E tu, Melkor,
t’avvederai che nessun tema può essere eseguito,
che non abbia la sua più remota fonte in me,
e che nessuno può alterare la musica a mio dispetto.
Poiché colui che vi si provi non farà che comprovare
di essere mio strumento nell’immaginare
cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare.
Che cos’è la creatività?
Tutte le cose che ho scritto, le storie che ho narrato, le idee che ho pensato, da dove venivano? Le ho tirate fuori da dentro di me? O da fuori di me?
Come nascono le grandi scoperte scientifiche, le invenzioni tecnologiche, le – per citare il titolo di una famosa antologia di fantascienza – “meraviglie del possibile”?
Avevo già parlato del concetto, caro a Tolkien, di sub-creazione. Mentre Dio è il vero e unico creatore, poiché fa esistere ex nihilo tutte le cose, la creatura intelligente può sub-creare: lavorare sul preesistente, svilupparne le potenzialità, portarlo a un più alto grado di perfezione.
Così nel Silmarillion gli Ainur, le gerarchie angeliche, sviluppano il tema musicale proposto loro da Eru Ilùvatar; e successivamente si trasferiscono dal piano metafisico a quello fisico, entrando stabilmente nell’universo e diventando Valar, potenze simili alle divinità pagane. Come spiega JRRT nel suo epistolario, dall’atto divino del “Creare” va distinto il “Fare”, forma di sub-creazione con cui i Valar plasmano la materia e costruiscono il mondo in accordo al progetto divino.
Successivamente nella Terra di Mezzo appariranno gli elfi, e con essi un’altra forma di sub-creazione: la capacità di lavorare la materia per farne cose belle ed utili, l’arte e la tecnica, che al loro livello più alto si identificano (e infatti in origine sono la stessa cosa: la separazione semantica delle due parole avviene in epoca moderna, nel linguaggio medievale tecnica si dice proprio “arte”).
Oggigiorno è stata abbandonata questa concezione dell’artista e dell’inventore come collaboratori di Dio e continuatori della creazione. L’arte si è smarrita nel disordine post-moderno e ha rinunciato a cercare un significato oggettivo di bellezza universale, mentre la tecnologia è degradata a strumento di “dissonanza” da nuovi Melkor che vogliono riscrivere la natura. Tolto il Creatore di mezzo, sorgono tanti piccoli creatori o pretesi tali, dagli esiti faustiani e imprevedibili.
Eppure, ancora oggi, non tutto è stato perduto.
Prendete Steve Jobs, per esempio.
Nel post precedente ho commentato il libro Nella testa di Steve Jobs che descrive il modus operandi dell’inventore del Mac, fondatore della Apple, “stay hungry stay foolish”, insomma uno dei più prolifici creativi di fine secolo.
Per dire, Jobs lavorava così:
Sono molte le aziende cui piace dichiarare di essere orientate al cliente. Si rivolgono agli utenti e chiedono loro che cosa vorrebbero. Questa cosiddetta «innovazione orientata al cliente» si basa su feedback e gruppi di discussione. Ma Steve Jobs non ne vuol sapere di laboriose ricerche condotte su gruppi di utenti chiusi in una sala conferenze. È lui stesso a provare le nuove tecnologie e ad annotare le proprie reazioni, che poi invia ai suoi ingegneri come feedback. Se qualcosa è troppo complicato da usare, dà istruzioni perché sia semplificato. Tutto ciò che è superfluo o disorientante deve essere eliminato. Se funziona per lui, allora funziona per i clienti […]
Nell’arte come nella tecnologia, la creatività ha a che fare con l’espressione individuale. Steve Jobs non si serve dei gruppi di discussione, proprio come un’artista non ci si affiderebbe per dipingere un quadro. Non può innovare chiedendo a un campione di utenti che cosa vorrebbe: la gente non sa quello che vuole. Come ebbe a dire una volta Henry Ford, «se avessi chiesto ai miei clienti che cosa volevano, mi avrebbero risposto: ‘Un cavallo più veloce’» […]
Guy Kawasaki, il primo “Mac-evangelista” della Apple, mi ha detto esagerando soltanto un po’ che il budget stanziato dall’azienda per gruppi di discussione e ricerche di mercato si può rappresentare con un numero negativo: «La ricerca di mercato secondo Steve Jobs è il suo emisfero destro che parla al sinistro».
Ora, quando ho letto questi brani, la prima cosa che ho pensato è stata: vedi un po’ Jobs, che io ipertrofico, decide lui per tutti.
Successivamente, però, ho realizzato che ero stato troppo affrettato nel mio giudizio. Questo modo di fare derivava non tanto o non solo dall’egocentrismo del manager, ma da altre considerazioni più basilari.
Nel libro si racconta di quando Jobs andò a trovare uno dei suoi miti personali: Edwin Land, l’inventore della Polaroid. Jobs stimava immensamente Land; quando la rivista Time gli aveva chiesto la differenza tra arte e tecnologia, lui aveva citato la sua frase «voglio che la Polaroid si ponga nel punto d’incontro tra arte e scienza» per sostenere il concetto (molto medievale, in un certo senso; molto, per dirla alla Tokien, “elfico”) che non c’è nessuna sostanziale differenza tra le due cose. Quando Land fu costretto alle dimissioni dal consiglio d’amministrazione della Polaroid a seguito di un insuccesso commerciale («il Polavision, una tecnica di sviluppo istantaneo delle riprese video che dovette soccombere di fronte alle più pratiche videocassette e che nel 1979 fu all’origine di una perdita di 70 milioni di dollari»), Jobs si era arrabbiato tantissimo: «Tutto quello che ha fatto è stato mandare in fumo qualche schifoso milione di dollari e loro lo hanno estromesso dalla sua società» (anche Jobs anni dopo fu allontanato dalla Apple).
Subito dopo la cacciata di Land, Jobs andò a trovarlo nel suo laboratorio. John Sculley, il suo vice che lo accompagnava, testimonia che
Fu un pomeriggio appassionante. Stavamo seduti in questa grande sala conferenze con un tavolo vuoto. Loro due continuavano a fissare il centro del tavolo, mentre parlavano. Il dottor Land disse: ‘Riuscivo a vedere come la Polaroid avrebbe dovuto essere, proprio come se l’avessi avuta davanti agli occhi ancor prima di costruirne una’. E Steve: ‘Sì, proprio come io vedevo il Macintosh. Se avessi chiesto a qualcuno come avrebbe dovuto essere, non avrebbe saputo dirmelo. Un’indagine tra i consumatori non era semplicemente possibile. Ho dovuto pensarci io, farlo e poi mostrarlo alla gente’.
Entrambi possedevano questa capacità di, come dire… non di inventare un prodotto, ma di scoprirlo. Entrambi sostenevano che quei prodotti erano sempre esistiti, soltanto che nessuno era mai stato in grado di vederli prima di loro. La Polaroid e il Macintosh erano sempre esistiti, si trattava soltanto di scoprirli.
Lo stesso Steve Jobs, intervistato nel 1996 dalla rivista Wired, disse:
Essere creativi significa soltanto sapere combinare le cose. Quando si chiede ai creativi come abbiano fatto a inventare una cosa, loro si sentono un pochino colpevoli perché non l’hanno davvero creata, hanno semplicemente visto qualcosa che gli è sembrato ovvio. Questo accade perché i creativi sono in grado di combinare ciò che hanno già vissuto e di ricavarne delle cose nuove. E la ragione per cui sono capaci di farlo è che hanno accumulato più esperienze o vi hanno riflettuto più a lungo rispetto alle altre persone… Sfortunatamente, si tratta di una merce molto rara. Troppa gente nel nostro settore non ha avuto esperienze diverse, così non ha abbastanza elementi da combinare e finisce con l’elaborare soluzioni lineari con una visione limitata dei problemi. Quanto più una persona conosce a fondo l’esperienza umana, tanto più produrrà progetti migliori.
Ora, io non so se Jobs e Land ne fossero a conoscenza, ma è degno di nota che il verbo inventare, che oggi significa proprio (cit. Zingarelli) «ideare e realizzare col proprio ingegno qualcosa di nuovo, di non esistente in precedenza», in origine aveva il significato opposto: deriva dal verbo latino invenio che significa “scoprire, trovare”, proprio nel senso in cui si trova un tesoro, qualcosa che già esiste, è lì, quiescente.
(piccola nota giuridica: un residuo di questo vecchio significato resiste nell’articolo 922 del codice civile, che definisce “invenzione” il ritrovamento di una cosa già proprietà di altri)
Così, distinto dal Creare divino, come la versione del Fare angelico che ci è propria, sta l’Inventare umano (“elfico”, avrebbe detto Tolkien, perché in questo i suoi elfi impersonano il lato migliore dell’umanità).
L’inventore non è colui che crea dal nulla. L’inventore è colui che scopre ciò che era coperto dall’ignoranza. E il più grande creativo è colui che non insegue le “dissonanze”, le chimere d’onnipotenza titanica, ma sa che la sua creatività è sub-creazione.
Perché nessun tema può essere eseguito senza che abbia la sua più remota fonte in Colui Che È Origine Di Tutte Le Cose.
Ci è stato dato un universo straordinariamente bello, costruito razionalmente, intellegibile secondo logica, pieno di tesori da scoprire e da ammirare.
Tutto ciò che è inventabile, tutto ciò che è esprimibile artisticamente, esiste già ora, invisibile agli occhi, visibile alla mente cioè al cuore.
Le meraviglie del possibile ci aspettano.