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Libri marzo 2013


La Chiesa di Francesco, di Vittorio Messori.

 Vi è qui forse la maggiore delle attuali deformazioni, insidiosa in quanto apparentemente meritoria: la Chiesa come la maggiore delle ONG, una organizzazione di filantropi dediti a soccorrere i bisognosi di assistenza materiale. Nobile ideale, ma che a un cristiano non può bastare.

 È un instant book di piccole dimensioni, pubblicato dal Corriere della Sera immediatamente dopo la conclusione del conclave. Per quanto la copertina possa fuorviare, il libro parla decisamente poco di Bergoglio (un po’ all’inizio, e poi alla fine ci sono degli “appunti per una biografia” a cura di Carlo Alberto Brioschi) ed è invece incentrato sulla Chiesa; infatti, si tratta fondamentalmente di una grande espansione dell’articolo “Ipotesi sul Papa e sulla Chiesa che verrà” pubblicato il 17 febbraio scorso sul Corriere – piccola curiosità: nel quale articolo, ho scoperto rileggendolo, era già contenuta la famosa ammonizione sulla Chiesa come ONG che poi ha segnato l’esordio del pontificato di Francesco… Messori profetico? Ma no, semplicemente dotato di buonsenso.

Tuttavia, ove mai vi cogliesse spontanea la delusione perché vi aspettavate un libro sul nuovo pontefice, leggete il libro e vi ricrederete subito; si tratta di un’analisi a tutto tondo della realtà ecclesiale, cronaca e apologetica, con il tipico stile disincantato ma non cinico cui Messori ci ha ormai abituato. Come al solito la prospettiva non è né l’aut-aut di matrice protestante che porta ad estremi unilaterali, né la sintesi che cerca un impossibile compromesso tra inconciliabili, ma piuttosto l’et-et cattolico: lo sguardo che di ogni problema misura sia l’aspetto umano sia quello soprannaturale, vede questo e quello, e tiene tutto assieme.
La Chiesa che emerge da questo libro è piena di problemi, inutile nasconderselo; certi aneddoti rievocati dall’autore, come i seminaristi sessantottini che accolgono il loro vescovo gridando “viva Marx viva Mao”, o i novizi del monastero che protestano e ottengono di non fare la Benedizione Eucaristica dopo cena perché c’è la finale di Champions in tv, fanno più tristezza come rabbia. Eppure al tempo stesso la Chiesa è ancora vitale, ha più risorse di quante appaiano agli occhi del mondo, e lo dimostra la veloce efficienza con cui ha gestito l’epocale transizione senza precedenti da Benedetto a Francesco.

Paradossalmente ma neanche tanto, La Chiesa di Francesco è forse il più ratzingeriano dei libri di Messori (al limite il secondo, ovviamente dopo quel Rapporto sulla Fede di cui Ratzinger era coautore). Il lascito intellettuale del precedente Papa si sente in molte pagine, nelle considerazioni tanto sulla radice ultima dei problemi, cioè la perdita della fede esplosa dopo il Concilio Vaticano II, quanto sulla soluzione: recuperare la fede, tornare alla fede, applicare il Concilio per come i vescovi l’avevano scritto e non per come i teologi venduti al mondo l’hanno stravolto.
Che questo sia anche l’obiettivo primario del Papa attuale, lo speriamo vivamente, ma attendiamo ben volentieri un prossimo libro di Messori a confermarcelo.

 

L’inconfessabile e il confessato, di Lino Ciccone.

Se vedo un libro che ha sulla copertina un’immagine tratta da LOST, le mie mani si protendono automaticamente verso il libro in questione. Qui poi la copertina è particolarmente adatta, visto che raffigura l’indimenticato Charlie davanti al confessionale (ep. 1×07 “La falena”) e il libro parla per l’appunto di confessioni, dal singolare punto di vista di colui che le amministra.

La struttura è quella di un vero e proprio eserciziario: nella prima parte ci sono “i casi”, le fattispecie raccontate dall’ipotetico penitente in cerca di conforto; nella seconda parte ci sono “le soluzioni”, cioè le valutazioni morali da dare. Il lettore ha tutto l’agio di leggere il caso, applicare il proprio senso morale, e poi andare a controllare.
Il proposito è quello di aiutare i sacerdoti, per consigliarli in questo difficilissimo ministero, eppure il testo si rivela estremamente utile anche per ogni altra tipologia di lettore interessato. L’autore nella prefazione spiega senza mezzi termini la sua posizione difficile, il rischio di essere “visto come un moralista incallito preconciliare, con un deprecabile ritorno alla morale casistica, largamente superata, dal Concilio in poi, per una morale rinnovata”. Laddove la differenza pratica tra queste due impostazioni sta nel fatto che, nei manuali di Teologia Morale per la formazione dei futuri sacerdoti,

 i casi di coscienza erano sistematicamente intrecciati con l’esposizione della dottrina, che veniva così continuamente messa a confronto con la vita vissuta. Questa Teologia Morale aveva perciò come principale obiettivo quello di delineare nei vari ambiti del comportamento umano dove comincia a esserci peccato, e quando il peccato è da valutare come mortale. Il Concilio ha radicalmente cambiato questa impostazione, stabilendo che l’esposizione della Teologia Morale, «maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» (decr. Optatam totius, n. 16.4).
Nessuno dubbio sulla validità e sui vantaggi enormi di un tale rinnovamento, e non è questa la sede per illustrarli. Ma ne è pure derivato il rischio, per i candidati al presbiterato,  di trovarsi alla fine arricchiti di una visione altamente positiva della morale cristiana, ma impreparati sia al ministero della confessione, sia a trovare, in qualunque altra sede, soluzioni correttamente fondate a problemi morali concreti che si presentano nella vita.

Insomma, per come la vedo io, qui ci sono due estremi errati da evitare entrambi: o le maglie di un legalismo arido che tratta le questioni morali con l’impersonalità d’un libro di matematica, per cui se questo allora questo e dunque quest’altro = peccato (e questo era il rischio di “prima”); oppure un sentimentalismo di belle parole dove però alla fine molto/troppo/tutto dipende dalla coscienza soggettiva, cioè di fatto spesso la coscienza male (in)formata, per cui va a finire che oltre alle belle parole non resta granché da dire a chi chiede giudizi per riconoscere il male compiuto e consigli concreti per rimediarvi (e questo è il rischio di “adesso”).
Il libro evita entrambi questi sbandamenti, grazie alla strada maestra cui si attiene l’autore: distinguere sempre i due aspetti della valutazione oggettiva dell’azione e della valutazione soggettiva della persona. E infatti non sono pochi i casi in cui “la soluzione” è che l’azione è moralmente sbagliata, ma l’autore è poco o niente colpevole per tutta una serie di elementi che sono sempre spiegati in maniera chiara e lineare nei limiti del possibile.
I “casi” sono 30, esposti dettagliatamente, e decisamente spinosi. Ho scoperto di non essere così moralista come credevo, perché per alcuni non avevo la minima idea di quale fosse la “soluzione”. C’erano certe storie che vorresti dire “vabbè ma questo è un film” e poi pensi che cose così succedono davvero, e sei contento di non essere tu al posto del prete che deve confortare e consigliare il povero disgraziato che te le racconta; per esempio la storia del bravo ragazzo cattolico buona-laurea-ottime-prospettive-fidanzamento-casto-tra-poco-si-sposa che viene convinto a fare un addio al celibato dagli Amici Poco Raccomandabili che lo drogano a sua insaputa e lo fanno ubriacare e lo portano in discoteca e rimorchiano La Prima Che Ci Sta con cui organizzano un’orgia e il povero bravo ragazzo cattolico dice no no no però poi alla fine cede e la mattina dopo si svegliano e scoprono che la ragazza è scomparsa però come nella canzone di Elio ha lasciato scritto sullo specchio del bagno “BENVENUTI NELL’AIDS MUAHAHAHAHA” e tutti vanno nell’orrore totale e il ragazzo dice la mia vita è finita sono condannato m’ammazzo poi ci ripensa e va dal sacerdote a confessarsi e chiedergli consiglio su che cosa fare e come metterla a nome con il matrimonio prossimo venturo e se è moralmente tenuto a dire alla promessa sposa che le ha messo le corna e che potrebbe attaccarle il virus.
Argh.

E che gli dici, a uno così?

 

Le quattro cose ultime – La supplica delle anime – Nell’orto degli ulivi, di Thomas More.

Il volume della Ares è una manna, racchiude ben tre libri: Le quattro cose ultime, una meditazione sui Novissimi rimasta però incompiuta perché arriva solo a due; La supplica delle anime, una trattazione del purgatorio; Nell’orto degli ulivi, una meditazione sull’orazione di Cristo poco prima della Passione.

La più interessante mi è parsa l’opera di mezzo. More la scrisse in risposta al luterano Simon Fish, un polemista che aveva scritto il libello La supplica dei mendicanti per negare l’esistenza del purgatorio e per attaccare la Chiesa. Il titolo si spiega perché, secondo Fish, i poveri d’Inghilterra implorano la soppressione della Chiesa e l’incameramento dei suoi beni, dal quale avrebbero tutto da guadagnare. More replica con questo testo scritto dal punto di vista delle stesse anime del purgatorio, che impugnano la penna per difendere la propria esistenza e chiedere di non essere abbandonate dalle preghiere dei vivi. Il pamphlet è bipartito: nella prima parte le anime rispondono per le rime contro gli argomenti di Fish (che vista l’inconsistenza di certi suoi ragionamenti pare una specie di troll ante litteram, sul serio, certe cose non cambiano mai), nella seconda elencano le ragioni a favore dell’esistenza del Purgatorio, fondamenti biblici compresi.
Quest’ultima è particolarmente degna di nota perché More, contro l’argomento luterano “nella Bibbia non si parla di Purgatorio, se l’è inventato la Chiesa cattolica”, non si limita ad attaccare il concetto di sola scriptura ma al contrario fa leva proprio sulla scrittura stessa, individuando dieci passi biblici da cui a suo dire si evince la nozione di una purificazione post-mortem dei defunti (che poi è il problema di fondo del sola scriptura, cioè l’incoerenza con le sue stesse pretese: il “vale solo la Bibbia” ci mette poco a diventare “valgono solo quei passi della Bibbia che dico io”).
Dal basso della mia miserrima conoscenza biblica, alcuni di questi dieci passi mi sembrano un po’ tirati per i capelli, altri invece mi sembrano convincenti e risolutivi. Comunque me li sono segnati tutti in vista di un futuro post.

 

Sono così felice – Montserrat Grases, una ragazza verso gli altari, di Flavio Capucci.

 La breve biografia di Montserrat Grases, morta nel 1959 a diciassette anni e mezzo per un sarcoma di Ewing. È in corso il processo di beatificazione e l’autore è per l’appunto il postulatore della causa.

Una bella storia.


Giuseppe sposo di Maria, di Federico Suarez.

Volume di spiritualità incentrato sulla figura di San Giuseppe, che nei Vangeli appare poco, ma così poco che onestamente io – ingenuo – pensavo che in effetti non ci fosse chissà che da dire.
Invece, a quanto pare, c’è eccome: il libro esamina ogni singolo passaggio evangelico relativo a San Giuseppe, e per ognuno riesce a fare una meditazione sensata, perfino non banale.

 

Il quarto segreto di Fatima, di Antonio Socci.

Tutta la storia di Fatima e di questo secolo sta in questa drammatica incapacità di Pietro, degli uomini di Chiesa e dell’umanità di affidarsi pienamente a Colei che è «onnipotente per grazia». Incapacità di confidare in Lei veramente e totalmente. Quasi che le possibilità di salvezza potessero venire per Pietro (solo) dalle sue iniziative, dalla politica vaticana, da propri progetti di riforma della Chiesa.

 Per capire la sensazione che destò a suo tempo questo libro, sarebbe utile rileggersi un articolo del maggio 2007 dello stesso Socci, scritto con il solito tono pacato e sereno che gli è proprio, per replicare a Mons. Tarcisio Bertone. Quest’ultimo infatti nel suo libro L’ultima veggente di Fatima. I miei colloqui con suor Lucia, scritto proprio in risposta a tutti i contestatori fatimisti, ribadiva la sua versione “ufficiale” e gratificava la versione di Socci del prezioso epiteto di “farneticante”.
Prendo subito posizione dicendo che io ho trovato questo “quarto segreto” impressionante come un horror, avvincente come un giallo, e convincente come un teorema. Certo prima di raggiungere una certezza interiore mi riservo di leggere anche l’altra campana, cioè il libro di Bertone, le cui argomentazioni potrebbero anche essere più valide di quanto non sembri a sentire Socci; però quest’ultimo considera così tanti dati di fatto, vaglia anche altre apparizioni e rivelazioni es. il sogno delle due colonne di Don Bosco oppure La Salette, tuttavia non esita a smarcarsi dalle teorie più deliranti e non ha il gusto del sensazionalismo a prescindere, insomma la sua ricostruzione mi ha preso e l’unica critica che posso muovere al libro è che l’esposizione dei fatti a volte si muove troppo disinvoltamente da un periodo storico all’altro, è in alcuni punti un po’ confusa (una cronologia finale avrebbe aiutato molto il lettore a raccapezzarsi), però farneticante non m’è sembrata proprio.

 Ma dunque, quali sono gli oggetti del contendere tra la versione ufficiale e quella di Socci? Sintetizzando:

 1)   La Madonna a Fatima aveva chiesto la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato. L’hanno accontentata?

  • UFFICIALE: sì, con gli atti di consacrazione del 1981 e del 1984.
  • SOCCI: no, questi atti consacrano (anzi “affidano”) il mondo tutto intero, non la Russia come era stato specificamente chiesto, perché in Vaticano si aveva paura di scatenare la rappresaglia comunista. E non vale dire che tanto è la stessa cosa perché nel mondo c’è anche la Russia: se la Madonna ti chiede una cosa, la fai alla lettera.

 2)   Il testo del terzo segreto rivelato dal cardinale Ratzinger nel 2000 descrive il martirio di un Papa. È già successo?

  • UFFICIALE: sì, è l’attentato subito da Giovanni Paolo II. La profezia si è conclusa, stop.
  • SOCCI: in realtà Ratzinger ha detto che la Chiesa non vincola i fedeli ad una interpretazione ufficiale della profezia. Pertanto si può anche pensare, come fa Socci per motivi dettagliatamente argomentati, che il peggio debba ancora venire e che il Papa pubblicamente martirizzato ci sarà davvero. Il libro presenta anche un’appendice che esamina il terzo segreto dal punto di vista paleografico, linguistico e traduttologico.

 3)   Il terzo segreto è stato interamente rivelato?

  • UFFICIALE: sì, nel 2000.
  • SOCCI: no, perché si divideva in due parti diverse. C’è ancora una parte, che la Madonna aveva detto avrebbe dovuto essere rivelata a partire dal 1960, ma che in Vaticano hanno deciso di seppellire perché troppo dirompente, difficile da far capire alla gente, suscettibile di essere usata per danneggiare gravemente la Chiesa. Questa parte nascosta del terzo segreto (che prosegue direttamente da quel “etc.” con cui si concludeva il secondo) è proprio quella che Socci chiama “quarto segreto”.

 Ovviamente Socci non può dire con precisione cosa caspita contenesse di così esplosivo questo quarto segreto. Però è possibile, da tutta una serie di fattori – le lettere e il comportamento di suor Lucia, una certa cosa detta da Mons. Loris Capovilla che fu segretario di Giovanni XXIII (che Francesco ha incontrato all’inizio del suo pontificato), alcune dichiarazioni di Giovanni Paolo II, e molto altro ancora – farsene un’idea generica, o meglio una serie di ipotesi legate tra loro.

Per comodità espositiva io qui raggruppo queste ipotesi, che vanno tutte nella stessa direzione, in tre “gradi” di gravità crescente:

1) Il primo “grado”, sul quale Socci è del tutto certo (e, per quel che vale, mi ci ha convinto) è che il quarto segreto parli della grande crisi di fede nella Chiesa che sarebbe venuta negli anni del post-concilio (ecco il perché della data del 1960). In particolare, visto che il secondo segreto si chiude dicendo “in Portogallo si conserverà la fede, etc.”, si può pensare che la frase fosse una comparazione e continuasse con una cosa tipo “in altri luoghi, invece, no”. Chiaramente una rivelazione del genere, fatta dalla Madonna, avrebbe alquanto smorzato certi facili entusiasmi sulla “nuova pentecoste”…

2) Il secondo “grado” è che il testo nascosto non profetizzi semplicemente la grande crisi di fede, ma ne indichi anche i responsabili. Il quarto segreto avrebbe predetto l’apostasia silenziosa e/o il compromesso col mondo di una gran parte del clero, vescovi compresi, e per questo sarebbe stato visto con incredulità e spavento. Anche qui, visti i tempi attuali (e purtroppo non ci mancano esempi…), una profezia di tal fatta sarebbe da meditare attentamente.

3) Il terzo “grado” è ESTREMO. Socci non ci crede, non lo afferma come sua personale convinzione, si limita a farsi domande senza risposta. E anche io sono decisamente scettico di fronte a una simile sconvolgente prospettiva. In sintesi la teoria, supportata dagli ambienti più estremi come sedevacantisti eccetera (tutto quel tradizionalismo cattolico così hardcore che ha fatto il giro dall’altra parte ed è diventato tradizionalismo scismatico) è che la profezia parlasse di una crisi che sarebbe arrivata fino al gradino più alto, fino al soglio di Pietro. Un Papa, se non proprio apostata – ovviamente non manca chi sfocia nel millennarismo spinto e tira in ballo anche l’Anticristo e la fine del mondo e la guerra termonuclerare globale eccetera eccetera – quantomeno indegno del suo ruolo, oppure vittima di tragici errori di valutazione in campi che pur non toccando direttamente la sua infallibilità nondimeno avranno conseguenze molto gravi, e che infine avrà molto da soffrire. Un Papa che potrebbe anche essere il Papa descritto nel terzo segreto cioè la parte resa pubblica: il Papa martirizzato, “afflitto”, ovvero forse (Socci dà conto di una possibile traduzione alternativa dal portoghese dell’aggettivo acabrunhado) “pentito”. Ma pentito di cosa?

Certo si comprende la paura che simili profezie, se esistono davvero, una volta rese pubbliche potessero diventare armi in mano ai nemici della Chiesa per danneggiarla quanto il contenuto delle rivelazioni stesse. Ma si comprende altresì la rabbia di chi, come l’autore, dice semplicemente: ma scusate, se la Madonna aveva chiesto una cosa, perché non l’avete accontentata? Avete più fiducia in Dio e nella Madonna o nei vostri calcoli umani?
Una volta sfogliata l’ultima pagina (sfogliata metaforicamente: il libro l’ho preso in ebook su amazon al più che modico prezzo di € 3,90), mi chiedo: quanto c’è di vero? quanto di falso? E soprattutto: cosa cambia? Che differenza fa nella mia vita, qui e ora, ciò che dice questo libro? Quale che sia stato il vero contenuto dei Messaggi di Fatima, si tratta di un contenuto (per dirla alla ratzinger) performativo, non semplicemente informativo: ma cosa si suppone debba performare in me? Cosa devo fare?

La risposta è semplice. Pregare. Pregare di più, pregare meglio. Non vedo altra alternativa. Non posso sapere come sarà il futuro che ci aspetta, ma so che questo è l’unico modo di arrivarci ben preparato.

 

Duello nel mar Ionio, di Patrick O’Brian.

Gli descrissero allora ciò che significava la conquista di una città cristiana da parte di truppe turche, in particolare di quelle irregolari, i bashi-bazuk, totalmente indisciplinati e impiegati da Ismail: assassinii, ovviamente, le donne stuprate e gli uomini e i bambini sodomizzati, ma anche la orribile profanazione delle chiese, delle tombe, di tutto ciò che era sacro. La vista di quegli uomini anziani e pieni di dignità che s’inginocchiavano davanti a lui nella cabina fu una cosa incredibilmente penosa, più penosa di qualsiasi altra esperienza che Jack avesse mai fatto.

 Avendo superato oramai un terzo della saga, essendo questo l’ottavo volume su 21, ne approfitto per a) ricapitolare i precedenti volumi b) fare un po’ di valutazioni generali e per forza di cose rivelatorie.
Perciò se non v’importa degli spoiler avventuratevi pure dopo l’elenco, altrimenti fermatevi immediatamente.

  1. Primo comando
  2. Costa sottovento
  3. Buon vento dell’ovest
  4. Verso Mauritius
  5. L’isola della desolazione
  6. Bottino di guerra
  7. Missione sul Baltico

 

Mi è parso il libro più malinconico della saga. I protagonisti sono ormai arrivati in quella fase della vita dove si fanno i bilanci provvisori, si pesano i successi e i fallimenti, le aspettative di partenza e quanto si sono effettivamente realizzate, e così via.

 Jack, dunque. Una volta nella flotta era famoso come Jack il Fortunato, ma adesso quei tempi sono passati. Addirittura lui si vede in piena parabola discendente, anche se temere di finire pubblicamente frustato è un po’ troppo. Mi ha fatto un po’ pena vederlo di nuovo strapazzato dal detestabile ammiraglio Harte, ancora rancoroso per quella vecchia questione di corna, e anche se alla fine Jack gli ha dato il fatto suo, l’episodio è stato comunque decisamente sgradevole.
Certo ci sono i problemi concreti – il padre dissennato, la paura della rovina economica della famiglia, una moglie amatissima a cui però Jack non risparmia qualche scappatella in “letti meno santificati” – ma il difetto che più mi colpisce in lui, forse perché l’ho visto più volte all’opera nella vita reale, è non dico l’ambizione (che non necessariamente è un difetto) ma piuttosto uno sgradevole effetto collaterale dell’ambizione non purificata, cioè l’incapacità di apprezzare il presente. Ecco allora che vedi benestanti che vogliono diventare proprio stra-ricchi, e in mancanza si percepiscono poveri; oppure lavoratori di buon livello che vogliono a tutti i costi diventare i pezzi da novanta del loro ambiente professionale, e se non ci riescono si lamentano come se fossero in fondo alla piramide sociale; oppure… si potrebbero fare esempi a profusione.
Un’ambizione di questo tipo è tra i migliori alleati del diavolo.
Ecco, se io potessi avere di fronte a me Jack Aubrey in carne ed ossa, vorrei prenderlo per le spalle e dargli una buona scrollata e dirgli « ma la smetti di lamentarti perché non diventerai mai ammiraglio? Non t’è già andata bene così? Ti ricordi di quando all’inizio di Primo comando eri un anonimo ufficiale e temevi che non t’avrebbero mai fatto capitano e com’eri contento quando è arrivata la lettera di promozione? E dopo tutte quelle vicissitudini sentimentali, le avventurette tipo quella sgualdrina della moglie di Harte, o lo sciagurato corteggiamento a Diana che quasi ti costò l’amicizia di Stephen, e nonostante l’opposizione implacabile di tua suocera, alla fine sei non sei riuscito a sposarla la tua Sophia? E non t’ha forse dato tre figli sani e belli, tra cui il figlio maschio che in Verso Mauritius volevi così tanto? E allora? Ma perché una buona volta non t’alzi una mattina e dici “sono felice, sono felice, ho avuto tutto quello che chiedevo una volta, sono felice e lo resterò anche se non avrò le cose che chiedo ora, sono molto felice”??? »

Stephen, allora. C’è riuscito finalmente, alla fine dello scorso libro ha sposato Diana Villiers. Certo non è stato il matrimonio più romantico del mondo, visto che è stato dettato fondamentalmente dalla necessità di lei di riguadagnare la nazionalità britannica, ma d’altra parte anche Stephen Maturin non è l’uomo più romantico del mondo.
Neppure lui sembra molto felice, tuttavia. Nel suo caso però non è questione di ambizioni personali: il dottore e agente segreto non sembra averne, indifferente alla sua stessa incolumità, l’unico suo sacro fuoco brucia per la distruzione dell’odiato Napoleone. E se il suo tarlo fosse anzi il contrario stesso dell’ambizione? Se invece di anelare a qualcosa che non ha e che desidera, il suo problema fosse l’aver raggiunto ciò che desiderava – Diana – e aver constatato che non era così degna di desiderio, tuttavia non sapendo o potendo rimpiazzarla con qualcos’altro di più desiderabile?
Non vorrei essere troppo ingiusto sul conto di Diana, che ha comunque i suoi meriti (l’abbiamo vista nello scorso libro privarsi, lei così materialista, di alcuni diamanti preziosissimi per favorire la liberazione dei nostri dalle prigioni francesi) ma temo che quella lettera anonima recapitata a Stephen, la quale lo informa che sua moglie lo tradisce con il bellissimo Jagiello, quella lettera da lui sprezzantemente considerata vile menzogna – ho una mezza sensazione che non sia così mendace. E penso che inconsciamente lo creda anche Stephen, il quale nei suoi pensieri disordinati ripete per tre volte la parola infedeltà. E poi, la gravidanza? In Diana l’istinto materno non pare particolarmente affilato. Non riesco a non sospettare che non sia stato del tutto spontaneo l’aborto che ha terminato la gravidanza che Diana portava come ultimo lascito dell’odiato Johnston, il cattivo dell’avventura “americana” dei precedenti libri. Non ci è ancora dato sapere quale sia a questo riguardo il parere medico del dottor Maturin. Però all’inizio di questo libro Stephen crede che Diana sia incinta, se tuttavia la cosa sembra destare non particolare emozione in lei (il modo con cui gioca a biliardo ce lo dice più di tanti discorsi), e poi quando Stephen è lontano in missione sua moglie lo informa “distrattamente” per lettera che si era sbagliata sulla gravidanza… Mah. Ripeto, non vorrei essere ingiusto io.

 Oltre a questo nel libro ci sono, sì, certe altre cose tipo sparatorie e battaglie navali e morti ammazzati e la complicatissima situazione geopolitica dell’Impero Ottomano nel Mar Ionio.
Ma interessano poi tanto?
In questi libri, l’avventura è lo sfondo, la vita vera è il primo piano.


Libri febbraio 2013


World War Z, di Max Brooks.

Premessa: sono appassionato di storie di morti viventi e ne difendo la dignità culturale nei confronti di chi le squalifica come mero horror-pulp sensazionalistico.
Gli zombie mi piacciono (come argomento, non li terrei come animali domestici) perché li vedo come l’uomo postmoderno privato della sua retorica ed estremizzato nel concetto: un essere al di là del bene e del male, senza etica, senza razionalità, vittima dell’omologazione di massa eppure al tempo stesso profondamente solo e incapace di empatia, definito dai due impulsi  fondamentali che lo muovono: la vita eterna (nell’aldiquà, essendo l’aldilà scomparso dall’orizzonte concettuale) e la soddisfazione dei propri appetiti.
Posto quanto sopra, WWZ non poteva non piacermi al massimo grado. Si tratta di un libro EPICO, scritto da una massima autorità sull’argomento ovvero Max Brooks già autore del Manuale per sopravvivere agli zombie (da tenere nel comodino a portata di mano, metti caso serva). Io l’ho letto in inglese, perché in italiano non si trova, ma probabilmente lo ripubblicheranno a breve perché tra poco esce nelle sale il film tratto dal libro, di cui è già in circolazione il trailer. Considerato che il protagonista è Brad Pitt e che gli zombie in questo periodo tirano, probabilmente incasserà. Peraltro la pubblicità a me ha fatto alquanto ribrezzo, perché sembra la solita storia azioneazionefuggisparaesplodibumbumbum: o il trailer è infedele rispetto al film, oppure il film col libro c’entra poco e niente.
D’altra parte, mi rendo conto che non era così facile trasporre la storia in film (una serie sarebbe stata un format più adatto). Perché WWZ non è una semplice storia di morti che risorgono e mangiano i vivi. Tecnicamente non è neppure un romanzo. È proprio un’altra cosa, molto migliore.
La particolarità di WWZ è che avviene un mondo in cui c’è già stata la guerra contro gli zombie, e l’umanità ha vinto ed è sopravvissuta, seppure a malapena. L’autore intradiegetico del libro è un giornalista che viaggia per il mondo e intervista persone di tutti i tipi, di ogni continente e ceto sociale, facendosi raccontare quello che hanno vissuto e le cose che hanno fatto. È dunque palese la differenza rispetto alla classica zombie story, alla George A. Romero oppure The Walking Dead: lì il punto di vista è del singolo, qui invece è letteralmente globale.
WWZ è estremamente realistico dal punto di vista geopolitico. Sarebbe perfettamente degno di un numero speciale di Limes. Prende in considerazione una quantità immensa di fattori che nelle altre storie di zombie sono generalmente ignorati: la reazione dei mass-media e dei politici di fronte alle voci di apocalisse (negare sempre, anche l’evidenza, finché non è troppo tardi), le specifiche ragioni tecniche del fallimento delle normali tattiche militari di fronte a un nemico così radicalmente diverso (la battaglia di Yonkers), gli imprevedibili sconvolgimenti politici (Israele si chiude in quarantena e poi scoppia la guerra civile!), l’opportunismo di chi è contento dell’epidemia (Breckenridge “Breck” Scott e il suo vaccino-bufala Phalanx, del quale avevo già parlato qui), il tracollo psicologico collettivo di una società intera (i quisling, gli umani che si convincono di essere zombie), eccetera.
Dove invece WWZ rivela stretta continuità con il genere zombie è invece nella critica morale all’umanità, nel ritratto impietoso dei nostri simili: dalle interviste emerge un coro a 360° di vizi e virtù, eroismi, vigliaccherie, compromessi, dilemmi morali angoscianti. Pensate alla strategia attuata dai governi nazionali, il “Piano Redeker”: fondamentalmente consiste nel sacrificare volontariamente una parte della popolazione, usandola come diversivo e dandola letteralmente in pasto agli zombie, onde permettere al resto della nazione di emigrare verso zone sicure. L’ideatore di questa strategia di sopravvivenza dice che il genere umano per sopravvivere deve semplicemente rinunciare alla sua umanità, nel senso morale del termine. Cosa pensare di una simile scelta? Come giudicarla? Abbiamo il diritto di giudicarla? Ne abbiamo il dovere? La risposta è difficile, ma la domanda è inevitabile.

Altrimenti, se non abbiamo una morale, che differenza c’è tra noi e loro?

 

Missione sul Baltico, di Patrick O’ Brian.

il comandante del porto convocò il comandante Aubrey. «Mi rifiuto di credere, signore», disse, «che tranne uno tutti i vostri ufficiali discendano dalla regina Anna.» «Mi dispiace, signore, ma poiché la regina Anna è morta», rispose Jack, «la comune decenza m’impedisce di fare commenti.»

 Settimo libro della saga marinara (ma la definizione è riduttiva) di Aubrey & Maturin, e diretta continuazione e conclusione delle vicende raccontate nei due libri precedenti. E perbacco, che conclusione! Non lo scrivo perché uno spoiler sarebbe abominevole, ma si tratta di un evento che cambia radicalmente e irreversibilmente lo status di un certo personaggio.
Che ha finito di soffrire, forse… oppure, forse (e dico anche probabilmente), le sue più grandi sofferenze sono appena cominciate.

 

Le lettere di Babbo Natale, di John Ronald Reuel Tolkien.

Buffissime e tenerissime lettere dal Polo Nord, condite delle disastrose avventure di un Orso Polare pasticcione e degli auguri in Quenya degli elfi aiutanti, che Tolkien inventava per i suoi figli e faceva loro arrivare ogni Natale da parte di “Babbo Natale” – si badi bene, non Santa Claus, ma nel titolo originale “The Father Christmas Letters”.
Ora io non mi dilungo sui rapporti tra Santa Claus e Father Christmas, né su tutta l’annosa questione della valutazione “cattolica” di Babbo Natale, anche perché c’è già chi l’ha fatto molto bene; ma m’interessa far notare la posizione che implicitamente assume Tolkien nella vicenda, e che secondo me è strettamente legata alla sua concezione dello speciale rapporto tra paganesimo e cristianesimo: il primo rivalutato in positivo e visto non come opponente del secondo, ma come antecedente logico oltre che cronologico, veicolo di semina Verbi, propedeutico al messaggio cristiano.
Ecco allora che Babbo Natale, il quale ormai non è più il vecchio San Nicola bensì un personaggio ormai decristianizzato e paganeggiante, un mito per esprimere dei generici valori positivi di calore familiare, non viene da Tolkien semplicemente negato; viene piuttosto “ri-cristianizzato” nella figura di ­ Father Nicholas Christmas, che ha millenovecentoventi anni nel 1920 e ne ha millenovecentotrenta nel 1930 (cioè nasce con il cristianesimo) e che in un passaggio delle sue lettere accenna all’esistenza di suo padre… “Nonno Yule”.
Yule, capite?
Come sempre in Tolkien, una semplice parola basta per implicare concetti, epoche storiche, mondi lontani: il simbolo pagano che si fa da parte per far posto al simbolo cristiano, non già come Saturno che viene scalzato da Zeus, bensì come il padre che lascia serenamente in gestione al figlio “l’attività di famiglia” del portare regali all’umanità; il cristianesimo come successione del paganesimo, non per rigettarne in toto il passato, ma per ereditarne i contenuti positivi.

 Grazie, professore.

 

L’infanzia di Gesù, di Benedetto XVI.

Naturalmente ottimo, e fa venire voglia di rileggere tutto il trittico in successione continua. Anzi fa venir voglia di rileggersi tutta l’opera omnia dell’autore.

Anche perchè leggerlo proprio nel periodo contemporaneo all’evento storico che sappiamo, sapendo che non ce ne saranno altri, fa un certo effetto.

 

Dottor Futuro, di Philiph K. Dick.

Se non avessero limitato le nascite, adesso ci sarebbe una popolazione umana preziosa su Marte e Venere […] invece abbiamo una società calcificata che passa il tempo meditando sulla morte; che non ha progetti, non ha una meta, non ha nessun desiderio di crescita. Come la società egizia… la morte e la vita sono così strettamente collegate che il mondo è diventato un cimitero, e le persone nient’altro che custodi che vivono tra le ossa dei morti. In pratica, dentro di sé, si considerano premorti, non individui vivi. Così il loro grande retaggio è stato sprecato.

 Pubblicato nel 1960, eppure ancora una volta PKD si mostra straordinario profeta di quelle tendenze distruttive che oggi sono il nostro presente.
Jim Parsons è un medico che per ignoti motivi viene rapito dal suo presente (il 2012) e trasportato nel remoto futuro del 2405. Si ritrova così in una società caratterizzata da una profonda cultura di morte: il numero della popolazione è fisso, tutti sono sterilizzati e le fecondazioni avvengono solo per via artificiale, il governo decide di procedere ad una nuova nascita solo quando qualcuno è morto, e la morte è incoraggiata. L’omicidio è legale, il suicidio è lodato come un gesto di coscienza civica, mentre le cure mediche sono criminali e viste come un’indebita interferenza nelle leggi di natura. Quando la gente sta male, non va dal dottore, va dall’eutanasista: Parsons, per aver onorato il suo giuramento d’Ippocrate, passerà dei guai con la giustizia.
E così cominciano le allucinanti traversie spaziotemporali del Dottore, l’unico uomo al mondo rimasto a credere che la vita valga più della morte; l’unico uomo al mondo che può salvare la specie umana dall’estinzione.
Un PKD ingiustamente poco noto, da riscoprire, da farci un film, da far conoscere.


Libri dicembre 2012

Una buona annata.

 

Per il mio Angelo, di Giuseppe Ampola.

A volte occorre leggere libri brutti.
È necessario, se vogliamo forgiarci un’estetica letteraria completa, perché la mente umana tendenzialmente funziona per relazioni di opposizione. Come tanto più apprezziamo una cosa o una persona quanto più ne abbiamo sentito la mancanza, così è difficile o impossibile percepire il bello senza l’esperienza del brutto, gustare l’abbondanza senza aver sopportato la scarsità, nonché (qui c’è una teodicea implicita) vivere appieno l’infinito senza prima essere passati per una vita finita.
Come l’uomo vivo di Chesterton, che lascia la sua abitazione per girare il mondo onde poi tornare a casa con la stessa gioia con cui ci mise piede per la prima volta, ogni tanto bisogna distaccarsi dagli autori preferiti e leggere cose noiose, sciatte, ridicole, insomma brutte.
Ringraziamo il cielo per le cose brutte, perché ci permettono di assaporare le cose belle.

Il libro in questione è, per i summenzionati motivi, utilissimo ad apprezzare tutti gli altri libri.
Dire che è brutto sarebbe poco. Dire che è bruttissimo sarebbe più preciso. Non mi arrischio a dire che è la cosa più brutta che abbia letto da un sacco di tempo a questa parte, potrei averne lette di peggiori e averle rimosse; mi accontenterò di dire che è stato per me Il Libro Più Brutto Del 2012, il che, considerato che durante l’anno ne ho letti circa 77,  è comunque un traguardo ragguardevole. Non posso dire di esserne stato deluso, ma solo perché per esserlo bisogna prima avere delle speranze.
L’ho trovato per caso, su amazon, quando si poteva scaricare gratuitamente per il kindle. La Koi Press è una casa di self-publishing, il che non vuol dire automaticamente che sia una vanity press (mi paghi = ti pubblico = osanna, sei un Autore), ma il dubbio è lecito visti i risultati. Comunque constato che la diffusione di ebook gratuiti su amazon sta prendendo piede. Peraltro dev’essere stata una fase di autopromozione, perché sono andato a ricontrollare e adesso l’ebook costa € 1,99. Non li vale.

La prima cosa che si nota è che l’opera, scritta dall’autore italiano Giuseppe Ampola, è ambientata a New York. Per inciso, non so se sia questo il caso, ma ho osservato diverse volte che molti italiani soffrono di una strana forma di sudditanza culturale per cui, se devono pensare a una storia, usano nomi e ambientazioni tipicamente statunitensi. Capitava anche a me le prime volte che ho impugnato la metaforica penna, e ho dovuto fare una certa fatica per scrollarmi di dosso questa specie di scomodo laccio mentale. Come se far vivere un’avventura a Giacomo e Tommaso fosse meno realistico che farla vivere a Jack e Tom. Mi chiedo se succeda anche in altri paesi europei, oppure siamo solo noi italiani che abbiamo l’immaginario collettivo così colonizzato da tutti quei libri e film d’oltreoceano da non riuscire neppure a narrare in termini non americani.
Comunque, fondamentalmente il libro parla di un detective della omicidi che deve fermare un serial killer di preti. E da qui si dipana un canovaccio che non si fa mancare nulla dei più triti standard del genere danbrowniano, dalla caccia all’indizio per chiese all’enigma crittografico da risolvere – che poi non si capisce chi glielo ha fatto fare all’assassino di anagrammare negli omicidi il nome del bersaglio finale, visto che è proprio questo che permette all’insonne detective di intervenire risolutivamente, ma vabbè – dal grande segreto nero clericale al prevedibile colpo di scena sull’identità del cattivo.
Tutto questo potrebbe essere ancora controbilanciato da una scrittura brillante e da protagonisti ben caratterizzati. Ma purtroppo lo stile è sciatto ai limiti del sopportabile, mentre i personaggi sono letteralmente stereotipi che camminano – es. il detective che non ha una vita privata, la bella gnocca donna intelligente coinvolta nelle indagini con la quale ovviamente scatterà la trombata finale, il prete che ogni cinque minuti esclama a proposito e a sproposito che Dio ci aiuti! / la fede ci guiderà! / combinazioni dei precedenti lemmi – e le indagini procedono fondamentalmente più per colpi di fortuna, nei quali si vede pesantemente la volontà dell’autore di far andare le cose in un certo modo, che per effettive virtù investigative dell’investigatore.
La scena sessuale a circa metà libro, del tutto avulsa dal contesto, probabilmente messa lì per far alzare l’attenzione del lettore e illuderlo che ce ne sarà una seconda, impreziosisce per modo di dire il tutto.
Mi sono chiesto se sia il caso di commentare anche il finale, che ho trovato sommamente ridicolo, ma non toglierò agli eventuali lettori il piacere di scoprirlo da soli.

Insomma, il libro è brutto.
Ora, bisogna sapere che esistono alcuni libri brutti, così brutti, ma così brutti, che fanno il giro dall’altra parte e diventano perversamente belli.
Sfortunatamente, non è questo il caso. Resta semplicemente brutto.

 

La borsa e la vita, di Jacques Le Goff.

Libro storico, che presumo attendibile essendomi stato regalato dalla mia storica di fiducia, su come fino al basso medioevo circa tutti i prestiti ad interesse fossero moralmente condannati dalla Chiesa in quanto usurari (la condanna totale venne meno col nascere del sistema bancario attorno al XII secolo).
Molto utile, in vista di futuri post.

 

 

Lettera pastorale 2012 – alla scoperta del Dio vicino, di Angelo Scola.

Come da titolo.
Breve, scorrevole, gradevole.
Se la volete leggere, si può scaricare qui.

 

 

Bottino di guerra, di Patrick O’Brian.

[Stephen] Si vestì in fretta e furia, ma il sacerdote era già all’altare quando ebbero raggiunto la cappella buia in un vicolo laterale, avanzando nell’odore d’incenso, un odore dall’immenso potere evocativo. Seguì un intervallo di tempo su un piano completamente diverso dell’essere: con le parole antiche e familiari, sempre le stesse in qualsiasi parte del mondo, sebbene in quel momento pronunciate in un largo latino fortemente accentato, aveva la sensazione di vivere libero dal tempo o dalla geografia, tanto che avrebbe potuto uscire di lì ragazzo nelle strade di Barcellona alla luce accecante del sole o in quelle di Dublino sotto la pioggia fine.

 Con questo che è il VI libro della saga, O’Brian aggiunge alcune rilevanti variazioni alla formula narrativa precedentemente sperimentata.
E questo vuol dire che è un autore coraggioso, perché poteva accontentarsi e propinare ai lettori una minestra riscaldata, e invece osa. Ammirevole.
Variazione n. 1: messa da parte (temporaneamente? definitivamente?) la formula dell’avventura autoconclusiva, il libro è la diretta continuazione del precedente, di cui tornano anche molti personaggi secondari (Herapath, la signora Wogan, etc).
Variazione n. 2: la trama non si svolge più principalmente per mare, ma a terra, a Boston, dove i nostri due eroi sono prigionieri del governo americano che è entrato in guerra con l’Inghilterra.
Variazione n. 3: mentre prima i punti di vista di Aubrey e Maturin erano grossomodo bilanciati nell’economia della storia, gli opposti poli caratteriali formando un perfetto contraltare, qui l’equilibrio salta. Jack avrà modo di farsi valere nel movimentato finale, ma per mezzo libro giace infermo in ospedale ed è il suo amico a doversi occupare di tutti i guai. Questo è il libro di Stephen, non c’è altro modo di dirlo. Il personaggio, come dire, esplode: fin dall’inizio abbiamo saputo che era immerso a fondo nello spionaggio britannico, ma questa è la prima volta che lo vediamo fare cose da spia quasi come uno 007 ante litteram, scopre agenti nemici, è da essi scoperto, insegue, è inseguito, è ferito, ferisce, uccide, e altro ancora.
Oltretutto, è anche tornata Diana Villiers. E non si fa neppure odiare (ma ci sono fondati sospetti che lo farà in seguito).
Bellissimo.
L’avventura continua.

 

The Walking Dead n. 1 – risveglio nella città dei morti, di Robert Kirkman & Tony Moore.

Tecnicamente non è un libro, ma visto che anobii lo copre, ne parlo una tantum.
Se state seguendo la serie tv, sappiate che il fumetto è meglio. Molto, molto meglio.
Un’epopea spietata. Un viaggio nelle pieghe più oscure dell’uomo.
Senza essere minimamente religioso, senza affrontare mai alcun tema anche solo vagamente filosofico, la saga è in più punti una mostruosa esemplificazione – sarei quasi tentato di dire “dimostrazione” – del fatto che il relativismo, stringi stringi, semplicemente non funziona. Se non c’è una ferma bussola morale, bastano solo le circostanze adatte e qualunque uomo, qualunque, regredisce a una bestia selvaggia che vuole solo sopravvivere costi quel che costi.
Prendetelo in considerazione, anche perché l’edizione Saldapress è convenientissima – per € 2,9 un albo che copre quattro numeri dell’edizione originale: considerato che in America è arrivato al cento e qualcosa, tra un paio d’anni li avranno raggiunti, o rallentano o s’inventano qualcosa.

P.S. piccola chicca per intenditori.
A pagina 52, Rick parla con sua moglie. A un certo punto, lei fa una faccia e orripilata ed esclama: la tua mano!
Spiegazione del marito, è  il segno della flebo rimasto da quando ha lasciato l’ospedale. Ok.
Ma alla luce di quello che succederà dopo, molto dopo, è lecito chiedersi: è una coincidenza? Oppure, già allora, Kirkman sapeva?


 

Questione di spazio, di Mauro Corona.

 Un racconto breve, di ambiente montanaro, gratuitamente scaricabile per kindle a scopo promozionale per un’antologia di novelle dell’autore.
Si legge senza dispiacere, se a uno piace il genere.

 

 

Il tempo della verità, di Glenn Cooper.

Raccontino scaricabile aggratis da amazon, pensato come lead-in per portare i lettori nel mondo della Biblioteca dei Morti in cui sono ambientati altri romanzi dell’autore.
L’idea della Biblioteca sembra intrigante, ma non sono abbastanza incuriosito da voler leggere gli altri libri.

 

 

Quattro chiacchiere con Francesco Guccini, di Federica Pegorin.

Come da titolo, interviste all’autore, che parla di sé e della sua musica.
Anche questo si scarica gratis da amazon e si può leggere sul kindle. Se non avete un kindle, sappiate che potete farvi un profilo amazon sul pc e ovviare al problema.
Se siete interessati, chiedete nei commenti e vi spiego come.


Il Labirinto dei Libri Sognanti, di Walter Moers.

 Ebbene.
Delusione, delusione, delusione.
Io in genere apprezzo molto i libri di Moers.
Ma questo è una fregatura bella e buona.

Breve premessa: Walter Moers è un fumettista tedesco che ha scritto una serie di libri fantasy (ma un fantasy del tutto sui generis) ambientati nel continente perduto di Zamonia, cominciando da Le 13 vite e ½ del Capitano Orso Blu e poi con altri libri famosi come Rumo e i prodigi nell’oscurità nonché La Città dei Libri Sognanti.
In genere i suoi libri mi piacciono molto, sia per la trama che prevede avventure folli e improbabili con personaggi strani (orsi, dinosauri, specie inventate dall’autore come croccamauri e tenebroni e squalombrichi), sia per il taglio molto visuale che dà ai suoi libri, pieni di particolarità tipografiche e disegni molto belli, il genere di cose per cui il libro di carta è decisamente meglio di un ebook.

In particolare La Città dei Libri Sognanti, di cui questo Labirinto è il seguito, è un libro bellissimo. BELLISSIMO. B-E-L-L-I-S-S-I-M-O. L’ho letto 4 volte, di cui l’ultima pochi giorni fa (per riprendermi dalla delusione), ed è migliorato ogni volta. Baratterei le proverbiali parti del corpo per essere in grado di scrivere io una cosa così bella. È il libro che ogni amante dei libri dovrebbe leggere.

E dunque, quando ho visto che era uscito il seguito, dovevo averlo.
E avevo tante belle speranze.
E invece.

Il problema del libro non sta nel fatto che non è autoconclusivo. Altri si sentono fregati dai libri che lasciano il protagonista a metà di una situazione spinosa, io no. Se il libro mi è piaciuto, sono anzi contento, la prendo come una promessa di ulteriori piaceri letterari.
Ma di solito, “lasciare a metà” implica che ci sia, una prima metà.
Il problema non è che la storia non finisce: è che praticamente NEMMENO COMINCIA. Tutto il libro non è che una lunghissima, per gran parte inutile, premessa.

STORIA: sono passati duecento anni dalla fine degli eventi descritti nel libro precedente. Ildefonso De’ Sventramitis, il dinosauro protagonista che descrive autobiograficamente le proprie avventure, è diventato il maggiore scrittore vivente di Zamonia. La folle girandola di eventi occorsagli a Librandia, la città dei libri, è diventata un bestseller della letteratura zamonica (cioè: La Città dei Libri Sognanti non è solo il prequel extradiegetico di questo libro, ma anche un libro intradiegetico di cui si parla dentro Il Labirinto dei Libri Sognanti). Quand’ecco Ildefonso riceve una misteriosa lettera da Librandia, e decide di tornare in città per chiarire il mistero.
LETTORE: bene.
STORIA: Ildefonso a Librandia. Giro turistico. Sunto degli ultimi duecento anni di storia librandiese.
LETTORE: bello. Sono sempre interessato alle follie dell’urbanistica zamonica.
STORIA: Ildefonso saluta alcuni vecchi amici del precedente libro.
LETTORE: toh, guarda chi si rivede!
STORIA: tra una cosa e l’altra, siamo arrivati a pagina 221 di 451 (49%).
LETTORE: di già? Ehm… ma quando arriviamo al dunque?
STORIA: aspetta. Ecco, adesso Ildefonso va a teatro. A vedere uno spettacolo di pupazzi.
LETTORE: bell…
STORIA: lo spettacolo è un adattamento teatrale di La Città dei Libri Sognanti.
LETTORE: ?
STORIA: sì, hai capito bene: per TRE capitoli e OTTANTADUE pagine, il libro riassume gli eventi del libro precedente.
LETTORE: ehm. Beh. Mediamente interessante, forse. Però, adesso…
STORIA: e non è finita. Siamo arrivati a pag. 303. Adesso Ildefonso è impazzito per il pupazzismo, la nuova arte dilagante per Librandia. Marionette, burattini, fantocci, pupi, automi, pupazzi di ogni foggia e dimensione.
LETTORE: …
STORIA: pupazzi! Pupazzi! Pupazzi! CENTOVENTIDUE pagine di appunti sventramitisiani sul pupazzismo librandiese! C’è pure la calligrafia di Ildefonso riprodotta tipograficamente!
LETTORE: … ma che stai SCHERZANDO?!?
STORIA: NOOOOOO!!!!!! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: non ci posso credere.
STORIA: PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: voglio indietro i soldi.
STORIA: PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: voglio uccidere Walter Moers.
STORIA: PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI! PUPAZZI!
LETTORE: voglio defungere.
STORIA: pupazzi.
LETTORE: ?!? forse, finalmente…?
STORIA: a pag. 425 di 451, cioè faticosamente trascinatici al 94% del libro, Ildefonso viene invitato a fare una visita guidata nelle catacombe di Librandia. Con immensa cautela, considerata l’esperienza della scorsa volta, accetta. Viaggio in carrozza. Ingresso nelle catacombe. Si ritrova da solo al buio. Paura. Ma ecco che legge una scritta.
LETTORE: …
STORIA: “Qui comincia la storia”.
LETTORE: :-O
STORIA: sì.
LETTORE: e poi?
STORIA: fine.
LETTORE: come, fine???
STORIA: è l’ultima frase del libro.
LETTORE: ma hai detto che comincia la storia!!!
STORIA: appunto. La storia comincia quando il libro finisce (€ 18). Arrivederci al prossimo seguito (presumibilmente stesso prezzo).
LETTORE: accìrete tu e mammeta.

Ecco.
Io non so come Walter Moers abbia potuto.
Cosa gli sia saltato per la testa.
Un’ipotesi è che si sia così identificato nel suo alter ego zamonico Ildefonso De’ Sventramitis (di cui Moers si presenta come il traduttore e illustratore) da volerne riprodurre, con un audace esperimento meta-testuale, la proverbiale pesantezza letteraria. Lo Sventramitis è infatti un autore capace di mostruosi abissi di prolissità, come quando all’inizio del Labirinto si vanta di aver inserito 26.000 pagine di infiniti dialoghi sulla contabilità a partita doppia nel suo ciclo di romanzi La casa nattiftoffa (i nattiftoffi sono l’elite amministrativa di Zamonia, e amano tutto ciò che è noioso e burocratico). Queste voragini letterarie sono divertenti quando l’autore vi allude mentre sta parlando d’altro, certo, ma leggerle direttamente è tutt’altra faccenda.
Un’altra ipotesi sarebbe che l’autore e/o l’editore fosse/fossero in gravissima crisi finanziaria e avesse/avessero urgente bisogno di liquidità, e non c’era tempo per scrivere un vero romanzo, così ha/hanno trovato questo escamotage per anticipare i profitti.
Oppure Moers è morto ed è stato rimpiazzato da un sosia che non ha lo stesso talento dell’originale.
Oppure è semplicemente impazzito.

Leggerò comunque il prossimo libro, in parte perché voglio sapere che combina Ildefonso nelle catacombe, in parte perché spero che Moers rinsavisca.
Però.
Sono contento che i dinosauri si siano estinti.

 

Manalive, di Gilbert Keith Chesterton.

Edizione straordinaria: è stata compiuta una scoperta meravigliosa, stupefacente, eccezionale.
È stato trovato un uomo vivo con due gambe.
Sconcerto degli studiosi. Incredulità degli eruditi. Protesta degli intellettuali. Risate degli opinionisti.
Eppure, respira e cammina.

Bellissimo.
Se ci ho messo un sacco di tempo a leggerlo, non è stato solo perché l’inglese di GKC è vecchio di un secolo – grazie, dizionario incorporato di kindle, senza di te non ce l’avrei fatta – ma anche perché volevo centellinare quanto più possibile il piacere di questa storia.
L’uomo vivo di Chesterton è un inno al senso comune, di cui oggi abbiamo un disperato bisogno.
L’uomo vivo è tale perché si accorge di essere vivo e capisce che è bello vivere.
Colui che dopo una lunga ricerca impara l’ovvio e lo celebra come se fosse una meravigliosa novità, perché è davvero tale, perché così l’ha resa una cultura decadente che si è così persa nei propri labirinti mentali da dimenticare i fatti basilari, le evidenze immediate, i “prodigi visibili” per cui oggi dobbiamo davvero combattere come se fossero invisibili.

Dopo aver letto questo libro ho appreso, con un vero senso di sorpresa, di essere vivo.
E sono felice.


Libri novembre 2012

Constatato che il mondo, purtroppo o per fortuna, proseguirà anche nel 2013, buon anno a tutti e buona lettura.

 Spingendo la notte più in là – storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, di Mario Calabresi.

Non molto tempo dopo la mia nascita il quotidiano “Lotta Continua” ritraeva mio padre con me in braccio intento a insegnarmi a decapitare, con una piccola ghigliottina giocattolo, un bambolotto che rappresentava un anarchico.

 Cominciano così, le memorie del figlio del commissario ucciso. Tanto per farci capire cosa ci aspetta.
Molto bello, a tratti commovente (davvero), molto utile per cominciare a capire l’eredità oscura che questo paese si porta dietro; un periodo storico che conosco ancora troppo poco, per cui ho sviluppato interesse solo di recente, ma che mi sembra un tassello indispensabile per capire il nostro presente – anche perché questo passato, ahinoi, non mi sembra ancora del tutto passato, e ho paura che potrebbe diventare ancor meno passato nel prossimo futuro.

 

L’isola della Desolazione, di Patrick O’ Brian.

[Jack] per un attimo non capì il perché delle acclamazioni che riempirono la cabina, assordanti. Poi, attraverso gli sportelli fracassati, vide l’albero di trinchetto della nave olandese scuotersi, sobbalzare, gli stragli saltare, albero e vela volare fuori bordo. La Leopard raggiunse la cresta e lo scroscio d’acqua verde accecò Jack, ma quando la vista gli si schiarì, attraverso il velo rosso del sangue che colava dalla fasciatura, vide l’onda gigantesca e la Waakzaamheid che le presentava il fianco, ingavonata. Un enorme, subitaneo turbinare di scafo nero e spuma bianca, di aste che volavano, di sartie che sbattevano selvaggiamente e poi più niente se non l’immensa montagna verde e grigia coronata di bianco.
«Mio Dio, oh, mio Dio», mormorò, «seicento uomini!»

Non ho praticamente fatto a tempo a ipotizzare un accenno di stanchezza nel mio scrittore nautico preferito, che subito mi sono dovuto ricredere: O’Brian ha ancora molte frecce al suo arco.
Il libro apporta alcune variazioni nella formula narrativa consolidata nei precedenti; infatti, mentre i primi quattro erano pressappoco autoconclusivi, questo lascia in sospeso alcune vicende che verranno proseguite successivamente.
Inoltre, mentre prima l’attività extra-curriculare di Maturin come agente segreto britannico (non già perché il cattolico irlandese nutra particolare amore per Sua Maestà, ma per odio al tiranno Bonaparte) era lasciata abbastanza nell’ombra, ovvero ne vedevamo le conseguenze ma raramente le azioni dirette, qui invece abbiamo l’occasione di osservarlo all’opera in tutto il suo acume, mentre compie con un’agente americana un capolavoro di mistificazione – usare il servizio segreto americano come arma per colpire quello francese: impressionante!
Il tono generale della storia, come si confà a un libro con un simile titolo, è generalmente tetro. La quantità di sofferenze attraverso cui passano i protagonisti mi è sembrata addirittura superiore a quella dei precedenti; soffre Stephen per le ennesime pene d’amore infertegli dalla sua croce e delizia Diana; soffre Jack per un viaggio pericoloso, complicato, che in moltissime pagine (l’epidemia a bordo, la falla nello scafo, la nave dei nostri inseguita giorni e notti senza sosta dalla nave olandese mentre imperversa un’immensa lunghissima tempesta australe che minaccia di affondarle entrambe) regala momenti di autentica angoscia.
Bello, bello, bello.

il famoso aneddoto su Lord Cloncarty: informato dal suo comandante in seconda che il cappellano era morto di febbre gialla e morto nella fede cattolica, Lord Cloncarty aveva commentato: «Bene!» Primo ufficiale: «Ma, signore, come potete dire una cosa simile di un ecclesiastico inglese?» Lord Cloncarty: «Ma perché credo di essere il primo comandante di una nave da guerra che si sia potuto vantare di un cappellano che avesse una fede».

 

Notturni, di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann.

Antologia di racconti gotici, tra cui il famoso “L’uomo della sabbia”.
Piacevole, anche se lo stile risulta un po’ troppo farraginoso e alla lunga stancante.
Forse gli gioverebbe una nuova traduzione che renda il testo più scorrevole.

 

L’esattore, di Petros Markaris.

Il commissario Charitos è una specie di Montalbano ellenico, pare che questi libri abbiano molto successo in Grecia. Qui l’investigatore è alle prese con un serial killer, il terribile “Esattore”, che se la prende con gli evasori fiscali invitandoli a saldare quanto dovuto a pena di “condono tombale” (sic). Nella Grecia disastrata dalla crisi, la cosa più che un delitto viene da molti considerata un atto meritorio, e così nell’opinione pubblica c’è chi inneggia al giustiziere tributario, chi lo considera un sicario mandato dalla Merkel per convincere i greci a rigare dritto, chi vuole farlo Ministro dell’Economia, eccetera. Questo può sembrare inverosimile ma Lucia, che mi ha regalato il libro per Natale, mi assicura che su Facebook girava, come campagna pubblicitaria per il romanzo, un sondaggio che invitava gli utenti a scegliere di schierarsi idealmente con il poliziotto o con l’esattore. Non conosco le percentuali, ma il sondaggio è stato vinto da quest’ultimo. Eh già.
L’immagine della Grecia che esce da questo romanzo è quella di un paese a pezzi, dove pochi vedono ancora un futuro, i cittadini sono disperati come pecore senza pastore, e si cerca furiosamente un responsabile perché non si sa a chi dare la colpa. Il libro è costellato non solo di morti ammazzati dall’assassino, cosa che per un giallo in effetti è ordinaria amministrazione, ma anche di suicidi di povera gente che non sa più come campare, dalle vecchiette a cui hanno ridotto la pensione ai disoccupati che non trovano lavoro.
(La scena dove il commissario trova i due fidanzati morti abbracciati, con il biglietto dove spiegano i motivi disperati che li hanno portati all’insano gesto, è straziante. Straziante.)
Il probabile futuro anche del nostro paese?

 

Una saldissima fede incerta, di Antonio Thellung.

Ne ho ampiamente parlato qui.

La case editrice delle Paoline è riuscita  a finire per direttissima nella mia lista di editori da cui non comprare mai più nulla, nada, niente.
Complimenti, prima di loro c’erano riusciti solo la Adelphi e l’Espresso, per capirci.

Soggettività intersoggettività alterità: in dialogo con Husserl e Levinas – 1. Le meditazioni cartesiane di Husserl, di Giovanni Ferretti.

Libretto editorialmente agile, neanche un centinaio di pagine, ma denso come un macigno.
Ho avuto molte difficoltà a leggerlo e ancor di più a capirlo, ma d’altra parte, essendo un testo specialistico destinato agli studenti di filosofia per esporre la fenomenologia di Husserl, probabilmente le mie incomprensioni dipendono più dalla mia ignoranza in materia che dall’oscurità dell’autore. Non posso certo pretendere di essere diventato esperto di Husserl, ma la sua egologia, francamente, mi sembra poco più che una raffinata forma di egolatria.
Comunque, continuo sempre a spregiare il soggettivismo gnoseologico. Abbasso l’Io che si dà troppe arie! Viva il mondo esterno! Viva la realtà!

 

Nella testa di Steve Jobs, di Leander Kahney.

Scritto quand’era ancora vivo Jobs, un libro di taglio giornalistico che descrive (con toni positivi, a volte addirittura enfatici, e qualche limitatissimo chiaroscuro) il modus operandi di SJ.
Per me che non conoscevo quasi niente della storia della Apple e delle sue innovazioni, è stata una lettura istruttiva. Ho imparato che devo ringraziare Jobs per un sacco di cose. Però non posso dire di provare una smisurata ammirazione per lui. A parte quella storia del Campo di Distorsione della Realtà, l’immagine che ne esce non è limpidamente rosea:

Circolano storie – probabilmente false – che raccontano di come Jobs bloccasse i dipendenti negli ascensori, interrogandoli sul loro ruolo all’interno dell’organizzazione. Se la risposta non gli appariva soddisfacente, i malcapitati venivano licenziati su due piedi. La procedura divenne ben presto nota come «essere stevizzati». L’espressione fa ora parte del gergo aziendale, per indicare un qualsiasi progetto che venga interrotto senza preavviso. […]
Jobs tende comunque a dividere tutto in due categorie: ha una penna preferita, per esempio, che è una Pilot, mentre tutte le altre sono «una schifezza»; e lo stesso con le persone: o sono dei geni o sono degli idioti. […]
La cultura aziendale della Apple proviene direttamente da Steve Jobs. Così come lui è estremamente esigente con le persone di cui è responsabile, anche i manager di livello intermedio richiedono lo stesso standard di altissime prestazioni ai loro subalterni. Il risultato è un regno del terrore, in cui tutti sono costantemente preoccupati di perdere il posto. La chiamano l’«altalena genio-idiota»: un giorno uno è un genio, il giorno dopo è un idiota. […]
Stando alle dichiarazioni di diversi dipendenti con cui ho avuto occasione di parlare, alla Apple si avverte una costante tensione tra il timore di essere licenziati e lo zelo messianico di chi è convinto di lasciare la propria impronta nell’universo. […]
come ha detto Richard Nixon, «le persone reagiscono alla paura, non all’amore. Non è una cosa che insegnano al catechismo, ma è la verità».

Ora, io non sono un manager e non ho né la capacità ne là pretesa di raggiungere i risultati di Jobs, e so che da noi si sbaglia nel senso opposto (l’ipertutela dei diritti dei lavoratori sfocia nell’impossibilità di sanzionare gli incapaci); ma so altresì che le persone normalmente hanno uno spettro d’intelligenza un po’ più vasto dei due poli genio-idiota, e ho qualche sospetto sul fatto che questo regno del terrore sia, lavorativamente parlando, il migliore dei mondi possibili.
Paura o amore? Per ideale preferirei la seconda opzione, ma per realismo so che chi occupa una posizione di autorità, qualunque essa sia, deve saper applicare la giusta miscela di entrambe.
Il che, non solo è vero, ma credo sia pure scritto da qualche parte nel catechismo.


Libri ottobre 2012

Anzitutto, desidero NON-ringraziare wordpress che ha tolto la possibilità di mettere i link interni al post (ma perché? perché?!?).
A me cambia poco, il problema è vostro: se vi interessa uno solo di questi libri, non potete più andarci direttamente, ma dovete cercarvelo in mezzo a tutto il resto.

Per facilitarvi le cose, faccio due post separati per singolo mese, anche se a ottobre ho letto poco.

 

333 – La formula segreta di Dante, di Robert Masiello.
Non fatevi ingannare, Dante c’entra ben poco, viene nominato un paio di volte all’inizio e poi scompare. Infatti il titolo originale è The Medusa Amulet, e si spiega perché Benvenuto Cellini ha fabbricato con le sue arti negromantiche (pare dopo aver evocato lo spirito di Dante) uno specchio con l’effigie della Medusa che dà la vita eterna a chi vi si specchia sotto la luna piena. Ma l’editore deve aver pensato che Dante lo conoscono tutti, la Medusa no.
Il libro si scosta poco dalla media dell’abituale pacchetto post-Codice da Vinci, di cui ricalca lo schema classico: congiure, dietrologie storiche, lo scontatissimo lato sentimentale (quando lui vede lei, dopo la prima sillaba abbiamo già capito che scatterà l’ammmore), un paio di descrizioni di chiese e/o musei, la sorpresa sull’identità del Cattivone. A questo si aggiunge però una cavalcata attraverso i secoli, vista con gli occhi dell’immortale Cellini, che non è affatto male. Mi è piaciuta in particolare la descrizione delle brutalità della Francia rivoluzionaria.
Se siete di bocca buona e lo trovate a poco, potreste dargli una possibilità; altrimenti lasciate pure perdere.

 

L’altra faccia della realtà, di AAVV.
Il libro è l’antologia Urania Millemondi dell’estate 2009. L’ho trovato su una bancarella a 1 € ed è stato un ottimo affare, la media qualitativa dei racconti è davvero alta. Mi sono piaciuti in particolare “Oltre lo squarcio di Aquila”, di Alastair Reynolds, che ha un paio di colpi di scena notevoli; “Un caso di concordanza”, di Ken MacLeod, che ricalca le orme di Guerra al grande Nulla di Blish; ma soprattutto “Seconda persona tempo presente”, di Daryl Gregory. Potete trovarlo in inglese in pfd qui.
È questa una riflessione davvero interessante sul tema dell’identità. Racconta di un’adolescente, Therese, che è andata in coma dopo aver provato una nuova droga, la “Z” (sta per Zen oppure Zombie), che distrugge l’autopercezione riducendo l’individuo a un burattino privo di preoccupazioni che agisce senza pensare, anzi senza pensare di pensare (ovviamente spopola tra i gggiovani). Dopo il coma, la protagonista non riesce a riallacciare i fili con la previa identità che considera morta per overdose, e si considera una nuova persona che deve ricominciare da capo, rifiuntando tutto della precedente ragazza compreso il nome. Il problema è che i genitori non sono d’accordo.
La storia è scritta in modo da dare ragione al punto di vista della protagonista, la quale peraltro è stata aiutata da un simpatico medico buddista (non so se è buddista anche l’autore). Infatti questa mi pare una concezione molto buddista dell’identità, che considera il corpo un semplice “veicolo” per l’anima, diversamente dalla concezione aristotelico-cristiana del sinolum come unità bipartita di corpo + anima definitivamente indissolubili.
Se fossi stato lì presente, avrei fatto notare alla ragazza che lei non è ricominciata da capo un bel niente, perché il corpo è sempre quello; e che le differenze di carattere tra la vecchia Therese e la nuova (per esempio, Therese era ben inserita in una parrocchia cristiana descritta come una massa di bigottoni ipocriti, mentre la narratrice pare sessualmente disinibita) puntano piuttosto alla conclusione che la narratrice è Therese non come lei era, ma come sotto sotto lei voleva essere.
Ma io nel racconto non c’ero, mannaggia.
Comunque, non sottovalutate il vostro corpo.
Voi non avete un corpo. Voi SIETE un corpo.


Vulcano 3, di Philip K. Dick.

Le cose erano diventate vive,
e gli esseri viventi erano stati ridotti a cose.

A quanto pare è considerato un PKD minore, eppure l’ho trovato sorprendentemente attuale per il presente momento storico. Il che non è poco, considerato che è stato scritto nel 1960.

 Dopo l’ennesima disastrosa guerra mondiale, la democrazia è ritenuta pericolosa, perché le popolazioni sono troppo emotive ed irrazionali per prendere le decisioni giuste ed eleggere i capi giusti. Perciò le elitès, ops, volevo dire le nazioni, hanno deciso di passare alla tecnocrazia ed hanno affidato il potere amministrativo a un potente supercomputer, il terzo modello della serie Vulcano, che è indubbiamente il miglior tecnocrate che si possa avere essendo esso stesso un prodotto della tecnica. Il computer elabora, decide, nomina gli umani che occupano le posizioni amministrative più elevate, ai quali impartisce le appropriate direttive di governo; essendo una fredda macchina calcolatrice il suo giudizio non può essere inficiato dall’emotività, dalla corruzione per motivi personali, dall’egoismo. Insomma, Vulcano 3 è il governante ideale, e così il governo del mondo è diventato “una scienza amministrata da esperti”. I quali esperti, non essendo eletti dal popolo bue ma nominati da un computer, sono per definizione ottimi gestori della cosa pubblica.
Pare, insomma, che il mondo diventi un posto molto felice. Almeno secondo la versione ufficiale dei mezzi d’informazione, i quali, incidentalmente, sono tutti controllati dal governo tecnocratico.
Inspiegabilmente, non tutti sono d’accordo con questa utopia: il movimento popolare clandestino para-religioso dei Guaritori sostiene la felicità universale è una frottola, che la tecnocrazia non garantisce affatto maggior equità, che povertà e delitti non sono affatto stati cancellati; che i tecnici al potere ci hanno messo poco ad acquisire i vizi dei vecchi politici, e infatti gli amministratori agli ordini di Vulcano 3 sono avidi, corrotti, si scambiano sgambetti e raccomandazioni proprio come ai vecchi tempi; che il supercomputer, per giunta, “ha detronizzato Dio”.
Peggio ancora, strani incidenti accadono, così che qualcuno comincia a farsi venire sospetti sulla vera natura di Vulcano 3…

Insomma, il libro mi è piaciuto. Ve lo consiglio vivamente.
Penso che nella mia letterina a Babbo Natale gli chiederò di farne arrivare qualche copia a Palazzo Chigi, Bruxelles, il Palazzo di Vetro a New York.
Qualcuno dovrebbe leggerlo, lì.

 

Verso Mauritius, di Patrick O’Brian.
È il quarto libro della serie di Jack Aubrey e Stephen Maturin, nonché il primo che non mi abbia entusiasmato.
Non che non sia piacevole da leggere, per carità; O’Brian sa scrivere e seguire i due protagonisti è sempre bello; è solo che non ho trovato quel quid che mi aveva così colpito in precedenza. Giunto alla fine mi sono reso conto che, a parte le prime pagine dedicata al nuovo status familiare di Jack e alla sua terribile suocera, e a parte la triste figura dell’invidioso Clonfert, non c’era niente che mi fosse rimasto impresso, poco che mi ricordassi davvero.
Forse è stato un momento di stanchezza dell’autore, o forse sono io che sono stato troppo viziato dalla superlativa qualità dei precedenti libri.
Il prossimo, comunque, è molto migliore.


Libri maggio 2012

Costruire sulla roccia, di AAVV (Il Timone).
Libro comprato a 1 € grazie a sissi2002 (grazie). Greatest hits di articoli apparsi sul Timone, scritti da autori come Introvigne, Cammilleri, Agnoli, Gnocchi & Palmaro, eccetera. Insomma apologetica hardcore.

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Racconti fantastici, di Iginio Ugo Tarchetti.
Scaricato gratuitamente da amazon essendo scaduto il copyright, il libro essendo del 1869 e l’autore morto in quello stesso anno.
Non conoscevo assolutamente il nome di Tarchetti, i miei ricordi liceali sulla Scapigliatura milanese sono pressoché inesistenti, ma i racconti sono gradevoli e si leggono con piacere. Il libro offre anche l’opportunità di constatare i cambiamenti della lingua italiana nel tempo, per esempio si nota spesso l’uso della forma verbale pronome alla 1a +verbo alla 3a, es. io avea, io correva, io disse. Chissà se era un peculiare modo di esprimersi dell’autore o una forma corrente a quel tempo.

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Diario del figliol prodigo. Vent’anni dopo, di Guy Luisier.
Altro libro comprato a 1 € grazie a sissi2002 (grazie). L’autore, un sacerdote francese, ha avuto un vero colpo di genio: il figliol prodigo (che adesso non si chiama più così, vedi sotto) scrive un diario, vent’anni dopo essere tornato, dove descrive le sue impressioni, il suo faticoso riadattarsi alla vita nella casa del padre, il rapporto con il suo glaciale fratello e i di lui figli gemelli.
È breve, si legge in poco tempo, ma è una lettura feconda. Se lo trovate in giro, non fatevelo scappare.

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De Bibliotheca, di Umberto Eco.
Il libretto è scaricabile gratuitamente da qui, e consiste in un intervento tenuto dall’autore nel 1981 alla celebrazione dei 25 anni di attività della Biblioteca Comunale di Milano.
Eco comincia con una citazione dalla Biblioteca di Babele di Borges, perché “in un luogo così venerando è opportuno cominciare, come in una cerimonia religiosa, con la lettura del Libro, non a scopo di informazione, perché quando si legge un libro sacro tutti sanno già quello che il libro dice, ma con funzioni litaniali e di buona disposizione dello spirito”. Concordo. Da qui si sviluppa tutta una serie di riflessioni sulla natura e la funzione, diciamo pure l’essenza, della biblioteca – la quale peraltro, come sanno tutti quelli che hanno letto Terry Pratchett, è fondamentalmente un buco nero ben istruito.
Alcune considerazioni contingenti sono un po’ datate (per forza: nel 1981 nasceva ClaudioLXXXI, è una vita fa, ma vi rendete conto?!?) e sono state inevitabilmente superate dalla diffusione di internet ebook eccetera; per esempio il discorso sulla xerociviltà, cioè la civiltà della fotocopia, destinato a diventare sempre più marginale man mano che i lettori diversamente onesti, invece di fotocopiare il libro pagina per pagina (che almeno pagavano, se non con soldi, con tempo e fatica), se lo fanno portare a dorso di mulo comodamente stravaccati davanti al pc.
Altri concetti e problematiche invece sono tuttora perduranti: per esempio la divertente descrizione in 21 punti della biblioteca incubatica, cioè la biblioteca come non dovrebbe essere ma come spesso è, del tipo

I) Quasi tutto il personale deve essere affetto da limitazioni fisiche […]

P) Gli orari devono assolutamente coincidere con quelli di lavoro, discussi preventivamente coi sindacati: chiusura assoluta di sabato, di domenica, la sera e alle ore dei pasti. Il maggior nemico della biblioteca è lo studente lavoratore; il migliore amico è Don Ferrante, qualcuno che ha una biblioteca in proprio, quindi che non ha bisogno di venire in biblioteca e quando muore la lascia in eredità.

T) Possibilmente, niente latrine.

oppure l’annoso problema relazionale: come deve porsi la biblioteca nei confronti degli utenti?

bisogna scegliere se si vuole proteggere i libri o farli leggere. Non dico che bisogna scegliere di farli leggere senza proteggerli, ma non bisogna neanche scegliere di proteggerli senza farli leggere. E non dico neanche che bisogna trovare una via di mezzo. Bisogna che uno dei due ideali prevalga, poi si cercherà di fare i conti con la realtà per difendere l’ideale secondario. […] correre maggiori rischi sulla preservazione dei libri, ma avere tutti i vantaggi sociali di una loro più ampia circolazione. Cioè se la biblioteca è, come vuole Borges, un modello dell’Universo, cerchiamo di trasformarla in un universo a misura d’uomo, e, ricordo, a misura d’uomo vuol dire anche gaio, anche con la possibilità del cappuccino, anche con la possibilità per i due studenti in un pomeriggio di sedersi sul divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt nella biblioteca […]

E(c)co, io conosco una bibliotecaria che, alla prospettiva di veder ragazzotti in calore pomiciare nella sua biblioteca, minaccia di amputare lingue col tagliacarte.
Lei sì che ha le idee chiare sul problema relazionale, altroché.

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Come cambia la Bibbia, di Roberto Beretta & Antonio Pitta.
Si tratta di un agile libretto scritto a quattro mani da un giornalista (RB) e un biblista (AP) al fine di divulgare, spiegare, commentare alcuni dei cambiamenti più notevoli subiti dalla Bibbia CEI nell’ultima revisione del 2008.
Peraltro, mi sono accorto che il libro è del 2004 ma non è aggiornato, e alcune revisioni di cui parla (es. il lettuccio del paralitico che diventa una barella) sono state abolite all’ultimo minuto (e così la barella, poveretta, è rimasta il solito lettuccio). Questo in parte ne riduce l’utilità, che resta comunque pregevole per il profano che volesse farsi un’idea della complessità delle questioni.
Ordunque.
Non è mia intenzione essere polemico, né trinciare giudizi in un ambito del quale sono consapevole di avere scarsissime cognizioni. L’Italia è già troppo affollata di sapientoni da facebook quotidiano a tiratura nazionale osteria che parlano parlano e sarebbero sempre tutti quanti bravissimi a) investigatori b) giudici c) presidenti del consiglio con l’interim di tutti i ministeri d) papi e) allenatori della nazionale di calcio; naturalmente senza sbagliare mai e senza mai farsi corrompere dal potere, loro. Non voglio aggiungermi alla legione maledetta, perciò non dirò “io avrei fatto così” e “non dovevano fare così”. Mi limito solo a esprimere le mie perplessità e a dire che, da semplice fedele e fruitore del testo, mentre per la maggior parte dei cambiamenti si capisce la logica della revisione per tenere dietro al cambiamento linguistico, alcune scelte mi restano (vuoi per difetto oggettivo, vuoi per limite mio) incomprensibili. Peraltro non le capiscono neanche RB & AP, che segnalano ma non spiegano, o meglio, spiegano la propria perplessità.
Del tipo: ma era proprio necessario sostituire in Matteo 26:24 il vecchio “vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio” con il nuovo e lievemente criptico “seduto alla destra della Potenza”?
Oppure: ma è stata davvero una buona idea superare l’espressione figliol prodigo? Da un punto di vista strettamente biblistico capisco: “figliol prodigo” non fa strettamente parte del testo del vangelo; ormai pochissimi ricordano l’originario significato di prodigo, cioè spendaccione e dissipatore; e poi questo titolo focalizza l’attenzione solo su uno dei tre personaggi, mettendo in secondo piano gli altri due. Insomma, c’erano sicuramente buoni motivi per cambiare.
Tuttavia, il problema ha angolazioni anche non strettamente bibliche. “Figliol prodigo” è un esempio calzante di inculturazione cattolica, cioè di come il cattolicesimo esce dall’ambito strettamente religioso per travasarsi nel tessuto civile di un popolo, una lingua, una cultura. Quante opere d’arte hanno l’espressione figliol prodigo nel titolo? Quante volte abbiamo sentito questa espressione in libri, film, articoli di giornale, in ufficio, per strada, del tutto fuori da qualsiasi riferimento clericale? (un esempio a caso) È ormai una frase topos. È una fantastica economia del linguaggio: la dici e con pochi fonemi hai comunicato all’interlocutore, se condivide il tuo stesso patrimonio culturale – un patrimonio che nonostante tutto resta ancora molto impregnato di cristianesimo – un intero universo concettuale che altrimenti per essere espresso richiederebbe tempo e fiato e perifrasi. È, per farla breve, una bandiera verbale piantata dal cristianesimo sulla cultura occidentale, a segnalare “IO SONO QUI”.
Insomma, io non so se valeva la pena rinunciare a ciò, specie in un momento storico in cui si deve fronteggiare la pretesa di espellere il cattolicesimo da ogni ambito pubblico (dunque anche culturale, anzi, soprattutto culturale). Spero di sì, come spero che chi ha avuto l’ultima parola per decidere la revisione linguistica lo abbia fatto sulla base di valide ragioni che io, non essendo un tuttologo, non conosco.

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Noi marziani, di Philiph K. Dick.
Un altro libro di PKD, di qualità discreta, con molte delle topiche ricorrenti dell’autore: la confusione tra vero e apparente (declinata nella variante schizofrenica, come in Follia per sette clan), i paradossi temporali, la lotta del protagonista debole e “perdente” per non soccombere in un mondo aggressivo e vorace. Però, in effetti, chi è il vero protagonista del libro? Jack Bohlen, il meccanico timido e complessato e incline alla schizofrenia? Oppure Arnie Kott, l’egoista e lubrico capo del sindacato idraulici che agisce con metodi mafiosi e vuole sfruttare tutto e tutti per i suoi fini? L’interrogativo è lecito perché alla fine, con quello che mi sembra uno dei rari happy end della produzione di PKD, il primo, ricompensato per il suo atto iniziale di generosità verso i poveri Bleekman, gli autoctoni di Marte, vince; e il secondo soccombe, a causa di un’inaspettata e fortuita ritorsione alla sua prepotenza.
E allora chi era davvero il perdente?

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Catechismo della Chiesa cattolica, di AAVV (finito).
Ebbene, criticate finché volete il libro elettronico.
Sì, avere la carta tra le mani è tutta un’altra sensazione. No, non si può fare l’orecchio alla pagina. C’è il rischio che il formato in cui oggi abbiamo comprato i nostri libri tra una decade sia illeggibile, e dovremo ricomprarceli tutti quanti. Se capita una guerra nucleare / epidemia di zombie / invasione aliena / naufragio su isola nel Pacifico abitata da orsi polari, puoi leggere solo finché ti durano le batterie, poi ciccia. Si scarica proprio quando arrivi all’ultimo capitolo. Se si rompe senza preavviso o te lo rubano, hai perso mezza biblioteca ed è una catastrofe. Non puoi prestare un libro. Non puoi far vedere ai tuoi vicini di autobus la copertina del libro stai leggendo, e diciamocelo, pure questa era una piccola soddisfazioncina (e un modo per rimorchiare – a me non è mai riuscito, ma a qualcun altro sì). Il libro di carta lo puoi conservare per i tuoi figli, e puoi sognare che magari lo leggeranno anche i tuoi nipotini. Ci puoi scrivere una dedica, annotare tutte le glosse che vuoi, disegnare le faccine a lato dei paragrafi più belli.
Tutte queste cose, e altre ancora. Sì. Certo.
Però io, se non avevo il lettore ebook, col cavolo che riuscivo a leggermi il catechismo della Chiesa Cattolica in versione integrale, quello pesante, scaricato in pdf dal sito del Vaticano, 955 pagine e 122 megabytes.
Me lo sono letto poco per volta, un paio di pagine al giorno, dal 24/09/2011 al 16/05/2012. Senza fretta (certo, ha aiutato il fatto che sapessi già come va a finire: i buoni vincono). Molto agevolmente. Anche quando avevo la borsa strapiena di roba di lavoro e dovevo cambiare tre autobus e due metropolitane, potevo dotarmi di un mattone che cartaceamente non mi sarei proprio potuto permettere di trasportare, con un sentito grazie dalla mia colonna vertebrale. Potevo leggerlo sempre, ovunque, in qualsiasi situazione. Per dire, se la natura chiamava e io volevo passare quei cinque-dieci minuti (ma anche 15 volendo prendermela comoda) a soddisfare le esigenze della mia anima tanto quanto quelle del mio corpo, potevo infilare l’aggeggio nella tasca e portarmelo appresso senza tema di suscitare inarcate di sopracciglio in coloro che putacaso mi avessero visto col Catechismo Cattolico sottobraccio mentre mi recavo al cesso.
(non fare quella faccia scandalizzata da sepolcro imbiancato, tu; ricorda che il cristianesimo è religione materialista! Siamo un sinolo aristotelico, corpo e anima, l’uno non meno dignitoso dell’altra e non meno destinato alla vita eterna!)

Comunque, il catechismo.
Non ho la pretesa di aver capito tutto, meno ancora di ricordare tutto quello che ho capito, ma mi è servito moltissimo per inquadrare e sistematizzare molte cose che avevo imparato in modo disordinato e asistematico. Probabilmente è uno dei doni più grandi che Giovanni Paolo II ha fatto alla Chiesa (forse non spettacolare come altre cose grandi che ha fatto, ma di maggiore impatto nel lungo termine). Una esposizione lucida e rigorosa del cristianesimo “integrale”, del depositum fidei, articolata in quattro parti:

“il Credo; la sacra Liturgia, con i sacramenti in primo piano; l’agire cristiano, esposto a partire dai comandamenti; ed infine la preghiera cristiana. Le quattro parti sono legate le une alle altre: il mistero cristiano è l’oggetto della fede (prima parte); è celebrato e comunicato nelle azioni liturgiche (seconda parte); è presente per illuminare e sostenere i figli di Dio nel loro agire (terza parte); fonda la nostra preghiera, la cui espressione privilegiata è il « Padre Nostro », e costituisce l’oggetto della nostra supplica, della nostra lode, della nostra intercessione (quarta parte).”

Da leggere e da consultare.

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Buon vento dell’Ovest, di Patrick O’ Brian.
Terzo libro della saga di Jack Aubrey & Stephen Maturin; il titolo originale era HMS Surprise, che sarebbe il nome della nave capitanata da Jack; l’editore avrà pensato che fosse troppo ostico per il lettore italiano, optando per un riferimento a quel “buon vento dell’Ovest” più volte agognato dai nostri marinai durante i lunghi periodi di bonaccia nel Pacifico, vento che assurge a simbolo di tutto ciò di buono che sperano di ottenere dalla vita, aspettando, aspettando, aspettando… e quando arriva, il vento è una tempesta.
Bene, non mi profonderò un’altra volta in auspici tanatofili riguardanti Diana Villiers; peraltro, considerato come l’autore si diverte a torturare il povero Stephen, ho l’impressione che i patimenti di lui, e le occasioni per augurarmi il di lei decesso, siano solo all’inizio. Vorrei invece fare un’altra considerazione e cioè quanto questi libri siano eccellenti nel descrivere la guerra (ma si potrebbe dire: la vita tutta intera) fin nei suoi aspetti più prosaici, impietosi, brutali, senza per questo perdere l’eleganza del bello scrivere. E non sto parlando della necessità di mangiare i topi sulle navi o amputare una gamba nel bel mezzo di una battaglia navale, o almeno non soltanto di questo.
Le raccomandazioni, per esempio.
Casomai qualche lettore qui leggente appartenesse a quella schiera di italiani in cui certi pulpiti editoriali hanno instillato la convinzione autoafflittiva che certe cose succedono solo da noi, che negli altri paesi (magari protestanti, magari in quanto protestanti) le cose sono molto diverse e c’è un’etica pubblica sideralmente più rigorosa della nostra, bene, leggetevi O’Brian: vi aiuterà a scrollarvi di dosso un po’ di questo velleitario moralismo provinciale. Prendete per esempio quella scena nel secondo libro in cui, in un momento di tregua tra le guerre napoleoniche, Jack sta bevendo con un capitano francese suo amico (divenuto tale dopo averlo fatto prigioniero nel primo libro):

Jack e Christy-Pallière avevano bevuto parecchio e si stavano adesso raccontando le reciproche disgrazie professionali, ognuno stupito che l’altro avesse qualche ragione di lamentarsi. Anche Christy-Pallière era bloccato sulla scala delle promozioni, poiché, sebbene fosse capitarne de vaisseau, non c’era nella marina francese «un vero senso dell’anzianità di servizio… dappertutto intrighi, imbrogli… il successo solo agli avventurieri politici… i veri marinai buttati in un cantone» […] «Per voi è molto semplice», stava dicendo, «voi potete mettere insieme gli appoggi, gli amici, i Lord e i baronetti di vostra conoscenza e prima o poi, con le elezioni parlamentari che avete voi, ci sarà un cambiamento di ministero e i vostri evidenti meriti saranno riconosciuti. Ma da noi come vanno le cose? Interessi repubblicani, monarchici, dei cattolici, dei frammassoni, interessi consolari o, come mi si dice, molto presto imperiali, tutti in conflitto l’uno contro l’altro… catene che hanno preso le volte. Tanto vale scolarci questa bottiglia. Sapete», soggiunse dopo una pausa, «sono così stufo di starmene seduto in un dannato ufficio! La sola speranza, l’unica soluzione, è la…» La voce gli si spense.
«Suppongo che sia una cosa malvagia pregare perché scoppi una guerra», disse Jack, i cui pensieri avevano seguito esattamente lo stesso corso.

E ancora, in questo terzo libro, commentando la sfortunata carriera di un amico:

È una brava persona, comunque, un vero marinaio; ma non ha appoggi, e perciò non ha mai avuto un comando: diciotto anni come primo ufficiale. E poi, essendo riuscito a farsi saltare in aria una gamba, non ha potuto neanche trovare una nave; così si è rivolto alla Compagnia [delle Indie] ed eccolo qui a comandare un ‘vagone di tè’. Poveraccio: come sono stato fortunato, in confronto!»

Eh già, la meritocrazia.
E quante anticamere di segretari e ministri Jack ha dovuto occupare per andare a implorare l’agognata promozione a capitano di vascello; e quei nepotismi di famiglie di nobiltà marinara, che impongono i rampolli sulle navi pur sapendoli pessimi ufficiali, e al limite meglio piangerli in fondo al mare con onore che vederli vergognosi terrazzani senza giubba; e tutte le manovre politiche, le corruzioni, le vendette trasversali che si fanno più fitte man mano che si sale la scala del potere della marina inglese.
L’inizio del terzo libro, con la discussione in alto loco su come si debba spartire il tesoro spagnolo che era stato conquistato (con il concorso determinante di Jack Aubrey) alla fine di Costa sottovento, è un colpo nello stomaco per ogni anima bella che non conoscesse la meschinità del potere ad ogni latitudine; ed è impressionante vedere con quale faccia tosta, per un fottuto cavillo di diritto bellico, i mammasantissima dell’ammiragliato decidano che l’oro è della Corona, tutto quanto, e per i marinai che lo hanno recuperato rischiandoci la pelle, niente ricompensa di guerra. E peggio per Jack, sommerso dai debiti dopo che l’agente di borsa è scappato con la cassa, che aveva bisogno dei soldi per sposarsi.
Insomma, non è soltanto gente che si spara addosso per mare.
La definizione di libri d’avventura sta molto stretta a questa serie. O’Brian è capacissimo di rifilarci tra capo e collo in due righe una mazzata emotiva che ci stronca (una sola parola: Dil), ma è parimenti capacissimo di catturare l’attenzione anche con i momenti più narrativamente anticlimatici, lunghi, uggiosi. Come la vita vera, che difficilmente ci piacerebbe se la vedessimo in un film, perché già la viviamo ogni giorno. E difatti, nell’imminenza di una battaglia,

il signor White se ne stava solo, sconsolato e smorto in viso. «Credo, signore, che questo sia il vostro primo assaggio della guerra sul mare», gli disse [Jack]. «Temo che lo troviate piuttosto sgradevole, senza cabina e senza un vero pasto.» «Oh, no, non mi curo affatto di questo, signore», protestò il cappellano, «ma devo confessare che nella mia ignoranza mi ero aspettato qualcosa di più, diciamo, eccitante? Queste manovre lente e a distanza, quest’ansia prolungata dell’attesa non facevano parte dell’immagine che mi ero fatto di una battaglia. Tamburi e trombe, stendardi, esortazioni esaltanti, urla marziali, il tuffarsi nella mischia, comandanti che gridano: questo mi sarei aspettato, più che l’interminabile sconforto dell’attesa, la sospensione di ogni attività. Certo non mi fraintenderete se dico che mi domando come possiate sopportarne il tedio.» «L’abitudine, senza dubbio. La guerra è per nove decimi noia, e noi siamo abituati a questo nel servizio. Ma l’ultima ora compensa di tutto, credetemi.

Eppure è proprio per l’abilità di farci sentire, e addirittura piacere, questo tedio – questi nove decimi di noia di cui pure la nostra stessa vita è impastata – che Patrick O’Brian è definitivamente uno scrittore con gli attributi.

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Heretics, di Gilbert Keith Chesterton.
Allora, non è che voglio fare una marchetta al kindle, però ci son cose che meritano di essere dette.
Come raccontavo precedentemente, l’aggeggio mi ha spalancato le porte del mondo chestertoniano: 27 libri scaricati for free, in lingua originale. WOW.
Leggere Chesterton sul kindle presenta certi vantaggi. Anzitutto, leggere in inglese è particolarmente agevole, perché il marchingegno dispone di vocabolari integrati, se trovo una parola che non conosco ci sposto su il cursore e mi appare in basso la definizione dell’Oxford Dictionary of English (oppure a scelta del New Oxford American Dictionary; ma per GKC è meglio il primo); comodo e utile.
In secondo luogo, ho apprezzato tanto la possibilità di evidenziare i brani che più mi colpivano e mandarli in un file txt di ritagli, dal quale ho potuto comodamente copiaincollarli dove mi pareva, per esempio sulle mie note anobiane. E, come potete immaginare, di GKC, prolificissimissimo produttore di aforismi e frasi memorabili, quei brani sono veramente tanti, e veramente impressionanti. Frasi incisive come spade. Per esempio il celeberrimo paragrafo finale di Eretici

The great march of mental destruction will go on. Everything will be denied. Everything will become a creed …  We shall look on the impossible grass and the skies with a strange courage. We shall be of those who have seen and yet have believed.

ma anche giudizi estremamente trancianti sul mondo moderno e le sue irrazionalità (e in  ultima analisi questa parola può essere considerata un sinonimo di eresia, perché l’eresia è un peccato, prima che contro la fede, contro la ragione)

When the old Liberals removed the gags from all the heresies, their idea was that cosmic truth was so important that every one ought to bear independent testimony. The modern idea is that cosmic truth is so unimportant that it cannot matter what any one says.

[a proposito della fama borghese di Oscar Wilde e del suo processo per omosessualità] The age of the Inquisition has not at least the disgrace of having produced a society which made an idol of the very same man for preaching the very same things which it made him a convict for practising.

Quest’uomo non capiva tutto, nè parlava di tutto; ma capiva davvero ciò di cui parlava.
È più di quanto si possa dire della quasi totalità del genere umano.

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Tutte le storie di Padre Brown, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura).
Io vado pazzo per i Mammut della Newton Compton – lo avevo già detto, no? – che con pochi soldi ti fanno entrare in possesso del “tutto o quasi” di qualcuno su qualcosa.
€ 14,90 per 720 pagine per tutti i (n. 50) racconti di Padre Brown: un richiamo irresistibile.
Più sopra ho detto, neanche ricordo più dove, che il libro di carta ha un vantaggio inarrivabile per il libro elettronico: lo puoi lasciare in eredità ai figli (o, almeno, puoi illuderti che vorranno leggerlo). Ecco, questo è proprio quel tipo di libro che vorrei trasmettere al frutto dei miei lombi, se e quando ne avrò (cosa che ora non è). Difatti, anche se i racconti di Padre Brown li avevo già scaricati in inglese da amazon, il malloppone l’ho comprato l’ho stesso e  lo sto leggendo a poco a poco, un racconto ogni tanto (senza esagerare, come consiglia Berlicche, altrimenti vado in assuefazione).

***

Galateo per tutte le occasioni, di Sabrina Carollo (in lettura).
Agile e leggibile, non noioso contrariamente alle mie aspettative anzi abbastanza divertente (riesce perfino, per fare l’elogio delle presentazioni stringate, a citare il vitello dai piedi di balsa di Elio e le storie tese: + 100 punti simpatia), tutto sommato di gradevole lettura perfino per uno scabroso buzzurrone come il sottoscritto; e infatti il libro mi è stato imposto consigliato da qualcuno che vuole redimere il mio comportamento da… uhm… quelle asperità ed ineleganze che talvolta lo caratterizzano.
Umf.


Libri aprile 2012

Con moltissimo ritardo…


Storie dal crepuscolo di un mondo (vol. 2), di AAVV.
Trattasi del secondo volume (di una serie di tre) che Urania sta pubblicando per tradurre una smisurata antologia di racconti americani, curata da Gardner Dozois e George R.R. Martin, che omaggia il ciclo della Terra morente di Jack Vance riprendendone personaggi e ambientazioni e stile (vedi sotto).
Mentre il primo volume mi aveva lasciato pressoché indifferente, perché i racconti mi erano sembrati nulla di più che un tiepido divertissement similfantasy (da cui l’interrogativo “ma che ci fa un fantasy in una collana dedicata alla sf?” → vedi sotto), il secondo invece porta una media qualitativa parecchio più alta; quelli che mi sono piaciuti di più sono stati L’uccello verde (con cui ho conosciuto il fantastico personaggio di Cugel l’Astuto) e La lamentabile tragedia comica (o la risibile commedia tragica) di Lixal Laqavee. Per chi fosse interessato, qui si trova una recensione particolareggiata dei racconti (nonché un dibattito classificatorio tra abbonati Urania che si lamentano perché, avendo chiesto e pagato in anticipo dei prodotti di fantascienza, si sono visti recapitare un prodotto che invece non lo pare proprio; polemiche sull’infiltrazione nella sf Urania di residui da altri settori merceologici appioppati ex abrupto ai lettori; lunga storia).
Comunque sia, questo libro mi è piaciuto così tanto che …

 

La Terra morente, di Jack Vance.
… sono andato a leggermi la saga originale di Vance, per la precisione l’edizione italiana della NORD che riunisce le prime due (su quattro) parti della saga.
La prima parte è una miscellanea di racconti ambientanti nella Terra morente, e personalmente li ho trovati abbastanza mediocri: le avventure di Turjan di Miir, Mazirian il Mago e così via, non mi sono sembrate altro che una sequela di cliché fantasticheggianti con poca originalità. Giusto giusto qualcosa me l’ha dato il penultimo racconto, quello di Ulan Dohr nella città di Ampridatvir (che mi ha ricordato la città di Lud nella Torre Nera di Stephen King). Non mi capacitavo del perché del successo della saga finché non ho approcciato la seconda parte, con le (dis)avventure di Cugel, e qui il livello è cambiato da così a così : l’ironia è onnipresente e irresistibile, e alcune pagine mi hanno fatto ridere di gusto come non accadeva dai tempi di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome (il mio affezionato termine di paragone per la comicità in un libro).
Ma insomma, cos’è questa Terra morente?
È la Terra in un futuro lontanissimo, migliaia o fors’anche milioni di anni da ora, quando il Sole starà lì lì sul punto di spegnersi e ogni giorno potrebbe essere l’ultimo (non so se può essere che il Sole si spegne all’improvviso come una candela, ma vabbè). Nuove specie animali, nuove culture, nuove religioni, nuovi popoli, ma l’essere umano è sempre lo stesso con i suoi vizi di sempre. I personaggi sono ribaldi e infingardi, si parlano l’un l’altro in un divertentissimo stile forbito anche quando stanno per tagliarsi la gola. Vance è maestro del genere picaresco e Cugel l’Astuto è il suo capolavoro: un avventuriero inaffidabile, ladro e truffatore, che dovunque si rechi – costretto a un’impresa improba da Ioconou il Mago Ridente – porterà tragicomiche sventure su di sé e su tutti quelli che incontra.
La Terra morente fa parte di quei libri che pongono un interessante problema classificatorio ( ← vedi sopra): si tratta di fantasy o di fantascienza? In questo remoto futuro, in un mondo dove le civiltà sono morte e rinate e rimorte, la scienza e la magia si sono scambiate di posto: ciò che per noi è scienza moderna è diventato un sapere arcaico, esoterico e dimenticato, mentre la magia è comunemente studiata e praticata. Vero è che quella che a noi lettori appare magia potrebbe essere “soltanto” una forma avanzatissima di tecnologia (cfr la nota frase di Arthur Clarke); ma intanto pure ci sono i maghi e gli incantesimi e così via.
I critici americani hanno risolto il problema con una specie di mossa da Alessandro-e-il-nodo-gordiano, inventandosi il nuovo genere della science-fantasy, che sarebbe appunto una commistione di fantasy e science fiction; sarei curioso di sapere dove andare a trovare tale ibrido nel codice Dewey (per chi fosse interessato, posso fornire nei commenti ulteriori ragguagli sulle spaventose complicazioni filosofico-cognitive evocate dal codice Dewey e le sue limitazioni a base decimale; almeno per come mi sono state descritte dalla mia bibliotecaria di fiducia).

 

John Carter, di Edgar Rice Burroughs.
La cosa strana di questo libro (titolo originale Under the Moons of Mars, Sotto le lune di Marte; ma anche A Princess of Mars, La principessa di Marte) è che appena finita l’ultima pagina mi è venuto istintivo pensare “ma che storia mediocre”, poi mi sono ricordato che è un classico del suo genere, e è allora scattato una sorta di istinto condizionato pavloviano che fa subentrare il rispetto che si sente dovuto a un classico. Certo ci si potrebbe chiedere dov’è allora la linea di confine tra il “nostro” giudizio su un’opera d’arte e quello che “subiamo” dal giudizio altrui (critici, generazioni di lettori precedenti, professori di scuola, eccetera), ma c’è un’altra domanda ancora più pressante.
Cos’è un classico?
Per come la vedo io, ci sono grossomodo tre definizioni possibili, diciamo tre “gradi” del classico:

  1. Un libro molto famoso;
  2. Un libro che esprime la sua epoca;
  3. Un libro che trascende la sua epoca.

 Questo libro è sicuramente un classico nel primo senso del termine: ebbe un enorme successo ed una lunga serie di seguiti che, per chi fosse interessato, possono essere legalmente e gratuitamente scaricati in lingua originale qui (grazie, progetto Gutenberg → vedi sotto). Burroughs poi è popolare di suo, essendo il creatore di un altro classico dell’immaginario ovvero Tarzan. Insomma John Carter è famoso, tanto che quest’anno, nel centenario della pubblicazione, la Disney ne ha fatto uscire una versione cinematografica.
Perché sì, John Carter è del 1912. E si vede.
La storia è piena di meccanismi narrativi ingenui e artificiosi. Carter, ex soldato sudista nell’immediato dopoguerra di secessione, viene inseguito dagli indiani; per cause che l’autore non spiega minimamente (l’avrà fatto nei libri successivi? boh), muore sulla terra – nel senso che vede proprio il suo stesso cadavere – e si risveglia su Marte. Diventa l’ago della bilancia nella guerra tra due specie opposte di marziani, una antropomorfa e l’altra mostruosa; impara in poco tempo la lingua marziana fin nelle più delicate sfumature (presumo che i soldati sudisti avessero tutti un Phd in glottologia); cavalca, duella, ammazza, guerreggia e così via; incontra una principessa di Marte in circostanze appassionanti (prigioniera dei cattivi, denudata barbaramente; immagino il brivido erotico del lettore maschio del 1912); lui s’innamora di lei; viceversa; litigano, si riappacificano, lei è in pericolo, lui la salva due o tre volte, alla fine la sposa (c’era bisogno di coprire lo spoiler? ma no). Ovviamente l’eroe è aiutato dalle solite circostanze fortuite, i soliti personaggi deuteragonisti così palesemente aiutanti che sembrano appena usciti dal libro delle funzioni di Propp, e poi c’è il mostro repellente che insidia la bella (“insidia” è una delicata perifrasi per “vuole stuprarla”), l’agnizione del figlio perduto, non mi ricordo che altro ancora. Ah, già, alla fine con la principessa ci fa anche un figlio. Cioè un uovo, perche la razza della principessa, per quanto esteriormente antropomorfa, è ovipara od ovovivipara o che cosa. Come fa il sesso interspecie umano-marziana a prolificare? E chi lo sa. Ma chi se ne frega.
E il libro piace. Vende un botto. Ha incantato milioni di lettori dell’inizio novecento e delle generazioni successive. È, appunto, un classico. Allora uno si chiede: ma perché? Com’è che un libro diventa un classico? Come si crea e cresce la sua fama fino a farne dire “ah, è un classico, lo conoscono tutti”? Perché ha tanto successo?
Qui arriviamo al secondo grado. Un classico non è semplicemente un libro famoso: è un libro che è diventato famoso perché offre ai lettori quello che i lettori cercano, uno specchio in cui guardare se stessi e i propri desideri, vizi e virtù, la propria Weltanschauung; perché esprime un’epoca, un contesto socioculturale spaziotemporalmente determinato, e i posteri potranno usarlo per capire il loro passato.
E allora cosa ci dice John Carter con la sua atmosfera da western marziano, la sua sottile misoginia, l’ingenuità delle sue soluzioni narrative con tutte quelle circostanze pensate apposta per favorire l’eroe, e tutto il resto? Cosa ci dice dell’anno 1912 e dei lettori che ne hanno decretato il successo? Possiamo considerarlo rappresentativo della sua epoca, un classico nel secondo senso del termine? Inclino a pensare di sì, ma se ne può discutere.
Sennonché, quegli stessi elementi che ne hanno forse favorito il successo un secolo fa, oggi rendono il libro peggio che desueto: lo rendono brutto (ovvero, lo renderebbero tale se non si attivasse il riflesso condizionato “ma è un classico!”). Come scrive Giuseppe Lippi nella postfazione  all’edizione Urania:

Due dei più esperti critici italiani del settore – Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – hanno scritto a proposito di Burroughs: “Tutta questa massa di letteratura, che pure ha fatto vendere più di cinquanta milioni di libri, è quasi completamente priva di valore artistico. Burroughs stesso attribuiva la sua popolarità al fatto che le sue storie non imponevano al lettore il minimo sforzo intellettuale. Non vi è caratterizzazione, eccetto che i Buoni sono buoni e i Cattivi cattivi” […]
Paragonandolo a H.G. Wells, Brian W. Aldiss ha detto che ERB “ci insegna a non pensare”. A parte il fatto che per eccellere in tale attività non sembra indispensabile alcun insegnamento, e che gran parte dell’umanità vi ambisce come a un diritto inalienabile, bisogna riconoscere che Burroughs non ha mai voluto ammaestrare il suo pubblico, ma che si è limitato a praticare un’antica forma della narrativa: quella che descrive il fisico anziché il mentale […]

È qui dunque che l’eroico John Carter perde la sua sfida più grande, quella contro il tempo. Infatti il libro, per tutti i motivi sopraddetti, non riesce ad essere un classico nel “terzo grado”, nel senso più alto del termine: un libro che “parla” non solo ai suoi contemporanei, ma anche ai posteri. Un libro che tra cento o mille anni sarà letto non solo per interesse storico (“vediamo come pensavano gli scrittori del XX secolo”), ma anche e innanzitutto per il puro piacere letterario del leggere. Questo, io credo, è un vero classico: un libro che è sempre contemporaneo. Che ha un piede nel suo tempo e l’altro nell’eternità.
Dante è un vero classico. Shakespeare è un vero classico. Manzoni è un vero classico. Borges e Tolkien saranno dei veri classici, anche se giudicare come classico un autore del proprio secolo è sempre un azzardo (perché chi decide davvero è il futuro, e il futuro è impredicibile). Forse anche David Foster Wallace. Ma Burroughs, no, non è un vero classico.
Peccato.

 

Le grandi storie della fantascienza (vol. 19 – anno 1957), di AAVV.
Antologia, a cura di Isaac Asimov e Martin H. Greenberg, dei migliori (secondo loro) racconti di fantascienza usciti nel 1957.
Il libro mi è stato prestato dall’amico Joe, che legge questo blog e ringrazio pubblicamente, con la didascalia “uno di questi racconti potresti averlo scritto tu, leggili e dimmi quale”. Descrizione invero accattivante e inquietante a un tempo, e fin troppo lusinghiera. Il livello generale dei racconto è molto buono (qui l’elenco completo dal catalogo Vegetti); mi sono particolarmente piaciuti Onnilinguista di H. Beam Piper, La Gabbia di A. Bertram Chandler, Il Melodista di Lloyd Biggler jr., e poi il racconto (che ho indovinato – YEY!!!) cui si riferiva il mio amico, L’educazione di Tigress McCardle di C.M. Kornbluth. Potete leggerlo qui in inglese e qui in italiano. È molto divertente, descrive le peripezie di una coppia di coniugi in un futuro in cui, prima di fare un bambino, gli aspiranti genitori possono fare la prova con un robot (“Tesorino”) che simula in tutto e per tutto il comportamento di un vero neonato. Sennonché il robot fa parte di un programma governativo per “disinnescare la bomba demografica”, e ci siamo capiti. Il tono generale della storia è molto ironico, ma la conclusione non lo è (o forse sì, ma di un’ironia amarissima);  e se siete di quelli che al rientro dolce ci credono davvero, fate un favore a voi stessi: leggete il racconto, arrivate all’ultimo paragrafo, e rileggetevi l’inizio. E poi ne riparliamo.

 

Costa sottovento, di Patrick O’Brian.

Diana Villiers deve morire.

 Ero tentato di far consistere la descrizione del libro in questa sola frase, e sarebbe stato abbastanza. Ma in effetti sarebbe ingiusto sia verso il libro, sia verso il personaggio.
Verso il libro, perché la storia non può essere ridotta soltanto a quella specie di quadrangolo sentimentale a geometria variabile in cui sono incardinati Jack, Stephen, Diana Villiers e Sophia Williams. Il titolo originale è Post Captain, che allude alla promozione ricevuta da Jack: l’edizione italiana ha rinunciato all’espressione idiomatica (perché? non era così difficile da tradurre) e ha preferito citare  – presumo – da un punto in cui Jack dice “ho una sensazione maledettamente strana: non ho voglia di tornare a casa stasera. Strano, perché non vedevo l’ora di esserci, stamattina ero arzillo come un marinaio in franchigia, e adesso questa sensazione…. Talvolta in mare si prova la stessa cosa in prossimità di una costa sottovento. Tempo da lupi, vele di gabbia a terzaroli bassi, niente sole, nessuna possibilità di fare il punto per giorni e giorni, nessuna idea di dove si è nel raggio di un centinaio di miglia, e poi una notte si avverte la presenza di una costa sottovento. Non si vede assolutamente niente, ma pare quasi di sentire gli scogli grattare sulla carena.” Cioè instabilità, inquietudine, pericolo nascosto. Tutti sentimenti che si attagliano bene alle traversie occorse ai nostri, sia di natura amorosa (le prime duecento pagine circa non sono neanche ambientate in mare, sono una roba alla Jane Austen tra caccia alla volpe e patemi emotivi, eppure la storia tiene), sia di natura politica (l’attività di Stephen Maturin come spia), sia di natura bellico-nautica (le descrizione dei movimenti nautici della Polychrest, lo “sbaglio del carpentiere”, sono irresistibili perfino a chi non ci capisce niente di  nautica).
Poi c’è lei. Diana Villiers. La tentazione di odiarla è forte, perché rovinare l’amicizia tra Jack e Stephen, spingendoli financo al duello, è atto che non può passare imperdonato. Eppure in qualche modo, da qualche pagina della sua sfortunata biografia, delle angherie cui la costringe la (lei sì, senza attenuanti) sgradevolissima mamma Williams, si sente che Diana Villiers più che femme fatal è vittima: di sé stessa, delle sue ambizioni, dei pregiudizi della sua epoca.
E però, insomma: povero Stephen!

 

Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento (vol. 2), di Antonio Illibato.
Dopo il primo volume, proseguo la  biografia del Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei. Ma si potrebbe anche dire fondatore di Pompei tout court, visto la città praticamente si è sviluppata a partire dalla e attorno alla costruzione della chiesa: case, stazione ferroviaria, ospedali, eccetera. E la cosa che più colpisce (e invero lo rende tanto simpatico, una specie di Paperino dei santi) è scoprire che il Beato Bartolo era… beh… un imbranato.
Il libro infatti, con taglio storico piuttosto che agiografico, non esita a riportare anche quelle vicende nelle quali il protagonista non ci fa una brillantissima figura: le occasioni sprecate, i guai combinati, le inefficienze amministrative. Diciamo la verità: in alcuni punti si ha quasi l’impressione che il Santuario sia stato fondato, più che grazie, nonostante Bartolo Longo.
Ma questo non potrebbe forse dirsi di tutti i santi? Che altro non sono che strumenti, volenterosi ma imperfetti, nelle mani del vasaio?

 

Heretics, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura).
Allora, ho comprato su amazon il kindle, e per adesso sono abbastanza soddisfatto. Descrivere vantaggi e svantaggi dell’ebook rispetto al libro di carta sarebbe un discorso qui troppo lungo (casomai se ne può parlare nei commenti), diciamo solo che avere il kindle offre un vantaggio non irrilevante e cioè la possibilità di scaricare dal sito di amazon direttamente sull’aggeggio, legalmente e gratuitamente, tutte quelle opere sulle quali è scaduto il copyright per decorrenza di tot decadi dalla morte (in questo caso diciamo pure la nascita al cielo) dell’autore.
Onestamente non credo di avere la capacità di esprimere in parole il gaudio praticamente fisico, di livello quasi orgasmico, da me esperito nel fare il download di 27 – dico ventisette – libri di Gilbert Keith Chesterton, molti dei quali di scarsa o impossibile reperibilità in italiano. Non ve lo posso proprio dire. Dovevate stare lì e vedermi.
Successivamente ho scoperto che anche chi non è amazon user può facilmente procurarsi questo genere di ebook gratuiti e legali: vedi il progetto Gutenberg e il suo omologo italiano, il progetto Manuzio.

Per esempio, i libri di Chesterton sul progetto Gutenberg si trovano qui.
Oh, gioia.
E insomma, il primo libro di GKC che ho abbordato è questo Heretics, del quale Ortodossia si porrà in termini di prosecuzione ideale. Manco a dirlo, è fantastico. Ma ne parlerò al post del mese prossimo.


Libri marzo 2012

 Un mese soddisfacente: tutti ottimi libri.

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Contact, di Carl Sagan.

Vedi post precedente.

   

   

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Il fantasma di Canterville e altri racconti, di Oscar Wilde.

Gustosa raccolta di racconti di Wilde, sempre in bilico tra l’umoristico e il poetico.
Particolarmente divertente la storia del fantasma, che offre al pubblico inglese del suo tempo una storia che prende in giro gli americani repubblicani che prendono in giro gli inglesi aristocratici; e infatti alla fine, nonostante l’atteggiamento orgogliosamente plebeo del ministro americano, che vanta continuamente e pedantemente la superiorità dei princìpi democratici statunitensi, la di lui figliola finisce per acquisire titoli nobiliari convolando a nozze con un signorotto britannico, “che è la meta più ambita di tutte le buone piccole bambine americane” – impossibile dire se qui Wilde stia ridendo più degli americani o degli inglesi.
Merita riflessione la prefazione scritta da James Joyce:

Questo non è il luogo di indagare lo strano problema della vita di Oscar Wilde né di determinare fino a che punto l’atavismo e la forma epìlettoide della sua nevrosi possano scagionarlo di ciò che a lui si imputò. Innocente o colpevole che fosse delle accuse mossegli, era indubbiamente un capro espiatorio. Ma la verità è che Wilde, lungi dall’essere un mostro di pervertimento sorto in modo inesplicabile nel mezzo della civiltà moderna d’Inghilterra, è il prodotto logico e necessario del sistema collegiale e universitario anglosassone, sistema di reclusione e di segretezza.  […] L’incolpazione del popolo procedeva da molte cause complicate; ma non era la reazione semplice di una coscienza pura. Chi studi con pazienza le iscrizioni murali, i disegni franchi, i gesti espressivi del popolo, esiterà a crederlo mondo di cuore. Chi segua dal di presso la vita e la favella degli uomini, sia nello stanzone dei soldati, che nei grandi uffici commerciali, esiterà a credere che tutti coloro che scagliarono pietre contro il Wilde furono essi stessi senza macchia. Difatti ognuno si sente diffidente nel parlare con altri di questo argomento, temendo che forse il suo interlocutore ne sappia più di lui. L’autodifesa di Oscar Wilde nello «Scots Observer» deve ritenersi valida dinanzi alla sbarra della critica spassionata. Ognuno, scrisse, vede il proprio peccato in Dorian Gray (il più celebre romanzo di Wilde). Quale fu il peccato di Dorian Gray nessuno lo dice e nessun lo sa. Chi lo scopre l’ha commesso.
Qui tocchiamo il centro motore dell’arte di Wilde: il peccato. Si illuse credendosi il portatore della buona novella di un neopaganesimo alle genti travagliate. Mise tutte le sue qualità caratteristiche, le qualità (forse) della sua razza, l’arguzia, l’impulso generoso, l’intelletto asessuale al servizio di una teoria del bello che doveva, secondo lui, riportare l’evo d’oro e la gioia della gioventù del mondo. Ma in fondo in fondo se qualche verità si stacca dalle sue interpretazioni soggettive di Aristotele, dal suo pensiero irrequieto che procede per sofismi e non per sillogismi, dalle sue assimilazioni di altre nature, aliene dalla sua, come quelle del delinquente e dell’umile, è questa verità inerente nell’anima del cattolicesimo: che l’uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato.

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Io sono Helen Driscoll, di Richard Matheson.

Uno dei grandi capolavori di Matheson. Il titolo originale è A Stir of Echoes, pressappoco traducibile come “un miscuglio di echi”. È la storia di un uomo che, sottoposto per scherzo a ipnosi, scopre le proprie latenti e incontrollabili facoltà telepatiche e ne deve affrontare le conseguenze, tra cui il vedere uno spettro nel soggiorno. Il protagonista vorrebbe ignorare questa nuova consapevolezza, che gli fa percepire i lati nascosti e mostruosi dei vicini di casa con i quali deve pur necessariamente condurre una vita sociale; vorrebbe far finta di niente, continuare la tranquilla vita di prima, ma non può: una volta che hai visto la verità, non puoi più “far finta di niente”.
Ho sempre trovato molto significativa questa storia; l’avevo anche citata descrivendo la mia conversione al cattolicesimo, quando pure io avevo visto una verità che avrei voluto ignorare, ma…  non potevo, proprio non potevo. E ora sono qui.
Un libro vivamente consigliato. Per tutti, non solo per gli appassionati del genere.

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Tutti i racconti di fantasmi, di Montague Rhodes James.

L’autore, vissuto tra il 1862 e il 1936, è un caposaldo della letteratura gotica. Finora lo conoscevo soltanto di nome, per averne letto lusinghieri elogi da parte di Stephen King e Howard Phillips Lovecraft; il che era già un validissimo biglietto di garanzia; e quando ho trovato in libreria a poco prezzo (4,9 € / 354 pagine / 31 racconti) questa sua raccolta omnia di ghost stories, non ho resistito.
(N.B. io sono vittima perenne delle tentazioni antologiche: se un libro mi promette di contenere un qualche “tutto” di qualcosa o qualcuno, inevitabilmente sento che DEVO averlo; se c’è qualcuno là fuori che soffre della mia medesima patologia, alzi la mano)

La narrativa di MRJ è elegante, le sue storie (che era solito inviare agli amici come regalo di Natale) perturbanti. Fa leva sull’inquietudine sottile più che sul terrore aperto. I protagonisti sono spesso professori, bibliofili, chierici; le locations chiese, biblioteche, brughiere. Degno di nota è che spesso l’autore descrive un fatto, ma non ne dà alcuna spiegazione, neppure di ordine sovrannaturale: l’effetto suggestivo prodotto sulla fantasia del lettore è potentissimo.
Prendiamo ad esempio il racconto che mi è piaciuto di più, Una storia dei tempi di scuola. In una sala d’albergo un uomo rievoca fatti strani che accaddero al suo professore di latino, il quale portava sempre con sé un ciondolo con incise le sue iniziali, GWS, e una data, 24/07/1864 (la storia si svolge nel 1870). Accadde dunque che una volta questo professore avesse assegnato per esercizio la composizione di frasi con il verbo “ricordare”, ed uno degli studenti scrisse – senza saper spiegare come gli fosse saltata in testa – la frase memento putei inter quatos taxos (ricordati del pozzo tra i quattro tassi), ciò che rese molto pensoso l’insegnante; un’altra volta aveva assegnato la composizione di frasi con il condizionale, ed uno degli esercizi sulla scrivania – i fogli erano diciassette; ma gli studenti erano solo sedici – diceva si tu non veneris ad me, ego veniam ad te (se tu non verrai da me, verrò io da te); ed infine il narratore riporta de auditu che una notte un suo compagno di classe, guardando nelle finestre dell’appartamento del docente, vide “una figura magra e bagnata” fare “dei cenni” al professore. Il giorno dopo l’insegnante scomparve dalla scuola e non se ne seppe più niente. La rievocazione dei tempi di scuola finisce qui. Qualche tempo dopo uno degli uomini che ascoltavano la storia, trovandosi in un altro albergo in compagnia di altri commensali, viene a sapere di un piccolo mistero della zona: anni prima erano stati trovati, in un pozzo al centro di un boschetto di tassi, i cadaveri di due persone, di cui una abbracciava l’altra. Tra i brandelli di vestiario di uno dei due era stato trovato un ciondolo con l’incisione GWS 24/07/1864.
Tutto qui. L’autore non dice nulla sul chi, come, perché. Non sapremo mai quale sia l’evento accaduto il 24 luglio del 1864. C’è solo un fatto: un uomo riceve un richiamo dall’oltretomba e obbedisce. Di quell’abbraccio nella morte, e delle circostanze che lo hanno determinato, non sapremo mai nulla, possiamo solo supporre: eppure proprio per questo colpisce e stimola così tanto la nostra immaginazione.
MRJ era  un grande scrittore. Qui c’è molto da imparare.

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Primo comando, di Patrick O’ Brian.

Primo libro (seguito da altri 19 volumi più un postumo incompleto! urgh!) della saga di mare e amicizia di Jack Aubrey & Stephen Maturin. Il titolo originale è Master and Commander (immagino si riferisca al personaggio di Aubrey, che qui inizia la sua carriera di capitano); ne è stato tratto un film, che non ho visto, con Russell Crowe e Paul Bettany.  Avendo letto opinioni favorevoli della saga, qui e ovviamente qui, ho iniziato per esperimento il primo della serie.
All’inizio ho trovato la lettura molto difficile, perche l’autore infarcisce la sua narrativa di termini nautici; e per me che ho al massimo una vaga nozione di cos’è la prora, per non parlare della poppa, è stato oltremodo improbo districarmi tra termini esoterici come addugliare, bompressi, coltellaccino, draglia, fileggiare, gaettone, intregnare, lapazzare e via dicendo. Ho avuto la tentazione di mollare la zavorra e veleggiare verso lidi più comprensibili; e sono rimasto a galla solo in un modo.
Nelle Postille al Nome della Rosa, Umberto Eco scrive che “un ragazzo di diciassette anni mi ha detto che non ha capito nulla delle discussioni teologiche, ma che esse agivano come prolungamenti del labirinto spaziale (come se fossero musica thrilling in un film. Di Hitchcock)”. Ecco, per me è successa un po’ la stessa cosa con i termini nautici: non ci capivo niente, ma fungevano da colonna sonora dell’azione; come quando senti una canzone con termini stranieri di cui, anche se non sai il significato, apprezzi la musicalità, che fa da amplificatore emotivo alla storia. In quei paragrafi ho rinunciato a capire con precisione il chi e il cosa, e la storia, perdendo in profondità, ha guadagnato in linearità.
A parte i problemi di vocabolario, la storia merita di per sé. I personaggi meritano. Il distico di caratteri tra il sanguigno capitano Aubrey e il pacato medico di bordo Maturin è ben accostato e fa sperare per il futuro, così come sono soddisfacentemente delineati i personaggi di contorno e il panorama storico del periodo.
Penso che proseguirò la saga, mi considero arruolato.