso all’Assemblea Generale dell’ONU tenuto da Benedetto XVI il 18 aprile 2008 (di cui si consiglia vivamente la lettura) e nel quale ugualmente si parlava di un “grado superiore di ordinamento internazionale” (che a sua volta è un’espressione derivante dalla Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II) e della responsabilità di proteggere, nonché degli attuali problemi del diritto internazionale – dei quali provo qui a dare una spiegazione comprensibile per quanto estremamente sintetica.

 

Il problema principale del diritto internazionale è che non si sa neppure se sia o non sia un diritto, un vero ordinamento giuridico composto da vere e proprie norme. Una norma si compone del precetto (la condotta che bisogna osservare o evitare) e della sanzione (la punizione verso chi viola il precetto): ma nelle norme internazionali non c’è vera sanzione, perché manca un’autorità centrale riconosciuta e dotata del potere effettivo di infliggere la sanzione. Né questo ruolo può essere svolto dall’ONU: anzitutto perché la sua natura è quella di un’associazione tra Stati, per quanto vasta, e non già quella di un ente ad essi superiore, e in secondo luogo perché l’attività dei suoi organi deliberanti (particolarmente del Consiglio di Sicurezza, che sarebbe competente a punire le minacce alla pace mondiale) è spesso paralizzata da veti incrociati e ostruzionismi procedurali.

D’altra parte le norme internazionali non sono neppure, in senso stretto, emanate. Esse si compongono di 1) consuetudini che si sono stratificate nel tempo attraverso le relazioni diplomatiche tra gli Stati, 2) accordi bilaterali o multilaterali tra Stati, 3) provvedimenti adottati dalle Organizzazioni Internazionali verso gli Stati aderenti; in tutti questi casi manca un’autorità superiore da cui promani la validità delle norme, le quali in concreto vincolano soltanto chi vuole continuare a rispettare la consuetudine o chi ha sottoscritto l’accordo o aderisce all’Organizzazione. Soltanto per le consuetudini che hanno riguardo ai cd. diritti umani si parla di ius cogens, cioè diritto che vincola tutti, ma si osserva facilmente che questa vincolatività resta più una dichiarazione di principio che una realtà di fatto.

Insomma il diritto internazionale è un “diritto senza forza”, acefalo e disarmato, che perciò spesso risulta inefficace mentre in concreto le relazioni tra gli Stati sono governate dal “diritto della forza”.

 

In questa situazione riaffiora allora in tutta la sua drammaticità la separazione tra giusnaturalismo e giuspositivismo, tra chi pensa che la norma giuridica derivi in ultima analisi da una Giustizia naturale oggettiva (ius naturale) e chi invece pensa che derivi semplicemente dall’autorità che la pone in essere (ius positum). Se nel diritto internazionale, già privo di suo di un vero e proprio ius positum, viene meno anche ogni richiamo ad un diritto naturale che precede le leggi, allora davvero non resta altro spazio che per la forza bruta. Ed in effetti la dottrina dei diritti umani dopo la II guerra mondiale ha rappresentato proprio un “ritorno di fiamma” del giusnaturalismo, in opposizione al giuspositivismo assoluto del nazismo; il Processo di Norimberga si basava sul presupposto che esistono azioni così disumane che non possono mai essere legittime, neanche se uno Stato sovrano le dichiara tali, né ci si può difendere obiettando che “eseguivamo gli ordini ricevuti”; ed esistono dei diritti che appartengono all’essere umano per la sua stessa natura, e non perché ci sia uno Stato che glieli attribuisce.

La stessa responsabilità di proteggere, ovvero il diritto/dovere d’intervento umanitario, nasce da questa prospettiva: se uno Stato opprime i propri cittadini e ne conculca i diritti umani, gli altri Stati hanno il diritto o addirittura il dovere di intervenire, anche violando la sovranità interna dello Stato colpevole. D’altra parte questo concetto si presta anche ad abusi e strumentalizzazioni, perché sarebbe comodo per lo Stato forte invadere il debole per i propri motivi di opportunità sotto il pretesto dell’intervento umanitario, e perciò bisogna usare estrema attenzione nel giudicare se sussistono davvero i requisiti della responsabilità di proteggere.

 

Alla luce di tutto questo, allora, la mia personale (opinabile) interpretazione è che la “ricetta” di Benedetto XVI per migliorare il diritto internazionale, portarlo ad un “grado superiore”, implichi agire in due direzioni. Dal “lato del giusnaturalismo”, bisogna riconoscere e ribadire con forza il fondamento naturale dei diritti umani, nonché il legame tra le norme di diritto internazionale ed il loro sostrato di giustizia sostanziale: infatti, come già diceva nel Discorso all’Assemblea ONU, “l’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali”.

Ma al tempo stesso è necessario agire anche dal “lato del giuspositivismo”, ed è per questo che il Papa parla di una riforma dell’ONU in modo che essa sia trasformata in, o affiancata da, una Autorità politica mondiale: un ente capace di emanare norme di diritto internazionale dalla validità e vincolatività incontestata, e perciò porre rimedio all’acefalia del diritto internazionale. Ma al tempo stesso è chiaro che Benedetto XVI non sta auspicando l’avvento di un Leviatano globale, perché il potere di questa Autorità dovrebbe essere limitato ad alcune materie fondamentali ed in ogni caso essere esercitato secondo il criterio della sussidiarietà.

 


Caritas in veritate 5

(5) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

 

Capitolo quarto: Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

 

 

I diritti, senza doveri e slegati da un fondamento oggettivo, si trasformano in arbitrio e ostacolano la solidarietà universale.

43. La solidarietà universale è ostacolata dalla mentalità diffusa per cui molti ritengono di non dovere niente a nessuno, di essere titolari soltanto di diritti. In questo modo il diritto soggettivo, privo del contrappeso del dovere, si trasforma in arbitrio: si moltiplicano i presunti diritti, che sono rivendicati come irrinunciabili anche quando sono arbitrari e voluttuari e si pretende che siano promossi dalle strutture pubbliche, mentre alcuni veri diritti fondamentali sono disconosciuti e violati. I diritti individuali, non essendo inscritti in un quadro di doveri, perdono significato e alimentano una spirale illimitata di egoismo e pretese prive di criterio: così possiamo notare una relazione effettiva tra la rivendicazione nelle società opulente del diritto al superfluo, ed anche alla trasgressione e al vizio, e la mancanza nei paesi poveri (ma anche nelle periferie e nelle zone povere dei paesi ricchi) di risorse elementari come cibo, acqua, istruzione di base, cure mediche.

I diritti, come i doveri, sono solidi e sensati se fanno riferimento alla verità di un preciso quadro antropologico ed etico. Anzi i doveri, che rimandano al quadro globale, rafforzano i diritti. Se invece si perde di vista il fondamento antropologico, se i diritti si basano esclusivamente sulle deliberazioni di un’assemblea, allora essi sono mutevoli e possono essere più facilmente trascurati. Se i Governi dimenticano l’oggettività e l’indisponibilità dei diritti, lo sviluppo umano è in pericolo.

Questo paragrafo evidenzia una contraddizione di cui solitamente la stampa solidarista, terzomondista, progressista e politicamente corretta (insomma, spiace constatare, molta stampa “di sinistra”) evita accuratamente di parlare: mentre in certe parti del mondo la categoria dei diritti umani si amplia a dismisura, per ricomprendere sempre nuove cazzate bizzarre pretese che lo Stato dovrebbe riconoscere e incoraggiare e soddisfare, altrove i veri diritti fondamentali sono quotidianamente calpestati. Da una parte si crepa di fame e di malattie banali, nell’indifferenza di molti (non tutti) cittadini delle società ricche; dall’altra parte, molti (non tutti) di quegli stessi cittadini lamentano l’intollerabile persecuzione di uno Stato che, ad esempio, non chiama coniugi due persone a cui nessuno impedisce di stare insieme, oppure crudelmente non attribuisce i vantaggi del matrimonio a chi rifiuta di assumersene anche i doveri.

Benedetto XVI fa notare che il relativismo (non solo, ma prevalentemente) occidentale mette in pericolo lo sviluppo umano, per due motivi. Uno perché questa mentalità egocentrica, che eleva a diritto ogni capriccio dell’io voglio e tralascia i doveri, mal si concilia con la solidarietà verso chi soffre nella miseria. Due perché, se i diritti e i doveri dell’uomo non derivano da un fondamento oggettivo ma sono semplicemente decisi a maggioranza, allora essi sono sempre provvisori e l’assemblea, come oggi li concede, domani potrà negarli. Una democrazia fondata sul relativismo è sempre a rischio di scivolare nel totalitarismo.

 

 

Problema demografico e sessualità. L’apertura alla vita è una risorsa, la denatalità è un problema.

 44. La crescita demografica è strettamente intrecciata con il problema dello sviluppo. Considerare l’aumento della popolazione come la causa del sottosviluppo è sbagliato: la diminuzione della mortalità infantile e l’allungamento della vita media sono sintomi di sviluppo economico, mentre il calo delle nascite è un segno di crisi. La procreazione responsabile non può essere attuata riducendo la sessualità a gioco edonistico e trattando la procreazione come un rischio da cui difendersi o un programma da pianificare politicamente.

L’apertura moralmente responsabile alla vita è una risorsa. La denatalità aumenta i costi dei sistemi di assistenza sociale, contrae l’accantonamento di risparmio e dunque gli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, impoverisce i rapporti umani e le forme di solidarietà nelle famiglia di piccola dimensione, in sostanza denota poca fiducia nel futuro. Per gli Stati diventa economicamente necessario assumere politiche di centralità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la prima cellula della società, anche tramite aiuti di carattere economico e fiscale.

 

 

L’etica nell’economia. Abuso della parola etica. La vera etica economica rispetta l’inviolabile dignità della persona umana e il valore delle norme morali naturali.

45. L’economia ha bisogno di un’etica personalista. Oggi si parla molto di etica in campo finanziario e aziendale: business ethics, certificazioni etiche, fondi d’investimento etici, finanza etica. Tutto ciò è positivo, ma c’è il rischio che si abusi della parola etica, usandola per far passare per etico ciò che in realtà non lo è affatto. Quando si ha a che fare con un prodotto “etico” bisogna chiedersi in riferimento a quale sistema morale esso è definito etico. L’etica economica deve rispettare l’inviolabile dignità della persona umana e il valore delle norme morali naturali; se l’etica si allontana da questi principi è strumentalizzata, e anziché correggere le disfunzioni economiche del sistema diventa supinamente funzionale ad esso. E l’etica non deve essere una caratteristica selettiva – non si deve pensare a un “segmento di mercato” etico, l’intera economia deve essere considerata etica per le sue caratteristiche intrinseche.

In effetti la proliferazione della parola “etico” in campo aziendale-finanziario è impressionante. Si moltiplicano i fondi d’investimento che promettono di impiegare il denaro in modo “etico”; le imprese comprano da società specializzate apposite certificazioni attestanti il loro comportamento “etico”; e così via. In alcuni casi la parola etica sembra essere usata a proposito, in altri casi pare invece uno specchietto per le allodole per darsi una maschera di rispettabilità. Attenti a distinguere.

 

 

Area intermedia tra imprese profit e non profit: esempi. Occorre una configurazione giuridica e fiscale particolare.

46. La distinzione tra imprese che sono finalizzate al profitto ed imprese che non lo sono (non profit) non è più efficace. Nel tempo è emersa un’area intermedia tra le due tipologie imprenditoriali: aziende tradizionali che sottoscrivono patti di aiuto ai paesi arretrati, fondazioni collegate a singole imprese, gruppi di imprese che hanno scopi di utilità sociale, soggetti della cosiddetta economia civile. Si tratta di una nuova realtà imprenditoriale che coinvolge tanto il privato quanto il pubblico, che persegue il profitto come mezzo per realizzare finalità specifiche. Queste realtà non possono essere semplicemente ricondotte alla categoria del profit o del non profit, tantomeno basandosi su criteri come l’eventuale distribuzione di utili o della forma societaria assunta. È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino negli ordinamenti legislativi dei vari Stati la giusta configurazione giuridica e fiscale.


 

Gli aiuti allo sviluppo nei Paesi poveri. Sussidiarietà. Per evitare disfunzioni della cooperazione internazionale serve trasparenza sui fondi e sul loro uso.

47. Il potenziamento delle diverse tipologie di imprese, tra cui quelle di cui sopra, va perseguito anche e soprattutto nei Paesi sottosviluppati. Gli aiuti allo sviluppo devono rispettare la centralità della persona umana e devono basarsi sul principio di sussidiarietà, potenziando i diritti dei beneficiari ma al tempo stesso incoraggiando una loro assunzione di responsabilità, includendo quanto più possibile nella realizzazione dei progetti di aiuto i destinatari stessi. D’altra parte bisogna superare alcune disfunzioni della cooperazione internazionale: talvolta la presenza dei poveri da “aiutare” è meramente funzionale a mantenere in vita costose organizzazioni burocratiche, le quali riservano per sé stesse una parte eccessiva delle risorse destinate allo sviluppo. Gli organismi internazionali e le ONG devono impegnarsi ad una piena trasparenza sull’ammontare dei fondi ricevuti, sul loro uso, sull’effettiva realizzazione dei programmi di aiuto.

 

 

L’ambiente. La natura non è frutto del caso o del determinismo. Due errori opposti: neopaganesimo / tecnica. La natura è una vocazione. Giustizia intergenerazionale.

48. Il tema dello sviluppo è collegato anche al rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Questo ci è stato donato da Dio, e il suo giusto uso è una responsabilità verso i posteri e l’umanità intera: considerare la natura e l’uomo come frutti del caso o del determinismo evolutivo attenua tale senso di responsabilità. Se si perde la visione della natura come dono, si può incorrere in due errori opposti: o elevarla a tabù intoccabile, a cui si può anche sacrificare l’uomo stesso, pensando che l’uomo possa essere salvato da un felice rapporto con la natura (una visione neopagana e neopanteista), o ridurla a materia da laboratorio di cui abusare a piacimento (una visione tecnicista). Queste false concezioni provocano molti danni allo sviluppo. Il credente respinge entrambi questi errori, perché sa che la natura esprime un disegno divino di amore e verità, è destinata ad essere ricapitolata alla fine dei tempi ed è anch’essa in un certo senso una vocazione, un modo in cui Dio ci chiama a fare il bene. In tal modo l’uomo deve rispettare principi di giustizia intergenerazionale, cioè non può consumare le risorse ambientali lasciando poco o nulla per le generazioni successive.

Con questo paragrafo Benedetto XVI comincia un discorso molto importante sull’ecologia e sul giusto modo di intenderla, riprendendo un concetto già accennato al paragrafo 14 e cioè l’opposizione tra l’ideologia della Natura e l’ideologia della Tecnica, entrambe nemiche del cristianesimo e dannose per l’umanità.

A proposito di neopaganesimo, è vero che esistono oggigiorno realtà come le streghe di Wicca e i movimenti esoterici che in vario modo inneggiano alla Madre Terra, ma io credo che parlando di neopaganesimo il Papa intendesse riferirsi non tanto a questi fenomeni (che allo stato attuale sono statisticamente minoritari) ma semmai a quella mentalità “laica” ambientalista, questa sì abbastanza diffusa, che vede nell’uomo un animale come gli altri, se non addirittura un pericolo intrinseco per l’ecosistema (penso per esempio al film di M. Night Shyamalan “E venne il giorno”).

 In questo modo si innalza la natura per abbassare l’uomo e di fatto, senza neanche rendersene conto (proprio perché non è una religione ma una mentalità che si presume laica) ci si avvicina alla mentalità degli antichi che deificavano i vulcani e l’oceano e offrivano sacrifici umani al sole. Il che in effetti era anche comprensibile per tempi e luoghi in cui l’uomo era come sperduto in un mondo ostile, dove la natura era una variabile indipendente, feroce e indomabile.

Questa mentalità è stata superata in occidente dapprima dai filosofi greci come Talete e seguenti, che hanno cominciato a farsi domande sul mondo cercando risposte razionali, e poi dal cristianesimo. Sulla scia dell’ebraismo il cristianesimo ha desacralizzato la natura nella stessa misura in cui le ha riconosciuto la dignità di creazione divina. Dio affida all’uomo la natura affinché egli possa coltivare e costruire. La natura va rispettata ma non adorata e l’uomo deve operare su di essa, senza temere la collera degli dei superi e inferi, perciò può sorgere il concetto embrionale di progresso scientifico. L’uomo esercita sulla natura la propria “arte”, che è come i cristiani antichi chiamavano quello che noi oggi chiamiamo tecnica: “l’arte è figlia della natura” (si veda ad esempio il canto XI della Divina Commedia, vv. 101-105, dove si spiega il perché della punizione degli usurai).

La concezione cristiana della natura e della tecnica va in crisi dapprima con il cosiddetto rinascimento (che fu rinascimento proprio della mentalità pagana) e poi con l’Illuminismo. Con essi l’uomo rispetto alla natura non è più un comodatario, un amministratore delegato, uno che ha ricevuto un incarico di conservare e migliorare: nossignore, è proprio il dominus, il padrone che può usare e abusare come gli pare. Se volessimo fare una carrellata lungo i secoli potremmo partire da Francesco Bacone, il cui Novum Organum può forse essere considerato il manifesto fondativo della “vittoria della tecnica sulla natura” (con la scienza l’uomo può conoscere perfettamente la natura, e con la tecnica può dominarla); attraversare le scoperte della modernità e della Rivoluzione Industriale, in cui l’ostilità della nuova tecnica verso la natura si mostra chiaramente ed emerge il problema ecologico (la tecnica distrugge la natura); passare per il Frankenstein, o il Prometeo moderno di Mary Shelley, l’archetipo dello scienziato pazzo e un inascoltato monito contro il delirio di onnipotenza di una tecnica senza controllo; assistere alla metamorfosi della modernità in post-modernità, in cui il conflitto diventa ancora più radicale (mentre nella modernità la natura è succube della tecnica, nella post-modernità si arriva a negare che la natura esista); fino ad arrivare alla filosofia di un Emanuele Severino, che essendo un post-hegeliano (per lui la tecnica è ciò che per Marx era il comunismo, ovvero la realizzazione della coincidenza tra Realtà e Idea Razionale), lucidamente parla di un “paradiso della Tecnica” prossimo venturo in cui l’uomo potrà diventare il dio-in-terra e completare il percorso del Geist.

E siccome gli errori uguali e opposti si nutrono a vicenda, le catastrofi ecologiche provocate dall’uomo che si crede il padrone del mondo hanno rafforzato la propria opposizione, la mentalità “neopagana” che vede nell’uomo un pericolo per la terra, una minaccia da contenere e diminuire.

Entrambe queste visioni presuppongono la visione dell’uomo come un frutto del caso e/o della necessità evolutiva (e si coglie facilmente il riferimento al nefasto libro di Monod), spuntato da solo grazie a una macrocosmica botta di culo dose di fortuna e aggressività in un mondo privo di significato intrinseco. L’uomo è una creatura insignificante tra le altre, salvo che ha un po’ meno pelliccia e un po’ più materia grigia, e proprio con questa materia grigia può subordinare la natura ai propri desideri e spassarsela come un bambino di pochi anni che gioca con i fiammiferi quando i genitori non sono in casa (o meglio, crede che in casa non ci sia nessuno perché non vede nessuno).

E perciò, o dalla parte della natura contro l’uomo, o dalla parte dell’uomo contro la natura.

E i cristiani che propongono un’alleanza con la natura, e vedono l’uomo come il custode responsabile del giardino di Dio, stanno come tra l’incudine e il martello.

 

 

Risorse non rinnovabili e solidarietà. Riduzione del fabbisogno energetico, redistribuzione planetaria.

49. Bisogna poi considerare i problemi energetici, come l’esclusione dei paesi poveri dall’acquisizione delle risorse naturali, o il fatto che questi stessi paesi in cui si trovano le risorse sono teatro di conflitti sanguinosi per assicurarsene lo sfruttamento. Il problema delle risorse non rinnovabili deve essere affrontato nella prospettiva della solidarietà, sia tramite una riduzione del fabbisogno energetico da parte delle società tecnologicamente avanzate, sia tramite una redistribuzione planetaria delle risorse energetiche.

 

 

Alleanza tra l’uomo e l’ambiente. Chi usa delle risorse comuni ambientali non può scaricarne il costo su altri.

50. L’uomo deve pertanto esercitare un governo responsabile sulla natura, affinché tutta la famiglia umana possa vivere dignitosamente sulla terra: l’alleanza tra l’uomo e l’ambiente deve essere come uno specchio dell’amore di Dio. I costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse comuni devono essere pagati da chi ne usufruisce, e non da altri popoli o dalle generazioni future. L’economia ha il compito di individuare l’uso più efficiente delle risorse, senza scivolare nell’abuso e tenendo presente che il concetto di efficienza non è neutrale rispetto ai valori morali di riferimento.

 

 

Ecologia ambientale ed ecologia umana. La natura non è una variabile indipendente. Antinomia della mentalità contemporanea, che chiede di rispettare l’ambiente mentre non rispetta l’essere umano.

51. Il modo in cui l’uomo tratta l’ambiente è strettamente legato al modo in cui tratta sé stesso. La società odierna ha bisogno di riflettere sui danni dell’edonismo e di sviluppare nuovi stili di vita. Il progresso è arrivato a un punto tale che la natura non è più una variabile indipendente: perciò il degrado dell’ambiente è strettamente correlato al degrado della società. Tutelare l’uno vuol dire tutelare l’altra e viceversa.

La Chiesa ha una responsabilità per il creato, a cui non può rinunciare. Essa deve difendere i doni della creazione, e facendo ciò contribuisce alla difesa dell’uomo da sé stesso. Accanto all’ecologia ambientale esiste un’ecologia umana. Come si può impedire che la natura sia un mero strumento della tecnica se lo diventa l’uomo stesso, che nasce artificialmente e può essere sacrificato in embrione alla scienza? È contraddittorio chiedere alle nuove generazioni di rispettare l’ambiente mentre non viene rispettato l’essere umano. Questa è una grave e sottovalutata antinomia della mentalità contemporanea, che danneggia sia l’ambiente e sia la società.

 

 

La verità e l’amore sono prodotti da Dio e accolti dall’uomo. Essi indicano la strada verso il vero sviluppo.

52.  Non è l’uomo ad essere la fonte di verità e amore, ma bensì Dio, perché Egli stesso è Verità e Amore, che l’uomo non può produrre da sé ma solo accogliere e trasmettere. Questo principio si applica anche allo sviluppo umano, perché la vocazione allo sviluppo non si basa solo su decisioni umane ma è inscritta in un piano che fa parte di noi, ci precede ed è un dovere che siamo chiamati ad accogliere liberamente. L’Amore e la Verità che sussistono in noi ci indicano che cosa sono il bene e la felicità, perciò ci indicano la strada verso il vero sviluppo.


Caritas in veritate 4

(4) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

 

 

Capitolo terzo: Fraternità, sviluppo economico e società civile

 

 

La gratuità e il dono. L’illusione di autosufficienza e la sottovalutazione del peccato originale sono pericolose. Legame tra la speranza cristiana e la carità nella verità.

34. La carità nella verità ci fa fare l’esperienza del dono gratuito in vari modi nella nostra vita, anche se non la riconosciamo perché abbiamo una visione meramente utilitaristica. Spesso l’uomo moderno crede di essere il solo autore di sé stesso e della società, con una presunzione che discende dal peccato originale. Ma la Chiesa ha sempre avvertito che ignorare la natura ferita dell’uomo e la sua inclinazione al male provoca gravi errori nel campo sociale, politico, educativo… ed anche economico, come prova questo momento storico. L’illusione dell’autosufficienza ha indotto l’uomo a identificare la felicità con il benessere materiale; e l’idea che lo strumento economico debba essere “autonomo”, non influenzato dalla morale, ha permesso gravi abusi di esso.

Come già detto nell’Enciclica Spe salvi, questo immanentismo che toglie dalla storia la speranza cristiana in realtà priva l’uomo di una potente risorsa sociale, perché la speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà, sorge dalla fede e nutre la carità nella verità dalla quale è manifestata. Essa è un dono di Dio che irrompe assolutamente gratuito nella nostra vita, dono che in quanto tale eccede il merito e trascende la giustizia, segno della presenza di Dio nella nostra anima. Come insegna Sant’Agostino (*), al pari della carità anche la verità è un dono: nel processo conoscitivo noi non produciamo la verità, ma la troviamo, o meglio la riceviamo.

In quanto dono comune all’umanità intera, la carità nella verità è capace di unificare la comunità umana. Questa può diventare una comunione fraterna ed universale solo in quanto con-vocata, chiamata tutta insieme alla comunione, dalla parola di Dio-Amore.

 

(*) L’accenno all’insegnamento di Sant’Agostino è spiegato con maggiori dettagli in una nota a piè pagina, l’unica dell’Enciclica che non si limita a un rinvio documentale ma apporta considerazioni aggiuntive. Nel De libero arbitrio, Agostino parla di qualcosa che esiste nell’anima umana e che lui chiama “senso interno”: un atto intellettuale che però è separato dalle normali funzioni razionali, anzi è quasi istintivo, e con il quale la ragione prende atto della propria fallibilità e ammette che al di sopra di sé stessa esiste qualcosa che è assolutamente vero e certo. Agostino identifica questa verità interiore con Dio, ovvero con Cristo.

La citazione da Sant’Agostino, oltre a testimoniare la preminenza che ha questo santo e filosofo nel pensiero di Benedetto XVI, s’inquadra in ciò che il Papa chiama ampliamento della ragione. Con questo “senso interno” la razionalità può superare i propri limiti ed evitare di ridursi a un mero razionalismo che si rifiuta di riflettere su ciò che lo sovrasta.

 

 

Il mercato non è solo giustizia commutativa, ma anche distributiva e sociale. I poveri come risorsa del mercato.

35. Il mercato è il luogo-istituzione in cui si incontrano gli operatori economici, che stipulano contratti e scambiano beni e servizi per soddisfare i propri bisogni e desideri. Questi rapporti economici rispondono ai principi della giustizia commutativa: ciò che io ricevo deve essere equivalente a ciò che io do. Tuttavia il mercato non può reggersi solo sulla giustizia commutativa, ma ha bisogno anche di forme di giustizia distributiva (devo ricevere ciò di cui ho bisogno) e di giustizia sociale (devo dare un po’ di ciò che è mio alla comunità): altrimenti perde quella coesione sociale interna, quella fiducia reciproca di cui ha bisogno per funzionare.

Un esempio di come il sistema economico trae vantaggio dalla giustizia, intesa nell’accezione ampia del termine, è dato dalla considerazione (fatta da Paolo VI nella Populorum progressio) che se i paesi ricchi aiutano i paesi poveri a svilupparsi, ne traggono vantaggio essi stessi. I poveri sono una risorsa economica per il mercato: non nel senso, come dice qualcuno, che il mercato abbia fisiologicamente bisogno di una quota di poveri e perciò non si debba eliminare la povertà, ma nel senso che l’emancipazione dei poveri va nell’interesse del mercato stesso.

 

 

Il mercato non è cattivo di per sé ma lo diventa se gestito male. Il mercato non è mai culturalmente neutro. Necessario spazio per la gratuità e il dono.

36. L’attività economica non può migliorare la società se si regge solo sulla logica mercantile, ma deve avere riguardo anche al fine del bene comune. D’altronde, non si deve demonizzare il mercato e considerarlo il luogo naturale della violenza dei forti sui deboli: lo diventa se gestito da chi ha come unico criterio l’egoismo, ma esso non è cattivo di per sé. In effetti il mercato allo stato puro non esiste, perché esso è sempre influenzato da questa o quella cultura che lo orienta in un certo senso. Anche all’interno del mercato possono essere vissuti rapporti di autentica amicizia e solidarietà. La grande sfida che ci attende consiste proprio nel mostrare che il mercato non solo ha bisogno dei tradizionali principi etici come onestà e trasparenza, ma che in esso devono avere un loro spazio anche la gratuità e il dono, e ciò per un’esigenza della stessa ragione economica.

 

 

La giustizia non può essere posticipata rispetto alla produzione della ricchezza ma deve essere subito rispettata. Presenza di soggetti economici a fine non lucrativo. La globalizzazione, le tre forme di giustizia e il dono.

37. La giustizia riguarda tutte le fasi dell’economia, comprese la produzione e il consumo, perché ogni decisione economica ha conseguenze morali. Un tempo si poteva forse pensare di tenere separati il momento produttivo della ricchezza (affidato all’economia) e il momento distributivo della ricchezza (affidato alla politica secondo giustizia); ma oggi, poiché l’ambito economico si è internazionalizzato, mentre non è così per l’autorità locale dei governi, questo equilibrio è sbilanciato e inefficace. La giustizia deve essere pertanto rispettata fin dall’inizio. Occorre altresì che nel mercato agiscano anche soggetti che non sono mossi dalla pura ricerca del profitto (il che non vuol dire rinunciare a produrre valore economico).

Nell’epoca della globalizzazione si trovano a dover interagire e competere modelli economici che derivano da culture molto diverse. Questi modelli trovano un terreno comune d’incontro sul piano della giustizia commutativa, del contratto che regola lo scambio di valori equivalenti; ma l’economia globalizzata ha bisogno anche della giustizia distributiva e della giustizia sociale, ed ha bisogno altresì di attività legate allo spirito del dono.

 

 

Richiamo alla Centesimus annus: sistema tripartito mercato + Stato + società civile. La gratuità risiede naturalmente nel terzo ambito, ma deve essere presente anche negli altri due.

38. Giovanni Paolo II nell’Enciclica Centesimus annus aveva parlato di un sistema tripartito: mercato, Stato, società civile. L’ambito naturale in cui può operare il principio di gratuità è quello della società civile, ma ciò non toglie che esso non possa e non debba essere presente anche negli altri due; specialmente nell’epoca della globalizzazione, che ha bisogno della solidarietà creata dalla gratuità. Pertanto, accanto alle imprese private orientate al profitto e alle imprese pubbliche, devono esistere anche imprese che perseguono fini mutualistici e sociali: dal loro reciproco confronto si può sperare che si avvii una sorta di osmosi dei modelli d’impresa.

 

 

 

Richiamo alla Rerum novarum: il binomio mercato – Stato non è più sufficiente. Necessarie forme economiche solidali aperte alla gratuità.

39. Paolo VI nella Populorum progressio auspicava un’economia inclusiva di tutti i popoli, dove il progresso dell’uno non fosse ostacolo allo sviluppo dell’altro. In ciò sviluppava le aspirazioni contenute nella Rerum novarum, nella quale si esaminava l’idea, innovativa per quel tempo, che a seguito della rivoluzione industriale fosse necessario un intervento redistributivo dello Stato.

Oggi il binomio mercato – Stato non basta più. Accanto al “dare per avere” (la logica di scambio) e al “dare per dovere” (l’imposizione pubblica che finanzia l’assistenzialismo statale) è necessaria la progressiva apertura a forme economiche solidali, caratterizzate da quote di gratuità e comunione, che hanno il loro habitat naturale nella società civile.

 

 

Gestione aziendale e responsabilità manageriale. Stake-holders e share-holders. Responsabilità dell’investimento finanziario e della delocalizzazione produttiva.

40. La globalizzazione sta cambiando anche il modo d’intendere l’impresa, specialmente se di grandi dimensioni. Spesso coloro che gestiscono l’azienda rendono conto soltanto agli investitori, e la variabilità degli amministratori fa sì che essi non si sentano responsabili a lungo termine dei risultati. La delocalizzazione produttiva attenua il senso di responsabilità dell’imprenditore verso i portatori di interessi (stake-holders: lavoratori, fornitori, consumatori, l’ambiente naturale e la comunità di riferimento) a vantaggio dei soli azionisti (share-holders), i quali non sono legati a uno spazio specifico ma possono trovarsi in ogni parte del globo, e poi sono spesso costituiti non già da singoli investitori ma da fondi anonimi (che di fatto stabiliscono essi stessi il proprio guadagno). Per fortuna questo processo è controbilanciato da una maggiore consapevolezza sulla responsabilità sociale dell’impresa, per cui si diffonde l’idea la gestione aziendale deve tener conto non solo degli share-holders ma anche dei stake-holders, in particolare del luogo in cui opera l’impresa.

È necessario ricordare che l’investimento finanziario ha sempre un significato morale oltre che economico. Per esempio bisogna tenere conto del luogo in cui il capitale da investire è stato generato (e dei possibili danni derivanti dal suo impiego all’estero piuttosto che in patria), della sostenibilità dell’impresa a lungo termine, del servizio dell’investimento finanziario a vantaggio dell’economia reale. La delocalizzazione produttiva, specie nei paesi in via di sviluppo, può essere vantaggiosa se favorisce realmente le popolazioni del paese ospitante; ma è illecita se volta solo ad approfittare delle condizioni di favore o a sfruttare la forza lavoro.

Ecco un altro paragrafo profondamente “economico”, ricco di spunti per un’attenta riflessione sulla finanza moderna, che qui di seguito provo a sviluppare parzialmente senza pretesa di completezza.

L’argomento stake-holders e share-holders  (il testo italiano dell’Enciclica non usa esattamente questi termini, ma essi sono presenti nella versione inglese e ormai fanno parte della terminologia specifica italiana, perciò ne faccio uso nel mio riassunto) è molto discusso tra coloro che si occupano di gestione aziendale. Ormai ogni grande impresa nella propria policy aziendale, cioè il documento che spiega la politica operativa dell’azienda, dichiara di voler tenere in considerazione tutti i portatori di interessi. Ma quante volte l’impegno resta sulla carta?

Il Papa nomina anche i problemi che derivano da una crescente “spersonalizzazione” degli azionisti delle imprese di grandi dimensioni (“a capitale diffuso”): anzitutto essi sono tantissimi, ciascuno dei quali detentore di una quota irrisoria di capitale (fenomeno noto come “polverizzazione del capitale”), e perciò il singolo azionista non è interessato o non è capace di controllare come viene gestita l’impresa; il che naturalmente va a tutto vantaggio dei manager e dei grandi gruppi finanziari che possono avere la maggioranza necessaria a gestire l’azienda tramite accordi dettagliati (“patti parasociali”) e percentuali minime attentamente calcolate di azioni possedute.

Inoltre, ormai è sempre più in disuso la formula “classica” dell’investimento finanziario, basata su una relazione diretta risparmiatore-imprenditore io-ti-affido-il-denaro-e-tu-lo-gestisci, o al limite indiretta con un singolo intermediario (es. una banca) a fare da tramite tra il creditore-risparmiatore e il debitore-imprenditore. Il moltiplicarsi dei fondi d’investimento ha dato vita a vere e proprie catene di intermediari di notevole lunghezza, per cui il risparmiatore affida il denaro a un fondo il quale (oltre a stabilire la propria commissione secondo criteri che spesso il risparmiatore non capisce) magari lo investe in altri fondi, che a loro volta investono in altri fondi… in questo modo la quantità di denaro che passa da un capo all’altro di questa “catena” (dal risparmiatore all’imprenditore) si assottiglia di una discreta percentuale, il tutto a vantaggio delle imprese di intermediazione (“l’economia finanziaria”) ma a danno dell’economia reale (cioè le imprese destinatarie finali dell’investimento, che producono beni e servizi “materiali”).

Ancora, Benedetto XVI accenna al fatto che l’investimento deve preoccuparsi anche della sostenibilità a lungo termine dell’impresa, e questo mi fa venire in mente il cosiddetto private equity. Sinteticamente si tratta di una tipologia di investimento finanziario-industriale consistente nell’acquisire la partecipazione di controllo di un’impresa sottosviluppata o in crisi, per gestirla con la prospettiva di migliorarla e liquidarla dopo tre o cinque anni, guadagnando sul ricavo. Come ogni strumento economico, anche l’investimento di private equity può essere usato positivamente o negativamente: può essere un’opportunità o un’ancora di salvezza per l’impresa gestita, ma può anche essere il pretesto con cui l’investitore intende “cannibalizzare” le risorse dell’impresa controllata, per spremerle fino all’ultimo lasciando alla fine un rottame industriale.

Infine merita di essere notato che il tema della delocalizzazione produttiva si pone in diretta continuità con il paragrafo 25 del precedente capitolo: lì erano analizzate le conseguenze della delocalizzazione per i lavoratori, qui sono trattate le implicazioni morali della stessa per gli investitori.

 

 

Significato articolato dell’imprenditorialità. Significato articolato dell’autorità politica.

41. L’imprenditorialità sta assumendo un significato articolato, ben oltre l’alternativa imprenditore privato / dirigente statale tipica del binomio mercato / Stato. Esistono vari tipi di imprese che superano tale distinzione. È bene che questa concezione ampia dell’imprenditoria favorisca il rapporto vantaggioso tra i settori del profit e del non profit, tra il settore pubblico e quello della società civile.

Anche l’autorità politica sta assumendo un significato articolato. L’economia integrata a livello mondiale richiede una più efficace collaborazione tra i governi, e dei progetti di aiuti internazionali efficaci, non limitati all’aspetto economico ma capaci di promuovere le garanzie proprie dello Stato di diritto e della democrazia. È da auspicare un’autorità politica articolata a livello locale, nazionale e internazionale, capace di orientare la globalizzazione economica.

 

 

La globalizzazione: serve un orientamento culturale attento alla persona e alla trascendenza. Rischio ed opportunità.

42. Bisogna evitare un atteggiamento fatalistico nei confronti della globalizzazione, come se essa fosse un’anonima forza impersonale e indipendente dalla volontà umana. In realtà essa non è semplicemente un processo socio-economico, ma l’interconnessione sempre più stretta tra tutti i popoli; un fatto non solo materiale, ma culturale, e come tale orientabile culturalmente ed eticamente. E dobbiamo impegnarci affinché tale orientamento sia a carattere personalista, comunitario, aperto alla trascendenza. La globalizzazione in sé non è né buona né cattiva, ma è semplicemente ciò che le persone fanno di essa. È un rischio ma anche un’opportunità, in particolare per le possibilità che porta di redistribuzione della ricchezza o della povertà. I popoli poveri non devono restare ancorati al loro stato di sottosviluppo e neanche accontentarsi della filantropia spicciola dei paesi ricchi: oggi le forze materiali per far uscire dalla miseria i paesi sottosviluppati sono effettivamente a disposizione, solo che le si voglia usare davvero.


Caritas in veritate 3

(3) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

 

 

Capitolo secondo: Lo sviluppo umano nel nostro tempo

 

 

Nuovi problemi rispetto ai tempi di Paolo VI. Il profitto non è il fine ma un mezzo. Serve una nuova sintesi umanistica.

21. Le aspettative di Paolo VI sul miglioramento dei popoli sono state soddisfatte dal modello di sviluppo che si è affermato nel mondo negli ultimi decenni? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tenere presente che il profitto non è il fine ma soltanto un mezzo, utile se orientato verso lo scopo ulteriore del bene comune che dà un criterio di fondo non solo sul come produrre ricchezza ma anche sul come utilizzarla; se invece il profitto diventa il fine ultimo ed esclusivo, questa prospettiva miope alla lunga distrugge la ricchezza e crea povertà.

Alla luce di ciò, lo sviluppo recente è stato un fattore positivo, perché ha diminuito la miseria, ma è stato distorto da molti problemi, alcuni dei quali del tutto nuovi rispetto a quelli affrontati da Paolo VI (globalizzazione, finanza puramente speculativa, grandi migrazioni malgestite, abuso delle risorse del pianeta…). Per correggere la rotta e uscire dalla crisi attuale c’è bisogno di una nuova sintesi umanistica, ovvero una nuova impostazione mentale per trovare nuove regole adatte, un rinnovamento culturale, una riscoperta dei valori di fondo.

Mentre il capitolo precedente analizzava i problemi già presenti all’epoca della Populorum progressio, e dunque ribadiva e approfondiva l’insegnamento di questa, il presente capitolo concerne i problemi tipici del nostro tempo. Perciò qui si ha un marcato avanzamento “aggiuntivo” della dottrina sociale della Chiesa (ma conviene specificare ancora una volta che queste addizioni in effetti non sono altro che una nuova “declinazione” contemporanea dei principi eterni che fanno da sempre parte della storia della Chiesa).

Mi sembra particolarmente importante la definizione del profitto come mezzo da usare per un fine extraeconomico. In questo modo si mette al bando sia l’utilitarismo assoluto “a destra” che bada al denaro come obiettivo supremo, mentre l’uso che si fa di esso è rimesso all’arbitrio e diciamo pure all’egoismo del singolo, e sia il pauperismo “a sinistra” per cui l’imprenditore è cattivo per definizione e il denaro non va usato perché è sterco del demonio.

 

 

Non c’è più una divisione netta tra paesi ricchi e poveri. Elenco di responsabilità economiche e culturali.

22. Il mondo di oggi è policentrico, concatenato, con colpe e meriti che s’intrecciano tra loro nel quadro delle responsabilità globali. Sono inutili e dannose le semplicistiche ideologie che mettono tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra. Mentre ai tempi della Populorum progressio c’era una linea di demarcazione netta tra Paesi ricchi e poveri, oggi non è più così:

          la ricchezza mondiale è complessivamente cresciuta, ma sono aumentate anche le disparità;

          sono nate nuove sacche di povertà nei paesi ricchi;

          inversamente, nei paesi poveri sono presenti gruppi sociali supersviluppati che sciupano ricchezza in un inutile consumismo, mentre fuori da queste “oasi nel deserto” regna la miseria;

          corruzione ed illegalità sono diffuse nei paesi ricchi come in quelli poveri;

          i diritti umani dei lavoratori sono spesso violati, sia dalle grandi multinazionali che dalle realtà produttive locali;

          gli aiuti internazionali sono distolti dai loro obiettivi.

Ci sono inoltre alcune responsabilità degli attori mondiali che sono di tipo culturale:

          una particolare responsabilità dei Paesi ricchi è data dall’eccessiva protezione del diritto di proprietà intellettuale, di modo che ai paesi sottosviluppati è negata l’opportunità di accedere alle conoscenze e alle tecniche per migliorare la propria condizione; ciò succede soprattutto nel campo sanitario;

          d’altra parte anche i Paesi poveri sono responsabili, nella misura in cui permangono in essi modelli culturali e sociali che frenano lo sviluppo.

  

 

Fine del comunismo e dei “blocchi contrapposti” à necessità di ripensare lo sviluppo.

23. È un fatto noto che molti paesi che prima erano poveri ora sono diventati grandi potenze; ma se lo sviluppo è soltanto economico e tecnologico, esso non è integrale, e perciò non è autentico sviluppo e non può risolvere davvero i problemi. Dopo il crollo del comunismo e la fine dei cosiddetti “blocchi contrapposti”, Giovanni Paolo II, che aveva indicato in essi una delle cause del sottosviluppo, nel 1991 auspicò che alla fine dei blocchi seguisse un ripensamento globale dello sviluppo; ma questo è avvenuto solo in parte.

 

 

All’epoca di Paolo VI: poca globalizzazione, ambito economico = ambito politico, poteri pubblici forti.

Oggi: globalizzazione avanzata, commercio e finanza internazionali, poteri pubblici deboli à sussidiarietà.

24. All’epoca di Paolo VI il mondo era molto meno integrato e interconnesso di com’è oggi. L’attività economica di uno Stato si svolgeva in gran parte al suo interno e il suo ambito coincideva con quello politico: la produzione industriale avveniva prevalentemente dentro lo Stato, gli investimenti finanziari nei paesi esteri erano limitati, e molti Stati potevano esercitare un’effettiva politica economica con cui governare l’andamento dell’economia. Perciò la Populorum progressio assegnava ai “poteri pubblici” un compito centrale.

Oggigiorno molte cose sono cambiate. La sovranità economica dello Stato è limitata: il commercio e la finanza sono internazionali, i capitali da investire e i mezzi di produzione sono caratterizzati da un’alta mobilità, e questo ha modificato anche il potere prettamente politico degli Stati. I poteri pubblici devono correggere i propri errori, anche per via della crisi attuale, e devono rivalutare il loro ruolo e il loro potere, entrambi diminuiti. D’altra parte, ed è da sperare, si rafforzano forme di partecipazione alla politica che avvengono non attraverso lo Stato, ma attraverso organizzazioni operanti nella società civile che coinvolgono di più i cittadini.

Questo paragrafo ci mostra un esempio concreto e facilmente comprensibile di che cosa vuol dire avanzamento della dottrina sociale e della Tradizione. Mentre Paolo VI allora riteneva che fosse compito centrale dello Stato influire positivamente sull’economia, oggi Benedetto XVI auspica una forte sussidiarietà per cui diminuisce l’attività dello Stato e aumenta l’attività diretta dei cittadini.

L’osservatore disattento o malizioso potrebbe dire che si tratta di una contraddizione e che la Chiesa ha cambiato i suoi principi. In realtà il cambiamento c’è stato non nel principio, che era e resta quello del bene comune, ma nella situazione concreta a cui applicare il principio. All’epoca di Paolo VI lo Stato poteva intervenire con molta più efficacia di oggi perché il perimetro del potere economico grossomodo coincideva con quello del potere politico, oggi con la globalizzazione non è più così e la dottrina sociale della Chiesa ne prende atto, proponendo un criterio operativo diverso che però risponde allo stesso principio di sempre.

  

 

Delocalizzazione produttiva, diminuzione delle reti di sicurezza sociale, mobilità lavorativa, disoccupazione.

25. La globalizzazione, in particolare quel processo noto come delocalizzazione produttiva, ha reso più difficile il compito dei sistemi di protezione e previdenza a tutela dei lavoratori: i paesi ricchi cercano aree in cui spostare la produzione di beni a basso costo, i prezzi di questi beni diminuiscono, il potere d’acquisto dei consumatori aumenta, l’aumento dei consumi fa accelerare nei paesi ricchi il tasso di sviluppo dipendente dal mercato interno. E mentre le imprese cercano luoghi favorevoli in cui delocalizzare, molti Stati cercano di attirare le imprese straniere attraverso la bassa tassazione e la deregolamentazione delle leggi che regolano il lavoro.

In questo modo, la ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale è pagata con la riduzione delle reti di sicurezza sociale, cioè quelle forme istituzionali con cui i lavoratori sono tutelati. I tagli alla spesa sociale lasciano i lavoratori impotenti di fronte ai rischi e senza protezione, mentre i sindacati hanno più difficoltà a rappresentare gli interessi dei lavoratori, anche perché spesso sono proprio i governi a limitarne la capacità negoziale. L’invito della Rerum novarum affinché ci siano associazioni sindacali che sappiano efficacemente difendere i diritti dei lavoratori è sempre attuale.

Un’altra conseguenza di quanto sopra è la mobilità lavorativa, ovvero la necessità che i lavoratori siano disponibili a spostarsi dove avviene la produzione. Questo fenomeno ha anche dei lati positivi perché può stimolare lo scambio tra culture diverse; ma provoca incertezza, instabilità, difficoltà a costruirsi un futuro certo e stabile, e spesso scoraggia il matrimonio per l’impossibilità di poter fare dei progetti a lungo termine.

La minor tutela dei lavoratori espone inoltre al rischio della disoccupazione, che provoca effetti negativi non solo di tipo economico ma anche di tipo psicologico e spirituale, minando la libertà e la creatività della persona ed usurando i suoi rapporti familiari e sociali. Va sempre ricordato che il primo capitale da salvaguardare è l’uomo stesso: la politica economica-sociale deve avere sempre presente l’obiettivo di garantire la maggiore occupazione possibile.

Questo paragrafo è uno dei più “economici” dell’enciclica e affronta varie questioni legate tra loro attinenti al fatto che le evoluzioni industriali hanno comportato un costo che è stato pagato dai lavoratori in termini di sicurezza e tutela.

Mi sembra inoltre che le considerazioni di Benedetto XVI sulla mobilità lavorativa si possano estendere anche alle situazioni di precariato diffuso, specialmente quando si prolunga oltre i limiti del fisiologico per troppi anni, e diventa un mezzo (consapevolmente usato, temo) per rendere estremamente difficile ai giovani progettare con sicurezza il proprio futuro, e quindi anche sposarsi e fare figli.

 

 

Interazione culturale: dialogo e perdità dell’identità, pericoli opposti  eclettismo VS appiattimento, separazione tra cultura e natura. L’uomo ridotto a cultura senza natura è facilmente manipolabile.

26. All’epoca di Paolo VI vi era una minore interazione non solo tra le economie, ma anche tra le culture, le quali erano ben definite e più difese dai tentativi di imporre un pensiero unico omogeneo. Oggigiorno l’interazione culturale, se da un lato fa sorgere nuove prospettive di dialogo (anche se va ricordato che tale dialogo per essere efficace deve partire dalla consapevolezza dell’identità di tutti gli interlocutori), d’altra parte porta a due pericoli opposti:

          eclettismo culturale, cioè quel relativismo che considera tutte le culture equivalenti e interscambiabili; questo però non aiuta il vero dialogo tra le culture, perché in pratica i diversi gruppi culturali vivono vicini ma comunque separati, senza vera integrazione;

          appiattimento culturale, cioè l’omologazione dei comportamenti e dei modi di vivere, che fa perdere il significato profondo delle culture delle diverse nazioni, delle tradizioni al cui interno la persona si misura con le domande fondamentali dell’esistenza.

Questi due pericoli opposti hanno un tratto caratteristico in comune, e cioè la separazione della cultura dalla natura: le diverse culture non sanno più richiamarsi a un’unica natura che le trascende, e l’uomo separato dalla natura viene ridotto a mero dato culturale modificabile a piacere, manipolabile, asservibile.

Questo paragrafo è molto significativo per l’estrema importanza, ben oltre il livello economico-sociale, del tema affrontato. Entrambi i pericoli individuati dal Papa sono purtroppo assai diffusi in Occidente: da un lato un multiculturalismo sbagliato, “a compartimenti stagni”, che nel nome del rispetto e dell’ospitalità tollera da parte degli stranieri abusi e violazioni dei diritti umani (si pensi ai problemi della penetrazione del fanatismo islamico nell’accogliente e relativista Olanda); d’altra parte la diffusione massificante di un pensiero unico politicamente corretto che nel nome della modernità e del progresso vuole abolire certi tradizionali modi di pensare.

 

 

La fame nel mondo e metodi per superarla. Lo sviluppo dei paesi poveri può aiutare i paesi ricchi a uscire dalla crisi.

27. La fame nel mondo continua ad essere un problema. La sua eliminazione oggi è non solo un imperativo etico universale, ma anche un mezzo per aiutare la pace e la stabilità nel mondo. Essa dipende non tanto da scarsità materiali quanto da cause strutturali, carenze istituzionali, irresponsabilità politiche. È un problema che va affrontato in una prospettiva di lungo periodo, tramite lo sviluppo agricolo dei Paesi poveri, investimenti in infrastrutture, diffusione di tecniche agricole sostenibili, e la cooperazione delle comunità locali. E potrebbe essere utile considerare non solo le tecniche agricole tradizionali ma anche quelle innovative, purché siano state sperimentate e riconosciute utili. Il diritto al cibo e all’acqua devono essere riconosciuti diritti universali di tutti gli esseri umani.

L’attuale crisi globale può essere superata anche grazie una via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri, finanziandoli in modo tale che siano essi stessi a soddisfare le necessità e lo sviluppo dei propri cittadini: in tal modo essi possono produrre vera crescita economica e possono anche concorrere a sostenere le capacità produttive dei Paesi ricchi compromesse dalla crisi.

 

 

L’apertura alla vita. La mentalità antinatalista si trasmette dai paesi ricchi a quelli poveri e condiziona anche gli aiuti allo sviluppo. Questa mentalità a lungo andare è un ostacolo allo sviluppo integrale.

28. Il rispetto per la vita è un argomento anch’esso attinente al tema dello sviluppo. Esso è minacciato non solo nei paesi poveri dall’alta mortalità infantile, ma anche dalle pratiche di controllo demografico dei governi che arrivano a imporre l’aborto, mentre nei paesi economicamente sviluppati si diffondono leggi e mentalità antinataliste che si cerca di trasmettere ai paesi “arretrati” spacciandolo per progresso culturale. Alcune organizzazioni non governative cercano di diffondere nei paesi poveri l’aborto e la sterilizzazione, e talvolta gli stessi aiuti allo sviluppo sono elargiti dai paesi ricchi ai poveri sotto la condizione-ricatto che questi ultimi adottino politiche sanitarie di controllo delle nascite. È altresì preoccupante la diffusione dell’eutanasia.

L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Una società che nega e sopprime la vita non trova più le motivazioni necessarie a servire il bene dell’uomo: scomparsa la solidarietà e l’accoglienza alla vita nascente, anche le altre forme di solidarietà sociale inaridiscono. Aprendosi alla vita, i popoli ricchi possono evitare di sprecare risorse per i desideri egoistici dei cittadini e promuovere invece una produzione moralmente sana e solidale.

 

 

La libertà religiosa ostacola lo sviluppo. Fanatismo religioso e ateismo pratico negano la libertà religiosa. Dio garantisce lo sviluppo autentico, mentre ridurre l’uomo a frutto del caso lo limita. Incremento sviluppo. Supersviluppo economico / sottosviluppo morale.

29. Anche la negazione della libertà religiosa è un ostacolo allo sviluppo. Essa si presenta spesso sotto la forma della guerra fatta per motivi religiosi (che spesso sono un pretesto per mascherare brame di potere e ricchezza), del terrorismo fondamentalista, del fanatismo che impedisce di professare la propria religione, e in tal modo è un freno al benessere non solo economico ma anche sociale e spirituale dei popoli. Ma la negazione della libertà religiosa si manifesta anche come promozione programmata e consapevole dell’indifferenza e dell’ateismo pratico, che sottrae ai popoli le risorse della fede e la forza morale necessaria per impegnarsi nello sviluppo umano integrale e nella generosità.

Dio garantisce il vero sviluppo dell’uomo, perché fonda la sua dignità trascendente e nutre la sua costante tensione verso qualcosa di superiore. Se invece si considera l’uomo soltanto un atomo sperduto in un universo casuale, limitando le sue aspirazioni all’orizzonte ristretto del suo “qui e ora”, riducendolo a storia e cultura e negando la sua natura destinata alla vita soprannaturale, allora si può parlare di incremento o evoluzione ma non di vero sviluppo. Semmai si ha un “supersviluppo” sul piano economico a cui corrisponde un sottosviluppo sul piano morale; ma questo non è sviluppo autentico, anche se spesso è presentato come tale dai paesi sviluppati o emergenti che esportano nei paesi poveri questa visione riduttiva della persona.

Questo paragrafo è una sorta di continuazione di quanto si diceva prima nel paragrafo 18 sullo sviluppo integrale – cioè uno sviluppo che è per tutti gli uomini e avviene in tutte le dimensioni (economica, sociale, culturale, tecnologica, morale, etc.) dell’essere umano. Le negazioni della libertà religiosa, e le ideologie che spiegano l’uomo e l’universo come prodotti del Caso, sopprimono una dimensione dell’umanità e perciò impediscono lo sviluppo integrale.

il Papa distingue tra incremento e sviluppo (growth / development nella versione inglese dell’enciclica, croissance / développement in francese, Wachstum / Entwicklung in tedesco, la versione latina deve ancora essere pubblicata…): riprendendo l’esempio della coperta troppo corta che avevo fatto nel commento del paragrafo 18, soltanto lo sviluppo “allunga la coperta” ed è vero progresso, l’incremento invece vuol dire soltanto spostare la coperta, e perciò a un supersviluppo da una parte corrisponde un sottosviluppo dall’altra.

 

 

Collaborazione interdisciplinare. Interazione tra intelligenza e carità.

30. Lo sviluppo integrale richiede un’interazione tra i diversi livelli del sapere umano, una collaborazione interdisciplinare. Non basta “fare” ma c’è bisogno anche di un “sapere” che sia orientato dall’intelligenza e dalla carità, la quale va considerata non come un’aggiunta finale ma come  un criterio che condisce ogni fase dello studio razionale dei fenomeni. D’altra parte, andare oltre la mera razionalità non deve significare prescindere dai risultati della ragione o contraddirli.

 

 

Dimensione interdisciplinare della dottrina sociale della Chiesa. Serve un allargamento della ragione.

31. A questa collaborazione interdisciplinare può dare un importante contributo la dottrina sociale della Chiesa, perché essa stessa ha una importante dimensione interdisciplinare in cui coniuga fede e ragione, metafisica e scienze. Paolo VI aveva capito che tra le cause del sottosviluppo ci sono la mancanza della capacità di operare una sintesi orientativa e l’eccessiva settorialità del sapere, perché esse ostacolano la visione dell’intero bene dell’uomo. È indispensabile “un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa”.

Un piccolo particolare che molti intelligentoni commentatori “laici” non hanno colto: l’intero virgolettato “allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa” è una esplicita citazione, con tanto di nota a piè pagina, dal Discorso all'Università di Regensburg (penultimo paragrafo) fatto da Benedetto XVI il 12 settembre 2006, proprio quello che scatenò infinite stupidissime pretestuose polemiche per l’asserita offesa ai musulmani. L’argomento islam in quel discorso c’entrava in modo meno che marginale, ciò di cui il Papa intendeva parlare era proprio la ragione e la visione riduttiva che ne ha il razionalismo odierno. Adesso Benedetto XVI ribadisce il concetto. Accomodante sì, debole no.

 

 

L’economia deve basarsi su una visione integrale dell’uomo: i costi umani sono costi economici. Breve periodo e lungo termine. Ripensare l’economia e il modello di sviluppo attuale.

32. Le soluzioni nuove ai problemi odierni vanno cercate alla luce di una visione integrale dell’uomo. Le scelte economiche non devono far aumentare in modo eccessivo le differenze di ricchezza e devono avere come priorità l’accesso al lavoro e il suo mantenimento per tutti: ciò per motivi non solo di giustizia e dignità umana, ma anche per motivi propriamente economici, perché eccessive disuguaglianze tra le classi di un paese o tra diversi paesi mettono a rischio la democrazia ed erodono quel capitale sociale fatto di relazioni di fiducia tra i cittadini. L’insicurezza strutturale genera atteggiamenti antiproduttivi, sprechi, adattamenti passivi a meccanismi consolidati e mancanza di creatività. I costi umani sono sempre anche costi economici.

Inoltre, è importante saper ragionare non solo nel breve periodo ma anche nel lungo termine. L’appiattimento delle culture alla sola dimensione tecnologica, l’abbassamento delle tutele dei lavoratori, la rinuncia a meccanismi di redistribuzione del reddito, sono tutti fattori che nell’immediato favoriscono i profitti ma che a lungo termine ostacolano la collaborazione sociale e perciò uno sviluppo solido e di lunga durata. La tendenza attuale verso un’economia attenta solo al breve o al brevissimo termine è dannosa: serve un’attenta riflessione sul senso e lo scopo dell’economia e una revisione profonda dell’attuale modello di sviluppo.

 

 

Interdipendenza planetaria, opportunità e rischio. Dilatare la ragione.

33. Il tema di fondo della Populorum progressio, il progresso, è tuttora un problema aperto. Alcune cause dei problemi attuali erano state individuate già allora (come i dazi doganali che i paesi ricchi impongono sui beni provenienti dai paesi poveri), altre sono emerse in seguito (come i problemi successivi alla decolonizzazione). La novità principale è l’interdipendenza planetaria, un processo che ha coinvolto tutte le economie e rappresenta una grande opportunità per molte regioni sottosviluppate ma anche un pericolo di nuove divisioni nella famiglia umana. Perciò siamo posti di fronte all’impegno di dilatare la ragione, per renderla capace di guidare queste nuove dinamiche nella prospettiva della carità nella verità.

Si riafferma la necessità di allargare la ragione e si anticipa l’argomento della “famiglia umana”, che sarà un tema portante del prossimo capitolo dell’Enciclica incentrato sulla fraternità.


Caritas in Veritate (2)

(2) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

 

Introduzione

 

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

 

Leggere oggi la Populorum progressio: interpretazione alla luce della Tradizione.

10. Rileggere oggi la Populorum progressio porta un problema di interpretazione, perché la questione dello sviluppo oggi si pone in termini diversi rispetto a quarant’anni fa. Tale Enciclica deve dunque essere interpretata alla luce della Tradizione della fede apostolica.

 

 

Legame della Populorum progressio con il Concilio Vaticano II. Carità non è mero assistenzialismo. Per uno sviluppo umano integrale serve una prospettiva eterna. Insufficienza delle istituzioni.

11. La Populorum progressio è fortemente legata al Concilio Vaticano II (in particolare alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes), che ha approfondito una verità che la Chiesa professa da sempre: essa, essendo al servizio di Dio, è anche al servizio del mondo, in termini di amore e verità.

Sulla base di ciò, Paolo VI ha comunicato al mondo due messaggi fondamentali. Anzitutto, la Chiesa promuove lo sviluppo integrale dell’uomo e non può limitare la propria carità a un semplice assistenzialismo; tuttavia spesso sorgono dei regimi politici che perseguitano la Chiesa o che, pur senza arrivare a livelli di palese oppressione, pretendono di comprimere in tal senso la sua attività e perciò di fatto ne limitano comunque la libertà.

Inoltre, il progresso dell’uomo per essere autentico deve riguardare la totalità della persona in ogni sua dimensione, e per far ciò ha bisogno di una prospettiva eterna. Non può darsi vero progresso se si pensa che l’uomo finisca con la morte, perché questa miope prospettiva priva la società dell’energia necessaria a compiere uno sviluppo integrale. Spesso si è creduto che lo sviluppo potesse essere garantito semplicemente dalle istituzioni, e che esse avrebbero “automaticamente” portato l’uomo al progresso, senza alcun bisogno di una prospettiva trascendente e di Dio. Questa presunzione di auto-salvezza finisce in realtà per promuovere uno sviluppo disumanizzato.

Questo paragrafo è un po’ una sintesi complessiva di questo capitolo incentrato su cosa deve intendersi per sviluppo. Il significato di sviluppo “integrale” verrà spiegato nei dettagli nel paragrafo 18.

 

 

Legame della Populorum progressio con la Tradizione preconciliare. Coerenza come fedeltà dinamica. Compito profetico dei Pontefici.

12. La Populorum progressio è altresì legata al magistero precedente al Concilio Vaticano II, poiché il Concilio stesso è un approfondimento di quel magistero nella continuità della storia bimillenaria della Chiesa. Sono da respingere quelle astratte suddivisioni che vedono due diversi insegnamenti della dottrina sociale, prima e dopo il Concilio, perché quest’insegnamento è unico, coerente e sempre nuovo.  Coerenza che non significa fissità immobile, ma fedeltà dinamica alla luce ricevuta e che conferisce alla dottrina sociale della Chiesa un carattere allo stesso tempo permanente e storico. Nella dottrina sociale si esprime un vero e proprio compito profetico dei Pontefici, che devono capire le nuove esigenze dell’evangelizzazione per guidare apostolicamente la Chiesa di Cristo.

Il concetto di “fedeltà dinamica” rappresenta il nucleo dell’evoluzione della Tradizione. La Tradizione della Chiesa è in costante evoluzione perché essa è un patrimonio di sapienza che non deriva dall’uomo, non è stato prodotto dall’uomo in un dato momento storico-culturale, ma deriva da Dio: La sua origine non è nel tempo, ma nell’eternità. La Tradizione ha un carattere assieme permanente – perché la Rivelazione, di cui la Tradizione è parte, si è compiuta definitivamente – e storico – perché noi dobbiamo capire sempre di più e sempre meglio la Rivelazione, anche alla luce delle nuove situazioni che man mano avvengono nella storia.

I tradizionalisti e i modernisti paradossalmente fanno lo stesso sbaglio, perché pensano alla Tradizione come qualcosa di statico, separato dalla storia, e perciò gli uni vogliono conservarla immutata e gli altri vogliono abolirla. Un tradizionalista non è altro che un modernista riflesso in uno specchio oscuro, e viceversa.

 

Legame della Populorum progressio con il magistero complessivo di Paolo VI.

13. La Populorum progressio è inoltre legata all’intero magistero di Paolo VI. Egli capì che la “questione sociale” era diventata una questione mondiale e individuò nello sviluppo, inteso sia da un punto di vista naturalmente umano che da una vera e propria prospettiva cristiana, il cuore del messaggio sociale cristiano, affrontando con fermezza importanti questioni etiche senza cedere alle debolezze culturali del suo tempo.

 

 

La Octogesima adveniens. Utopie tecnocratiche VS utopie naturalistiche: entrambe separano il progresso dalla valutazione morale.

14. In particolare, ricordiamo che con la Lettera apostolica Octogesima adveniens Paolo VI mise in guardia non solo dal pericolo dell’utopia politica e ideologica, allora imperante, ma anche dall’ideologia tecnocratica che oggi è particolarmente radicata. Poiché la tecnica presa in sé stessa è ambivalente, vi sono due pericoli opposti: da un lato c’è chi vuole affidare esclusivamente alla tecnica lo sviluppo dell’uomo; dall’altro vi è chi in odio alla tecnocrazia rifiuta del tutto il concetto di sviluppo, vagheggiando un utopico ritorno all’originario stato di natura, e condanna non solo l’abuso delle scoperte scientifiche ma anche la scienza di per sé, manifestando così una profonda sfiducia nell’uomo e in Dio. I due estremi si toccano perché queste entrambe visioni, l’una vedendo il progresso tecnico come assolutamente buono e l’altra come assolutamente cattivo, in concreto lo separano dalla valutazione morale e lo pongono al di fuori della responsabilità umana.

La tecnica di per sé è uno strumento, e perciò è moralmente neutra e diventa buona o cattiva soltanto in relazione all’uso che se ne fa e alle intenzioni di chi la usa.

Oggi, nell’epoca dello scientismo imperante, forse non possiamo capire appieno questo riferimento di Paolo VI ai pericoli dell’avversione alla tecnologia e al progresso. Ma la Populorum progressio fu pubblicata nel 1967: i figli dei fiori, le comunità hippy, la beat generation, l’ecologia luddista, e due anni dopo usciva al cinema Easy Rider!

(che a me invero piace pure come film, ma visto al di là della retorica è proprio una testimonianza drammatica di una controcultura sostanzialmente incapace di andare oltre i propri limiti strutturali – insomma appunto incapace di svilupparsi)

 

 

L’Enciclica Humanae vitae e l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi.

15. Ricordiamo altri due documenti di Paolo VI connessi allo sviluppo umano proposto dalla Chiesa.

Anzitutto l’Enciclica Humanae vitae, che sottolineava il significato unitivo e procreativo della sessualità e collegava strettamente l’etica della vita e l’etica sociale, perché (come diceva Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae) una società si contraddice e mina alle fondamenta sé stessa se afferma certi valori come la giustizia e la pace mentre al tempo stesso tollera la disistima e la violazione della vita umana.

Inoltre, l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi poneva un profondo legame tra la promozione dello sviluppo e l’attività missionaria. La testimonianza della carità di Cristo non è completa se non contempla opere di giustizia e di pace.

 

 

Lo sviluppo umano è vocazione.

16. Il messaggio profondo della Populorum progressio è che il progresso è essenzialmente una vocazione, perché nel disegno divino ogni uomo è chiamato ad uno sviluppo. Se lo sviluppo fosse solo un fatto tecnico, la Chiesa non avrebbe competenze per occuparsene; ma poiché lo sviluppo umano implica il fatto che ogni uomo cammina nella storia assieme ai suoi fratelli, nonché l’individuazione della meta verso cui l’umanità si dirige, esso rientra tra le materie su cui la Chiesa deve proiettare la luce del Vangelo.

 

 

Lo sviluppo umano non è automatico perché non dipende solo dall’uomo. La libertà responsabile.

17. Poiché lo sviluppo umano è una vocazione, una risposta a un appello divino, esso non è mai un fatto interamente umano e presuppone nell’uomo – sia nel singolo che nei popoli – un sì alla chiamata divina che sia libero e responsabile. Le utopie e le visioni messianiche invece, negando l’aspetto trascendente dello sviluppo, si cullano nell’illusione che esso sia esclusivamente una questione umana e sia un fatto sicuro, spontaneo, automaticamente garantito. In questo modo alla lunga lo sviluppo diventa il fine mentre l’uomo viene degradato a mezzo, e questa falsa sicurezza diventa una debolezza.

Paolo VI osservava che ogni uomo e ogni popolo, proprio in quanto libero, non è deterministicamente vincolato dall’ambiente ostile ma deve assumersi la responsabilità dei propri successi e dei propri fallimenti; e questo anche con riguardo alle situazioni di sottosviluppo, che dipendono non dal caso o dalla necessità storica ma dalla responsabilità umana. Anche gli appelli rivolti dai popoli della fame ai popoli dell’opulenza sono a loro modo una vocazione che esige una risposta libera e un’assunzione di responsabilità.

Spesso si pensa al progresso come a qualcosa di scontato e inarrestabile. Un ottimismo che nasce dal positivismo illuminista (togli la religione e automaticamente il mondo andrà meglio) e che regge perfino dopo i fiumi di sangue del ‘900.

Dev’essere per questo che mi piacciono molto i libri e i film di ambientazione cosiddetta postapocalittica – L’ombra dello scorpione, Waterworld, Jericho, la trilogia di Interceptor, gli zombie-movie…, sono come uno scossone che dice: sveglia, tutto quello che abbiamo non è mai scontato, l’uomo è sempre capace di rovinare tutto. Pattiniamo sul ghiaccio sottile.

 

 

Il vero sviluppo umano è integrale, cioè riguarda ogni ambito umano e ogni persona umana.

18. Paolo VI insegnava che lo sviluppo umano deve essere integrale nel senso che esso deve essere volto alla promozione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. La Chiesa fa affidamento per questa integralità dello sviluppo su Cristo e sul suo Vangelo, e sui suoi ammaestramenti offre al mondo la propria visione globale dell’umanità, che riguarda sia il piano naturale e sia il piano soprannaturale.

Mi sembra dunque che Paolo VI e con lui Benedetto XVI intendano l’integralità dello sviluppo in senso sia qualitativo – tutto l’uomo, cioè tutto ciò che riguarda l’umano – e sia quantitativo – tutti gli esseri umani. Uno sviluppo che coinvolge solo alcune nazioni o alcune classi sociali mentre gli altri restano o diventano ancora più poveri, o un progresso che concerne solo l’aspetto tecnologico o economico o ludico di una società mentre altri aspetti sono tralasciati o abbandonati, non è integrale e dunque non è un vero sviluppo.

Un po’ come la storia della coperta troppo corta: uno sviluppo del genere si limita a spostare la coperta da un lato mentre lascia scoperto l’altro, ovvero attua una diversa riallocazione delle risorse – economiche, culturali, sociali – travasandole da un paese all’altro o da un settore all’altro. Soltanto uno sviluppo integrale come quello descritto da Paolo VI è vero sviluppo perché “allunga la coperta”.  

 

 

Lo sviluppo umano presuppone la carità fraterna. La globalizzazione e la ragione da sole non bastano.

19. Lo sviluppo umano presuppone la carità. Le cause principali delle situazioni di sottosviluppo non sono di ordine materiale, ma derivano dalla mancanza di carità e di fratellanza. La globalizzazione di per sé rende gli uomini vicini, ma non li rende fratelli. La ragione da sola coglie l’uguaglianza tra gli uomini e può fondare le basi della convivenza civica, ma non può riconoscerli come fratelli di una sola famiglia, perché questa deriva da un appello di Dio Padre che ci ama e nell’amore del Figlio ci insegna cos’è la carità fraterna.

 

 

Persistenza dell’urgenza delle riforme chieste dalla Populorum progressio.

20. Le prospettive aperte dalla Populorum progressio rimangono fondamentali anche nel nostro tempo, e dobbiamo constatare che le riforme che in essa erano richieste sono urgenti ora come allora, un’urgenza che deriva da Cristo stesso: caritas Christi urget nos (2 Cor 5 14).

 


Caritas in Veritate (1)

Un riassunto della Caritas in Veritate

 

 

Ho finalmente trovato il tempo di leggere la nuova Enciclica di Benedetto XVI e devo dire che è stata una lettura estremamente soddisfacente, ma anche molto impegnativa (si capisce che ogni parola è meditata), e per alcuni potrebbe risultare particolarmente onerosa a causa degli argomenti economico-sociali che tratta.

Per dare il mio modestissimo contributo alla sua diffusione, ho deciso di tentare un riassunto dell’enciclica paragrafo per paragrafo (perché ogni paragrafo merita di essere studiato attentamente). In alcuni casi aggiungerò anche miei commenti in piccolo, riconoscibili perché scritti con un carattere e un colore diverso, i quali naturalmente sono ben altra cosa da ciò che dice il Papa e perciò sono assolutamente criticabili da chiunque (in senso stretto anche ciò che dice il Papa è “naturalmente” criticabile, ma insomma spero avrete capito la differenza).

Naturalmente non ho nessuna pretesa di esaustività e sono aperto a tutte le critiche costruttive, semplicemente spero di essere utile a qualcuno. Si tratta di un impegno che andrà avanti a tappe, un capitolo per volta, e probabilmente ci metterò tutta l’estate. Per adesso, ecco il riassunto dell’introduzione della Caritas in Veritate.

 

EDIT: per facilitare ulteriormente la comprensione ho pensato di premettere ad ogni paragrafo un titoletto che ne enuclea il contenuto; lo scriverò nello stesso carattere dei miei commenti per far capire che si tratta di una mia sintesi, dunque non è “interpretazione autentica”.

 

Introduzione

 

La carità nella verità come principale fonte di sviluppo.

1. La carità nella verità è la principale fonte di sviluppo dell’umanità. L’amore che promana da Dio spinge le persone a impegnarsi coraggiosamente e ogni uomo, aderendo al progetto di Dio, trova la verità ed essa lo rende libero. La carità nella verità ci è mostrata da Cristo, perché Lui stesso è la Verità.

 

 

Veritas in caritate + caritas in veritate: concetti complementari.

2. La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa ed il principio delle relazioni umane. Spesso è fraintesa, sviata, dichiarata irrilevante, e per questo c’è bisogno di unirla alla verità: sia con la veritas in caritate come diceva San Paolo (Ef 4 15), sia con il concetto complementare di caritas in veritate. Bisogna esprimere la verità in modo caritatevole e rispettoso del prossimo, e al tempo stesso bisogna aiutare il prossimo nella luce della verità, e bisogna farlo specialmente oggigiorno perché si è diffuso il relativismo che disprezza la verità.

Questa sorta di relazione biunivoca tra carità e verità tratteggiata da Benedetto XVI è molto interessante. Spesso oggi una certa mentalità cattolica “ecumenica” ha rinunciato all’idea di portare al prossimo la verità di Cristo e preferisce limitarsi al “dialogo”, all’aiuto materiale e ad una vaga filantropia spirituale che spesso non è niente di più che un cristianesimo risciacquato nel socialismo. Nel nome di un fasullo “spirito del concilio” si è rinunciato a comunicare la verità dell’ortodossia cristiana e cattolica perché fa molto fondamentalista, non è bello, non è moderno. Perciò è importante riaffermare che il vero cristiano non può separare la carità dall’annuncio della verità del cristianesimo vissuto nella Chiesa; ed anzi, penso che annunciare la verità al mondo intero e al proprio prossimo sia esso stesso una forma importante di carità.

 

 

La carità senza verità è sentimentalismo.

3. La verità è una luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è sia quella della ragione e sia quella della fede. Senza verità, la carità diventa sentimentalismo, un guscio vuoto che ciascuno riempie come vuole, una parola di cui si abusa che può significare qualunque cosa. La carità nella verità riflette la dimensione insieme personale e pubblica di Dio, che è sia Agàpe e sia Lògos, Amore e Parola.

 

 

La carità senza verità è sostanzialmente irrilevante.

4. La carità nella verità può essere compresa da tutti perché la verità di Dio, il Lògos, crea il dià-logos cioè uno spazio condiviso in cui gli uomini escono dalla soggettività per arrivare a incontrarsi sulla giusta valutazione da dare alle cose. Vivere la carità nella verità aiuta a far capire che i valori del cristianesimo sono indispensabili per una buona società e un corretto sviluppo umano; un cristianesimo che fosse solo carità e niente verità sarebbe soltanto una riserva di buoni sentimenti, sostanzialmente marginale.

 

 

La carità nasce dalla Trinità.

5. La carità è amore sia ricevuto che donato, grazia (chàris) che sorge dall’amore del Padre per il Figlio nello Spirito Santo, e dal Figlio discende su di noi, che diventiamo a nostra volta strumenti della grazia e dobbiamo diffondere la carità di Dio nel mondo. Questa dinamica di carità ricevuta e donata è il fondamento della dottrina sociale della Chiesa, che è caritas in veritate in re sociali ovvero annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Senza verità e senza amore per la verità, la società cade in balia degli egoismi e si disgrega.

Con poche parole Benedetto XVI descrive il cuore del mistero della Trinità: Dio (amante) ama il Figlio (amato) attraverso lo Spirito Santo (amore), e così nell’Unità di Dio si dà l’essenza dell’Amore. Il Figlio amato “trasmette” questo amore a tutte le creature figlie di Dio e noi, che siamo amati a nostra volta, dobbiamo a nostra volta trasmettere quest’amore al nostro prossimo. In questo modo l’amore nasce da Dio e si diffonde nel mondo, anche attraverso l’esercizio istituzionale della carità che è la politica (come viene spiegato nei prossimi paragrafi). Perciò non si può capire il modo cristiano di vedere la politica se si dimentica l’importanza della Trinità.

 

 

Il criterio della giustizia. La Carità è più che la semplice Giustizia.

6. Dal principio della carità nella verità discendono vari criteri che orientano l’azione dell’uomo morale. Anzitutto la giustizia: la carità eccede la giustizia e la presuppone. Infatti trattare qualcuno con giustizia vuol dire dargli il “suo”, ciò che gli spetta a causa del suo essere e del suo operato; trattare qualcuno con carità vuol dire di più, vuol dire offrire del “mio”, cioè qualcosa che spetta a me e che io offro come dono gratuito. D’altra parte è chiaro che non posso dare a qualcuno del “mio” se prima non gli ho dato ciò che gli spetta in quanto “suo”. Pertanto la giustizia è, come diceva Paolo VI, “la misura minima della carità”.

La città dell’uomo, la società terrena, va amministrata secondo giustizia – ciascuno deve avere il suo secondo i suoi diritti e i suoi doveri – ma ha bisogno anche di carità, di persone che sappiano agire per gratuità e misericordia.

Carità > Giustizia. Essere “buono” con qualcuno è più che essere semplicemente “giusto”. Questo paragrafo anticipa la differenza tra giustizia commutativa e giustizia distributiva, che sarà poi trattata più avanti.

 

 

Il criterio del bene comune. La politica è un’altra forma di carità.

7. Dal principio della carità nella verità nasce un altro importante criterio operativo, quello del bene comune. Il bene comune non è semplicemente la somma dei beni individuali, ma esiste come bene legato al vivere sociale, alla comunità formata dagli individui e dai corpi intermedi come le famiglie e le associazioni. D’altra parte il bene comune non è semplicemente fine a sé stesso, ma è orientato proprio al bene delle persone che formano la comunità sociale; però le persone possono realizzare efficacemente il proprio bene soltanto nella comunità sociale e attraverso il bene comune.

L’impegno per il bene comune richiede tutto quell’insieme di istituzioni giuridiche, civili, politiche e culturali che rendono una società ordinata, che ne fanno una pòlis, una città. In questo modo il cristiano ha di fronte a sé due forme di carità, quella praticata direttamente al prossimo e quella praticata tramite la partecipazione alla gestione della pòlis. Il cristiano è tenuto ad esercitare entrambe queste forme, nel modo della sua vocazione e nelle sue possibilità, in modo da far assomigliare il più possibile la città dell’uomo alla città di Dio.

Questo paragrafo esprime in sintesi la concezione della società nella dottrina della Chiesa, una concezione che ripudia i due opposti estremismi dell’individualismo e del collettivismo. Notiamo anzitutto che le parole “individuo” e “persona” non sono semplicemente sinonimi, perché “individuo” sottintende l’idea di un singolo puro, una monade, mentre “persona” indica un ente che non è a sé stante ma è legato agli altri enti da una fitta trama di relazioni (questo significato della parola “persona” deriva proprio dalle riflessioni della Chiesa sulle Persone della Trinità).

Per l’individualismo gli uomini vanno considerati innanzitutto come singoli individui, le relazioni che sorgono tra loro sono un qualcosa di accidentale e secondario che può essere rescisso in qualunque momento, e la società non esiste se non come mera somma degli individui (famosa la frase lapidaria di Margaret Thatcher “non esiste la società, ci sono solo gli individui”). All’opposto per il collettivismo, che deriva non solo dal marxismo ma anche e forse fondamentalmente dalla filosofia di Hegel, è l’individuo ad essere una semplice appendice della collettività, la quale è l’unico vero soggetto agente della storia. Come spesso succede gli estremi si toccano, perché in entrambi i casi la vita umana perde molto del suo valore e può essere facilmente sacrificata, o per l’egoismo degli individui forti che sottomettono i deboli o sull’altare dello Stato totalitario. La Chiesa invece difende il valore della persona, un singolo intrinsecamente legato ad altri singoli, e difende le relazioni tra le persone che costituiscono i corpi intermedi, in primis la famiglia.

Oggigiorno la mentalità collettivista, che pochi decenni fa a moltissimi sembrava fosse “il sol dell’avvenire” e il futuro ineluttabile del pianeta, è caduta a pezzi ed è praticamente scomparsa. Persino quelli che oggi dicono di essere comunisti e socialisti, in realtà hanno un modo di pensare totalmente intriso di individualismo (e lo si vede quando parlano di bioetica e famiglia). Le parole “destra” e “sinistra” continuano a essere usate, ma in modo improprio, perché hanno cambiato completamente il significato a cui si riferiscono. A volte penso che paradossalmente gli unici o quasi ad essere “di sinistra” in Italia oggigiorno sono proprio i cattolici, anche e forse perlopiù quelli che votano “a destra”, perché sono i soli che hanno resistito all’avanzata dell’individualismo.

Notiamo poi che il bene comune di cui parla Benedetto XVI è un bene che esiste in sé, distinto dalla somma dei beni individuali, ma non è per sé, perché è finalizzato proprio al bene delle persone. Insomma, se ho ben capito: la società è per le persone e non viceversa. In questo modo si evita di cadere nell’individualismo e nel collettivismo.

Notiamo infine che Benedetto XVI parla della partecipazione alla politica, cioè la gestione della pòlis, come di una forma specifica di amore e in questo riecheggia un’altra frase di Paolo VI che definì la politica come la forma più alta di carità. Insomma, noi cattolici siamo molto lontani dai tempi del non expedit e siamo ben decisi a non farci ghettizzare dalle accuse di “ingerenza” fatte di chi vorrebbe praticamente toglierci il diritto di voto (e questa non è un’esagerazione).

 

 

L’importanza della Populorum Progressio.

8. Nel 1967 Paolo VI pubblicò l’Enciclica Populorum Progressio, che trattava il tema dello sviluppo dei popoli e in particolare dello sviluppo umano integrale, che interessa l’intera totalità della società umana e non solo una sua parte, e nasce dall’annuncio di Cristo che è proprio il primo fattore di sviluppo. Benedetto XVI intende onorare la memoria di Paolo VI e attualizzare i suoi insegnamenti, ponendoli di fronte alle nuove questioni che nel 1967 non erano ancora sorte o erano meno dirompenti – un processo di attualizzazione che già Giovanni Paolo II aveva iniziato con l’Enciclica Sollecitudo rei socialis. Prima un simile processo era stato riservato solo ad un’altra enciclica, la famosa Rerum novarum, e Benedetto XVI si dice convinto che la Populorum Progressio sia proprio “la Rerum novarum dell’epoca contemporanea”.

Questo paragrafo anticipa l’importanza fondamentale della Populorum Progressio e del magistero di Paolo VI, basti pensare che l’intero capitolo successivo è interamente dedicato a questa famosa ed importante Enciclica. “Attualizzare” significa applicare un ragionamento analogico ed estendere quegli insegnamenti, sorti di fronte alle situazioni contingenti di ieri, alle nuove situazioni contigenti di oggi. In fin dei conti è proprio ciò che la Chiesa da duemila anni: attualizzare l’insegnamento evangelico di Cristo e far vivere la Tradizione.

Infine, mi piace pensare che quest’omaggio alla figura di Paolo VI sia anche un piccolo segnale lanciato al mondo tradizionalista (verso cui Benedetto XVI ha giustamente fatto tanto di buono, in primis con il motu proprio), e in particolare a quei tradizionalisti troppo “focosi” che talvolta colgono l’occasione per denigrare la figura di questo grande e incompreso Papa…

 

 

La dottrina sociale della Chiesa non ha soluzioni tecniche e non fa intromissioni politiche, ma serve la verità.

9. La carità nella verità è una sfida per la Chiesa, ma anche un aiuto per il mondo che nell’epoca della globalizzazione corre dei gravi rischi. Questo non vuol dire che la Chiesa abbia una ricetta pronta, perché essa non offre soluzioni tecniche e non si vuole intromettere nella politica degli Stati. Semplicemente la Chiesa deve essere fedele al suo mandato di testimoniare la verità, senza la quale si cade nel baratro di una visione scettica e insensata della vita. La dottrina sociale della Chiesa è aperta alla verità da qualsiasi sapere provenga, ne accoglie i frammenti che trova e li ricompone ad unità, e porta la verità a contatto con le novità che ogni giorno sorgono nella società.

Due considerazioni finali. Anzitutto, quando si dice che la Chiesa non si vuole intromettere nella politica degli Stati, penso si intenda che essa di per sé non ha niente a che fare con le questioni meramente politiche, cioè le questioni che non hanno a che fare con la morale. Ci sono però questioni politiche che sono anche questioni morali (come lo fu il referendum sulla procreazione assistita), e su queste la Chiesa deve dire la sua senza farsi intimorire dalle accuse di ingerenza, e i cattolici devono democraticamente votare secondo i principi in cui dicono di credere – se vogliono essere coerenti con la loro dichiarata fede cattolica; se poi non vogliono esserlo, è una loro libertà e nessuno gliela deve togliere, però poi non vengano a dire che sono cattolici e se sono dei politici non vengano a chiedere il voto ai cattolici…

Inoltre trovo molto interessante l’accenno di Benedetto XVI ai “frammenti di verità”, cioè a quelle parti di verità che si possono trovare anche nelle culture e nelle religioni e nelle ideologie più lontane, anche non cristiane o addirittura anticristiane. In effetti io non credo che possa esistere una cultura/religione/ideologia che sia totalmente priva di verità: se lo fosse, sarebbe intollerabile agli esseri umani e nessuno potrebbe prestarle fede. Semmai si hanno dei frammenti di verità distorti, abusati, mischiati a non-verità. Ricordiamo che il male è la negazione dell’essere, dunque il male puro non esiste. In concreto questa apertura ai frammenti di verità vuol dire dialogare con chi la pensa in modo diverso, però questo dialogo non vuol dire “ma sì le nostre idee in fondo valgono allo stesso modo è tutto indifferente e ora prendiamoci per mano e facciamo giro giro tondo” ma è finalizzato a capire quanto c’è di oggettivamente vero in ciò che dice l’altro, e come questa parziale verità può essere “salvata” e accolta nella dottrina della Chiesa – il che penso fosse il significato di fondo della maltrattata e malcompresa costituzione conciliare Nostra Aetate (fraintesa sia da parte tradizionalista e sia da parte modernista).