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La grande marcia della distruzione intellettuale…

…terminerà.
Non potrà non terminare, perchè si basa su una bugia.
Proseguirà fino al suo apice. Seguirà l’inevitabile declino.

 Allora inizierà una una nuova grande marcia. La marcia della ricostruzione intellettuale. La marcia del ritorno alla realtà.
Tutto ciò che è reale sarà affermato.
Tutto ciò che non è reale sarà negato.
Ridiventerà ragionevole affermare le pietre della strada; ridiventerà un dogma fideista negarle.
Sarà di nuovo una forma dissennata di misticismo dire che siamo tutti immersi in un sogno; sarà di nuovo razionale asserire che siamo tutti svegli.

Noi saremo lì.
Attizzeremo i nostri fuochi per testimoniare che due più due fa quattro.
Sguaineremo le nostre spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate.
Noi ci ritroveremo a difendere non solo qualcosa di veramente credibile, come le virtù e la sensatezza della vita umana; cose che sono veramente credibili, perché SONO VERE; ma noi difenderemo qualcosa di più credibile ancora: questo immenso, evidente, evidente, EVIDENTE universo che ci fissa in volto.

Combatteremo per i prodigi visibili precisamente PERCHÈ SONO VISIBILI.

Guarderemo l’erba e i cieli straordinari con un coraggio più straordinario ancora.

Perchè noi saremo coloro che hanno visto.
E PROPRIO PER QUESTO hanno creduto.


L’uomo che uccise il mondo

un ateo molto leale con cui mi trovai a discutere fece uso di questa espressione: ‘Gli uomini sono stati tenuti in schiavitù per paura dell’inferno’. Gli ho fatto osservare che se avesse detto che gli uomini erano stati affrancati dalla schiavitù per paura dell’inferno, avrebbe almeno fatto riferimento a un inoppugnabile fatto storico.

Gilbert Keith Chesterton

World War Z.
C-A-P-O-L-A-V-O-R-O A-S-S-O-L-U-T-O.
L’apocalisse zombie come non l’avete mai conosciuta.
Ma prima di parlare di Breckenridge “Breck” Scott e del Phalanx, è d’uopo una premessa.

 

Non riesco purtroppo a ritrovare un articolo che ho letto molto tempo fa, e che non ho avuto l’accortezza di conservare, in cui si riassumeva un concetto esposto da (mi pare) Hannah Arendt nel suo La banalità del male: l’ateismo come oppiaceo della coscienza individuale.
Di fronte alla concezione marxista della religione come anestetico che trattiene il proletariato dalla sollevazione di massa contro le catene del padrone, la Arendt oppone che il nazismo ha potuto quel che ha potuto proprio in virtù dell’idea contraria: la consolazione infusa al singolo che nessun Giudizio lo avrebbe mai giudicato, nessun inferno lo avrebbe mai retribuito, dunque non c’era limite a ciò che egli poteva fare. L’orrore diventa normale quotidiano, il male è banale. Così si avvera il teorema di Dostoevksij per cui “se Dio non esiste, tutto è lecito”.
Viene alla mente quel che dice Saint-Savin, personaggio del romanzo L’isola del giorno prima di Umberto Eco, un ateo molto simpatico:

Ma non mi guardate come se non avessi sani princìpi e non fossi un fedele servitore del mio re. Un vero filosofo non chiede affatto di sovvertire l’ordine delle cose. Lo accetta. Chiede solo che gli si lascino coltivare i pensieri che consolano un animo forte. Per gli altri, fortuna che ci siano e papi e vescovi a trattener le folle dalla rivolta e dal delitto. L’ordine dello stato esige una uniformità della condotta, la religione è necessaria al popolo e il saggio deve sacrificare parte della sua indipendenza affinché la società si mantenga ferma. Quanto a me, credo di essere un uomo probo: sono fedele agli amici, non mento se non quando faccio una dichiarazione d’amore, amo il sapere e faccio, a quanto dicono, buoni versi.

 Su cosa si basano questi sani princìpi e quest’auto-definizione di probità, non è spiegato: presumibilmente la personale coscienza filosofica del personaggio e le convenzioni sociali, e su cosa esse sono fondate a propria volta, non si sa. Ma comunque Saint-Savin vive e pensa nel 1600, il suo ateismo è ancora del singolo e per il singolo, ed è controbilanciato da una ferrea morale individuale e dalla fedeltà al re. Cosa succede una volta venuta meno la prima e corrotta la seconda? La risposta a questa domanda è proprio quella data da Hannah Arendt e Dostoevskij.
Mi azzardo ad affermare storicamente, senza averne le competenze e dunque aperto a confutazioni documentate, che è proprio fino al ‘600 che non si ha notizia nella storia dell’umanità di una società complessa – il mito del buon selvaggio meriterebbe un discorso a parte – che abbia abbracciato l’ateismo collettivo e sia sopravvissuta nel lungo termine. È invece nel ‘700 (preceduto beninteso da una lunga gestazione sotterranea) che gli intellettuali cominciano a sognare in massa ed esplicitamente la scristianizzazione totale (la patina di teismo o deismo, la verniciatura di diritto naturale razionalista, si scrosta molto presto) ed è lì che comincia il cammino che porta al pensiero dominante contemporaneo: Dio non esiste, verità e giustizia sono scatole vuote da riempire volta per volta, tutto è lecito o liceizzabile a piacere, non c’è peccato né giudizio.
Su questi presupposti, quanto può durare?

 

Fine della premessa e torno a parlare di World War Z.
Si tratta di un libro epico, scritto da una massima autorità sull’argomento ovvero Max Brooks già autore del Manuale per sopravvivere agli zombie (da tenere nel comodino a portata di mano, metti caso serva). Io l’ho letto in inglese, perché in italiano non è ancora uscito, perciò le prossime citazioni sono mie traduzioni alla buona. Potreste averne già sentito parlare perché tra due mesi esce il film tratto dal libro, di cui è già in circolazione il trailer. Considerato che il protagonista è Brad Pitt e che gli zombie in questo periodo tirano, probabilmente incasserà. Peraltro la pubblicità a me ha fatto ribrezzo, perché sembra la solita storia azioneazionefuggisparaesplodibumbumbum: o il trailer è infedele rispetto al film, oppure il film col libro c’entra ben poco. D’altra parte, mi rendo conto che non era così facile trasporre la storia in film (una serie sarebbe stata un format più adatto, ma ormai questo c’abbiamo e ci accontentiamo, pazienza).
Perché WWZ non è una semplice storia di morti che risorgono e mangiano i vivi. Tecnicamente non è neppure un romanzo. È proprio un’altra cosa – molto migliore.
La particolarità di WWZ è che avviene un mondo in cui c’è già stata la guerra contro gli zombie, e l’umanità ha vinto, seppure a malapena. L’autore intradiegetico del libro è un giornalista che viaggia per il mondo e intervista persone di tutti i tipi, di ogni continente e ceto sociale, facendosi raccontare quello che hanno vissuto e le cose che hanno fatto. La differenza rispetto alla classica zombie story, alla George A. Romero oppure The Walking Dead per intenderci, è palese: lì il punto di vista è del singolo, qui è letteralmente globale. WWZ è estremamente realistico dal punto di vista geopolitico e considera una miriade di fattori che di solito nelle altre storie di zombie sono ignorati: la reazione di mass-media e politici di fronte alle voci di apocalisse (negare sempre, anche l’evidenza, finchè non è troppo tardi), le ragioni tecniche del fallimento delle normali tattiche militari di fronte a un nemico così radicalmente diverso (la battaglia di Yonkers), gli imprevedibili sconvolgimenti politici (Israele si chiude in quarantena e poi scoppia la guerra civile!).
Vorrei citare ogni intervista che mi ha entusiasmato, ma non posso. Sono troppe, praticamente tutte. È stato il libro più bello che abbia letto da un paio d’anni a questa parte (parliamo di un numero a tre cifre). Mi limito allora a quella che mi ha colpito di più, quella che mi ha fatto venire in mente, per motivi che saranno chiari alla fine, le considerazioni che ho riportato all’inizio di questo post.

Breckenridge “Breck” Scott, quel grandissimo stronzo.
Se v’interessa e capite l’inglese, l’intervista è riassunta sulla pagina di Zombiepedia, la wikipedia sugli zombie (sì, esiste davvero), dedicata al Phalanx.
Il Phalanx è un falso vaccino che Scott ha messo in circolazione sul mercato mondiale nella fase iniziale dell’epidemia, quando la gente non voleva credere che si trattasse davvero di zombie. Era meglio pensare che fosse una nuova forma di rabbia africana, più “scientifico”, più accettabile. Le alte sfere politiche, i poteri economici invece sì, sapevano che si trattava davvero di zombie, ma non volevano dirlo per non seminare il panico, perché il panico avrebbe distrutto ancora di più la fragile fiducia dei consumatori e avrebbe ripiombato il mondo in un’altra crisi finanziaria. E tutti quei grandi e blasonati giornali, i cui azionisti incidentalmente erano quegli stessi gruppi economici e politici che non volevano il panico, semplicemente guardavano da un’altra parte: a parlare di zombie erano solo le fonti non ufficiali su internet e social network, ovviamente facili da screditare.
Scott nella sua intervista ci tiene a puntualizzare che “tecnicamente” lui non ha imbrogliato nessuno, perché infatti il Phalanx previene davvero alcuni tipi di rabbia. Ha solo omesso di dire ai consumatori che il suo vaccino era inutile, perché non si trattava di rabbia ma di un’altra cosa, ma “tecnicamente” (lo dice ridendo) non ha mai mentito. Non solo, ma insiste sarcasticamente sulle conseguenze positive della sua truffa:
A causa del Phalanx, il settore biomedico ha cominciato a risalire, questo come conseguenza ha risollevato il mercato azionario, questo ha dato l’impressione di una ripresa, questo poi ha restaurato abbastanza fiducia nei consumatori per stimolare effettivamente la ripresa! Il Phalanx ha interrotto la recessione mondiale… IO ho interrotto la recessione mondiale!
Bravo.
Certo, poi sono morti tutti, ma che ti frega.

Disgraziatamente, il danno provocato dal Phalanx è stato amplificato da ­un altro fattore in gioco: i “quisling”, una delle migliori invenzioni di Max Brooks.
La parola deriva da Vidkun Quisling, politico norvegese che tradì il suo paese e collaborò con i nazisti, il cui nome è passato alla storia come sinonimo di traditore, come dire un giuda. Si tratta di una psicopatologia di massa che si è diffusa ad ampio raggio nella popolazione, anche se sfortunatamente è stata diagnosticata molto in ritardo, e consiste nel fatto che gli umani che ne sono colpiti si convincono di essere zombie. Agiscono come zombie, camminano come zombie, mordono come zombie, possono addirittura essere più pericolosi dei veri zombie. La spiegazione che è stata elaborata per questo fenomeno consiste in una specie di versione evoluta della Sindrome di Stoccolma:
c’è un tipo di gente che non accetta una  situazione lotta-o-muori. Sono attratti da ciò che temono. Invece di resistergli cercano di fare compromessi, compiacerlo, assomigliargli. Ci sono sempre stati collaborazionisti in tutte le guerre, pronti a saltare sul carro dei vincitori… Ma questo non poteva essere fatto in questa guerra, perché gli zombie sono diversi. Non puoi avvicinarti a uno zombie sventolando bandiera bianca e dicendo non uccidetemi, sono dalla vostra parte. Non c’è una zona grigia, nessun compromesso possibile. Ecco, alcune persone semplicemente non riuscivano ad accettare una situazione così drastica. Era troppo. Questo le ha fatte impazzire.
Ora, provate a immaginare la seguente situazione. Un uomo che si è vaccinato con l’inutile Phalanx viene morso da un quisling, quando ancora non si sa che esistono i quisling. Il quisling viene subito abbattuto, nessuno nota la differenza con un vero zombie. L’uomo che è stato morso sopravvive. Cosa devono pensare lui e quelli che gli stanno accanto? Che il Phalanx funziona, ovvio. Si sparge la voce che IL VACCINO FUNZIONA DAVVERO. Siamo al sicuro. Cerchiamo di non farci divorare, ma se si tratta di un solo morso, pazienza, siamo vaccinati.
Allora, situazione n. 2. Un uomo che ha assunto il Phalanx viene morso da uno zombie. È condannato ineluttabilmente a trasformarsi, ma non lo sa, anzi crede di essere salvo. Così quell’uomo torna da dove è venuto – base militare, cittadella fortificata, qualunque cosa – e dopo pochi giorni quel posto non esiste più perché è stato distrutto DALL’INTERNO.
Situazioni come questa succedono a centinaia. A migliaia.
Non è facile calcolare quante persone sono morte nella guerra contro gli zombie, ma siamo sicuramente nell’ordine dei miliardi di persone. Probabilmente metà del genere umano, diciamo grossomodo 3.000.000.000 di morti, ma probabilmente anche quattro o cinque. Un numero così grande da diventare astratto, privo di significato.

 Sarebbe esagerato dire che la responsabilità di tutti questi morti sia colpa di Breckenridge “Breck” Scott. Ci sono molte altre responsabilità, come abbiamo visto. Ma lui colpisce particolarmente per il modo con cui affronta la tragedia mondiale.
Ride.
Comprensibilmente, alla fine della guerra Scott è l’uomo più odiato del mondo. Ma non se ne cura. Non ha sofferto, lui. Con il suo falso vaccino ha fatto una quantità enorme di soldi, e al momento giusto ha tagliato la corda: si è rifugiato in Antartide, nella Base Vostok, il luogo più remoto della terra, dove gli zombie non possono arrivare (col freddo intenso l’acqua del loro corpo ghiaccia e sono immobilizzati) e dove vive come un pascià. Compra le cose che gli servono dal governo russo, che non si fa scrupoli ad accettare i suoi milioni di dollari sporchi di sangue (incidentalmente, la Russia è diventata una teocrazia). È qui che lo intervista l’autore di WWZ, e per tutta l’intervista Scott scherza, si sganascia dalle risate, si diverte alle spalle di quelli che sono morti. Non mostra il minimo rimorso. Sembra essere divertito dal concetto stesso di rimorso.
Non riesco a descrivere l’impressione di viscido che mi hanno fatto le sue parole. Dovete leggere per credere. Max Brooks è uno scrittore con gli attributi.
L’ultima domanda dell’intervista è

D. lei non assume nessuna personale responsabilità [per tutti questi morti]?

La risposta merita di essere considerata attentamente.

“R. Per cosa? per aver fatto un po’ di fottuti soldi?… beh, non proprio un po’ [ride]. Tutto quello che ho fatto era quello che si suppone voglia fare chiunque. Ho inseguito il mio sogno, mi sono preso il mio pezzo di torta. […] Non ho mai ferito direttamente nessuno, e se qualcuno è stato così stupido da farsi male da solo, boo-fuckin-hoo – [NdT credo che si possa approssimativamente tradurre con “e chi se ne fotte ha-ha”]
Certo… se c’è un inferno… [ride mentre parla] non voglio pensare a quanti di quei coglioni potrebbero stare ad aspettarmi. Spero solo che non vogliano un rimborso.”


Libri dicembre 2012

Una buona annata.

 

Per il mio Angelo, di Giuseppe Ampola.

A volte occorre leggere libri brutti.
È necessario, se vogliamo forgiarci un’estetica letteraria completa, perché la mente umana tendenzialmente funziona per relazioni di opposizione. Come tanto più apprezziamo una cosa o una persona quanto più ne abbiamo sentito la mancanza, così è difficile o impossibile percepire il bello senza l’esperienza del brutto, gustare l’abbondanza senza aver sopportato la scarsità, nonché (qui c’è una teodicea implicita) vivere appieno l’infinito senza prima essere passati per una vita finita.
Come l’uomo vivo di Chesterton, che lascia la sua abitazione per girare il mondo onde poi tornare a casa con la stessa gioia con cui ci mise piede per la prima volta, ogni tanto bisogna distaccarsi dagli autori preferiti e leggere cose noiose, sciatte, ridicole, insomma brutte.
Ringraziamo il cielo per le cose brutte, perché ci permettono di assaporare le cose belle.

Il libro in questione è, per i summenzionati motivi, utilissimo ad apprezzare tutti gli altri libri.
Dire che è brutto sarebbe poco. Dire che è bruttissimo sarebbe più preciso. Non mi arrischio a dire che è la cosa più brutta che abbia letto da un sacco di tempo a questa parte, potrei averne lette di peggiori e averle rimosse; mi accontenterò di dire che è stato per me Il Libro Più Brutto Del 2012, il che, considerato che durante l’anno ne ho letti circa 77,  è comunque un traguardo ragguardevole. Non posso dire di esserne stato deluso, ma solo perché per esserlo bisogna prima avere delle speranze.
L’ho trovato per caso, su amazon, quando si poteva scaricare gratuitamente per il kindle. La Koi Press è una casa di self-publishing, il che non vuol dire automaticamente che sia una vanity press (mi paghi = ti pubblico = osanna, sei un Autore), ma il dubbio è lecito visti i risultati. Comunque constato che la diffusione di ebook gratuiti su amazon sta prendendo piede. Peraltro dev’essere stata una fase di autopromozione, perché sono andato a ricontrollare e adesso l’ebook costa € 1,99. Non li vale.

La prima cosa che si nota è che l’opera, scritta dall’autore italiano Giuseppe Ampola, è ambientata a New York. Per inciso, non so se sia questo il caso, ma ho osservato diverse volte che molti italiani soffrono di una strana forma di sudditanza culturale per cui, se devono pensare a una storia, usano nomi e ambientazioni tipicamente statunitensi. Capitava anche a me le prime volte che ho impugnato la metaforica penna, e ho dovuto fare una certa fatica per scrollarmi di dosso questa specie di scomodo laccio mentale. Come se far vivere un’avventura a Giacomo e Tommaso fosse meno realistico che farla vivere a Jack e Tom. Mi chiedo se succeda anche in altri paesi europei, oppure siamo solo noi italiani che abbiamo l’immaginario collettivo così colonizzato da tutti quei libri e film d’oltreoceano da non riuscire neppure a narrare in termini non americani.
Comunque, fondamentalmente il libro parla di un detective della omicidi che deve fermare un serial killer di preti. E da qui si dipana un canovaccio che non si fa mancare nulla dei più triti standard del genere danbrowniano, dalla caccia all’indizio per chiese all’enigma crittografico da risolvere – che poi non si capisce chi glielo ha fatto fare all’assassino di anagrammare negli omicidi il nome del bersaglio finale, visto che è proprio questo che permette all’insonne detective di intervenire risolutivamente, ma vabbè – dal grande segreto nero clericale al prevedibile colpo di scena sull’identità del cattivo.
Tutto questo potrebbe essere ancora controbilanciato da una scrittura brillante e da protagonisti ben caratterizzati. Ma purtroppo lo stile è sciatto ai limiti del sopportabile, mentre i personaggi sono letteralmente stereotipi che camminano – es. il detective che non ha una vita privata, la bella gnocca donna intelligente coinvolta nelle indagini con la quale ovviamente scatterà la trombata finale, il prete che ogni cinque minuti esclama a proposito e a sproposito che Dio ci aiuti! / la fede ci guiderà! / combinazioni dei precedenti lemmi – e le indagini procedono fondamentalmente più per colpi di fortuna, nei quali si vede pesantemente la volontà dell’autore di far andare le cose in un certo modo, che per effettive virtù investigative dell’investigatore.
La scena sessuale a circa metà libro, del tutto avulsa dal contesto, probabilmente messa lì per far alzare l’attenzione del lettore e illuderlo che ce ne sarà una seconda, impreziosisce per modo di dire il tutto.
Mi sono chiesto se sia il caso di commentare anche il finale, che ho trovato sommamente ridicolo, ma non toglierò agli eventuali lettori il piacere di scoprirlo da soli.

Insomma, il libro è brutto.
Ora, bisogna sapere che esistono alcuni libri brutti, così brutti, ma così brutti, che fanno il giro dall’altra parte e diventano perversamente belli.
Sfortunatamente, non è questo il caso. Resta semplicemente brutto.

 

La borsa e la vita, di Jacques Le Goff.

Libro storico, che presumo attendibile essendomi stato regalato dalla mia storica di fiducia, su come fino al basso medioevo circa tutti i prestiti ad interesse fossero moralmente condannati dalla Chiesa in quanto usurari (la condanna totale venne meno col nascere del sistema bancario attorno al XII secolo).
Molto utile, in vista di futuri post.

 

 

Lettera pastorale 2012 – alla scoperta del Dio vicino, di Angelo Scola.

Come da titolo.
Breve, scorrevole, gradevole.
Se la volete leggere, si può scaricare qui.

 

 

Bottino di guerra, di Patrick O’Brian.

[Stephen] Si vestì in fretta e furia, ma il sacerdote era già all’altare quando ebbero raggiunto la cappella buia in un vicolo laterale, avanzando nell’odore d’incenso, un odore dall’immenso potere evocativo. Seguì un intervallo di tempo su un piano completamente diverso dell’essere: con le parole antiche e familiari, sempre le stesse in qualsiasi parte del mondo, sebbene in quel momento pronunciate in un largo latino fortemente accentato, aveva la sensazione di vivere libero dal tempo o dalla geografia, tanto che avrebbe potuto uscire di lì ragazzo nelle strade di Barcellona alla luce accecante del sole o in quelle di Dublino sotto la pioggia fine.

 Con questo che è il VI libro della saga, O’Brian aggiunge alcune rilevanti variazioni alla formula narrativa precedentemente sperimentata.
E questo vuol dire che è un autore coraggioso, perché poteva accontentarsi e propinare ai lettori una minestra riscaldata, e invece osa. Ammirevole.
Variazione n. 1: messa da parte (temporaneamente? definitivamente?) la formula dell’avventura autoconclusiva, il libro è la diretta continuazione del precedente, di cui tornano anche molti personaggi secondari (Herapath, la signora Wogan, etc).
Variazione n. 2: la trama non si svolge più principalmente per mare, ma a terra, a Boston, dove i nostri due eroi sono prigionieri del governo americano che è entrato in guerra con l’Inghilterra.
Variazione n. 3: mentre prima i punti di vista di Aubrey e Maturin erano grossomodo bilanciati nell’economia della storia, gli opposti poli caratteriali formando un perfetto contraltare, qui l’equilibrio salta. Jack avrà modo di farsi valere nel movimentato finale, ma per mezzo libro giace infermo in ospedale ed è il suo amico a doversi occupare di tutti i guai. Questo è il libro di Stephen, non c’è altro modo di dirlo. Il personaggio, come dire, esplode: fin dall’inizio abbiamo saputo che era immerso a fondo nello spionaggio britannico, ma questa è la prima volta che lo vediamo fare cose da spia quasi come uno 007 ante litteram, scopre agenti nemici, è da essi scoperto, insegue, è inseguito, è ferito, ferisce, uccide, e altro ancora.
Oltretutto, è anche tornata Diana Villiers. E non si fa neppure odiare (ma ci sono fondati sospetti che lo farà in seguito).
Bellissimo.
L’avventura continua.

 

The Walking Dead n. 1 – risveglio nella città dei morti, di Robert Kirkman & Tony Moore.

Tecnicamente non è un libro, ma visto che anobii lo copre, ne parlo una tantum.
Se state seguendo la serie tv, sappiate che il fumetto è meglio. Molto, molto meglio.
Un’epopea spietata. Un viaggio nelle pieghe più oscure dell’uomo.
Senza essere minimamente religioso, senza affrontare mai alcun tema anche solo vagamente filosofico, la saga è in più punti una mostruosa esemplificazione – sarei quasi tentato di dire “dimostrazione” – del fatto che il relativismo, stringi stringi, semplicemente non funziona. Se non c’è una ferma bussola morale, bastano solo le circostanze adatte e qualunque uomo, qualunque, regredisce a una bestia selvaggia che vuole solo sopravvivere costi quel che costi.
Prendetelo in considerazione, anche perché l’edizione Saldapress è convenientissima – per € 2,9 un albo che copre quattro numeri dell’edizione originale: considerato che in America è arrivato al cento e qualcosa, tra un paio d’anni li avranno raggiunti, o rallentano o s’inventano qualcosa.

P.S. piccola chicca per intenditori.
A pagina 52, Rick parla con sua moglie. A un certo punto, lei fa una faccia e orripilata ed esclama: la tua mano!
Spiegazione del marito, è  il segno della flebo rimasto da quando ha lasciato l’ospedale. Ok.
Ma alla luce di quello che succederà dopo, molto dopo, è lecito chiedersi: è una coincidenza? Oppure, già allora, Kirkman sapeva?


 

Questione di spazio, di Mauro Corona.

 Un racconto breve, di ambiente montanaro, gratuitamente scaricabile per kindle a scopo promozionale per un’antologia di novelle dell’autore.
Si legge senza dispiacere, se a uno piace il genere.

 

 

Il tempo della verità, di Glenn Cooper.

Raccontino scaricabile aggratis da amazon, pensato come lead-in per portare i lettori nel mondo della Biblioteca dei Morti in cui sono ambientati altri romanzi dell’autore.
L’idea della Biblioteca sembra intrigante, ma non sono abbastanza incuriosito da voler leggere gli altri libri.

 

 

Quattro chiacchiere con Francesco Guccini, di Federica Pegorin.

Come da titolo, interviste all’autore, che parla di sé e della sua musica.
Anche questo si scarica gratis da amazon e si può leggere sul kindle. Se non avete un kindle, sappiate che potete farvi un profilo amazon sul pc e ovviare al problema.
Se siete interessati, chiedete nei commenti e vi spiego come.


Il Labirinto dei Libri Sognanti, di Walter Moers.

 Ebbene.
Delusione, delusione, delusione.
Io in genere apprezzo molto i libri di Moers.
Ma questo è una fregatura bella e buona.

Breve premessa: Walter Moers è un fumettista tedesco che ha scritto una serie di libri fantasy (ma un fantasy del tutto sui generis) ambientati nel continente perduto di Zamonia, cominciando da Le 13 vite e ½ del Capitano Orso Blu e poi con altri libri famosi come Rumo e i prodigi nell’oscurità nonché La Città dei Libri Sognanti.
In genere i suoi libri mi piacciono molto, sia per la trama che prevede avventure folli e improbabili con personaggi strani (orsi, dinosauri, specie inventate dall’autore come croccamauri e tenebroni e squalombrichi), sia per il taglio molto visuale che dà ai suoi libri, pieni di particolarità tipografiche e disegni molto belli, il genere di cose per cui il libro di carta è decisamente meglio di un ebook.

In particolare La Città dei Libri Sognanti, di cui questo Labirinto è il seguito, è un libro bellissimo. BELLISSIMO. B-E-L-L-I-S-S-I-M-O. L’ho letto 4 volte, di cui l’ultima pochi giorni fa (per riprendermi dalla delusione), ed è migliorato ogni volta. Baratterei le proverbiali parti del corpo per essere in grado di scrivere io una cosa così bella. È il libro che ogni amante dei libri dovrebbe leggere.

E dunque, quando ho visto che era uscito il seguito, dovevo averlo.
E avevo tante belle speranze.
E invece.

Il problema del libro non sta nel fatto che non è autoconclusivo. Altri si sentono fregati dai libri che lasciano il protagonista a metà di una situazione spinosa, io no. Se il libro mi è piaciuto, sono anzi contento, la prendo come una promessa di ulteriori piaceri letterari.
Ma di solito, “lasciare a metà” implica che ci sia, una prima metà.
Il problema non è che la storia non finisce: è che praticamente NEMMENO COMINCIA. Tutto il libro non è che una lunghissima, per gran parte inutile, premessa.

STORIA: sono passati duecento anni dalla fine degli eventi descritti nel libro precedente. Ildefonso De’ Sventramitis, il dinosauro protagonista che descrive autobiograficamente le proprie avventure, è diventato il maggiore scrittore vivente di Zamonia. La folle girandola di eventi occorsagli a Librandia, la città dei libri, è diventata un bestseller della letteratura zamonica (cioè: La Città dei Libri Sognanti non è solo il prequel extradiegetico di questo libro, ma anche un libro intradiegetico di cui si parla dentro Il Labirinto dei Libri Sognanti). Quand’ecco Ildefonso riceve una misteriosa lettera da Librandia, e decide di tornare in città per chiarire il mistero.
LETTORE: bene.
STORIA: Ildefonso a Librandia. Giro turistico. Sunto degli ultimi duecento anni di storia librandiese.
LETTORE: bello. Sono sempre interessato alle follie dell’urbanistica zamonica.
STORIA: Ildefonso saluta alcuni vecchi amici del precedente libro.
LETTORE: toh, guarda chi si rivede!
STORIA: tra una cosa e l’altra, siamo arrivati a pagina 221 di 451 (49%).
LETTORE: di già? Ehm… ma quando arriviamo al dunque?
STORIA: aspetta. Ecco, adesso Ildefonso va a teatro. A vedere uno spettacolo di pupazzi.
LETTORE: bell…
STORIA: lo spettacolo è un adattamento teatrale di La Città dei Libri Sognanti.
LETTORE: ?
STORIA: sì, hai capito bene: per TRE capitoli e OTTANTADUE pagine, il libro riassume gli eventi del libro precedente.
LETTORE: ehm. Beh. Mediamente interessante, forse. Però, adesso…
STORIA: e non è finita. Siamo arrivati a pag. 303. Adesso Ildefonso è impazzito per il pupazzismo, la nuova arte dilagante per Librandia. Marionette, burattini, fantocci, pupi, automi, pupazzi di ogni foggia e dimensione.
LETTORE: …
STORIA: pupazzi! Pupazzi! Pupazzi! CENTOVENTIDUE pagine di appunti sventramitisiani sul pupazzismo librandiese! C’è pure la calligrafia di Ildefonso riprodotta tipograficamente!
LETTORE: … ma che stai SCHERZANDO?!?
STORIA: NOOOOOO!!!!!! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: non ci posso credere.
STORIA: PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: voglio indietro i soldi.
STORIA: PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: voglio uccidere Walter Moers.
STORIA: PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: voglio defungere.
STORIA: pupazzi.
LETTORE: ?!? forse, finalmente…?
STORIA: a pag. 425 di 451, cioè faticosamente trascinatici al 94% del libro, Ildefonso viene invitato a fare una visita guidata nelle catacombe di Librandia. Con immensa cautela, considerata l’esperienza della scorsa volta, accetta. Viaggio in carrozza. Ingresso nelle catacombe. Si ritrova da solo al buio. Paura. Ma ecco che legge una scritta.
LETTORE: …
STORIA: “Qui comincia la storia”.
LETTORE: :-O
STORIA: sì.
LETTORE: e poi?
STORIA: fine.
LETTORE: come, fine???
STORIA: è l’ultima frase del libro.
LETTORE: ma hai detto che comincia la storia!!!
STORIA: appunto. La storia comincia quando il libro finisce (€ 18). Arrivederci al prossimo seguito (presumibilmente stesso prezzo).
LETTORE: accìrete tu e mammeta.

Ecco.
Io non so come Walter Moers abbia potuto.
Cosa gli sia saltato per la testa.
Un’ipotesi è che si sia così identificato nel suo alter ego zamonico Ildefonso De’ Sventramitis (di cui Moers si presenta come il traduttore e illustratore) da volerne riprodurre, con un audace esperimento meta-testuale, la proverbiale pesantezza letteraria. Lo Sventramitis è infatti un autore capace di mostruosi abissi di prolissità, come quando all’inizio del Labirinto si vanta di aver inserito 26.000 pagine di infiniti dialoghi sulla contabilità a partita doppia nel suo ciclo di romanzi La casa nattiftoffa (i nattiftoffi sono l’elite amministrativa di Zamonia, e amano tutto ciò che è noioso e burocratico). Queste voragini letterarie sono divertenti quando l’autore vi allude mentre sta parlando d’altro, certo, ma leggerle direttamente è tutt’altra faccenda.
Un’altra ipotesi sarebbe che l’autore e/o l’editore fosse/fossero in gravissima crisi finanziaria e avesse/avessero urgente bisogno di liquidità, e non c’era tempo per scrivere un vero romanzo, così ha/hanno trovato questo escamotage per anticipare i profitti.
Oppure Moers è morto ed è stato rimpiazzato da un sosia che non ha lo stesso talento dell’originale.
Oppure è semplicemente impazzito.

Leggerò comunque il prossimo libro, in parte perché voglio sapere che combina Ildefonso nelle catacombe, in parte perché spero che Moers rinsavisca.
Però.
Sono contento che i dinosauri si siano estinti.

 

Manalive, di Gilbert Keith Chesterton.

Edizione straordinaria: è stata compiuta una scoperta meravigliosa, stupefacente, eccezionale.
È stato trovato un uomo vivo con due gambe.
Sconcerto degli studiosi. Incredulità degli eruditi. Protesta degli intellettuali. Risate degli opinionisti.
Eppure, respira e cammina.

Bellissimo.
Se ci ho messo un sacco di tempo a leggerlo, non è stato solo perché l’inglese di GKC è vecchio di un secolo – grazie, dizionario incorporato di kindle, senza di te non ce l’avrei fatta – ma anche perché volevo centellinare quanto più possibile il piacere di questa storia.
L’uomo vivo di Chesterton è un inno al senso comune, di cui oggi abbiamo un disperato bisogno.
L’uomo vivo è tale perché si accorge di essere vivo e capisce che è bello vivere.
Colui che dopo una lunga ricerca impara l’ovvio e lo celebra come se fosse una meravigliosa novità, perché è davvero tale, perché così l’ha resa una cultura decadente che si è così persa nei propri labirinti mentali da dimenticare i fatti basilari, le evidenze immediate, i “prodigi visibili” per cui oggi dobbiamo davvero combattere come se fossero invisibili.

Dopo aver letto questo libro ho appreso, con un vero senso di sorpresa, di essere vivo.
E sono felice.


Libri settembre 2012

Ottimo e abbondante.


Matilde e Orso, di Jan Ormerod.

La storia straziante di un povero orso, tormentato a morte dalla bambina più pestifera che si possa concepire, la quale gli rompe continuamente le scatole con ogni sorta di futile motivo. Purtroppo l’orso, invece di sbranarla come merita, subisce tutte le sue angherie senza discutere.
Si tratta del regalo che Lucyette intende fare a Giocondo, il suo orso polare di peluche, per il suo compleanno prossimo venturo (non mi sono ancora del tutto chiare le circostanze per cui il 14/11/2011 la mia fidanzata ha partorito un orso alto circa un metro e largo la metà, ma tant’è). Io ho provato a dirle che secondo me la storia è estremamente diseducativa, e che il suo orso piangerà disperato a leggere le torture psicologiche a danno del suo simile, ma lei ormai si è fissata e non vuole sentire ragioni. A volte quella ragazza è proprio strana – vabè, ci parlo io con l’orso poi, ecco.

 ***

Bibbia e morale, di AAVV.

Alla fine sono riuscito a finire questo libro, ma mi ci sono dovuto sforzare. Ho trovato la prima parte troppo lunga e prolissa; migliore la seconda parte, che entra nel vivo della questione e propone sei criteri per fare “evolvere” la morale biblica attagliandola alle questioni contemporanee; ma onestamente a distanza di un mese non me ne ricordo molto, il che non testimonia a favore del libro. Pazienza. L’unica cosa che mi ha davvero colpito è stata l’osservazione che

In Gn 4,23-24 Lamech che appartiene alla discendenza di Caino, è presentato come uno che propaga nel suo canto di millanteria una vendetta sfrenata: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. Il codice dell’alleanza stabilisce invece la legge del taglione: “Se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es 21,23-25). Questa legge si trova anche nei codici degli altri antichi popoli orientali e vuole impedire la smisurata vendetta privata. Già in molti salmi Israele proclama attraverso la voce della parte offesa che la vendetta spetta solo a Dio: “Dio delle vendette, SIGNORE, Dio delle vendette mostrati!” (94,1) […] Oggi la legge del taglione viene non raramente compresa come l’espressione di una vendetta e rivincita violenta mentre, in verità, all’origine costituiva la limitazione di violenza e controviolenza; essa manifestava la tendenza a superare l’istintiva e incontrollata ricerca di vendetta e di rivincita.

Che, in effetti, se confrontata con la nozione di vendetta tipo Kill Bill, la legge del taglione sembra civile e progredita. Un buon esempio di “pedagogia progressiva” della morale biblica.

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 Rabbia – una biografia orale di Buster Casey, di Chuck Palahniuk.

Il libro mi è stato regalato da Federico Fasullo, che ringrazio.
Di Palahniuk avevo già letto Fight Club, fonte di uno dei miei film preferiti (ritengo Tyler Durden una notevole approssimazione cinematografica dell’Ubermensch nicciano), e Soffocare, che dopo un sacco di inutile pseudopornografia nasconde un finale sorprendentemente quasi “cristiano” (il mondo andrebbe molto meglio se tutti fossimo davvero consapevoli di essere figli di Dio). Mi sono accostato perciò a questo Rabbia – nel senso sia della malattia sia del sentimento – con aspettative di un certo livello, che non sono andate deluse. C.P. torna a un tema già affrontato nel suo libro d’esordio, cioè la lotta degli individui alienati che si aggrappano a rituali collettivi per riempire il vuoto esistenziale che li attanaglia. Lì era il menarsi a vicenda, qui partecipare a un gioco a punti dove ci si insegue l’un l’altro con la macchina e ci si tampona, a volte con esiti fatali.
Come da sottotitolo, il libro è una “biografia orale”. Questo significa che “occorre intervistare un gran numero di testimoni e successivamente assemblare le loro testimonianze. Quando molteplici fonti vengono interrogate a proposito di un’esperienza comune, è inevitabile che talvolta si contraddicano a vicenda. Per altre biografie scritte in questo stile, si vedano Capote di George Plimpton, Edie di Jean Stein, e Lexicon Devil di Bren-dan Mullen”. Insomma, il libro racconta la storia di Buster Casey mettendo assieme le testimonianze, brevi poche righe o lunghe diverse pagine, ­ di coloro che l’hanno conosciuto. L’unico punto di vista che manca è proprio quello del protagonista. Questo è un effetto stilistico assolutamente notevole, perché trascende completamente le questioni prima persona / terza persona, narratore limitato / narratore onnisciente, e simili. La soggettività di Buster Casey è ricostruita come un puzzle di intersoggettività che non riescono mai a costruire un’irraggiungibile oggettività, c’è sempre un pezzo mancante, non sappiamo mai davvero perché fa quello che fa. È il protagonista, ma è un continuo enigma.
Tra i difetti metterei un finale troppo ingarbugliato, alla fine non si capisce neanche più chi è chi e a chi succede cosa (evito ulteriori dettagli), e un’abbondanza di dettagli osceni che ho trovato ingiustificata, anche se la volgarità “gratuita” mi pare sia una cifra stilistica di C.P. e forse più che di gratuità si tratta di atmosfera, grammatica narrativa, praticamente un topos. Se si riesce a passare sopra queste asperità, vale la pena leggerlo.

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 Ciucciati il calzino!  Le migliori battute dei Simpson, di autore ignoto.

Da un libro che costa meno di un caffè anche in formato cartaceo non si può pretendere chissà cosa. Mi ha fatto passare un piacevole quarto d’ora, ricordando chi diceva cosa in quale puntata, tanto basta.
I Simpson mi piacevano molto fino all’ottava stagione o giù di lì, adesso sono inguardabili, preferisco ricordarli com’erano. Sono favorevole all’eutanasia dei prodotti artistici seriali.

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(non trovo la copertina) Breve introduzione al tomismo, di Padre Cornelio Fabro.

al potente richiamo per la verità dell’essere come «presenza del presente», apparso con Parmenide ed Eraclito, è stato sostituito il principio della «forma» quale «contenuto di rappresentazione» che doveva portare inesorabilmente all’idealismo ed alle conseguenze nichilistiche della filosofia contemporanea. A quell’accusa ed a questa deprecata nemesi sfugge la concezione tomistica che addita nell’esse l’atto di ogni atto ed abbassa perciò l’essenza e la forma a mera potenza determinativa e recettiva dell’ esse: a questo modo il pensiero fa inizio con la presenza dell’atto, ch’è l’apprensione dello ens, ed avanza mediante la tensione di essentia ed esse che l’ ens richiama nella sua costituzione originaria. Questo capovolgimento tomista dell’orizzonte speculativo ristabilisce da una parte il contatto del biblico Sum, qui sum (Exod. 3, 14) con lo E;STI GA.R EI=NAI di Parmenide e s’incontra dall’altra parte con il principio moderno dell’atto e con le esigenze per le quali esso è sorto ed oggi viene rivendicato da Heidegger. Mostrare la realtà e la forma di quel che si potrebbe chiamare il «parmenideismo tomistico» e dell’incontro fra l’atto tomistico dell’ esse e l’atto moderno dell’autocoscienza, è il preciso compito di un tomismo consapevole della propria forza e originalità come della gravità della situazione del pensiero contemporaneo il quale, per la sua espulsione definitiva (in senso positivo e costitutivo!) del sacro e del trascendente, non ha alcun riscontro nella storia della civiltà occidentale.

Wow.
Il libro si può ricevere da qui, a me lo ha mandato Viviana Del Lago (grazie!).
Densissimo, ogni frase è la sintesi di concetti che meriterebbero una pagina ciascuno per essere compiutamente spiegati. Questo è un male, se volete davvero (provare a) capire il tomismo, è un bene se volete (cominciare da) uno sguardo d’insieme. Onestamente, sarei molto buono con me stesso se dicessi di averne capito un decimo.
Meritevole di menzione:

Difatti uno studio più cauto e comparato dei testi tomisti farebbe con evidenza addossare alla sua scuola la responsabilità di una posizione risolutamente maculistica ossia di quella concezione che non è più sostenibile perchè condannata esplicitamente dalla Bolla Ineffabilis Deus di Pio IX. È stata chiarita infatti l’esistenza negli scritti dell’Angelico di alcuni testi dichiaratamente positivi a favore del nuovo dogma mariano, trascurati dalla sua scuola. Ci sono anzitutto numerosi testi generici ma perspicui, per es.: «In Christo et in Virgine Maria nulla omnino macula fuit» (Exp. in Ps. XIV); «In Beata Virgine nullum peccatum fuit» ( Exp. in orat. dom. , pet. V). Ci sono soprattutto tre testi speciali che valgono da pilastri di tutto il lavoro dogmatico e critico dell’Autore: «Beata Virgo a peccato originali et actuali immunis fuit» ( I Sent. , d. 44, q. un., a. 3 ad 3); «B. Virgo nec originale, nec mortale, nec veniale peccatum incurrit» ( Exp. Salutationis Angelicae); «Virginis purgatio (sanctificatio) in utero matris non fuit ab aliqua impuritate culpae» ( S. Th. IIIa, q. 27, a. 3 ad 3). La più bella di queste tre gemme è forse il secondo testo dell’esposizione dell’Ave Maria che recentemente è stato restituito alla lezione originale (con lo studio completo della più antica tradizione manoscritta: 49 codici), perché corrotta dalla «tradizione maculistica» in alcuni pochi codici di tarda composizione e in tutte le edizioni a stampa.
In tutta questa controversia ha una particolare importanza lo studio dello sviluppo della terminologia che nel secolo XIII non poteva essere quella del secolo XIX. Infatti se si tiene presente in particolare che s. Tommaso distingue fra la «conceptio» ch’è l’inizio dello sviluppo del germe vitale e la «animatio» ch’è l’infusione dell’anima spirituale mediante la quale si ha la costituzione del nuovo individuo come persona, si può capire allora come S. Tommaso può affermare che anche la Beata Vergine – come ogni individuo umano che proviene da Adamo per generazione naturale – doveva «incorrere» nel peccato secondo il processo di natura; ma come persona, fin dal primo istante dell’infusione dell’anima, ne fu da Dio «mondata». Perciò quando s. Tommaso afferma insieme che la Madre di Dio fu «concepita» nel peccato originale ma che mai la sua persona ne fu tocca (non incurrit), è chiaro che nella sua terminologia il termine «conceptio» non ha il significato che avrà nella Bolla «Ineffabilis Deus», ma va preso secondo la teoria dell’animazione ritardata ch’era in voga nella scienza del suo tempo. Praticamente tutto il nocciolo di questa importante questione di terminologia si trova mirabilmente condensato nella perla ch’è la Expositio Salutationis Angelicae coi due testi ch’esprimono chiaramente i due aspetti (aspetti e non momenti!) ora indicati: «Beata Virgo de peccato originali fuit mundata in utero matris, quia in originali fuit concepta seu originale contraxit, sed originale non incurrit». I teologi posteriori e la Bolla della definizione distingueranno meglio fra il «debitum» e il «reatus culpae»: la Vergine ebbe il primo, ma non il secondo; la distinzione di S. Tommaso non solo non è contraria alla definizione, ma può essere considerata giustamente come il suo più genuino fondamento teologico che i tomisti antichi hanno frainteso e che i tomisti di oggi hanno tutto il diritto di difendere e di approfondire per aggiungere questo ambìto complemento alla sintesi teologica del Maestro del pensiero cattolico. C’è quindi fra la posizione tomista e la Bolla «Ineffabilis» un accordo reale di fondo sul privilegio mariano con una «differenza modale» – se può passare il termine – nella sua spiegazione. Un segno di tale differenza si può vedere, mi sembra, quando s. Tommaso ammette che nella Vergine, mediante la «santificatio in utero matris» il fomite della concupiscenza è stato «legato» e non completamente tolto: terminologia che ora, dopo la definizione, va abbandonata.

 Non ho controllato le citazioni, ma… e che cavolo! io sapevo che San Tommaso sull’Immacolata Concezione ci aveva toppato, e me ne consolavo dicendo “vabè lo vedi, anche lui ne ha sgarrata qualcuna”.
Adesso devo trovare altre fonti di conforto per quando sproloquio.
Umf.

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Le grandi storie della fantascienza, volume 2 (1940), di AAVV.

Secondo volume dall’antologia di classici sf a cura di Isaac Asimov e Martin H. Greenberg.
Mi è piaciuta complessivamente meno del primo tomo, ma ho adorato La sfera che rimpiccioliva di Willard Hawkins (agghiacciante parabola su quella che io definisco “la tecnologia-stampella”) e Addio al padrone di Harry Bates, che riesce a rovesciare completamente quello che credevi di aver capito nelle ultime quattro parole, le cui implicazioni ti fanno scorrere un brivido lungo la schiena.

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The Giver – Il donatore, di Lois Lowry.

Molto bello, una distopia che è anche una fiaba per bambini. È il primo volume di una trilogia di cui a questo punto vorrei leggere gli altri due libri.
Ambientato in un mondo futuro stile Brave New World, dove ogni aspetto della vita è minuziosamente regolato, quasi ogni diversità è stata abolita, non c’è libero arbitrio e tutti sono felici (quei pochi che non riescono ad essere felici sono “congedati”, come i vecchi e i malati, e il lettore smaliziato intuisce facilmente di che si tratta anche prima che lo scopra il protagonista). Certo ci si può chiedere quanto possa essere “vera” una felicità preordinata dove tutti eseguono senza discutere ciò viene detto loro di fare, assumono pillole per soffocare gli impulsi sessuali, insomma vivono in un mondo emotivamente grigio (questa frase ha un doppio senso che sarà chiaro quando si arriva verso la metà del libro, e io ho detto gulp). È quello che si chiede il protagonista della storia, il dodicenne Jonas, che per la prima volta dopo n generazioni mette in discussione l’ordine prestabilito. Con esiti fatidici…
Vivamente consigliato.

***

Tramonto e polvere, di Joe R. Lansdale.

— Non intendo mai più buscarne da te.
— Una moglie deve sottostare al marito.
— Io non sono più tua moglie.
— Agli occhi di Dio lo sei ancora.
— Allora sarà meglio che Dio guardi altrove.

Uff. Se solo applicassero integralmente San Paolo…
Il mio primo Lansdale. Ambientato all’epoca della Grande Depressione, inizia con un tentato stupro, un omicidio e una pioggia di rane. Ed è tutto un crescendo. Un vero pulp.
(cancellate dodici righe di divagazioni poco interessanti sul concetto di pulp pre- e post- tarantiniano)
C’è un personaggio che prima è cattivo e poi è buono, oppure il contrario (non vi dico chi e cosa), e lo fa con così sciolta naturalezza che realizzi il fatto solo dopo qualche pagina, però a quel punto ti mordi le mani pensando che dovevi capirlo prima.
Sa scrivere, questo Lansdale.

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Tutte le storie di Padre Brown, di Gilbert Keith Chesterton.

Aaaaah.
Cosa dire di Padre Brown che non sia già stato detto prima e meglio?
Niente, perciò taccio ammirato.
Memore del consiglio di Berlicche, mi sono centellinato a poco a poco i racconti, e adesso che sono finiti aspetto di dimenticarli per rileggerli di nuovo.
Signore, grazie per Chesterton.

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Morire dentro, di Robert Silverberg.

Bellissimo. Grande Silverberg.
La storia straziante – ma non come il libro dell’orso di Lucyette, dico straziante sul serio – di un telepate che legge nella testa degli altri ed è un fallito, uno che aveva questo dono fantastico ed è riuscito lo stesso a diventare un uomo mediocre senza soldi lavoro amici amore, e che perdipiù sta perdendo la telepatia poco alla volta, e registra angosciato questo suo lento dolorosissimo morire dentro.
Voglio essere sincero: il libro mi ha colpito come un maglio perché affronta una delle mie più inquietanti angosce, vale a dire il talento sprecato. Arrivare a cinquant’anni, sessanta, quello che sarà, guardarsi indietro e dire tutto qua? È tutto qui quello che ho combinato? Forse avevo i numeri per fare grandi cose, e mi sono sprecato così?
Paura.
Paura.
Paura.

***

Eucaristia, di Inos Biffi.

Libretto divulgativo sull’argomento come da titolo.
Ortodosso ed edificante, ok; ma anche poco incisivo, tant’è che dopo tre settimane che l’ho finito non riesco a rievocare alla memoria un concetto letto che sia uno.
Alzheimer precoce o noia profonda?

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Una saldissima fede incerta, di Antonio Thellung (in lettura).

Libro eretico, che leggo poco per volta perchè di più non ce la fo.

Quando lo finisco vi spiego perché.

 

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L’altra faccia della realtà, di AAVV (in lettura).

Pescato su una bancarella a € 1, media qualitativa molto alta. Ottimo affare.


L’esperimento

il  mondo perdonerà solo dei peccati che non ritiene siano davvero peccaminosi
Padre Brown
(cioè Gilbert Keith Chesterton)

Ok, proviamoci.
Cari relativisti.
Sì, dico a voi. Voi che leggete, che ogni tanto commentate, oppure che finora avete sempre lurkato. Voi che non credete a una morale oggettiva; che ritenete il bene e il male una questione di punti di vista, da decidere volta per volta; che considerate il dubbio uno stato finale di cui ritenersi all’incirca soddisfatti, piuttosto che un processo transitorio che serve a conseguire una maggiore certezza della verità; insomma quella roba là. Mi rivolgo proprio a voi.
Facciamo un esperimento.

PAVIA. Ha filmato la collega a sua insaputa, mentre faceva sesso con lei. E poi ha messo il video hard su internet. Una serata di scambio amoroso, di effusioni e di piacere che doveva restare confinata nell’intimità di una camera da letto e limitata alla complicità di due amanti e che invece è finita sui siti pornografici di mezzo mondo. […]
La telecamera, piazzata a pochi passi dal letto e di cui lei non sa niente, filma tutto: 19 minuti e 41 secondi di sesso. Gesti, carezze, parole. Frasi in cui vengono citati anche alcuni amici comuni e che vengono tradotte in inglese per le didascalie che accompagnano le scene. I due amanti hanno il viso in parte schermato, ma sono proprio le frasi a renderli riconoscibili. Sono gli amici della ragazza a trovare, per caso, il video navigando in rete. E sono loro ad avvisarla, dopo mesi ormai che il filmato è a disposizione di chiunque voglia vederlo. Basta un click.
La giovane è sgomenta. Preoccupata per la sua reputazione. Non accetta che la sua immagine, la sua personalità più intima, possa essere spiata e condivisa da altri, su siti pornografici. Chiede spiegazioni al suo collega e amante. Lui si scusa, spiega di averlo fatto senza la volontà di ferirla e promette di togliere il video da internet, ma ormai la frittata è fatta. Il filmato non può più essere cancellato.

(Fonte: La Provincia Pavese 13/07/2012, Maria Fiore)

Di episodi simili ne accadono tanti nel mondo, ma questo colpisce per due motivi.
Uno è il fatto che questi tizi si mettono a parlare dei loro amici. Mentre fanno sesso! L’abietto umanoide si era preso la briga di schermare parte del viso, ma non ha pensato a tagliare l’audio (forse non voleva rinunciare ai mugolii d’amore?). E ne parlano anche con un certo grado di dettaglio, si presume, visto che poi questi amici comuni si sono riconosciuti nell’oggetto della discussione! Immagino con quale sorpresa. La faccia della sventurata quando le hanno detto una cosa tipo “sai, l’altro giorno, mentre stavamo… ehm… abbiamo trovato un video dove c’era il tuo corpo nudo che faceva cose, ci siamo accorti che stavi parlando proprio di noi e quella eri proprio tu”, invece, non me la immagino proprio. Infatti sono venuto a conoscenza dell’episodio a seguito della segnalazione di un’abitante di Pavia, che commentava stupita l’ennesima bizzarria dei suoi concittadini (ché pare che in quel posto, di cose strane, ne succedano
un bel po’).
L’altra cosa che mi ha colpito è l’idiozia o la faccia di tolla (a seconda se gli attribuiamo o no un grado infinitesimo di buona fede) dell’essere putrescente di materia escrementizia il quale, richiesto di spiegazioni da parte di colei che aveva reso pornostar a sua insaputa, se ne è uscito dicendo “non volevo ferirti”. Ah, ecco. Pensa se avesse voluto ferirla, invece, cosa avrebbe potuto fare. E certo che non voleva…

Ma, un momento. E se avesse ragione lui?
Dai, sul serio. Se avesse davvero ragione.
Davvero.

Cari relativisti.
Se bazzicate questo blog, sapete che io sono nemico del relativismo [che non vuol dire nemico dei relativisti (almeno, non necessariamente)] e gli muovo critiche molto pesanti. Una di queste critiche è il fatto che, stringi stringi, il relativismo è una bolla di sapone. Una maschera, da indossare per sentirsi a posto con lo Zeitgeist postmoderno; un’autosuggestione, indotta da troppa teoria e poca pratica. Incoerente. Inapplicabile. Il relativista non crede all’esistenza della Verità, io invece non credo all’esistenza del relativista.
Scusandomi in anticipo per la volgarità, desidero citare quella locuzione d’incerta origine, molto rozza ma molto efficace, che si dà sotto la forma di “son tutti froci col culo degli altri” (accertate numerose varianti dialettali). Il modo di dire ha varie applicazioni, io vorrei proporne qui una di tipo epistemologico-assiologico: è facile fare grandi elegie del dubbio, quando le uniche certezze di cui dubitare sono quelle altrui; è facile negare l’oggettività del bene e del male, purché non venga qualcuno a mettere in discussione proprio quella cosa che, dai, è ovvio che è bene / che è male, no?
Insomma, quando leggo / ascolto relativisti di chiarissima fama che difendono concetti tipo “l’atteggiamento che suppone nel pre-giudizio dell’altro un gradiente di verità superiore al nostro” oppure “il diritto di ogni opinione ad avere pubblici difensori”, ho sempre l’impressione che stiano facendo i froci col culo degli altri. Che stiano parlando di pregiudizi e opinioni su cui in cuor loro non  hanno proprio nessun dubbio che sono bene. Che poi di solito gli argomenti sono sempre quelli, la morale sessuale, l’aborto, l’eutanasia, eccetera eccetera. Dove sono i relativisti pubblici difensori della galera per chi ammazza i consenzienti? Chi è che quel relativista che attribuisce alla necessaria eterosessualità del matrimonio un gradiente di verità superiore? Boh. Cerco e ricerco, ma non ne trovo. Che strano.
Ma questi sarebbero ancora discorsi astratti, che un bravo giocoliere verbale potrebbe piegare per dritto e per rovescio, senza perdere un colpo dialettico.
Parliamo di fatti concreti.

La giovane della notizia è vera. Esiste sul serio (spero che la Provincia Pavese non se la sia inventata per riempire la pagina). Corpo, sentimenti, rabbia, tutto reale. È successo effettivamente.
Cari relativisti, ditemi che dubitate che abbia ragione lei. Che non sta scritto da nessuna parte, oggettivamente, che il tizio abbia compiuto un’azione cattiva; si potrebbe anche decidere che aveva tutto il diritto di mettere su internet il video, tiè, che ganzo che sono, mondo guarda che performance. Non voleva ferirla; pensava che non ci fosse nulla di sbagliato. Embè? Perché lui si è dovuto adeguare al gradiente di verità di lei e non viceversa? La sua opinione che il porno segretamente sparato sul world wide web fosse ok, non dovrebbe avere un pubblico difensore? Se si può discutere di tutto, vogliamo discutere di questo?

Cari relativisti, ditemi che il bene e il male di per sè non esistono; che dubitate che esistano.
Ditemelo.
L’esperimento è partito.


Libri maggio 2012

Costruire sulla roccia, di AAVV (Il Timone).
Libro comprato a 1 € grazie a sissi2002 (grazie). Greatest hits di articoli apparsi sul Timone, scritti da autori come Introvigne, Cammilleri, Agnoli, Gnocchi & Palmaro, eccetera. Insomma apologetica hardcore.

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Racconti fantastici, di Iginio Ugo Tarchetti.
Scaricato gratuitamente da amazon essendo scaduto il copyright, il libro essendo del 1869 e l’autore morto in quello stesso anno.
Non conoscevo assolutamente il nome di Tarchetti, i miei ricordi liceali sulla Scapigliatura milanese sono pressoché inesistenti, ma i racconti sono gradevoli e si leggono con piacere. Il libro offre anche l’opportunità di constatare i cambiamenti della lingua italiana nel tempo, per esempio si nota spesso l’uso della forma verbale pronome alla 1a +verbo alla 3a, es. io avea, io correva, io disse. Chissà se era un peculiare modo di esprimersi dell’autore o una forma corrente a quel tempo.

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Diario del figliol prodigo. Vent’anni dopo, di Guy Luisier.
Altro libro comprato a 1 € grazie a sissi2002 (grazie). L’autore, un sacerdote francese, ha avuto un vero colpo di genio: il figliol prodigo (che adesso non si chiama più così, vedi sotto) scrive un diario, vent’anni dopo essere tornato, dove descrive le sue impressioni, il suo faticoso riadattarsi alla vita nella casa del padre, il rapporto con il suo glaciale fratello e i di lui figli gemelli.
È breve, si legge in poco tempo, ma è una lettura feconda. Se lo trovate in giro, non fatevelo scappare.

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De Bibliotheca, di Umberto Eco.
Il libretto è scaricabile gratuitamente da qui, e consiste in un intervento tenuto dall’autore nel 1981 alla celebrazione dei 25 anni di attività della Biblioteca Comunale di Milano.
Eco comincia con una citazione dalla Biblioteca di Babele di Borges, perché “in un luogo così venerando è opportuno cominciare, come in una cerimonia religiosa, con la lettura del Libro, non a scopo di informazione, perché quando si legge un libro sacro tutti sanno già quello che il libro dice, ma con funzioni litaniali e di buona disposizione dello spirito”. Concordo. Da qui si sviluppa tutta una serie di riflessioni sulla natura e la funzione, diciamo pure l’essenza, della biblioteca – la quale peraltro, come sanno tutti quelli che hanno letto Terry Pratchett, è fondamentalmente un buco nero ben istruito.
Alcune considerazioni contingenti sono un po’ datate (per forza: nel 1981 nasceva ClaudioLXXXI, è una vita fa, ma vi rendete conto?!?) e sono state inevitabilmente superate dalla diffusione di internet ebook eccetera; per esempio il discorso sulla xerociviltà, cioè la civiltà della fotocopia, destinato a diventare sempre più marginale man mano che i lettori diversamente onesti, invece di fotocopiare il libro pagina per pagina (che almeno pagavano, se non con soldi, con tempo e fatica), se lo fanno portare a dorso di mulo comodamente stravaccati davanti al pc.
Altri concetti e problematiche invece sono tuttora perduranti: per esempio la divertente descrizione in 21 punti della biblioteca incubatica, cioè la biblioteca come non dovrebbe essere ma come spesso è, del tipo

I) Quasi tutto il personale deve essere affetto da limitazioni fisiche […]

P) Gli orari devono assolutamente coincidere con quelli di lavoro, discussi preventivamente coi sindacati: chiusura assoluta di sabato, di domenica, la sera e alle ore dei pasti. Il maggior nemico della biblioteca è lo studente lavoratore; il migliore amico è Don Ferrante, qualcuno che ha una biblioteca in proprio, quindi che non ha bisogno di venire in biblioteca e quando muore la lascia in eredità.

T) Possibilmente, niente latrine.

oppure l’annoso problema relazionale: come deve porsi la biblioteca nei confronti degli utenti?

bisogna scegliere se si vuole proteggere i libri o farli leggere. Non dico che bisogna scegliere di farli leggere senza proteggerli, ma non bisogna neanche scegliere di proteggerli senza farli leggere. E non dico neanche che bisogna trovare una via di mezzo. Bisogna che uno dei due ideali prevalga, poi si cercherà di fare i conti con la realtà per difendere l’ideale secondario. […] correre maggiori rischi sulla preservazione dei libri, ma avere tutti i vantaggi sociali di una loro più ampia circolazione. Cioè se la biblioteca è, come vuole Borges, un modello dell’Universo, cerchiamo di trasformarla in un universo a misura d’uomo, e, ricordo, a misura d’uomo vuol dire anche gaio, anche con la possibilità del cappuccino, anche con la possibilità per i due studenti in un pomeriggio di sedersi sul divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt nella biblioteca […]

E(c)co, io conosco una bibliotecaria che, alla prospettiva di veder ragazzotti in calore pomiciare nella sua biblioteca, minaccia di amputare lingue col tagliacarte.
Lei sì che ha le idee chiare sul problema relazionale, altroché.

***

Come cambia la Bibbia, di Roberto Beretta & Antonio Pitta.
Si tratta di un agile libretto scritto a quattro mani da un giornalista (RB) e un biblista (AP) al fine di divulgare, spiegare, commentare alcuni dei cambiamenti più notevoli subiti dalla Bibbia CEI nell’ultima revisione del 2008.
Peraltro, mi sono accorto che il libro è del 2004 ma non è aggiornato, e alcune revisioni di cui parla (es. il lettuccio del paralitico che diventa una barella) sono state abolite all’ultimo minuto (e così la barella, poveretta, è rimasta il solito lettuccio). Questo in parte ne riduce l’utilità, che resta comunque pregevole per il profano che volesse farsi un’idea della complessità delle questioni.
Ordunque.
Non è mia intenzione essere polemico, né trinciare giudizi in un ambito del quale sono consapevole di avere scarsissime cognizioni. L’Italia è già troppo affollata di sapientoni da facebook quotidiano a tiratura nazionale osteria che parlano parlano e sarebbero sempre tutti quanti bravissimi a) investigatori b) giudici c) presidenti del consiglio con l’interim di tutti i ministeri d) papi e) allenatori della nazionale di calcio; naturalmente senza sbagliare mai e senza mai farsi corrompere dal potere, loro. Non voglio aggiungermi alla legione maledetta, perciò non dirò “io avrei fatto così” e “non dovevano fare così”. Mi limito solo a esprimere le mie perplessità e a dire che, da semplice fedele e fruitore del testo, mentre per la maggior parte dei cambiamenti si capisce la logica della revisione per tenere dietro al cambiamento linguistico, alcune scelte mi restano (vuoi per difetto oggettivo, vuoi per limite mio) incomprensibili. Peraltro non le capiscono neanche RB & AP, che segnalano ma non spiegano, o meglio, spiegano la propria perplessità.
Del tipo: ma era proprio necessario sostituire in Matteo 26:24 il vecchio “vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio” con il nuovo e lievemente criptico “seduto alla destra della Potenza”?
Oppure: ma è stata davvero una buona idea superare l’espressione figliol prodigo? Da un punto di vista strettamente biblistico capisco: “figliol prodigo” non fa strettamente parte del testo del vangelo; ormai pochissimi ricordano l’originario significato di prodigo, cioè spendaccione e dissipatore; e poi questo titolo focalizza l’attenzione solo su uno dei tre personaggi, mettendo in secondo piano gli altri due. Insomma, c’erano sicuramente buoni motivi per cambiare.
Tuttavia, il problema ha angolazioni anche non strettamente bibliche. “Figliol prodigo” è un esempio calzante di inculturazione cattolica, cioè di come il cattolicesimo esce dall’ambito strettamente religioso per travasarsi nel tessuto civile di un popolo, una lingua, una cultura. Quante opere d’arte hanno l’espressione figliol prodigo nel titolo? Quante volte abbiamo sentito questa espressione in libri, film, articoli di giornale, in ufficio, per strada, del tutto fuori da qualsiasi riferimento clericale? (un esempio a caso) È ormai una frase topos. È una fantastica economia del linguaggio: la dici e con pochi fonemi hai comunicato all’interlocutore, se condivide il tuo stesso patrimonio culturale – un patrimonio che nonostante tutto resta ancora molto impregnato di cristianesimo – un intero universo concettuale che altrimenti per essere espresso richiederebbe tempo e fiato e perifrasi. È, per farla breve, una bandiera verbale piantata dal cristianesimo sulla cultura occidentale, a segnalare “IO SONO QUI”.
Insomma, io non so se valeva la pena rinunciare a ciò, specie in un momento storico in cui si deve fronteggiare la pretesa di espellere il cattolicesimo da ogni ambito pubblico (dunque anche culturale, anzi, soprattutto culturale). Spero di sì, come spero che chi ha avuto l’ultima parola per decidere la revisione linguistica lo abbia fatto sulla base di valide ragioni che io, non essendo un tuttologo, non conosco.

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Noi marziani, di Philiph K. Dick.
Un altro libro di PKD, di qualità discreta, con molte delle topiche ricorrenti dell’autore: la confusione tra vero e apparente (declinata nella variante schizofrenica, come in Follia per sette clan), i paradossi temporali, la lotta del protagonista debole e “perdente” per non soccombere in un mondo aggressivo e vorace. Però, in effetti, chi è il vero protagonista del libro? Jack Bohlen, il meccanico timido e complessato e incline alla schizofrenia? Oppure Arnie Kott, l’egoista e lubrico capo del sindacato idraulici che agisce con metodi mafiosi e vuole sfruttare tutto e tutti per i suoi fini? L’interrogativo è lecito perché alla fine, con quello che mi sembra uno dei rari happy end della produzione di PKD, il primo, ricompensato per il suo atto iniziale di generosità verso i poveri Bleekman, gli autoctoni di Marte, vince; e il secondo soccombe, a causa di un’inaspettata e fortuita ritorsione alla sua prepotenza.
E allora chi era davvero il perdente?

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Catechismo della Chiesa cattolica, di AAVV (finito).
Ebbene, criticate finché volete il libro elettronico.
Sì, avere la carta tra le mani è tutta un’altra sensazione. No, non si può fare l’orecchio alla pagina. C’è il rischio che il formato in cui oggi abbiamo comprato i nostri libri tra una decade sia illeggibile, e dovremo ricomprarceli tutti quanti. Se capita una guerra nucleare / epidemia di zombie / invasione aliena / naufragio su isola nel Pacifico abitata da orsi polari, puoi leggere solo finché ti durano le batterie, poi ciccia. Si scarica proprio quando arrivi all’ultimo capitolo. Se si rompe senza preavviso o te lo rubano, hai perso mezza biblioteca ed è una catastrofe. Non puoi prestare un libro. Non puoi far vedere ai tuoi vicini di autobus la copertina del libro stai leggendo, e diciamocelo, pure questa era una piccola soddisfazioncina (e un modo per rimorchiare – a me non è mai riuscito, ma a qualcun altro sì). Il libro di carta lo puoi conservare per i tuoi figli, e puoi sognare che magari lo leggeranno anche i tuoi nipotini. Ci puoi scrivere una dedica, annotare tutte le glosse che vuoi, disegnare le faccine a lato dei paragrafi più belli.
Tutte queste cose, e altre ancora. Sì. Certo.
Però io, se non avevo il lettore ebook, col cavolo che riuscivo a leggermi il catechismo della Chiesa Cattolica in versione integrale, quello pesante, scaricato in pdf dal sito del Vaticano, 955 pagine e 122 megabytes.
Me lo sono letto poco per volta, un paio di pagine al giorno, dal 24/09/2011 al 16/05/2012. Senza fretta (certo, ha aiutato il fatto che sapessi già come va a finire: i buoni vincono). Molto agevolmente. Anche quando avevo la borsa strapiena di roba di lavoro e dovevo cambiare tre autobus e due metropolitane, potevo dotarmi di un mattone che cartaceamente non mi sarei proprio potuto permettere di trasportare, con un sentito grazie dalla mia colonna vertebrale. Potevo leggerlo sempre, ovunque, in qualsiasi situazione. Per dire, se la natura chiamava e io volevo passare quei cinque-dieci minuti (ma anche 15 volendo prendermela comoda) a soddisfare le esigenze della mia anima tanto quanto quelle del mio corpo, potevo infilare l’aggeggio nella tasca e portarmelo appresso senza tema di suscitare inarcate di sopracciglio in coloro che putacaso mi avessero visto col Catechismo Cattolico sottobraccio mentre mi recavo al cesso.
(non fare quella faccia scandalizzata da sepolcro imbiancato, tu; ricorda che il cristianesimo è religione materialista! Siamo un sinolo aristotelico, corpo e anima, l’uno non meno dignitoso dell’altra e non meno destinato alla vita eterna!)

Comunque, il catechismo.
Non ho la pretesa di aver capito tutto, meno ancora di ricordare tutto quello che ho capito, ma mi è servito moltissimo per inquadrare e sistematizzare molte cose che avevo imparato in modo disordinato e asistematico. Probabilmente è uno dei doni più grandi che Giovanni Paolo II ha fatto alla Chiesa (forse non spettacolare come altre cose grandi che ha fatto, ma di maggiore impatto nel lungo termine). Una esposizione lucida e rigorosa del cristianesimo “integrale”, del depositum fidei, articolata in quattro parti:

“il Credo; la sacra Liturgia, con i sacramenti in primo piano; l’agire cristiano, esposto a partire dai comandamenti; ed infine la preghiera cristiana. Le quattro parti sono legate le une alle altre: il mistero cristiano è l’oggetto della fede (prima parte); è celebrato e comunicato nelle azioni liturgiche (seconda parte); è presente per illuminare e sostenere i figli di Dio nel loro agire (terza parte); fonda la nostra preghiera, la cui espressione privilegiata è il « Padre Nostro », e costituisce l’oggetto della nostra supplica, della nostra lode, della nostra intercessione (quarta parte).”

Da leggere e da consultare.

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Buon vento dell’Ovest, di Patrick O’ Brian.
Terzo libro della saga di Jack Aubrey & Stephen Maturin; il titolo originale era HMS Surprise, che sarebbe il nome della nave capitanata da Jack; l’editore avrà pensato che fosse troppo ostico per il lettore italiano, optando per un riferimento a quel “buon vento dell’Ovest” più volte agognato dai nostri marinai durante i lunghi periodi di bonaccia nel Pacifico, vento che assurge a simbolo di tutto ciò di buono che sperano di ottenere dalla vita, aspettando, aspettando, aspettando… e quando arriva, il vento è una tempesta.
Bene, non mi profonderò un’altra volta in auspici tanatofili riguardanti Diana Villiers; peraltro, considerato come l’autore si diverte a torturare il povero Stephen, ho l’impressione che i patimenti di lui, e le occasioni per augurarmi il di lei decesso, siano solo all’inizio. Vorrei invece fare un’altra considerazione e cioè quanto questi libri siano eccellenti nel descrivere la guerra (ma si potrebbe dire: la vita tutta intera) fin nei suoi aspetti più prosaici, impietosi, brutali, senza per questo perdere l’eleganza del bello scrivere. E non sto parlando della necessità di mangiare i topi sulle navi o amputare una gamba nel bel mezzo di una battaglia navale, o almeno non soltanto di questo.
Le raccomandazioni, per esempio.
Casomai qualche lettore qui leggente appartenesse a quella schiera di italiani in cui certi pulpiti editoriali hanno instillato la convinzione autoafflittiva che certe cose succedono solo da noi, che negli altri paesi (magari protestanti, magari in quanto protestanti) le cose sono molto diverse e c’è un’etica pubblica sideralmente più rigorosa della nostra, bene, leggetevi O’Brian: vi aiuterà a scrollarvi di dosso un po’ di questo velleitario moralismo provinciale. Prendete per esempio quella scena nel secondo libro in cui, in un momento di tregua tra le guerre napoleoniche, Jack sta bevendo con un capitano francese suo amico (divenuto tale dopo averlo fatto prigioniero nel primo libro):

Jack e Christy-Pallière avevano bevuto parecchio e si stavano adesso raccontando le reciproche disgrazie professionali, ognuno stupito che l’altro avesse qualche ragione di lamentarsi. Anche Christy-Pallière era bloccato sulla scala delle promozioni, poiché, sebbene fosse capitarne de vaisseau, non c’era nella marina francese «un vero senso dell’anzianità di servizio… dappertutto intrighi, imbrogli… il successo solo agli avventurieri politici… i veri marinai buttati in un cantone» […] «Per voi è molto semplice», stava dicendo, «voi potete mettere insieme gli appoggi, gli amici, i Lord e i baronetti di vostra conoscenza e prima o poi, con le elezioni parlamentari che avete voi, ci sarà un cambiamento di ministero e i vostri evidenti meriti saranno riconosciuti. Ma da noi come vanno le cose? Interessi repubblicani, monarchici, dei cattolici, dei frammassoni, interessi consolari o, come mi si dice, molto presto imperiali, tutti in conflitto l’uno contro l’altro… catene che hanno preso le volte. Tanto vale scolarci questa bottiglia. Sapete», soggiunse dopo una pausa, «sono così stufo di starmene seduto in un dannato ufficio! La sola speranza, l’unica soluzione, è la…» La voce gli si spense.
«Suppongo che sia una cosa malvagia pregare perché scoppi una guerra», disse Jack, i cui pensieri avevano seguito esattamente lo stesso corso.

E ancora, in questo terzo libro, commentando la sfortunata carriera di un amico:

È una brava persona, comunque, un vero marinaio; ma non ha appoggi, e perciò non ha mai avuto un comando: diciotto anni come primo ufficiale. E poi, essendo riuscito a farsi saltare in aria una gamba, non ha potuto neanche trovare una nave; così si è rivolto alla Compagnia [delle Indie] ed eccolo qui a comandare un ‘vagone di tè’. Poveraccio: come sono stato fortunato, in confronto!»

Eh già, la meritocrazia.
E quante anticamere di segretari e ministri Jack ha dovuto occupare per andare a implorare l’agognata promozione a capitano di vascello; e quei nepotismi di famiglie di nobiltà marinara, che impongono i rampolli sulle navi pur sapendoli pessimi ufficiali, e al limite meglio piangerli in fondo al mare con onore che vederli vergognosi terrazzani senza giubba; e tutte le manovre politiche, le corruzioni, le vendette trasversali che si fanno più fitte man mano che si sale la scala del potere della marina inglese.
L’inizio del terzo libro, con la discussione in alto loco su come si debba spartire il tesoro spagnolo che era stato conquistato (con il concorso determinante di Jack Aubrey) alla fine di Costa sottovento, è un colpo nello stomaco per ogni anima bella che non conoscesse la meschinità del potere ad ogni latitudine; ed è impressionante vedere con quale faccia tosta, per un fottuto cavillo di diritto bellico, i mammasantissima dell’ammiragliato decidano che l’oro è della Corona, tutto quanto, e per i marinai che lo hanno recuperato rischiandoci la pelle, niente ricompensa di guerra. E peggio per Jack, sommerso dai debiti dopo che l’agente di borsa è scappato con la cassa, che aveva bisogno dei soldi per sposarsi.
Insomma, non è soltanto gente che si spara addosso per mare.
La definizione di libri d’avventura sta molto stretta a questa serie. O’Brian è capacissimo di rifilarci tra capo e collo in due righe una mazzata emotiva che ci stronca (una sola parola: Dil), ma è parimenti capacissimo di catturare l’attenzione anche con i momenti più narrativamente anticlimatici, lunghi, uggiosi. Come la vita vera, che difficilmente ci piacerebbe se la vedessimo in un film, perché già la viviamo ogni giorno. E difatti, nell’imminenza di una battaglia,

il signor White se ne stava solo, sconsolato e smorto in viso. «Credo, signore, che questo sia il vostro primo assaggio della guerra sul mare», gli disse [Jack]. «Temo che lo troviate piuttosto sgradevole, senza cabina e senza un vero pasto.» «Oh, no, non mi curo affatto di questo, signore», protestò il cappellano, «ma devo confessare che nella mia ignoranza mi ero aspettato qualcosa di più, diciamo, eccitante? Queste manovre lente e a distanza, quest’ansia prolungata dell’attesa non facevano parte dell’immagine che mi ero fatto di una battaglia. Tamburi e trombe, stendardi, esortazioni esaltanti, urla marziali, il tuffarsi nella mischia, comandanti che gridano: questo mi sarei aspettato, più che l’interminabile sconforto dell’attesa, la sospensione di ogni attività. Certo non mi fraintenderete se dico che mi domando come possiate sopportarne il tedio.» «L’abitudine, senza dubbio. La guerra è per nove decimi noia, e noi siamo abituati a questo nel servizio. Ma l’ultima ora compensa di tutto, credetemi.

Eppure è proprio per l’abilità di farci sentire, e addirittura piacere, questo tedio – questi nove decimi di noia di cui pure la nostra stessa vita è impastata – che Patrick O’Brian è definitivamente uno scrittore con gli attributi.

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Heretics, di Gilbert Keith Chesterton.
Allora, non è che voglio fare una marchetta al kindle, però ci son cose che meritano di essere dette.
Come raccontavo precedentemente, l’aggeggio mi ha spalancato le porte del mondo chestertoniano: 27 libri scaricati for free, in lingua originale. WOW.
Leggere Chesterton sul kindle presenta certi vantaggi. Anzitutto, leggere in inglese è particolarmente agevole, perché il marchingegno dispone di vocabolari integrati, se trovo una parola che non conosco ci sposto su il cursore e mi appare in basso la definizione dell’Oxford Dictionary of English (oppure a scelta del New Oxford American Dictionary; ma per GKC è meglio il primo); comodo e utile.
In secondo luogo, ho apprezzato tanto la possibilità di evidenziare i brani che più mi colpivano e mandarli in un file txt di ritagli, dal quale ho potuto comodamente copiaincollarli dove mi pareva, per esempio sulle mie note anobiane. E, come potete immaginare, di GKC, prolificissimissimo produttore di aforismi e frasi memorabili, quei brani sono veramente tanti, e veramente impressionanti. Frasi incisive come spade. Per esempio il celeberrimo paragrafo finale di Eretici

The great march of mental destruction will go on. Everything will be denied. Everything will become a creed …  We shall look on the impossible grass and the skies with a strange courage. We shall be of those who have seen and yet have believed.

ma anche giudizi estremamente trancianti sul mondo moderno e le sue irrazionalità (e in  ultima analisi questa parola può essere considerata un sinonimo di eresia, perché l’eresia è un peccato, prima che contro la fede, contro la ragione)

When the old Liberals removed the gags from all the heresies, their idea was that cosmic truth was so important that every one ought to bear independent testimony. The modern idea is that cosmic truth is so unimportant that it cannot matter what any one says.

[a proposito della fama borghese di Oscar Wilde e del suo processo per omosessualità] The age of the Inquisition has not at least the disgrace of having produced a society which made an idol of the very same man for preaching the very same things which it made him a convict for practising.

Quest’uomo non capiva tutto, nè parlava di tutto; ma capiva davvero ciò di cui parlava.
È più di quanto si possa dire della quasi totalità del genere umano.

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Tutte le storie di Padre Brown, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura).
Io vado pazzo per i Mammut della Newton Compton – lo avevo già detto, no? – che con pochi soldi ti fanno entrare in possesso del “tutto o quasi” di qualcuno su qualcosa.
€ 14,90 per 720 pagine per tutti i (n. 50) racconti di Padre Brown: un richiamo irresistibile.
Più sopra ho detto, neanche ricordo più dove, che il libro di carta ha un vantaggio inarrivabile per il libro elettronico: lo puoi lasciare in eredità ai figli (o, almeno, puoi illuderti che vorranno leggerlo). Ecco, questo è proprio quel tipo di libro che vorrei trasmettere al frutto dei miei lombi, se e quando ne avrò (cosa che ora non è). Difatti, anche se i racconti di Padre Brown li avevo già scaricati in inglese da amazon, il malloppone l’ho comprato l’ho stesso e  lo sto leggendo a poco a poco, un racconto ogni tanto (senza esagerare, come consiglia Berlicche, altrimenti vado in assuefazione).

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Galateo per tutte le occasioni, di Sabrina Carollo (in lettura).
Agile e leggibile, non noioso contrariamente alle mie aspettative anzi abbastanza divertente (riesce perfino, per fare l’elogio delle presentazioni stringate, a citare il vitello dai piedi di balsa di Elio e le storie tese: + 100 punti simpatia), tutto sommato di gradevole lettura perfino per uno scabroso buzzurrone come il sottoscritto; e infatti il libro mi è stato imposto consigliato da qualcuno che vuole redimere il mio comportamento da… uhm… quelle asperità ed ineleganze che talvolta lo caratterizzano.
Umf.


Libri aprile 2012

Con moltissimo ritardo…


Storie dal crepuscolo di un mondo (vol. 2), di AAVV.
Trattasi del secondo volume (di una serie di tre) che Urania sta pubblicando per tradurre una smisurata antologia di racconti americani, curata da Gardner Dozois e George R.R. Martin, che omaggia il ciclo della Terra morente di Jack Vance riprendendone personaggi e ambientazioni e stile (vedi sotto).
Mentre il primo volume mi aveva lasciato pressoché indifferente, perché i racconti mi erano sembrati nulla di più che un tiepido divertissement similfantasy (da cui l’interrogativo “ma che ci fa un fantasy in una collana dedicata alla sf?” → vedi sotto), il secondo invece porta una media qualitativa parecchio più alta; quelli che mi sono piaciuti di più sono stati L’uccello verde (con cui ho conosciuto il fantastico personaggio di Cugel l’Astuto) e La lamentabile tragedia comica (o la risibile commedia tragica) di Lixal Laqavee. Per chi fosse interessato, qui si trova una recensione particolareggiata dei racconti (nonché un dibattito classificatorio tra abbonati Urania che si lamentano perché, avendo chiesto e pagato in anticipo dei prodotti di fantascienza, si sono visti recapitare un prodotto che invece non lo pare proprio; polemiche sull’infiltrazione nella sf Urania di residui da altri settori merceologici appioppati ex abrupto ai lettori; lunga storia).
Comunque sia, questo libro mi è piaciuto così tanto che …

 

La Terra morente, di Jack Vance.
… sono andato a leggermi la saga originale di Vance, per la precisione l’edizione italiana della NORD che riunisce le prime due (su quattro) parti della saga.
La prima parte è una miscellanea di racconti ambientanti nella Terra morente, e personalmente li ho trovati abbastanza mediocri: le avventure di Turjan di Miir, Mazirian il Mago e così via, non mi sono sembrate altro che una sequela di cliché fantasticheggianti con poca originalità. Giusto giusto qualcosa me l’ha dato il penultimo racconto, quello di Ulan Dohr nella città di Ampridatvir (che mi ha ricordato la città di Lud nella Torre Nera di Stephen King). Non mi capacitavo del perché del successo della saga finché non ho approcciato la seconda parte, con le (dis)avventure di Cugel, e qui il livello è cambiato da così a così : l’ironia è onnipresente e irresistibile, e alcune pagine mi hanno fatto ridere di gusto come non accadeva dai tempi di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome (il mio affezionato termine di paragone per la comicità in un libro).
Ma insomma, cos’è questa Terra morente?
È la Terra in un futuro lontanissimo, migliaia o fors’anche milioni di anni da ora, quando il Sole starà lì lì sul punto di spegnersi e ogni giorno potrebbe essere l’ultimo (non so se può essere che il Sole si spegne all’improvviso come una candela, ma vabbè). Nuove specie animali, nuove culture, nuove religioni, nuovi popoli, ma l’essere umano è sempre lo stesso con i suoi vizi di sempre. I personaggi sono ribaldi e infingardi, si parlano l’un l’altro in un divertentissimo stile forbito anche quando stanno per tagliarsi la gola. Vance è maestro del genere picaresco e Cugel l’Astuto è il suo capolavoro: un avventuriero inaffidabile, ladro e truffatore, che dovunque si rechi – costretto a un’impresa improba da Ioconou il Mago Ridente – porterà tragicomiche sventure su di sé e su tutti quelli che incontra.
La Terra morente fa parte di quei libri che pongono un interessante problema classificatorio ( ← vedi sopra): si tratta di fantasy o di fantascienza? In questo remoto futuro, in un mondo dove le civiltà sono morte e rinate e rimorte, la scienza e la magia si sono scambiate di posto: ciò che per noi è scienza moderna è diventato un sapere arcaico, esoterico e dimenticato, mentre la magia è comunemente studiata e praticata. Vero è che quella che a noi lettori appare magia potrebbe essere “soltanto” una forma avanzatissima di tecnologia (cfr la nota frase di Arthur Clarke); ma intanto pure ci sono i maghi e gli incantesimi e così via.
I critici americani hanno risolto il problema con una specie di mossa da Alessandro-e-il-nodo-gordiano, inventandosi il nuovo genere della science-fantasy, che sarebbe appunto una commistione di fantasy e science fiction; sarei curioso di sapere dove andare a trovare tale ibrido nel codice Dewey (per chi fosse interessato, posso fornire nei commenti ulteriori ragguagli sulle spaventose complicazioni filosofico-cognitive evocate dal codice Dewey e le sue limitazioni a base decimale; almeno per come mi sono state descritte dalla mia bibliotecaria di fiducia).

 

John Carter, di Edgar Rice Burroughs.
La cosa strana di questo libro (titolo originale Under the Moons of Mars, Sotto le lune di Marte; ma anche A Princess of Mars, La principessa di Marte) è che appena finita l’ultima pagina mi è venuto istintivo pensare “ma che storia mediocre”, poi mi sono ricordato che è un classico del suo genere, e è allora scattato una sorta di istinto condizionato pavloviano che fa subentrare il rispetto che si sente dovuto a un classico. Certo ci si potrebbe chiedere dov’è allora la linea di confine tra il “nostro” giudizio su un’opera d’arte e quello che “subiamo” dal giudizio altrui (critici, generazioni di lettori precedenti, professori di scuola, eccetera), ma c’è un’altra domanda ancora più pressante.
Cos’è un classico?
Per come la vedo io, ci sono grossomodo tre definizioni possibili, diciamo tre “gradi” del classico:

  1. Un libro molto famoso;
  2. Un libro che esprime la sua epoca;
  3. Un libro che trascende la sua epoca.

 Questo libro è sicuramente un classico nel primo senso del termine: ebbe un enorme successo ed una lunga serie di seguiti che, per chi fosse interessato, possono essere legalmente e gratuitamente scaricati in lingua originale qui (grazie, progetto Gutenberg → vedi sotto). Burroughs poi è popolare di suo, essendo il creatore di un altro classico dell’immaginario ovvero Tarzan. Insomma John Carter è famoso, tanto che quest’anno, nel centenario della pubblicazione, la Disney ne ha fatto uscire una versione cinematografica.
Perché sì, John Carter è del 1912. E si vede.
La storia è piena di meccanismi narrativi ingenui e artificiosi. Carter, ex soldato sudista nell’immediato dopoguerra di secessione, viene inseguito dagli indiani; per cause che l’autore non spiega minimamente (l’avrà fatto nei libri successivi? boh), muore sulla terra – nel senso che vede proprio il suo stesso cadavere – e si risveglia su Marte. Diventa l’ago della bilancia nella guerra tra due specie opposte di marziani, una antropomorfa e l’altra mostruosa; impara in poco tempo la lingua marziana fin nelle più delicate sfumature (presumo che i soldati sudisti avessero tutti un Phd in glottologia); cavalca, duella, ammazza, guerreggia e così via; incontra una principessa di Marte in circostanze appassionanti (prigioniera dei cattivi, denudata barbaramente; immagino il brivido erotico del lettore maschio del 1912); lui s’innamora di lei; viceversa; litigano, si riappacificano, lei è in pericolo, lui la salva due o tre volte, alla fine la sposa (c’era bisogno di coprire lo spoiler? ma no). Ovviamente l’eroe è aiutato dalle solite circostanze fortuite, i soliti personaggi deuteragonisti così palesemente aiutanti che sembrano appena usciti dal libro delle funzioni di Propp, e poi c’è il mostro repellente che insidia la bella (“insidia” è una delicata perifrasi per “vuole stuprarla”), l’agnizione del figlio perduto, non mi ricordo che altro ancora. Ah, già, alla fine con la principessa ci fa anche un figlio. Cioè un uovo, perche la razza della principessa, per quanto esteriormente antropomorfa, è ovipara od ovovivipara o che cosa. Come fa il sesso interspecie umano-marziana a prolificare? E chi lo sa. Ma chi se ne frega.
E il libro piace. Vende un botto. Ha incantato milioni di lettori dell’inizio novecento e delle generazioni successive. È, appunto, un classico. Allora uno si chiede: ma perché? Com’è che un libro diventa un classico? Come si crea e cresce la sua fama fino a farne dire “ah, è un classico, lo conoscono tutti”? Perché ha tanto successo?
Qui arriviamo al secondo grado. Un classico non è semplicemente un libro famoso: è un libro che è diventato famoso perché offre ai lettori quello che i lettori cercano, uno specchio in cui guardare se stessi e i propri desideri, vizi e virtù, la propria Weltanschauung; perché esprime un’epoca, un contesto socioculturale spaziotemporalmente determinato, e i posteri potranno usarlo per capire il loro passato.
E allora cosa ci dice John Carter con la sua atmosfera da western marziano, la sua sottile misoginia, l’ingenuità delle sue soluzioni narrative con tutte quelle circostanze pensate apposta per favorire l’eroe, e tutto il resto? Cosa ci dice dell’anno 1912 e dei lettori che ne hanno decretato il successo? Possiamo considerarlo rappresentativo della sua epoca, un classico nel secondo senso del termine? Inclino a pensare di sì, ma se ne può discutere.
Sennonché, quegli stessi elementi che ne hanno forse favorito il successo un secolo fa, oggi rendono il libro peggio che desueto: lo rendono brutto (ovvero, lo renderebbero tale se non si attivasse il riflesso condizionato “ma è un classico!”). Come scrive Giuseppe Lippi nella postfazione  all’edizione Urania:

Due dei più esperti critici italiani del settore – Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – hanno scritto a proposito di Burroughs: “Tutta questa massa di letteratura, che pure ha fatto vendere più di cinquanta milioni di libri, è quasi completamente priva di valore artistico. Burroughs stesso attribuiva la sua popolarità al fatto che le sue storie non imponevano al lettore il minimo sforzo intellettuale. Non vi è caratterizzazione, eccetto che i Buoni sono buoni e i Cattivi cattivi” […]
Paragonandolo a H.G. Wells, Brian W. Aldiss ha detto che ERB “ci insegna a non pensare”. A parte il fatto che per eccellere in tale attività non sembra indispensabile alcun insegnamento, e che gran parte dell’umanità vi ambisce come a un diritto inalienabile, bisogna riconoscere che Burroughs non ha mai voluto ammaestrare il suo pubblico, ma che si è limitato a praticare un’antica forma della narrativa: quella che descrive il fisico anziché il mentale […]

È qui dunque che l’eroico John Carter perde la sua sfida più grande, quella contro il tempo. Infatti il libro, per tutti i motivi sopraddetti, non riesce ad essere un classico nel “terzo grado”, nel senso più alto del termine: un libro che “parla” non solo ai suoi contemporanei, ma anche ai posteri. Un libro che tra cento o mille anni sarà letto non solo per interesse storico (“vediamo come pensavano gli scrittori del XX secolo”), ma anche e innanzitutto per il puro piacere letterario del leggere. Questo, io credo, è un vero classico: un libro che è sempre contemporaneo. Che ha un piede nel suo tempo e l’altro nell’eternità.
Dante è un vero classico. Shakespeare è un vero classico. Manzoni è un vero classico. Borges e Tolkien saranno dei veri classici, anche se giudicare come classico un autore del proprio secolo è sempre un azzardo (perché chi decide davvero è il futuro, e il futuro è impredicibile). Forse anche David Foster Wallace. Ma Burroughs, no, non è un vero classico.
Peccato.

 

Le grandi storie della fantascienza (vol. 19 – anno 1957), di AAVV.
Antologia, a cura di Isaac Asimov e Martin H. Greenberg, dei migliori (secondo loro) racconti di fantascienza usciti nel 1957.
Il libro mi è stato prestato dall’amico Joe, che legge questo blog e ringrazio pubblicamente, con la didascalia “uno di questi racconti potresti averlo scritto tu, leggili e dimmi quale”. Descrizione invero accattivante e inquietante a un tempo, e fin troppo lusinghiera. Il livello generale dei racconto è molto buono (qui l’elenco completo dal catalogo Vegetti); mi sono particolarmente piaciuti Onnilinguista di H. Beam Piper, La Gabbia di A. Bertram Chandler, Il Melodista di Lloyd Biggler jr., e poi il racconto (che ho indovinato – YEY!!!) cui si riferiva il mio amico, L’educazione di Tigress McCardle di C.M. Kornbluth. Potete leggerlo qui in inglese e qui in italiano. È molto divertente, descrive le peripezie di una coppia di coniugi in un futuro in cui, prima di fare un bambino, gli aspiranti genitori possono fare la prova con un robot (“Tesorino”) che simula in tutto e per tutto il comportamento di un vero neonato. Sennonché il robot fa parte di un programma governativo per “disinnescare la bomba demografica”, e ci siamo capiti. Il tono generale della storia è molto ironico, ma la conclusione non lo è (o forse sì, ma di un’ironia amarissima);  e se siete di quelli che al rientro dolce ci credono davvero, fate un favore a voi stessi: leggete il racconto, arrivate all’ultimo paragrafo, e rileggetevi l’inizio. E poi ne riparliamo.

 

Costa sottovento, di Patrick O’Brian.

Diana Villiers deve morire.

 Ero tentato di far consistere la descrizione del libro in questa sola frase, e sarebbe stato abbastanza. Ma in effetti sarebbe ingiusto sia verso il libro, sia verso il personaggio.
Verso il libro, perché la storia non può essere ridotta soltanto a quella specie di quadrangolo sentimentale a geometria variabile in cui sono incardinati Jack, Stephen, Diana Villiers e Sophia Williams. Il titolo originale è Post Captain, che allude alla promozione ricevuta da Jack: l’edizione italiana ha rinunciato all’espressione idiomatica (perché? non era così difficile da tradurre) e ha preferito citare  – presumo – da un punto in cui Jack dice “ho una sensazione maledettamente strana: non ho voglia di tornare a casa stasera. Strano, perché non vedevo l’ora di esserci, stamattina ero arzillo come un marinaio in franchigia, e adesso questa sensazione…. Talvolta in mare si prova la stessa cosa in prossimità di una costa sottovento. Tempo da lupi, vele di gabbia a terzaroli bassi, niente sole, nessuna possibilità di fare il punto per giorni e giorni, nessuna idea di dove si è nel raggio di un centinaio di miglia, e poi una notte si avverte la presenza di una costa sottovento. Non si vede assolutamente niente, ma pare quasi di sentire gli scogli grattare sulla carena.” Cioè instabilità, inquietudine, pericolo nascosto. Tutti sentimenti che si attagliano bene alle traversie occorse ai nostri, sia di natura amorosa (le prime duecento pagine circa non sono neanche ambientate in mare, sono una roba alla Jane Austen tra caccia alla volpe e patemi emotivi, eppure la storia tiene), sia di natura politica (l’attività di Stephen Maturin come spia), sia di natura bellico-nautica (le descrizione dei movimenti nautici della Polychrest, lo “sbaglio del carpentiere”, sono irresistibili perfino a chi non ci capisce niente di  nautica).
Poi c’è lei. Diana Villiers. La tentazione di odiarla è forte, perché rovinare l’amicizia tra Jack e Stephen, spingendoli financo al duello, è atto che non può passare imperdonato. Eppure in qualche modo, da qualche pagina della sua sfortunata biografia, delle angherie cui la costringe la (lei sì, senza attenuanti) sgradevolissima mamma Williams, si sente che Diana Villiers più che femme fatal è vittima: di sé stessa, delle sue ambizioni, dei pregiudizi della sua epoca.
E però, insomma: povero Stephen!

 

Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento (vol. 2), di Antonio Illibato.
Dopo il primo volume, proseguo la  biografia del Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei. Ma si potrebbe anche dire fondatore di Pompei tout court, visto la città praticamente si è sviluppata a partire dalla e attorno alla costruzione della chiesa: case, stazione ferroviaria, ospedali, eccetera. E la cosa che più colpisce (e invero lo rende tanto simpatico, una specie di Paperino dei santi) è scoprire che il Beato Bartolo era… beh… un imbranato.
Il libro infatti, con taglio storico piuttosto che agiografico, non esita a riportare anche quelle vicende nelle quali il protagonista non ci fa una brillantissima figura: le occasioni sprecate, i guai combinati, le inefficienze amministrative. Diciamo la verità: in alcuni punti si ha quasi l’impressione che il Santuario sia stato fondato, più che grazie, nonostante Bartolo Longo.
Ma questo non potrebbe forse dirsi di tutti i santi? Che altro non sono che strumenti, volenterosi ma imperfetti, nelle mani del vasaio?

 

Heretics, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura).
Allora, ho comprato su amazon il kindle, e per adesso sono abbastanza soddisfatto. Descrivere vantaggi e svantaggi dell’ebook rispetto al libro di carta sarebbe un discorso qui troppo lungo (casomai se ne può parlare nei commenti), diciamo solo che avere il kindle offre un vantaggio non irrilevante e cioè la possibilità di scaricare dal sito di amazon direttamente sull’aggeggio, legalmente e gratuitamente, tutte quelle opere sulle quali è scaduto il copyright per decorrenza di tot decadi dalla morte (in questo caso diciamo pure la nascita al cielo) dell’autore.
Onestamente non credo di avere la capacità di esprimere in parole il gaudio praticamente fisico, di livello quasi orgasmico, da me esperito nel fare il download di 27 – dico ventisette – libri di Gilbert Keith Chesterton, molti dei quali di scarsa o impossibile reperibilità in italiano. Non ve lo posso proprio dire. Dovevate stare lì e vedermi.
Successivamente ho scoperto che anche chi non è amazon user può facilmente procurarsi questo genere di ebook gratuiti e legali: vedi il progetto Gutenberg e il suo omologo italiano, il progetto Manuzio.

Per esempio, i libri di Chesterton sul progetto Gutenberg si trovano qui.
Oh, gioia.
E insomma, il primo libro di GKC che ho abbordato è questo Heretics, del quale Ortodossia si porrà in termini di prosecuzione ideale. Manco a dirlo, è fantastico. Ma ne parlerò al post del mese prossimo.


Che cosa vuole

Esattamente sul loro sentiero, nel punto in cui la serra finiva, stava un uomo alto, drappeggiato fino ai piedi in un abito di un bianco immacolato; il cranio calvo, il viso e il collo, rilucevano al sole come uno splendido bronzo. Era più immobile di una montagna e guardava, attraverso il vetro, l’uomo addormentato.
«Chi è quello?», esclamò Padre Brown, facendo un passo indietro e trattenendo il respiro.
«Oh, è solo quel ciarlatano indiano», borbottò Harris, «ma non so che diavolo stia facendo qui.»
[…]
«Bene, parliamogli, ad ogni modo», disse Flambeau, che era sempre favorevole all’azione. Con un lungo passo fu accanto all’indiano. Inchinandosi dalla sua altezza, che superava anche quella dell’orientale, disse con tranquilla impudenza:
«Buona sera, signore. Che cosa vuole?»
Lentamente, come una grande nave che entri in un porto, il largo viso giallo si voltò, e guardò infine indietro, al di sopra della spalla rivestita di bianco. I tre rimasero stupiti nel vedere che le gialle palpebre erano suggellate, come nel sonno. «Che cosa voglio?», disse la faccia in perfetto inglese: «Grazie, nulla». Poi, aprendo a metà le palpebre, così da mostrare una striscia sottile di opalescente pupilla, ripeté: «Nulla». Aprì quindi completamente gli occhi e con uno strano sguardo, disse ancora «Nulla», e se ne andò frusciando per il giardino che si oscurava rapidamente.
«Il cristiano è più modesto», mormorò Padre Brown, «vuole qualcosa.»

 

 Gilbert Keith Chesterton, La forma errata (in L’innocenza di Padre Brown).