- Contact, di Carl Sagan;
- Il fantasma di Canterville e altri racconti, di Oscar Wilde;
- Io sono Helen Driscoll, di Richard Matheson;
- Tutti i racconti di fantasmi, di Montague Rhodes James;
- Primo comando, di Patrick O’ Brian;
Un mese soddisfacente: tutti ottimi libri.
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Vedi post precedente.
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Il fantasma di Canterville e altri racconti, di Oscar Wilde.
Gustosa raccolta di racconti di Wilde, sempre in bilico tra l’umoristico e il poetico.
Particolarmente divertente la storia del fantasma, che offre al pubblico inglese del suo tempo una storia che prende in giro gli americani repubblicani che prendono in giro gli inglesi aristocratici; e infatti alla fine, nonostante l’atteggiamento orgogliosamente plebeo del ministro americano, che vanta continuamente e pedantemente la superiorità dei princìpi democratici statunitensi, la di lui figliola finisce per acquisire titoli nobiliari convolando a nozze con un signorotto britannico, “che è la meta più ambita di tutte le buone piccole bambine americane” – impossibile dire se qui Wilde stia ridendo più degli americani o degli inglesi.
Merita riflessione la prefazione scritta da James Joyce:
Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde né di determinare fino a che punto l’atavismo e la forma epìlettoide della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio. Ma la verità è che Wilde, lungi dall’essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d’Inghilterra, è il prodotto logico e necessario del sistema collegiale e universitario anglosassone, sistema di reclusione e di segretezza. […] L’incolpazione del popolo procedeva da molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura. Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore. Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento, temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L’autodifesa di Oscar Wilde nello «Scots Observer» deve ritenersi valida dinanzi alla sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di Dorian Gray nessuno lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l’ha commesso.
Qui tocchiamo il centro motore dell’arte di Wilde: il peccato. Si illuse credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse) della sua razza, l’arguzia, l’impulso generoso, l’intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l’evo d’oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell’umile, è questa verità inerente nell’anima del cattolicesimo: che l’uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato.
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Io sono Helen Driscoll, di Richard Matheson.
Uno dei grandi capolavori di Matheson. Il titolo originale è A Stir of Echoes, pressappoco traducibile come “un miscuglio di echi”. È la storia di un uomo che, sottoposto per scherzo a ipnosi, scopre le proprie latenti e incontrollabili facoltà telepatiche e ne deve affrontare le conseguenze, tra cui il vedere uno spettro nel soggiorno. Il protagonista vorrebbe ignorare questa nuova consapevolezza, che gli fa percepire i lati nascosti e mostruosi dei vicini di casa con i quali deve pur necessariamente condurre una vita sociale; vorrebbe far finta di niente, continuare la tranquilla vita di prima, ma non può: una volta che hai visto la verità, non puoi più “far finta di niente”.
Ho sempre trovato molto significativa questa storia; l’avevo anche citata descrivendo la mia conversione al cattolicesimo, quando pure io avevo visto una verità che avrei voluto ignorare, ma… non potevo, proprio non potevo. E ora sono qui.
Un libro vivamente consigliato. Per tutti, non solo per gli appassionati del genere.
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Tutti i racconti di fantasmi, di Montague Rhodes James.
L’autore, vissuto tra il 1862 e il 1936, è un caposaldo della letteratura gotica. Finora lo conoscevo soltanto di nome, per averne letto lusinghieri elogi da parte di Stephen King e Howard Phillips Lovecraft; il che era già un validissimo biglietto di garanzia; e quando ho trovato in libreria a poco prezzo (4,9 € / 354 pagine / 31 racconti) questa sua raccolta omnia di ghost stories, non ho resistito.
(N.B. io sono vittima perenne delle tentazioni antologiche: se un libro mi promette di contenere un qualche “tutto” di qualcosa o qualcuno, inevitabilmente sento che DEVO averlo; se c’è qualcuno là fuori che soffre della mia medesima patologia, alzi la mano)
La narrativa di MRJ è elegante, le sue storie (che era solito inviare agli amici come regalo di Natale) perturbanti. Fa leva sull’inquietudine sottile più che sul terrore aperto. I protagonisti sono spesso professori, bibliofili, chierici; le locations chiese, biblioteche, brughiere. Degno di nota è che spesso l’autore descrive un fatto, ma non ne dà alcuna spiegazione, neppure di ordine sovrannaturale: l’effetto suggestivo prodotto sulla fantasia del lettore è potentissimo.
Prendiamo ad esempio il racconto che mi è piaciuto di più, Una storia dei tempi di scuola. In una sala d’albergo un uomo rievoca fatti strani che accaddero al suo professore di latino, il quale portava sempre con sé un ciondolo con incise le sue iniziali, GWS, e una data, 24/07/1864 (la storia si svolge nel 1870). Accadde dunque che una volta questo professore avesse assegnato per esercizio la composizione di frasi con il verbo “ricordare”, ed uno degli studenti scrisse – senza saper spiegare come gli fosse saltata in testa – la frase memento putei inter quatos taxos (ricordati del pozzo tra i quattro tassi), ciò che rese molto pensoso l’insegnante; un’altra volta aveva assegnato la composizione di frasi con il condizionale, ed uno degli esercizi sulla scrivania – i fogli erano diciassette; ma gli studenti erano solo sedici – diceva si tu non veneris ad me, ego veniam ad te (se tu non verrai da me, verrò io da te); ed infine il narratore riporta de auditu che una notte un suo compagno di classe, guardando nelle finestre dell’appartamento del docente, vide “una figura magra e bagnata” fare “dei cenni” al professore. Il giorno dopo l’insegnante scomparve dalla scuola e non se ne seppe più niente. La rievocazione dei tempi di scuola finisce qui. Qualche tempo dopo uno degli uomini che ascoltavano la storia, trovandosi in un altro albergo in compagnia di altri commensali, viene a sapere di un piccolo mistero della zona: anni prima erano stati trovati, in un pozzo al centro di un boschetto di tassi, i cadaveri di due persone, di cui una abbracciava l’altra. Tra i brandelli di vestiario di uno dei due era stato trovato un ciondolo con l’incisione GWS 24/07/1864.
Tutto qui. L’autore non dice nulla sul chi, come, perché. Non sapremo mai quale sia l’evento accaduto il 24 luglio del 1864. C’è solo un fatto: un uomo riceve un richiamo dall’oltretomba e obbedisce. Di quell’abbraccio nella morte, e delle circostanze che lo hanno determinato, non sapremo mai nulla, possiamo solo supporre: eppure proprio per questo colpisce e stimola così tanto la nostra immaginazione.
MRJ era un grande scrittore. Qui c’è molto da imparare.
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Primo comando, di Patrick O’ Brian.
Primo libro (seguito da altri 19 volumi più un postumo incompleto! urgh!) della saga di mare e amicizia di Jack Aubrey & Stephen Maturin. Il titolo originale è Master and Commander (immagino si riferisca al personaggio di Aubrey, che qui inizia la sua carriera di capitano); ne è stato tratto un film, che non ho visto, con Russell Crowe e Paul Bettany. Avendo letto opinioni favorevoli della saga, qui e ovviamente qui, ho iniziato per esperimento il primo della serie.
All’inizio ho trovato la lettura molto difficile, perche l’autore infarcisce la sua narrativa di termini nautici; e per me che ho al massimo una vaga nozione di cos’è la prora, per non parlare della poppa, è stato oltremodo improbo districarmi tra termini esoterici come addugliare, bompressi, coltellaccino, draglia, fileggiare, gaettone, intregnare, lapazzare e via dicendo. Ho avuto la tentazione di mollare la zavorra e veleggiare verso lidi più comprensibili; e sono rimasto a galla solo in un modo.
Nelle Postille al Nome della Rosa, Umberto Eco scrive che “un ragazzo di diciassette anni mi ha detto che non ha capito nulla delle discussioni teologiche, ma che esse agivano come prolungamenti del labirinto spaziale (come se fossero musica thrilling in un film. Di Hitchcock)”. Ecco, per me è successa un po’ la stessa cosa con i termini nautici: non ci capivo niente, ma fungevano da colonna sonora dell’azione; come quando senti una canzone con termini stranieri di cui, anche se non sai il significato, apprezzi la musicalità, che fa da amplificatore emotivo alla storia. In quei paragrafi ho rinunciato a capire con precisione il chi e il cosa, e la storia, perdendo in profondità, ha guadagnato in linearità.
A parte i problemi di vocabolario, la storia merita di per sé. I personaggi meritano. Il distico di caratteri tra il sanguigno capitano Aubrey e il pacato medico di bordo Maturin è ben accostato e fa sperare per il futuro, così come sono soddisfacentemente delineati i personaggi di contorno e il panorama storico del periodo.
Penso che proseguirò la saga, mi considero arruolato.