C’è questo racconto che si chiama Nanomacchine a Clifford Falls, scritto da Nancy Kress, ed è il primo racconto contenuto nell’antologia Controrealtà, il numero 52 di Urania Millemondi (agosto 2010). È un ottimo racconto e ve lo voglio far conoscere. Se non avete problemi con l’inglese potete direttamente leggerlo qui (html) o qui (pdf), altrimenti vi dovete accontentare del mio riassunto.
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Fondamentalmente la storia parla della fine del mondo.
La protagonista, narratrice in prima persona al tempo passato, è una madre di tre bambini che è appena stata abbandonata dal marito (il bastardo se l’è filata con un’altra). Abita in un piccolo paese della provincia americana, in mezzo alla prateria, che è appunto Clifford Falls. La donna è in giardino a lavorare (“proseguii a strappare le erbacce, asciugandomi il sudore dalla fronte” – non so se sia una citazione voluta) quando un vicino l’avverte che in paese è arrivata l’ultima novità tecnologica, cioè le nanomacchine: aggeggi che producono istantaneamente qualsiasi cosa, cibo, vestiti, beni di lusso, tutto quello che è nel catalogo. Il sindaco della città tiene sempre accese la nanomacchine e la gente prenota i turni per chiedere quello che vuole. La narratrice guarda gli altri mettersi in coda, ma non chiede niente, anche se ne avrebbe bisogno perché ha grossi problemi economici ora che è da sola; non motiva la sua avversione per le nano, ma lascia che emerga spontaneamente dal narrato.
All’inizio tutto sembra andare bene. Gli abitanti del paese hanno tutto il cibo gratis che vogliono, vestono bene, guidano macchine eleganti. Un’amica della protagonista ostenta orecchini con veri diamanti; lei e suo marito si stanno facendo costruire dalle nano una nuova casa sul lago, un pezzo alla volta. Il marito ha lasciato il lavoro in fabbrica, perché ora non c’è più bisogno di lavorare. A un certo punto la narratrice finisce i soldi e le scorte alimentari, vince la propria ritrosia e comincia a ordinare una razione di cibo quotidiano prodotto dalle nano. Però continua anche a lavorare il proprio giardino.
“Alla fine di agosto la fabbrica aveva chiuso. In città la maggior parte degli uomini che non facevano i contadini perse il lavoro, ma nessuno sembrò preoccuparsene molto. Il Bar del Corvo era pieno tutto il tempo di gruppi di individui che giocavano a carte o ridevano davanti alla tv.”
“Il granturco delle fattorie, pronto per il raccolto, restava nei campi. Nessuno voleva comprarlo, e a eccezione dei proprietari terrieri, nessuno era stato assunto per raccoglierlo.”
Poi cominciano i problemi.
La protagonista va a trovare la sua amica e scopre che il marito le ha fatto un occhio nero, perché “è terribile per gli uomini rimanere a riposo, diventano così annoiati da impazzire, gira per casa con sguardo minaccioso, sgrida i bambini, critica ogni cosa che faccio, ordina whisky alla nano”, ma lei si aggrappa al pensiero che “la nostra nuova casa sul lago sarà finita in poche settimane, e poi tutto andrà meglio!”.
La scuola del paese soffre deficit di personale, perché “molti insegnanti non vogliono lavorare quando non devono, e perché mai dovrebbero?”. E la situazione è destinata a peggiorare, perché “l’ufficio delle tasse non sta raccogliendo molto denaro perché nessuno guadagna, e la tv dice che il governo sta cadendo un pezzo dopo l’altro. Quanti insegnanti resteranno, quando smetteranno di essere pagati?” La protagonista tiene a casa i figli e fa da maestra. In cambio di cibo accetta di fare lezione anche ai figli di una coppia di contadini della zona, che sta andando in rovina perché non riesce a raccogliere il fieno per nutrire gli animali.
Il contadino accetta il baratto, ma insiste per mostrare alla protagonista “l’altra faccia della medaglia”. La porta in un’ala della fattoria piena di strane apparecchiature e le presenta una donna con camice da laboratorio che
“una volta lavorava per la Camry Biotech, che ha appena cessato l’attività. È una genetista delle piante. Sta lavorando a creare una pianta di granturco apomittico, cioè che non abbia bisogno dell’impollinazione, così i coltivatori non sarebbero costretti a comprare semi ogni anno.”
“Non ci ho potuto lavorare molto sopra, prima. La ditta di biotecnologie voleva che lavorassimo a cose che dessero profitti più immediati. Ma ora che non ho più bisogno di guadagnarmi uno stipendio, che i grandi laboratori stanno chiudendo i battenti, e che posso ottenere le attrezzature che voglio dalle nano… la nanotecnologia mi rende possibile fare del vero lavoro!”
Intanto il vandalismo si sta diffondendo a livello nazionale. Nei grandi centri urbani le cose vanno sempre peggio, perché “un sacco di persone senza lavoro significava che un sacco di cose guaste non venivano aggiustate. Le nano non potevano fare tubi dell’acqua, testi scolastici, autobus e gabinetti. Non potevano installarli o insegnarli o guidarli.”
La protagonista cerca di andare avanti come può. Ospita a casa sua una ragazza quindicenne, perché “il suo patrigno aveva preso a entrare nella sua stanza la notte.” Una sera due uomini fanno irruzione e tentano di stuprarle. Ne escono indenni perché la ragazza tira fuori una pistola e li uccide a sangue freddo. La narratrice prova a chiamare il 911, ma non risponde nessuno se non un nastro registrato.
“Carenza di organico.”
La protagonista e figli si trasferiscono alla fattoria, dove ormai vivono decine di persone in gruppo per proteggersi. A un certo punto il bastardo, cioè il marito della narratrice, si rifà vivo e le chiede di perdonarlo. Lei gli dà una possibilità. Poi lui se ne va di nuovo.
La comunità si ingrandisce. Il contadino detta le regole: chi vuole può usare le nano macchine, ma non per fare cibo o vestiti o riparo o qualcosa di cui si abbia bisogno per sopravvivere: per quelle bisogna lavorare. Tutti devono fare qualcosa di utile, e chi non lo sa, lo impara. Un giorno la protagonista va al lago a pescare, e trova una casa bruciata fino alle fondamenta, tra le ceneri un orecchino di diamante. Lo lascia lì.
“Le cose sono messe piuttosto male qui adesso, sebbene la TV dica che stanno andando meglio “man mano che la società si adatta al più cataclismico dei mutamenti sociali”. Non so se sia vero. Immagino che la situazione sia variabile. Ci sono state parecchie sommosse ed epidemie e incendi. In alcuni posti resta un po’ di governo centrale, in altri no, altri sono come noi adesso e si autogovernano.
Qualcuno dice che la nano è opera di Satana. Qualcun altro dice che è un dono di Dio. Quanto a me, penso qualcosa di diverso. Penso che la nano abbia fatto una selezione. Come quando, una volta, la gente con soldi e istruzione e belle cose fu messa da una parte e il resto di noi da un’altra. Ma la nano ci ha separati in due file differenti: quelli a cui piace lavorare perché è ciò che fanno, e quelli a cui non piace.
È come se tutti avessero vinto alla lotteria nello stesso momento. Una volta ho visto in tv uno spettacolo sui vincitori delle lotterie, un programma che li seguiva per un anno o due dopo che avevano vinto una somma proprio grossa. La maggior parte stava peggio di prima: miserabili e di nuovo in bolletta e con i parenti furibondi. Ma alcuni usavano il denaro per vivere meglio. E altri si limitavano a dare quasi tutto in beneficenza, e tornavano a badare a se stessi.”
Il racconto si chiude com’era iniziato: la protagonista in un giardino, a lavorare la terra. Ma adesso sta insegnando a sua figlia. “Ha solo cinque anni, ma non è mai troppo presto per imparare”.
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E insomma, questa è la storia.
Cosa ne pensate?