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Libri gennaio 2012

Pensare Dio – introduzione alla religione, di Giovanni Chimirri.
Residuano le perplessità espresse nel precedente post bibliografico: ma l’autore ci è o ci fa?
È un cristiano in buona fede che però si esprime usando un vocabolario concettuale di stampo hegeliano?
Oppure è proprio un hegeliano (senza giri di parole: un eretico) che, come dire, ce sta a provà, cercando di inquinare la coscienza del lettore indifeso con un cristianesimo sottilmente ma irrimediabilmente adulterato dall’idealismo?
Ditemi voi che ve ne pare:

Pensare Dio in definitiva vuol dire giocarci nell’autocoscienza divina, essere in vitale rapporto a Dio, porre quella compenetrazione tra la nostra coscienza e quella di Dio. Illustriamo brevemente questo passaggio essenziale. La coscienza di Dio ha per oggetto la coscienza umana, finita, differente da lui; così Dio per un certo aspetto trova se stesso (ha coscienza) pensando ad una coscienza differente da sé. Ma questa coscienza umana non è a sua volta che coscienza di Dio, coscienza che ha per oggetto Dio (l’uomo realizza veramente se stesso solo quando pensa Dio). Risulta così che la coscienza divina verso l’uomo, essendo a sua volta quest’uomo coscienza verso Dio, è in realtà coscienza divina di una coscienza divina ossia autocoscienza di Dio attraverso la coscienza finita dell’uomo che si è superata (tornata a Dio). Rimanga chiaro che per principio Dio non necessita della coscienza umana (per quanto divina questa si faccia) per avere coscienza di sé. È semmai l’uomo colui che ha bisogno della coscienza di Dio per farsi coscienza-di-sé-con-Dio […]
La coscienza umana in quanto pensiero su Dio, è pensiero in Dio e pensiero di Dio, dove Dio attraversando la coscienza umana riconcilia questa a sé, la fa partecipe gratuitamente della propria spiritualità. Dio deve pur avere l’idea di un pensiero finito (l’uomo) e questo deve pur essere qualcosa che si differenzi da Dio, ma essendo Dio spirito assoluto e onnicomprensivo, il finito viene tolto dal suo isolamento e fatto partecipe di una vita eterna: la coscienza umana in Dio si immortala, ossia si infinitezza pur rimanendo finita […]
La comunione tra Dio e l’uomo è una comunione di spirito, nella quale l’uomo conosce Dio solo in quanto il suo sapere l’ha avuto da Dio e questo sapere di Dio è a sua volta quel pensiero con cui Dio conosce l’uomo e se stesso: lo spirito umano pensante Dio non è che lo stesso spirito di Dio, ossia lo spirito umano non è solo dell’uomo ma è soprattutto quello spirito di Dio (spirito divino, santo) che Dio gli ha infuso, che abita nell’uomo, che lo domina e che prenderà definitivamente possesso del suo essere materiale e mortale (Rm 8,9-11). Diceva a tale proposito lo Spaventa: «non l’uomo è o si fa Dio, e neppure il pensiero umano è semplice ombra del pensiero divino, giacché nel primo caso non avremmo il vero Dio e nel secondo il vero uomo; ma, la coscienza che noi abbiamo di Dio è uguale alla coscienza che Dio ha di sé in noi, di modo che non siamo noi a fare Dio bensì è lui che fa noi. Se Dio non fosse immanente all’uomo, l’uomo non potrebbe conoscerlo e Dio non potrebbe farlo».
Pagg. 151-152
.

Insomma, Dio per avere piena coscienza di se stesso “deve” pensare l’uomo che a sua volta deve pensare Dio.
Ma scusate, questa non è proprio la cara vecchia triade hegeliana tesi → antitesi → sintesi (però l’autore non scrive mai queste parole… sennò era troppo facile sgamarlo?), e precisamente la progressione Idea → Natura → Spirito?
E la citazione da Spaventa, non ho capito se Silvio o Bernardo (hegeliani tutti e due, toh), forse vorrebbe essere “tranquillizzante”? Ma io mi sento ben poco tranquillizzato: perché quest’immanenza di Dio nell’uomo, così intesa, non ci mette niente a diventare, antropoteosoficamente, identificazione esoterica Uomo = Dio.
Insomma, il dubbio resta: Giovanni Chimirri ci è o ci fa?
A qualcun altro l’ardua sentenza. Io ci ho dedicato già abbastanza tempo.

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Tolkienology – il segreto della tua personalità coi personaggi del Signore degli Anelli, di Paolo Gulisano – Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro.
Divertissement
degli autori che, sulla scia di un bestseller di argomento zodiacale, analizzano i personaggi di Tolkien  alla luce dei rispettivi segni zodiacali (segni, peraltro, attribuiti ai personaggi abbastanza arbitrariamente, ma tant’è).
Dico divertissement perché, come ci si chiede qui (vi segnalo la pagina, c’è l’indice con tutti i personaggi analizzati, casomai v’interessasse), sorge facile la domanda: ma come gli è venuto a Gnocchi e Palmaro, cattolici diciamo… hardcore, di immischiarsi con l’astrologia e l’oroscopo? Boh. L’unica risposta che ho trovato è che, appunto, il libro è stato scritto per divertimento, per parlare un po’ dei personaggi di Tolkien, lo zodiaco è un pretesto.
In quest’ottica il libro si fa leggere senza noia da un tolkieniano all’ultimo stadio, anche se non dice niente di nuovo o di particolarmente brillante. Insomma senza infamia e senza lode.

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L’androide Abramo Lincoln, di Philip K. Dick.
Capolavoro.
Il tema del “simulacro”, di colui che sembra umano ma non lo è davvero (e dunque: ma che significa essere “davvero” umani? qual è il quid costitutivo dell’essere umano?), fondamentale nella produzione dickiana, è qui svolto ai massimi livelli e con un’originale angolazione.
Infatti stavolta il simulacro, l’androide pseudo-umano, non è una “nuova” creatura in cerca di un suo posto nel mondo come accadeva al replicante Roy Batty, ma una riproduzione – non si sa quanto fedele – a di quello che era un essere umano vero, cioè , appunto Abramo Lincoln (ed anche Edwin M. Stanton, il suo ministro della Guerra).
Questo tema si interseca con le traversie costruttori del simulacro, che vedono distrutti i loro progetti commerciali dall’interesse di un avido e gelido miliardario, e con il tema inverso dell’anempatico. Mentre il simulacro è un non-umano vicinissimo e forse arrivato all’umanità, l’anempatico è un essere umano privo di alcune caratteristiche basilari della comune psicologia umana quali amore ed empatia. Nel romanzo ci sono due personaggi di questo tipo, uno è il miliardario e l’altro è Pris, la figlia del collega del protagonista, l’ennesima incarnazione della dark-haired girl ovvero il fenotipo di donna distruttiva da cui PKD si sentiva suo malgrado attratto. In coda al romanzo c’è un estratto da un articolo autobiografico (“L’evoluzione di un amore vitale”) dove l’autore esplicita il concetto:

In linea generale, considero Pris una persona odiosa, malata e schizoide, una despota. Mi disgusta e mi attrae: il peggiore dei legami. È una specifica tipologia di anima, che sputa sentenze, è priva di calore emotivo, autoritaria, castrante, intellettuale, originale e talentuosa, il tipo di ragazza che un uomo ammira, a cui finisce per legarsi, di cui non riesce a liberarsi… e dalla quale finisce per lasciarsi distruggere, con sua somma gioia. Tornando a quei tempi, ricordo che ero solito interrogarmi cupamente su quel mio fatale tropismo: mi sentivo come una formica attratta senza possibilità di scampo da un certo insetticida. […] “Sei attratto da donne distruttive”, mi diceva sempre il mio analista, anno dopo anno. Ma non è mai riuscito a risolvere la situazione. Così ho continuato a scrivere romanzi su romanzi con donne simili a Pris. L’androide Abramo Lincoln è stato scritto molto tempo fa, e nessun editore di fantascienza lo voleva, perché come dicevano tutti, e loro se ne intendevano, “Non è fantascienza”. L’ho riscritto molte volte, mettendoci tanto lavoro da non poter essere più monetizzabile. Ma ero ammaliato dal soggetto del romanzo: un androide (Abe Lincoln), dotato di reali qualità umane, confrontato con un’umana (Pris) che è simile a un automa.

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Skull-face, di Robert E. Howard.
Racconti miscellanei del creatore di Conan il Barbaro, pubblicati in America a cavallo tra gli anni ’20 e ‘30. Gli ingredienti ricorrenti sono quelli della letteratura pulp dell’epoca: orrori ancestrali, antichi misteri, civiltà perdute… e razzismo.
Sì, razzismo. La cosa che più mi ha colpito di questi racconti è infatti la naturalità – segno che l’argomento a quell’epoca non solo era pacifico ma “vendeva” –  con cui si esprime e si giustifica il razzismo di fondo presente nelle storie (non so se anche nelle personali convinzioni dell’autore, ma è probabile).
Prendete per esempio il racconto più lungo dell’antologia: Skull-Face. Il cattivo è un redivivo stregone d’Atlantide, sopravvissuto ai millenni (soprannominato appunto Faccia di Teschio per motivi facilmente comprensibili), il cui intento diabolico è nientemeno che “il rovesciamento delle razze bianche”. Apperò. “Il suo scopo supremo è un impero nero: e lui stesso sarà il sovrano del mondo. Per questo scopo ha legato in una cospirazione mostruosa i negri, i bruni e i gialli”. Ovviamente il cattivo è sconfitto, e il mantenimento della supremazia bianca nel mondo è salvo: happy end.
Potrei parlare anche del ciclo di Kirby Buckner (avventuriero del sud rurale americano che si trova alle prese con rivolte di negri capeggiati da uno stregone vudù), o del ciclo di Bran Mak Morn (re celtico che combatte per la sua razza contro i romani), ma non mi dilungo. Il succo è: quel che trapela dalla filosofia di fondo espressa in questi racconti è che l’appartenenza dell’individuo a una determinata razza è fondamentale nel definire come e chi è quell’individuo, in senso fisico, psicologico, intellettuale… anche morale.
Certo, erano gli anni ’30 dello scorso secolo. Non possiamo farne una specifica colpa di Howard. È passato quasi un secolo e molte cose sono cambiate. Allora il razzismo era normale parte integrante dell’orizzonte concettuale di un individuo civile; oggi invece no.
Ma pensateci un attimo: quante delle idee che oggi il mondo dà per scontate come moderne e politicamente corrette, domani o dopodomani saranno invece considerate reazionarie e inaccettabili?

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Elementi di politica, di Benedetto Croce.
Libro uscito con il Corriere della Sera al prezzo di € 3, e che nella mia libreria Anobii stazione attualmente nella sezione “Non finito”. Infatti debbo a malincuore ammettere di averlo abbandonato dopo poche decine di pagine, in quanto ho scoperto Croce che scrive difficile, ma veramente difficile, anzi ha uno stile così intorcinato da proiettarsi oltre la mia soglia di comprensione.
Certo posso invocare attenuanti ambientali, come il fatto che abbia provato a leggerlo in mezzi pubblici molto affollati, ma insomma.
L’ho messo da parte e ci riprovo in momenti più tranquilli.

§§§

Fate, Time and Language – an Essay on Free Will, di David Foster Wallace e altri AAVV.
Letta la prima parte del libro, quella che contiene l’articolo sul fatalismo del filosofo Richard Taylor pubblicato nel 1962, alcune delle obiezioni postegli da altri filosofi sulle riviste di filosofia, le contro-obiezioni di Taylor, le contro-contro-obiezioni, e così via.
Adesso ho la riposta a una domanda che talvolta mi ero fatto e cioè “ma il flame esisteva anche prima di internet?”. Sì.
L’argomento fatalista di Richard Taylor meriterà un post a parte.

§§§

Kabbalah – tutti i segreti del misticismo ebraico, di Gabriella Samuel.
Oddio, forse tutti tutti no, però il libro è molto ricco nell’illustrare, in una struttura a dizionario (sono arrivato alla C), argomenti cabalistici. Anche se, considerato il taglio estremamente divulgativo, viene spontaneo chiedersi quanto sia approfondito e ortodosso rispetto a quel patrimonio religioso-culturale.
(casomai vi fosse apparso un punto interrogativo sulla testa, non è che mi sto convertendo o cosa. L’argomento mi interessa perché stavo preparando un post su Neon Genesis Evangelion, il miglior anime di tutti i tempi, e volevo approfondire un po’ il significato – ammesso che ce ne sia davvero uno – delle sephirot)
Comunque, trovo notevole che l’autrice, dovendo scrivere Dio ma non volendo nominare invano il Suo nome, scriva “D*o”.
Proprio così: D*o.
Con tutto il rispetto, sembra l’esclamazione di Homer Simpson.


Libri dicembre 2011

E buon anno a tutti.

 §→ questi simboli indicano uno spoiler, evidenziare per leggere ←§

Controrealtà, di AAVV.
Ho finito di rileggerlo. I racconti migliori:

  • Fallo e basta!: storia terribile, nel senso positivo del termine (sì esiste un senso positivo). Ricordo che la prima volta che l’ho letto mi ha dato un senso di vera e propria rabbia nauseabonda, perché racconta di una manipolazione del libero arbitrio a dir poco brutale. È ambientato in un futuro distopico in cui la pubblicità di prodotti alimentari è attuata tramite manipolazione biochimica, ovvero ci sono questi Tiratori scelti che sparano dardi alla gente per iniettare sostanze che provocano una vera propria bramosia di consumo. In qualche modo tutto questo è considerato legale. La protagonista è un’attivista che si infiltra in un’azienda di marketing e ne seduce il manager a scopo sabotaggio, ma §→ finisce per essere  raggirata dal manager che ha capito il suo gioco, la sfrutta per i suoi fini, e infine le inietta un dardo nel collo e le “chiede” di sposarlo. Il finale è agghiacciante: la narratrice cerca di svegliare suo figlio, che non vuole andare a scuola, e “Lui si gira dall’altra parte, gemendo, ma non fa una mossa per alzarsi. Sfodero la mia pistola genitoriale e regolo il tamburo da Vai a Letto a Svegliati. – Alzati, Tommy – dico mentre miro con cura ai suoi capelli arruffati dal sonno. – Non farmelo dire due volte.←§ Sembra uno scherzo ma è uno dei finali più agghiaccianti che abbia mai letto da molto tempo a questa parte. L’introduzione dei curatori dice che la storia può essere letta come una satira sull’uso dei farmaci psichiatrici. Io aggiungerei anche del degrado educativo contemporaneo.
  • Filmini casalinghi: è una storia sul rapporto tra memoria e identità. La protagonista noleggia sé stessa (sì, il parallelo con la prostituzione è accennato nel racconto) per vivere su richiesta di facoltosi clienti esperienze che poi saranno espiantate dalla sua memoria e trasferite in quella degli acquirenti.
  • Questa è l’era glaciale: racconto post-apocalittico in cui l’intero pianeta è stato sconvolto da una catastrofe improvvisa, cioè tutti gli aggeggi elettrici emettono senza preavviso “frattali di ghiaccio quantistico”, gelidi spunzoni che infilano chiunque nelle vicinanze. In pochi secondi in tutto il globo gli aerei sono caduti, le automobili sono diventate trappole mortali, “portare un telefono cellulare in tasca significava essere trafitti dal ghiaccio nella zona pelvica” (ugh!). Non c’è assolutamente nessuna spiegazione del perché e del percome, semplicemente la storia parte dal post-disastro e racconta sentimenti e vicende di una ragazza che cerca di sopravvivere. Il racconto di per sé non è questa grande cosa, però mi è piaciuto perché io sono un grande estimatore delle storie post-apocalittiche, le quali hanno il merito di ricordarci che tutto ciò che noi occidentali normalmente diamo per scontato (il benessere, la pace, la democrazia eccetera) non lo è affatto.
  • Spedizione, con ricette: altro racconto post-apocalittico nel quale non c’è neppure una vaga spiegazione di COSA abbia ridotto a pezzi la civiltà, semplicemente si descrive la routine di alcuni bambini che cercano disperatamente di non morire di fame. Il racconto è intervallato da alcune paradossali ricette di novelle cousine su topi e scarafaggi.
  • Quill: se mai doveste ritrovarvi tra le mani l’antologia che sto recensendo, nella quale ogni racconto è preceduto dall’introduzione dei curatori, fate un grosso favore a voi stessi: quando arrivate a questo racconto NON LEGGETE L’INTRODUZIONE. Via, distogliete gli occhi, sciò. Perché questi disgraziati, non so se per disattenzione o noncuranza o vero sadismo, ti spoilerano senza preavviso l’ottimo plot twist della storia, ovvero che stiamo parlando di §→ dinosauri intelligenti ←§. Bastardi.
  • Tigre, in fiamme: fantascienza hardcore, tra universi paralleli e fisiche aliene e paradossi temporali, con gradevoli citazioni dalla letteratura classica (a cominciare dal titolo).
  • Damasco: parla di religione. Il titolo si spiega considerato che la protagonista si chiama Paula e si converte a una religione che ti fa letteralmente vedere Cristo al tuo fianco, ma che in realtà è una malattia neurodegenerativa che altera la sua biochimica cerebrale e sostanzialmente coarta il suo libero arbitrio. Dal punto di vista letterario il racconto mi è piaciuto perché è scritto bene, anche se quanto a valori ovviamente stiamo proprio agli antipodi perché la storia veicola la concezione (assolutamente prevalente nella fantascienza mainstream fino a qualche anno fa, tuttora molto diffusa) della fede religiosa come oppiaceo psicologico se non addirittura vera e propria malattia mentale, una cosa alla Dawkins tipo chi pensa non crede e chi crede non pensa.
  • Prevenzione: molto divertente. Gli alieni attaccano improvvisamente il pianeta, ma la loro strategia è molto strana, perché non si curano minimamente di colpire importanti strutture politico-militari ma solo obiettivi ben più secondari. Alla fine viene fuori che §→ gli alieni vogliono eliminare preventivamente la futura minaccia terrestre alle altre razze della galassia… e non siamo noi, tanto ci autodistruggeremo prima. Sono i nostri cani. ←§. Ouch, colpiti nell’orgoglio.

§§§

Ossessione, di Stephen King.
È uno dei primi romanzi di King, a suo tempo pubblicato con lo pseudonimo di Richard Bachman. Era praticamente l’unico suo romanzo che dovevo ancora leggere (a parte le ultime uscite, per quelle aspetto l’edizione paperback), molto difficile da trovare perché King lo ha tolto dalle librerie dopo i vari fatti americani tipo strage di Columbine eccetera, infatti il protagonista è un adolescente che esce fuori di testa a scuola, ammazza due professori e prende in ostaggio una classe. O forse in realtà è la classe che prende in ostaggio lui. I ragazzi cominciano a confidarsi liberamente e vengono fuori un bel po’ delle ossessioni e dei neri segreti di questi “bravi ragazzi”.
La trama è discreta, ma lo stile è ancora un po’ rozzo (il giovane SK doveva ancora affinarsi).

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Guerra al Grande Nulla, di James Blish.
Il titolo originale era A Case of Conscience, ovvero “un caso di coscienza”.
Molto interessante e problematico, è un libro del 1958 (all’epoca ha vinto anche un Hugo Award, una specie di equivalente dell’Oscar nella narrativa sf) che ha per protagonista un gesuita e i suoi dubbi di coscienza. Mandato in missione in quanto biologo sul pianeta alieno Lithia e venuto a contatto con i suoi abitanti rettiliformi (volgarmente chiamati Serpenti!), finisce per concludere che essi sono creature di Satana; e siccome ha attribuito un potere creativo al Diavolo, cade nell’eresia manichea e merita la scomunica.
Le ragioni per cui il gesuita conclude che questi alieni sono figli del diavolo sono essenzialmente:

1)      Abitano in pace ed armonia, in una specie di paradiso terrestre senza malvagità, però non hanno nessuna religione: perciò sono una tentazione diabolica per far credere all’uomo che si possa essere perfettamente buoni senza Dio;

2)      Sono essenzialmente logici, eppure usano un codice morale basato su assiomi morali indimostrati, dei quali non è spiegata l’origine e che sono straordinariamente convergenti con quelli cristiano-occidentali: perciò “la civiltà lithiana è così congegnata da suggerire che si possa giungere a questi assiomi fondamentali del Cristianesimo, e della civiltà occidentale terrestre in generale, attraverso la ragione pura, nonostante il fatto che la cosa non è possibile”;

3)      Il loro sviluppo biologico attraversa una ricapitolazione esterna al corpo, ovvero gli embrioni alieni ripercorrono l’evoluzione della specie da pesci a rettili: perciò sono una tentazione diabolica per convincere l’uomo della validità dell’evoluzionismo.

Ora, io non so quanto James Blish, che da wikipedia risulta un agnostico, conoscesse bene il pensiero cattolico, però devo dire che tutti questi motivi mi sembrano alquanto pretestuosi: l’impressione è che l’autore ne avesse bisogno per portare la trama dove voleva e se li sia cercati non importa quanto scricchiolanti. Provo a sistemare le contro-obiezioni che farei io se fossi un altro personaggio del romanzo, magari un confratello gesuita che accompagna il protagonista (in effetti qualcuno mi dice che talvolta ragiono un po’ troppo gesuiticamente!):

1)      Siamo sul pianeta da troppo poco tempo, qualche mese appena. La nostra conoscenza della lingua e della cultura e della storia lithiana è ancora molto approssimativa. Il fatto che i lithiani non ci abbiamo mai parlato di Dio non è una prova certa del fatto che siano assolutamente atei: la loro cultura potrebbe considerare Dio come una presenza lontana da adorare silenziosamente. Oppure, il loro ateismo morale potrebbe essere la corruzione di una precedente cultura teista, che in seguito a qualche rivoluzione culturale ha abolito la nozione di Dio, mantenendone però in parte gli insegnamenti morali; questo risolverebbe anche la tua eresia manichea, perché è vero che Satana non può creare, però può corrompere ciò che è già stato creato;

2)      Caro confratello, ma non stai dimenticando (come minimo) San Paolo e San Tommaso? Che ne è della legge morale naturale, che Dio inscrive nei cuori di tutti gli esseri umani (e possiamo immaginare anche degli alieni)? Esiste un giusnaturalismo razionale, che il cristianesimo porta a perfezione ma non abolisce. Anche chi è ateo può derivare dalla morale naturale un codice di condotta con nozioni basilarmente corrette di bene e male (pur se il peccato originale e l’opera diabolica complicano questa possibilità). Forse noi siamo semplicemente in un mondo nel quale deve ancora cominciare la Rivelazione.

3)      Aaargh! L’autore nel 1958 si inventa che nel 1995, in una fantomatica “Dieta di Bassora”, la Chiesa cattolica accoglierà contro l’evoluzionismo l’argomento dell’omphalos di Philip Henry Gosse (ne parla anche Jorge Luis Borges in Altre inquisizioni) proposto per conciliare le immense ere geologiche suggerite dalla presenza dei fossili con il dettato letterale della Genesi: Dio crea testimonianze storiche di un passato che è verosimile ma non è vero. Adamo è stato creato con l’ombelico, anche se non aveva madre; i primi animali sono creati già adulti, il che ne presupporrebbe un passato da cuccioli, ma non sono mai stati cuccioli; esistono scheletri di glittodonte, ma non è mai esistito il glittodonte; esiste l’ontogenesi che ricapitola la filogenesi, ma non c’è mai stata la filogenesi; e così via. MA CHE SCHERZIAMO?!? Il problema di questo argomento (non per niente elaborato da un protestante) è il suo estremo fideismo. In base a cosa possiamo credere che il passato verosimile non sia vero? Solo in base alla fede, senza nessun aiuto dall’esperienza o dalla ragione che anzi sono di ostacolo. Questa gnoseologia è decisamente non cattolica. E a questo punto, se esiste un passato fittizio, perché dovrei credere proprio al passato reale proposto dalla Bibbia? Tanto varrebbe fare come fa Bertrand Russell, che in un suo libro ipotizza per assurdo che il mondo sia “realmente” cominciato cinque minuti fa: e come dargli torto? Se tutto ciò che abbiamo per conoscere è la fede, come capiamo/decidiamo in che cosa avere fede?

Insomma, l’impressione finale è che l’autore, seppure animato da buone intenzioni – colpisce la “serietà” del cattolicesimo descritto, nel senso che l’ortodossia cattolica, o almeno quella che Blish reputa tale, è presa estremamente sul serio, specie dai gesuiti… un quadro che sembra lontano anni luce dalla desolante realtà odierna che spesso ci troviamo di fronte: ed era “solo” il 1958, poco più di mezzo secolo fa!!! – sia caduto nel vieto stereotipo in cui cadono spesso i non credenti quando pensano ai credenti: gente che crede, appunto, ma non sa ragionare su ciò che crede.

§§§

Brivido crudele, di Robert Silverberg.
Ottimo Silverberg d’annata, anche se si perde un po’ nel finale. Il titolo originale era Thorns, “spine”, assolutamente calzante perché l’argomento del romanzo è il dolore. I protagonisti sono persone straziate dal dolore: un astronauta reduce da un viaggio interstellare in cui è stato vivisezionato dagli alieni e rimontato in un corpo mostruoso e grottesco (descritto soltanto per sporadiche allusioni, es. i tentacoli sulle dita, le palpebre che si aprono in orizzontale), che gli provoca trafitture ad ogni istante; ed una ragazza a cui per esperimento hanno provocato e negato la maternità (simultanea fecondazione in vitro di cento suoi ovuli, gestazione dei feti in uteri artificiali, e divieto per lei di accudire o vedere anche solo uno dei suoi 100 figli), che vive nella depressione e tenta più volte il suicidio.
Queste agonie si incontrano quando entrambi sono contattati da un magnate della comunicazione, che li convince con false promesse (a lui un corpo nuovo, a lei un paio dei suoi bambini) a diventare i protagonisti dei suoi spettacoli trasmessi in tutta la galassia – avete presente quelle orribili trasmissioni televisive che lobotomizzano gli spettatori a base di gossip di vita morte e misfatti delle celebrità o pseudo tali? Ecco. Quel che i due non sanno è che l’uomo in realtà è un sadico vampiro psichico che si nutre letteralmente della sofferenza altrui, e li manipola prima per metterli assieme (e vendere al pubblico la storia d’amore del secolo) e poi per “mangiare” lo sfascio della loro relazione tra dispetti e odî (e vendere al pubblico la fine della storia d’amore del secolo), perché la loro unione era solo l’insieme di due solitudini aggrappate l’una all’altra per calcolo e disperazione, perché due egoismi non fanno un amore.
Per circa tre quarti il libro mi è piaciuto moltissimo, il finale mi ha lasciato insoddisfatto perché §→ sa troppo di deus ex machina sia il modo in cui i due personaggi apprendono la reale natura del loro sfruttatore, sia il modo in cui lo distruggono, sia la loro unione finale dopo che si erano odiati a morte. ←§. Ma resta comunque un buon libro. Silverberg è un autore estremamente sottovalutato e meriterebbe di essere conosciuto anche dal grande pubblico, tipo un Asimov o un Clarke (a cui è di gran lunga superiore).

§§§

Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento, di Antonio Illibato.
Primo volume di una biografia in tre parti del Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei (nel quale infatti è stato comprato il libro, onde consegnarlo a Lucyette).
La descrizione storica dei quei tempi e luoghi – tra le province di Napoli e Brindisi, verso la fine del regno borbonico – offre un quadro invero assai pessimistico: tra i poveri, un’ignoranza molto diffusa delle verità di fede e il permanere di un sostanziale paganesimo superstizioso; tra i ricchi, il diffondersi dell’odio per la Chiesa, della filosofia hegeliana che dominava nelle università, di “mode” come lo spiritismo e il satanismo (lo stesso Bartolo Longo, prima di convertirsi, da giovane era entrato in una cerchia iniziatica che sperimentava fenomeni medianici); tra il clero, molti sacerdoti santi ma anche molti chierici, come dire, di costumi non irreprensibili. Per non dire della miseria, delle malattie, della mortalità e continuate voi l’allitterazione in emme. Pertanto: se il 2011 è stato un anno brutto, e il 2012 sarà più brutto ancora, ricordiamoci di quando si stava peggio…
Molto interessante anche la parte sulle ansie da neoconvertito del biografato, indeciso se prendere i voti oppure cercare la perfezione cristiana da laico consacrato se non da padre di famiglia: c’è un mezzo capitolo interamente dedicato ai suoi tragicomici fidanzamenti, finì anche per lasciare una poveretta praticamente sull’altare (scherzo, si era “solo” in fase di fissazione della data del matrimonio, ma da quelle parti è comunque una cosa presa molto seriamente…); fatto sta che per certi versi Bartolo Longo ha anticipato la presa di coscienza del ruolo missionario del laico, e della possibilità di santificazione personale in ogni stato sociale, che poi è stata espressa dall’Opus Dei e dal CV II.
Insomma, avevo cominciato a leggerlo di sfuggita nell’attesa di recapitarlo alla destinataria interessata, ed è stata una piacevole sorpresa.

§§§

Pensare Dio – introduzione alla religione, di Giovanni Chimirri.
Uhmmm.
Perplessità.
Si tratta di un altro dei libri comprati a poco prezzo grazie all’intermediazione di Sissi2002. Come si capisce dal titolo, si tratta di un libro di teologia, il quale

attraverso un nuovo tentativo di divulgazione, sviluppa in modo teoretico-sistematico le classiche “questioni” di teologia filosofica, tra cui l’essenza della religione, le deformazioni religiose, il linguaggio teologico, il rapporto ragione-fede, l’ateismo, il male, il nichilismo, soffermandosi sulle dimostrazioni dell’esistenza di Dio, sui vari attributi divini e sul concetto di creazione e rivelazione. La categoria del pensiero, che determina la nuova prospettiva d’indagine del volume, è sempre alla base del discorso, articolato in cinque capitoli e arricchito da un’ampia bibliografia ragionata. Di qui, pur senza rinunciare alla necessaria precisione terminologica (ogni termine “tecnico” o, se si preferisce, specialistico viene di volta in volta opportunamente introdotto e spiegato), il linguaggio è chiaro e semplice, tale da coinvolgere il lettore in una meditazione che rimette comunque in gioco il modo stesso di avvicinarsi e di “pensare” Dio.

Cari lettori, non so voi ma io se leggo l’espressione “nuova prospettiva” unita all’argomento “teologia” mi metto un po’ paura. Di solito quelli che propongono nuove prospettive teologiche o sono santi o sono eretici, e i secondi sono assai più frequenti dei primi.
Ma insomma qual è questa categoria del pensiero che determina la nuova prospettiva? Per adesso ho letto meno della metà, non posso dare un giudizio definitivo, ma la mia opinione provvisoria è che l’autore stia sottilmente proponendo – non so se per confusione in buona fede o malizia deliberata – un cristianesimo impastato di idealismo. Cioè l’idea che il mondo e addirittura Dio siano “reali” perché ed in quanto “pensati” dall’uomo. Ciò si evince, a parte le frequenti citazioni compiaciute dagli idealisti tedeschi (che pure sono sintomatiche), e certi frasi inquietanti di vago sapore hegeliano del tipo “la verità è lo spirito nel suo processo”, da passaggi del tipo:

Infatti il mondo non sa nulla di se stesso, e gli esseri del mondo non hanno coscienza di essere quello che sono; se non ci fosse l’uomo che si serve del mondo e che lo pensa, a nulla esso servirebbe ed è come se non esistesse: che senso avrebbe un essere che non sia essere per una coscienza, un oggetto che non sia un oggetto detto da un soggetto?
[…]
l’essere è essere (ha valore) perché è pensato da qualcuno che lo dice, che lo pone in essere. L’esserci del mondo non può darsi che in forza dell’esserci dell’Io: l’apparire del mondo non è che l’esistenza dell’Io al quale appare quel mondo: se il conoscere deve valere, l’oggetto della conoscenza non soltanto deve essere accessibile e penetrabile all’Io, ma deve essere creato, nel suo valore e verità, dallo spirito dell’Io (da dove il pensiero dovrebbe trarre la verità se non da se stesso?): solo così il nostro pensiero è vero, reale, poiché qui è il reale stesso quello che si pensa ( = autocoscienza, mediazione assoluta). Pagg. 25-26.

o peggio:

Se lo spirito umano arriva a Dio è perché già Dio attraverso il mondo (la natura) era in qualche modo disceso nello spirito umano. Non è tanto il limitato pensiero umano (o la “ragione naturale”) che conosce Dio bensì è lo spirito di Dio che è nell’uomo che conosce Dio; è l’autocoscienza di Dio che si sa nel sapere dell’uomo, è lo Spirito Santo che venendo dato all’uomo permette la relazione di coscienza tra pensiero umano e pensiero divino; relazione per cui da una parte Dio risulta un oggetto immanente alla coscienza umana (come se la coscienza umana fosse l’unica coscienza esistente, ossia la coscienza assoluta, la stessa coscienza divina: non c’è Dio che l’uomo stesso!), e dall’altra Dio risulta invece un soggetto trascendente l’esperienza che l’uomo ha del mondo e di Dio stesso.
[…]
Non bisogna fermarsi al fatto, pur vero ed innegabile, che io trovo in me la rappresentazione di Dio e di Dio come colui che è, dove l’esperienza di Dio si riduce all’essere mio, dove Dio è un oggetto la cui realtà è esaurita completamente dalla mia particolare attività di conoscenza, ma è necessario svolgere questo pensiero immediato in un sapere mediato, dove Dio possa prendere realmente una sua consistenza tanto da diventare egli stesso il Soggetto dell’evento del nostro parlare e pensare. Pag. 60.

Cazzo! Ma che significa che Dio deve “prendere consistenza” e “diventare”? Nel senso che io penso qualcosa e poi mi accorgo che quella cosa non esiste solo nel mio pensiero ma è proprio lì fuori da me? Oppure che “diventa” perché e in quanto io la penso, e prima non c’era (o al limite, hegelianamente, era esistente ma non reale)? E poi che è questa cosa che Dio è il Soggetto del “mio” parlare e pensare? Autocoscienza del pensiero che si pensa?? Subordinazione dell’oggetto al soggetto??? L’essere è essere se l’Io lo pensa???? Correggetemi se sbaglio, non sono esperto di filosofia, ma qua non siamo dalle parti del peggio post-cartesianesimo e precisamente in zona Hegel, che sotto l’apparenza cristianeggiante cela una sostanza estremamente gnostica e antropocentrica (anzi: antropoteista)?
Ma insomma, dottor (dalla quarta di copertina: “licenza in filosofia teoretica e in filosofia teologia” – c’è scritto filosofia e qualcuno ha sbarrato e scritto a penna teologia – “dogmatica presso la Pontificia Università Lateranense, nonché laurea in filosofia morale presso la seconda Università Statale di Roma”, mica niente!) dottor Giovanni Chimirri, parliamoci chiaro, a che gioco stiamo giocando? Esattamente che roba è questo “pensare Dio”?
La risposta a tale angosciante domanda arriverà a libro finito, suppergiù il prossimo mese. Suspence.