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Libri febbraio 2013


World War Z, di Max Brooks.

Premessa: sono appassionato di storie di morti viventi e ne difendo la dignità culturale nei confronti di chi le squalifica come mero horror-pulp sensazionalistico.
Gli zombie mi piacciono (come argomento, non li terrei come animali domestici) perché li vedo come l’uomo postmoderno privato della sua retorica ed estremizzato nel concetto: un essere al di là del bene e del male, senza etica, senza razionalità, vittima dell’omologazione di massa eppure al tempo stesso profondamente solo e incapace di empatia, definito dai due impulsi  fondamentali che lo muovono: la vita eterna (nell’aldiquà, essendo l’aldilà scomparso dall’orizzonte concettuale) e la soddisfazione dei propri appetiti.
Posto quanto sopra, WWZ non poteva non piacermi al massimo grado. Si tratta di un libro EPICO, scritto da una massima autorità sull’argomento ovvero Max Brooks già autore del Manuale per sopravvivere agli zombie (da tenere nel comodino a portata di mano, metti caso serva). Io l’ho letto in inglese, perché in italiano non si trova, ma probabilmente lo ripubblicheranno a breve perché tra poco esce nelle sale il film tratto dal libro, di cui è già in circolazione il trailer. Considerato che il protagonista è Brad Pitt e che gli zombie in questo periodo tirano, probabilmente incasserà. Peraltro la pubblicità a me ha fatto alquanto ribrezzo, perché sembra la solita storia azioneazionefuggisparaesplodibumbumbum: o il trailer è infedele rispetto al film, oppure il film col libro c’entra poco e niente.
D’altra parte, mi rendo conto che non era così facile trasporre la storia in film (una serie sarebbe stata un format più adatto). Perché WWZ non è una semplice storia di morti che risorgono e mangiano i vivi. Tecnicamente non è neppure un romanzo. È proprio un’altra cosa, molto migliore.
La particolarità di WWZ è che avviene un mondo in cui c’è già stata la guerra contro gli zombie, e l’umanità ha vinto ed è sopravvissuta, seppure a malapena. L’autore intradiegetico del libro è un giornalista che viaggia per il mondo e intervista persone di tutti i tipi, di ogni continente e ceto sociale, facendosi raccontare quello che hanno vissuto e le cose che hanno fatto. È dunque palese la differenza rispetto alla classica zombie story, alla George A. Romero oppure The Walking Dead: lì il punto di vista è del singolo, qui invece è letteralmente globale.
WWZ è estremamente realistico dal punto di vista geopolitico. Sarebbe perfettamente degno di un numero speciale di Limes. Prende in considerazione una quantità immensa di fattori che nelle altre storie di zombie sono generalmente ignorati: la reazione dei mass-media e dei politici di fronte alle voci di apocalisse (negare sempre, anche l’evidenza, finché non è troppo tardi), le specifiche ragioni tecniche del fallimento delle normali tattiche militari di fronte a un nemico così radicalmente diverso (la battaglia di Yonkers), gli imprevedibili sconvolgimenti politici (Israele si chiude in quarantena e poi scoppia la guerra civile!), l’opportunismo di chi è contento dell’epidemia (Breckenridge “Breck” Scott e il suo vaccino-bufala Phalanx, del quale avevo già parlato qui), il tracollo psicologico collettivo di una società intera (i quisling, gli umani che si convincono di essere zombie), eccetera.
Dove invece WWZ rivela stretta continuità con il genere zombie è invece nella critica morale all’umanità, nel ritratto impietoso dei nostri simili: dalle interviste emerge un coro a 360° di vizi e virtù, eroismi, vigliaccherie, compromessi, dilemmi morali angoscianti. Pensate alla strategia attuata dai governi nazionali, il “Piano Redeker”: fondamentalmente consiste nel sacrificare volontariamente una parte della popolazione, usandola come diversivo e dandola letteralmente in pasto agli zombie, onde permettere al resto della nazione di emigrare verso zone sicure. L’ideatore di questa strategia di sopravvivenza dice che il genere umano per sopravvivere deve semplicemente rinunciare alla sua umanità, nel senso morale del termine. Cosa pensare di una simile scelta? Come giudicarla? Abbiamo il diritto di giudicarla? Ne abbiamo il dovere? La risposta è difficile, ma la domanda è inevitabile.

Altrimenti, se non abbiamo una morale, che differenza c’è tra noi e loro?

 

Missione sul Baltico, di Patrick O’ Brian.

il comandante del porto convocò il comandante Aubrey. «Mi rifiuto di credere, signore», disse, «che tranne uno tutti i vostri ufficiali discendano dalla regina Anna.» «Mi dispiace, signore, ma poiché la regina Anna è morta», rispose Jack, «la comune decenza m’impedisce di fare commenti.»

 Settimo libro della saga marinara (ma la definizione è riduttiva) di Aubrey & Maturin, e diretta continuazione e conclusione delle vicende raccontate nei due libri precedenti. E perbacco, che conclusione! Non lo scrivo perché uno spoiler sarebbe abominevole, ma si tratta di un evento che cambia radicalmente e irreversibilmente lo status di un certo personaggio.
Che ha finito di soffrire, forse… oppure, forse (e dico anche probabilmente), le sue più grandi sofferenze sono appena cominciate.

 

Le lettere di Babbo Natale, di John Ronald Reuel Tolkien.

Buffissime e tenerissime lettere dal Polo Nord, condite delle disastrose avventure di un Orso Polare pasticcione e degli auguri in Quenya degli elfi aiutanti, che Tolkien inventava per i suoi figli e faceva loro arrivare ogni Natale da parte di “Babbo Natale” – si badi bene, non Santa Claus, ma nel titolo originale “The Father Christmas Letters”.
Ora io non mi dilungo sui rapporti tra Santa Claus e Father Christmas, né su tutta l’annosa questione della valutazione “cattolica” di Babbo Natale, anche perché c’è già chi l’ha fatto molto bene; ma m’interessa far notare la posizione che implicitamente assume Tolkien nella vicenda, e che secondo me è strettamente legata alla sua concezione dello speciale rapporto tra paganesimo e cristianesimo: il primo rivalutato in positivo e visto non come opponente del secondo, ma come antecedente logico oltre che cronologico, veicolo di semina Verbi, propedeutico al messaggio cristiano.
Ecco allora che Babbo Natale, il quale ormai non è più il vecchio San Nicola bensì un personaggio ormai decristianizzato e paganeggiante, un mito per esprimere dei generici valori positivi di calore familiare, non viene da Tolkien semplicemente negato; viene piuttosto “ri-cristianizzato” nella figura di ­ Father Nicholas Christmas, che ha millenovecentoventi anni nel 1920 e ne ha millenovecentotrenta nel 1930 (cioè nasce con il cristianesimo) e che in un passaggio delle sue lettere accenna all’esistenza di suo padre… “Nonno Yule”.
Yule, capite?
Come sempre in Tolkien, una semplice parola basta per implicare concetti, epoche storiche, mondi lontani: il simbolo pagano che si fa da parte per far posto al simbolo cristiano, non già come Saturno che viene scalzato da Zeus, bensì come il padre che lascia serenamente in gestione al figlio “l’attività di famiglia” del portare regali all’umanità; il cristianesimo come successione del paganesimo, non per rigettarne in toto il passato, ma per ereditarne i contenuti positivi.

 Grazie, professore.

 

L’infanzia di Gesù, di Benedetto XVI.

Naturalmente ottimo, e fa venire voglia di rileggere tutto il trittico in successione continua. Anzi fa venir voglia di rileggersi tutta l’opera omnia dell’autore.

Anche perchè leggerlo proprio nel periodo contemporaneo all’evento storico che sappiamo, sapendo che non ce ne saranno altri, fa un certo effetto.

 

Dottor Futuro, di Philiph K. Dick.

Se non avessero limitato le nascite, adesso ci sarebbe una popolazione umana preziosa su Marte e Venere […] invece abbiamo una società calcificata che passa il tempo meditando sulla morte; che non ha progetti, non ha una meta, non ha nessun desiderio di crescita. Come la società egizia… la morte e la vita sono così strettamente collegate che il mondo è diventato un cimitero, e le persone nient’altro che custodi che vivono tra le ossa dei morti. In pratica, dentro di sé, si considerano premorti, non individui vivi. Così il loro grande retaggio è stato sprecato.

 Pubblicato nel 1960, eppure ancora una volta PKD si mostra straordinario profeta di quelle tendenze distruttive che oggi sono il nostro presente.
Jim Parsons è un medico che per ignoti motivi viene rapito dal suo presente (il 2012) e trasportato nel remoto futuro del 2405. Si ritrova così in una società caratterizzata da una profonda cultura di morte: il numero della popolazione è fisso, tutti sono sterilizzati e le fecondazioni avvengono solo per via artificiale, il governo decide di procedere ad una nuova nascita solo quando qualcuno è morto, e la morte è incoraggiata. L’omicidio è legale, il suicidio è lodato come un gesto di coscienza civica, mentre le cure mediche sono criminali e viste come un’indebita interferenza nelle leggi di natura. Quando la gente sta male, non va dal dottore, va dall’eutanasista: Parsons, per aver onorato il suo giuramento d’Ippocrate, passerà dei guai con la giustizia.
E così cominciano le allucinanti traversie spaziotemporali del Dottore, l’unico uomo al mondo rimasto a credere che la vita valga più della morte; l’unico uomo al mondo che può salvare la specie umana dall’estinzione.
Un PKD ingiustamente poco noto, da riscoprire, da farci un film, da far conoscere.


Libri ottobre 2012

Anzitutto, desidero NON-ringraziare wordpress che ha tolto la possibilità di mettere i link interni al post (ma perché? perché?!?).
A me cambia poco, il problema è vostro: se vi interessa uno solo di questi libri, non potete più andarci direttamente, ma dovete cercarvelo in mezzo a tutto il resto.

Per facilitarvi le cose, faccio due post separati per singolo mese, anche se a ottobre ho letto poco.

 

333 – La formula segreta di Dante, di Robert Masiello.
Non fatevi ingannare, Dante c’entra ben poco, viene nominato un paio di volte all’inizio e poi scompare. Infatti il titolo originale è The Medusa Amulet, e si spiega perché Benvenuto Cellini ha fabbricato con le sue arti negromantiche (pare dopo aver evocato lo spirito di Dante) uno specchio con l’effigie della Medusa che dà la vita eterna a chi vi si specchia sotto la luna piena. Ma l’editore deve aver pensato che Dante lo conoscono tutti, la Medusa no.
Il libro si scosta poco dalla media dell’abituale pacchetto post-Codice da Vinci, di cui ricalca lo schema classico: congiure, dietrologie storiche, lo scontatissimo lato sentimentale (quando lui vede lei, dopo la prima sillaba abbiamo già capito che scatterà l’ammmore), un paio di descrizioni di chiese e/o musei, la sorpresa sull’identità del Cattivone. A questo si aggiunge però una cavalcata attraverso i secoli, vista con gli occhi dell’immortale Cellini, che non è affatto male. Mi è piaciuta in particolare la descrizione delle brutalità della Francia rivoluzionaria.
Se siete di bocca buona e lo trovate a poco, potreste dargli una possibilità; altrimenti lasciate pure perdere.

 

L’altra faccia della realtà, di AAVV.
Il libro è l’antologia Urania Millemondi dell’estate 2009. L’ho trovato su una bancarella a 1 € ed è stato un ottimo affare, la media qualitativa dei racconti è davvero alta. Mi sono piaciuti in particolare “Oltre lo squarcio di Aquila”, di Alastair Reynolds, che ha un paio di colpi di scena notevoli; “Un caso di concordanza”, di Ken MacLeod, che ricalca le orme di Guerra al grande Nulla di Blish; ma soprattutto “Seconda persona tempo presente”, di Daryl Gregory. Potete trovarlo in inglese in pfd qui.
È questa una riflessione davvero interessante sul tema dell’identità. Racconta di un’adolescente, Therese, che è andata in coma dopo aver provato una nuova droga, la “Z” (sta per Zen oppure Zombie), che distrugge l’autopercezione riducendo l’individuo a un burattino privo di preoccupazioni che agisce senza pensare, anzi senza pensare di pensare (ovviamente spopola tra i gggiovani). Dopo il coma, la protagonista non riesce a riallacciare i fili con la previa identità che considera morta per overdose, e si considera una nuova persona che deve ricominciare da capo, rifiuntando tutto della precedente ragazza compreso il nome. Il problema è che i genitori non sono d’accordo.
La storia è scritta in modo da dare ragione al punto di vista della protagonista, la quale peraltro è stata aiutata da un simpatico medico buddista (non so se è buddista anche l’autore). Infatti questa mi pare una concezione molto buddista dell’identità, che considera il corpo un semplice “veicolo” per l’anima, diversamente dalla concezione aristotelico-cristiana del sinolum come unità bipartita di corpo + anima definitivamente indissolubili.
Se fossi stato lì presente, avrei fatto notare alla ragazza che lei non è ricominciata da capo un bel niente, perché il corpo è sempre quello; e che le differenze di carattere tra la vecchia Therese e la nuova (per esempio, Therese era ben inserita in una parrocchia cristiana descritta come una massa di bigottoni ipocriti, mentre la narratrice pare sessualmente disinibita) puntano piuttosto alla conclusione che la narratrice è Therese non come lei era, ma come sotto sotto lei voleva essere.
Ma io nel racconto non c’ero, mannaggia.
Comunque, non sottovalutate il vostro corpo.
Voi non avete un corpo. Voi SIETE un corpo.


Vulcano 3, di Philip K. Dick.

Le cose erano diventate vive,
e gli esseri viventi erano stati ridotti a cose.

A quanto pare è considerato un PKD minore, eppure l’ho trovato sorprendentemente attuale per il presente momento storico. Il che non è poco, considerato che è stato scritto nel 1960.

 Dopo l’ennesima disastrosa guerra mondiale, la democrazia è ritenuta pericolosa, perché le popolazioni sono troppo emotive ed irrazionali per prendere le decisioni giuste ed eleggere i capi giusti. Perciò le elitès, ops, volevo dire le nazioni, hanno deciso di passare alla tecnocrazia ed hanno affidato il potere amministrativo a un potente supercomputer, il terzo modello della serie Vulcano, che è indubbiamente il miglior tecnocrate che si possa avere essendo esso stesso un prodotto della tecnica. Il computer elabora, decide, nomina gli umani che occupano le posizioni amministrative più elevate, ai quali impartisce le appropriate direttive di governo; essendo una fredda macchina calcolatrice il suo giudizio non può essere inficiato dall’emotività, dalla corruzione per motivi personali, dall’egoismo. Insomma, Vulcano 3 è il governante ideale, e così il governo del mondo è diventato “una scienza amministrata da esperti”. I quali esperti, non essendo eletti dal popolo bue ma nominati da un computer, sono per definizione ottimi gestori della cosa pubblica.
Pare, insomma, che il mondo diventi un posto molto felice. Almeno secondo la versione ufficiale dei mezzi d’informazione, i quali, incidentalmente, sono tutti controllati dal governo tecnocratico.
Inspiegabilmente, non tutti sono d’accordo con questa utopia: il movimento popolare clandestino para-religioso dei Guaritori sostiene la felicità universale è una frottola, che la tecnocrazia non garantisce affatto maggior equità, che povertà e delitti non sono affatto stati cancellati; che i tecnici al potere ci hanno messo poco ad acquisire i vizi dei vecchi politici, e infatti gli amministratori agli ordini di Vulcano 3 sono avidi, corrotti, si scambiano sgambetti e raccomandazioni proprio come ai vecchi tempi; che il supercomputer, per giunta, “ha detronizzato Dio”.
Peggio ancora, strani incidenti accadono, così che qualcuno comincia a farsi venire sospetti sulla vera natura di Vulcano 3…

Insomma, il libro mi è piaciuto. Ve lo consiglio vivamente.
Penso che nella mia letterina a Babbo Natale gli chiederò di farne arrivare qualche copia a Palazzo Chigi, Bruxelles, il Palazzo di Vetro a New York.
Qualcuno dovrebbe leggerlo, lì.

 

Verso Mauritius, di Patrick O’Brian.
È il quarto libro della serie di Jack Aubrey e Stephen Maturin, nonché il primo che non mi abbia entusiasmato.
Non che non sia piacevole da leggere, per carità; O’Brian sa scrivere e seguire i due protagonisti è sempre bello; è solo che non ho trovato quel quid che mi aveva così colpito in precedenza. Giunto alla fine mi sono reso conto che, a parte le prime pagine dedicata al nuovo status familiare di Jack e alla sua terribile suocera, e a parte la triste figura dell’invidioso Clonfert, non c’era niente che mi fosse rimasto impresso, poco che mi ricordassi davvero.
Forse è stato un momento di stanchezza dell’autore, o forse sono io che sono stato troppo viziato dalla superlativa qualità dei precedenti libri.
Il prossimo, comunque, è molto migliore.


Libri agosto 2012

Fondamentalmente, C.S. Lewis con annessi e connessi.

L’ora dei Grandi Vermi, di Philip K. Dick & Ray Nelson.
La Terra è stata invasa dagli abitanti di Ganimede, grossi vermi telepatici, e l’unica resistenza umana è affidata ai “partigiani negri” del Tennessee capeggiati dal telepatico Percy X. Non provo neppure a riassumere tutta la confusa girandola di eventi surreali che si dipana da questo presupposto, dico solo che il libro è molto bello e divertentissimo.
Non sono in grado di capire dove finisca l’apporto creativo di uno dei due autori e cominci quello dell’altro, ma il libro è perfettamente nello stile PKD: personaggi stralunati che perdono anche quando vincono, assoluta confusione tra realtà e irrealtà, umorismo a palate (in particolare, ironia dissacrante su psichiatri e psichiatria: il dottor Balkani è più pazzo dei suoi pazienti, e l’Associazione Mondiale Psichiatri risulta più autocratica degli autocrati che vuole combattere).

 ***

Perelandra, di Clive Staples Lewis.
Desidero cominciare questo commento a Perelandra di Lewis ringraziando l’amico Joe, che mi ha prestato il libro, e parlando di Preludio allo spazio di Arthur C. Clarke.
Preludio allo spazio è praticamente archeo-fantascienza, scritto nel ’47 (dieci anni prima dello Sputnik sovietico, ventidue prima dell’allunaggio) e incentrato sui preparativi del primo volo spaziale. Quando lo lessi un paio di anni fa lo trovai molto noioso per storia e stile ma molto significativo per la filosofia soggiacente, cioè quel tipico positivismo di Clarke, tanto esasperato quanto ingenuo, per il quale l’Uomo – in certi punti l’autore lo scrive proprio con la U maiuscola – potrà costruire un quasi-paradiso-in-terra grazie alla tecnologia e liberandosi dalla zavorra della religione. I buoni del libro riescono a mandare in orbita la prima navicella, ovviamente chiamata “Prometheus”, lottando contro ogni avversità: compresi i fanatici religiosi, che vorrebbero impedirglielo anche con la violenza perché… boh, non si sa, l’autore non fa lo sforzo di spiegarlo, ma tanto sono fanatici religiosi ergo cattivi e scemi, che altro serve sapere.
Perché parlo di questo libro? Perché Clarke nella prefazione scrive

Le blande canzonature [sic] che avevo indirizzate al defunto dottor Clive Staples Lewis portarono in un secondo tempo a un’amichevole corrispondenza epistolare e a un incontro diretto che avvenne nel famoso Eastgate pub di Oxford, nel corso del quale Val Cleaver e io tentammo di dimostrare al dottor Lewis (e al suo collega, professor J.R.R. Tolkien) quanto inverosimile fosse il convincimento che attribuiva a ogni aspirante astronauta disposizioni malevole simili a quelle del Weston di “Lontano dal pianeta silenzioso”. Lewis finì con l’indursi a un volonteroso compromesso considerando che, se pur pessimi soggetti, quali probabilmente eravamo, il mondo tuttavia sarebbe stato un luogo d’insopportabile uggia se ogni essere umano fosse stato buono.

 Ecco, desidero esprimere il mio totale scetticismo sul fatto che Lewis possa aver detto una tale scemenza. Volendo escludere che Clarke stia inventando per fare bella figura, penso che ricordi male oppure abbia frainteso qualche ironia della controparte.
Lewis non può aver veramente voluto dire quella baggianata perché il Marte di “Lontano dal pianeta silenzioso”, e ancor più il Venere di “Perelandra”, sono abitati da genti prive di peccato e proprio per questo sono luoghi dove la noia è sconosciuta. Anzitutto perché la noia è infelicità, mentre chi è buono, figuriamoci se di una bontà incorrotta, è tutt’altro  che infelice; e poi c’è che le creature non-umane di Marte, e ancor più gli umani di Venere, hanno ben altro da fare che annoiarsi. I marziani studiano, cacciano, costruiscono; e quanto ai venusiani, della cui stirpe vediamo la coppia primogenitrice, traduco questo passo dal libro di Sanford Schwartz (commentato più sotto):

In un sorprendente distacco dalla visione tradizione del paradiso terrestre, Lewis presenta l’ordine anteriore alla caduta come uno stato di flusso continuo, un “universo di obiettivi cangianti”, del quale descrive il risultato supremo (i suoi Adamo ed Eva) come creature dinamiche che apprendono immediatamente e sembrano evolvere ad ogni momento che passa. Invece di una immutabile condizione che precede la caduta nel tempo e il cambiamento, il nuovo Eden di Lewis è un mondo di movimento perpetuo in cui l’unica proibizione (il suo Albero della Conoscenza del Bene e del Male) è non abitare sulla “Terra Ferma”.

 Ma quale insopportabile uggia, allora!
“Perelandra” è, fondamentalmente, la storia di una tentazione. Ransom, reduce  dal viaggio su Marte descritto nel primo capitolo della trilogia, viene portato dagli eldila ( = gli angeli) su Venere per fermare i piani diabolici. Il pianeta descritto da Lewis è un mondo prevalentemente acquatico, dove le terre “galleggiano” sull’acqua e ne condividono l’instabilità, sicché una pianura può immediatamente trasformarsi in collina e viceversa. L’unica isola del pianeta stabilmente ancorata al fondale sottomarino e geograficamente immutabile è appunto la Terra Ferma, oggetto del divieto di abitazione da parte di Maleldil ( = Dio). Lewis assegna a questa condizione geologica un significato teologico, perché per gli uomini venusiani abitare le terre “acquatiche” significa accettare pienamente la volontà superiore, ogni cambiamento, ogni movimento, ogni alto e ogni basso, “tutte le onde che Lui manda”; mentre risiedere sulla Terra Ferma, sempre nello stesso posto, sapere oggi dove si sarà domani, significherebbe pretendere di farsi da sé e controllare il futuro rifiutando il disegno divino.
Questa è la tentazione. Arrivato su Venere Ransom incontra l’Eva di questo mondo, una donna dalla pelle verde (la diversa pigmentazione probabilmente deriva dal fatto che i suoi ascendenti biologici non sono scimmie ma antropoidi marini simili a tritoni e sirene); incontra Weston, lo scienziato malvagio del precedente libro, che gli fa un sinistro discorso sulla propria conversione dal precedente materialismo a un inquietante “evoluzionismo emergente” sulla falsariga del vitalismo bergsoniano (cfr libro di Sanford Schwartz); e incontra, non dirò come, il Tentatore. Un essere demoniaco, presumibilmente Satana stesso, descritto in modo tanto raccapricciante quanto convincente, che cerca con ogni artifizio dialettico di convincere la donna a violare il divieto di Maleldil e prendere possesso della Terra Ferma. E a lui, Ransom, è affidato il compito di fermarlo e impedire una nuova Caduta.
Il libro mi è piaciuto moltissimo. In particolare l’inno finale a Maleldil, con le benedizioni di ringraziamento per la “Grande Danza” dell’infinita varietà di mondi creati, è un apice di misticismo che non lascia indifferenti. Cito nuovamente da Schwart:

Come una forma aggiornata di neoplatonismo cristiano, la cosmologia dell’inno finale richiama un momento storico antecedente alla moderna dissociazione della natura dalla sua fonte divina. Nell’enfasi duale sulla trascendenza di Dio e la sua immanenza dentro ogni cosa creata, questa visione ricorda particolarmente quanto elaborato dal vescovo e filosofo Nicola Cusano […] l’obiettivo di Lewis è integrare questo platonismo cristiano con una nuova concezione del tempo che sfida le assunzioni meccanicistiche dominanti la scienza moderna fino alla fine del XIX secolo. A questo scopo, egli sviluppa ciò che sembra essere una rimarcabile versione della coincidentia oppositorum di Nicola Cusano – la trascendenza di Dio immanente ad ogni elemento dell’universo – in una cosmologia dinamica che unisce una visione bergsonianamente anti-meccanicistica dello sviluppo continuo con una comprensione cristiana della singolarità, santità, e divina inabitazione in ogni momento del processo creativo.

 Insomma, mi è piaciuto così tanto che il giorno stesso in cui l’ho finito mi sono letteralmente fiondato in biblioteca per prendere in prestito il volume finale della trilogia, nel quale mi aspettavo che Ransom andasse, che so, su Giove o Saturno.
E invece.

 ***

Quell’orribile forza, di Clive Staples Lewis.
Capolavoro.
Però inizialmente mi aveva lasciato perplesso e aveva frustrato le mie aspettative, visto che è molto diverso dagli altri due. Mi aspettavo un altro viaggio interplanetario, e invece tutto si svolge sulla Terra. Ransom qui appare solo a metà del libro e non è più la figura principale. Lo stile di scrittura è sensibilmente diverso. In effetti il libro, che ha per sottotitolo “una fiaba moderna per adulti”, può in teoria essere fruito del tutto separatamente dai suoi precedenti.
Eppure, dopo già cinquanta pagine mi aveva catturato come non mi accadeva da molto tempo. Laddove Lontano dal Pianeta Silenzioso mostrava un mondo edenico privo di peccato, mentre Perelandra mostrava un mondo nascente e una nuova umanità “reboot” al suo grande bivio morale, Quell’orribile forza va invece nel verso opposto: un vero e proprio viaggio nel Male.
In un certo senso, questo è un grande romanzo distopico, al pari di Brave New World oppure 1984, di cui anticipa numerose tematiche. Basti vedere il modus operandi dell’INCE, l’Istituto Nazionale per il Coordinamento degli Esperimenti, ironicamente NICE nella versione inglese (nice significa carino; peraltro mi chiedo se non ci fosse anche un sottile richiamo a Nietzsche), nonché i suoi fini:

 “la sterilizzazione dei disabili, l’eliminazione delle razze arretrate (non vogliamo pesi morti), la riproduzione selettiva. Poi l’educazione vera, compresa l’educazione prenatale. Per vera educazione intendo un’educazione che non ammetta pressappochismi. La vera educazione infallibilmente trasforma chi la subisce in ciò che essa si prefigge, senza che il soggetto in questione o i suoi genitori possano farci nulla. Naturalmente si tratterà, all’inizio, di un influsso soprattutto psicologico, ma alla fine arriveremo al condizionamento biochimico e alla diretta manipolazione del cervello.”

 Sennonché, a differenza di Huxley e Orwell che operano una prospettiva atea, Lewis… è Clive Staples Lewis, ecco. L’autore delle Lettere di Berlicche, e hai detto niente.
In effetti, per il lettore che ha letto e si ricorda quel sulfureo epistolario, leggere Quell’orribile forza è un’esperienza doppiamente sconvolgente, perché sembra quasi di osservare le “esercitazioni pratiche” dell’allievo demone; vediamo comportamenti e discorsi e pensieri di cui il lettore consapevole può scorgere, come in controluce, la causa diabolica. Come scriveva il demonio Berlicche nella sua lettera n. 7,

Mio caro Malacoda,
mi fa meraviglia che tu mi chieda se sia essenziale tenere il tuo paziente nell’ignoranza della tua esistenza. A codesta domanda, almeno per l’attuale fase della lotta, è già stato risposto per noi dall’Alto Comando. La nostra politica per il momento, è di tenerci nascosti. Naturalmente non è stato sempre così. Noi siamo di fronte a un dilemma crudele. Quando gli esseri umani non credono alla nostra esistenza perdiamo tutti i piacevoli risultati del terrorismo diretto e non riusciamo a far sorgere i fattucchieri. D’altra parte, quando credono in noi non siamo capaci di farli diventare materialisti o scettici. Almeno, non ancora. Ho grandi speranze che apprenderemo, a tempo debito, il modo di emozionalizzare e mitologizzare la loro scienza a tal punto che ciò che è, in realtà, fede in noi (quantunque non sotto questo nome) riuscirà a insinuarsi, mentre la mente umana rimarrà chiusa alla fede nel Nemico. La “Forza Vitale”, l’adorazione del sesso, e alcuni aspetti della psicanalisi, potranno qui dimostrarsi utili. Se riusciremo a produrre il nostro capolavoro, il Mago Materialista – l’uomo che, non usi, ma veramente adori ciò che chiama vagamente “forze”, mentre nega l’esistenza degli “spiriti” – allora sarà in vista la fine della guerra.

 Confrontatelo dunque con la descrizione, fatta da un preoccupatissimo Ransom, degli scopi ultimi dell’INCE:

 Si sarebbe attuato un congiungimento tra due tipi di potere che insieme avrebbero deciso il fato del nostro pianeta. Senza dubbio quella era stata per secoli la volontà degli Eldil Oscuri. Le scienze fisiche, buone e innocenti in sé, avevano già cominciato, anche nell’epoca di Ransom, a essere distorte e subdolamente manovrate in una certa direzione. Negli scienziati si era sempre più affievolita la speranza di raggiungere verità obiettive; il risultato era l’indifferenza per questo problema e la ricerca esclusiva del potere puro e semplice. Ciance sullo slancio vitale e amoreggiamenti con il panpsichismo promettevano di ripristinare l‘Anima Mundi dei maghi. I sogni di un destino lontano e futuro dell’uomo disseppellivano dal sepolcro basso e inquieto il vecchio sogno dell’Uomo-Dio. […] Sceglievano proprio il primo momento in cui era possibile farlo. Sarebbe stato impossibile con gli scienziati del diciannovesimo secolo. L’incrollabile materialismo obiettivo l’avrebbe escluso dalle loro menti; e anche se si fosse potuto indurli a credere, il moralismo ereditato avrebbe impedito loro di toccare il lerciume. Adesso le cose erano cambiate. […] Ci sarebbero state cose incredibili, dal momento che non credevano più in un universo razionale? Ci sarebbero state cose oscene, dal momento che sostenevano che ogni moralità era un semplice sottoprodotto soggettivo delle situazioni fisiche ed economiche degli uomini? I tempi erano maturi.

 Frost (nomen omen?), il vicedirettore dell’INCE, è la personificazione più piena del Mago Materialista; i paragrafi a lui dedicati sono tra i più agghiaccianti del libro e mi hanno impressionato più di quanto saprei descrivere. Ma tutti i componenti dell’Istituto sono pressoché mostruosi; quelli che più mi hanno colpito sono Miss “Fata” Hardcastle, di cui i  lettori abituali di questo blog hanno già fatto la conoscenza, Filostrato, che odia il corpo e la natura, e Straik, l’ecclesiastico eretico (che in qualche modo, anche se non saprei dire esattamente per cosa, mi ha ricordato Vito Mancuso).

Questi loschi figuri sono descritti dal punto di vista di Mark Studdock, il protagonista maschile del libro, il quale si ritrova man mano invischiato e irretito nell’INCE. Lewis è abilissimo a descrivere, attraverso i processi mentali del giovane ambizioso, la mentalità dell’Istituto, che poi è quella di tutte le “cricche”, le mutue associazioni di uomini basate sul fine esclusivo del potere: il disprezzo reciproco che cova sotto la simpatia di facciata, l’immediatezza dei voltafaccia e dei tradimenti, l’istinto costante di simulare un’importanza e un’ampiezza di conoscenze che in realtà non si possiedono affatto… e sempre, sempre, il desiderio di far parte della “cerchia ristretta”: di quelli che contano di più, che decidono del destino degli altri, che sono i veri potenti. Una mentalità letteralmente gnostica ed esoterica (ad ogni “livello” si apprende una verità segreta, che però al livello superiore si svela come apparenza “essoterica” che cela un altro segreto, il quale viene a sua volta smentito al livello successivo che rivela un’altra verità ancora; nel libro tutta la vicenda del misterioso Capo dell’INCE, e della progressiva serie di contraddittorie “rivelazioni” che ne riceve Mark, ne è un esempio), di fatto diabolica (perché, sì: all’apice di tutte le massonerie, sulla cima di ogni piramide esoterica, oltre il 33° grado Kadosch o come cavolo si chiama, ci sono loro, gli angeli caduti).

 Coloro che hanno il compito di fermare l’INCE sono un piccolo gruppo di uomini e donne (e… un orso), diretti da Ransom, con il quale entra in contatto la protagonista femminile Jane Studdock, la moglie di Mark. Tutta la narrazione del libro oscilla tra i punti di vista dei due coniugi e relative descrizioni dei due gruppi; e l’ago della bilancia tra i due poli, il fattore che entrambi cercano per assicurarlo al proprio campo, è nientemeno che Mago Merlino, redivivo dopo un sonno magico (“stato para-cronico”) di circa 1500 anni.
Qui emerge un altro aspetto interessante del libro: si tratta di un tentativo – non so dire se riuscito, però indubbiamente ad altissimi livelli – di dare legittimità cristiana a tutto un patrimonio culturale (miti, figure epiche, tòpoi) ereditato dal paganesimo. Non per caso Quell’orribile forza ha un forte debito verso altri due autori che hanno significato molto per CSL: il primo è Charles Williams, amico di Lewis e autore di un ciclo gotico-arturiano che lo colpì molto; il secondo è Tolkien, esplicitamente citato nella premessa e raccomandato a “chi vorrà saperne di più su Numinor e sul Vero Occidente”, Numinor essendo il nome che Lewis usa nel libro per indicare Atlantide, nome derivato dall’isola di Numenòr nel Silmarillion che Tolkien leggeva ai suoi amici decenni prima che fosse sistemato e pubblicato.
(peraltro, vedere qui per leggere cosa scrive Tolkien nelle sue lettere a proposito della trilogia di Lewis e l’influenza – a suo giudizio rovinosa! – di Williams sull’opera e sulla stessa amicizia tra JRRT e CSL)
Il “tentativo” di cui parlo si vede anzitutto (e questa a quanto ne capisco è l’influenza di Williams, del quale però non ho letto nulla) nell’uso del personaggio di Merlino, dell’accreditamento del ciclo arturiano come verità storica sebbene dimenticata e misconosciuta; nonché nella legittimazione cristiana della sua “magia bianca”, sotto l’argomento che è sì sbagliata oggi, ma non lo era ancora ai suoi tempi:

 « Merlino. Per un uomo di quell’epoca c’erano ancora possibilità che non esistono più per l’uomo di oggi. La Terra stessa era più simile a un animale a quei tempi, e i processi mentali assomigliavano più ad azioni fisiche. E c’erano… be’, i Neutri, in circolazione. Non intendo dire, naturalmente, che esista qualcosa che possa essere un vero neutro. Un essere cosciente o ubbidisce a Dio o gli disubbidisce. Ma ci possono essere cose neutre rispetto a noi. Il punto è che, mentre alla fine del mondo, e forse anche adesso, descrivere ogni eldil come un angelo o un diavolo potrebbe essere vero, lo era molto meno ai tempi di Merlino. Allora c’erano su questa terra creature che si facevano gli affari loro, per così dire. Non erano spiriti provvidenziali mandati ad aiutare l’umanità caduta, ma non erano neppure nemici che si accanivano contro di noi. Anche in san Paolo [dove???, ndr] appare a sprazzi una popolazione che non rientra nelle nostre due categorie degli angeli e dei diavoli. E se andiamo ancora più indietro… tutti gli dèi, gli elfi, i nani, le sirene, le fate, i longaevi… tu e io ne sappiamo troppo per pensare che siano solo delle illusioni. Credo che esistessero un tempo creature del genere. Credo che allora ci fosse spazio per loro, ma l’universo si è avvicinato di più al punto. Non erano tutte creature razionali, forse. Talora semplici volontà inerenti alla materia, non proprio coscienti, più simili ad animali. Altre… ma non so veramente. Comunque,questo è il tipo di situazione da cui scaturisce un uomo come Merlino».
«Mi sembrano tutte cose orribili».
«
Erano piuttosto orribili. Voglio dire, neppure ai tempi di Merlino (lui visse alla fine di quell’epoca), sebbene ci si potesse ancora servire in maniera innocente di quel tipo di vita nell’universo, lo si poteva fare senza rischi. Gli esseri non erano cattivi in sé, ma lo erano già nei nostri confronti. Svigorivano, per così dire, chi avesse a che fare con loro. Non di proposito, ma non potevano farne a meno. Merlino è svigorito. La sua calma è un po’ morta, come la calma di un edificio sventrato. È il risultato di aver aperto la mente a qualcosa che allarga un po’ troppo l’orizzonte. Come la poligamia. Non era sbagliata per Abramo, ma non ci si può trattenere dal pensare che anche lui perse qualcosa praticandola».

 C’è poi (ma ormai, vi avverto, siamo in zona spoiler pesante) il discorso degli dèi. E qui si sente l’influenza di Tolkien.
Chi ha letto il Silmarillion si ricorderà del concetto di sub-creazione e del ruolo estremamente attivo ed importante, praticamente sub-divino, che svolgono in Arda le schiere angeliche dei Valar. Lewis riprende questo concetto, applicandolo però non ad un mondo “altro” ma al nostro stesso universo, e soprattutto non a figure inventate ma alle divinità del pantheon greco-romano: le quali perciò sono davvero angeli, o meglio, sono angeli così come sono stati erroneamente visti prima del cristianesimo.
Così, nel capitolo La discesa degli dèi, Ransom e Merlino (unitosi al gruppo dei buoni) ricevono la visita di Mercurio, Venere, Marte, Saturno e Giove. Lewis li chiama dèi, ma ha a cura di specificare all’inizio del capitolo che “Merlino in un primo momento aveva fatto l’atto di inginocchiarsi, ma Ransom glielo aveva proibito. «Bada di non farlo! » gli aveva detto. «Hai scordato che sono dei servitori come noi?»” (questa sembra una citazione letterale da Apocalisse 19: 10); comunque essi conservano intatte le principali caratteristiche attribuite loro dalla mitologia classica, essendo in tutto e per tutto le Potenze del linguaggio, dell’amore, del coraggio, del tempo e del potere. Ciò viene espresso in una struttura alternata molto efficace: mentre in cucina gli altri membri del gruppo sperimentano l’influsso dei visitatori celesti sotto forma di impulsi psicologici, al piano superiore Ransom e Merlino fanno un’esperienza diretta e quasi mistica dei loro ospiti. Lo stile di Lewis in questo capitolo è davvero molto bello, ma non potendo qui riportare tutto (su anobii ho trascritto molto di più, consiglio la lettura perché merita davvero) mi accontento di citarne solo pochi brani:

Per Ransom, che per anni e anni si era dedicato allo studio delle parole, fu un piacere celestiale. Si trovò seduto nel cuore stesso del linguaggio, nella fornace incandescente dell’idioma essenziale. Tutta la realtà venne spezzata, liberata in cateratte, afferrata, rivoltata, impastata, uccisa e rigenerata come significato; perché il signore stesso del Significato, l’araldo, il messaggero, l’uccisore di Argo, era con loro: l’angelo che ruota più vicino al sole, Viritrilbia, che gli uomini chiamano Mercurio e Thoth.
[…]
era la Carità, non come l’immaginano i mortali, e neppure come venne umanizzata dall’Incarnazione del Verbo, ma la virtù translunare caduta direttamente su di loro dal Terzo cielo, indomita. Ne furono accecati, storditi, riarsi. Pensarono che li avrebbe consumati fino alle ossa. Non sopportavano che continuasse; non sopportavano che cessasse. Così venne Perelandra, trionfante tra i pianeti, colei che gli uomini chiamano Venere, e fu con loro nella stanza.
[…]
Ransom riconobbe, come si riconosce il ferro quando lo si tocca, lo splendore fermo e nitido di quello spirito celeste che ora rifulgeva in mezzo a loro: il vigile Malacandra, capitano di una fredda orbita, colui che gli uomini chiamano Marte e Mavors e Tyr, colui che mette la mano nella bocca del lupo.
[…]
Saturno, che in cielo è chiamato Lurga, era nella Sala Azzurra. Il suo spirito si era posato sulla casa, o forse su tutta la terra, con una pressione fredda che avrebbe potuto appiattire Tellus fino a ridurla a una cialda. Di fronte al fardello pesante come il piombo della sua antichità persino gli altri dèi, forse, si sentirono giovani ed effimeri.
[…]
Era simile a un’onda alta tre metri illuminata dal sole, con la cresta di spuma bianca e il ventre di smeraldo, che avanza, terribile, con un ruggito e con una risata inestinguibile. Era come quando attacca la musica nelle sale di un re talmente eccelso, a una festa talmente solenne che i cuori giovani vengono presi da un tremore analogo alla paura, quando la sentono. Era, infatti, il grande Glund-Oyarsa, Re dei Re, per mezzo del quale principalmente soffia la gioia della creazione attraverso questi campi di Arbol,
[il sistema solare, ndr] noto agli uomini nei tempi antichi come Giove, e sotto quel nome, per fatale ma non inspiegabile errore, confuso col suo Creatore – ben poco gli uomini si immaginavano quanti erano i gradi della scala dell’essere creato che s’innalzano al di sopra di lui.

 Non saprei dire se teologicamente questa identificazione così stretta tra pantheon pagano e angelologia cristiana stia in piedi (e mi lascia leggermente perplesso, anche se non so indicare in cosa); ma impressionante è impressionante, altroché.

 ***

C.S. Lewis on the Final Frontier – Science and the Supernatural in the Space Trilogy, di Sanford Schwartz.
Come si capisce dal titolo, si tratta di un saggio in inglese incentrato sulla trilogia spaziale di Lewis. L’ho trovato in e-book su amazon, a un prezzo non precisamente irrisorio, però i soldi se li merita davvero perché è molto interessante.
La tesi principale è che la trilogia di Lewis vuole essere la risposta cristianamente e scientificamente plausibile, ancorché espressa nella forma ipotetica tipica della narrativa, al paradigma cosmologico e antropologico imperante nell’Occidente post-copernicano e post-darwiniano. Per CSL questo paradigma però non è completamente falso, ma si pone come “ec-type (che è una parola intraducibile, o almeno io non riesco a tradurla, gradisco suggerimenti) ovvero la corruzione di un archetipo (arche-type) di per sè originario e vero e santo.
Insomma (mia traduzione, pag. 138):

Adottando l’agostiniana nozione privativa del male come nient’altro che una distorsione del bene, Lewis descrive l’apparente antitesi tra il pensiero cristiano e le correnti post-darwiniane del pensiero moderno come la relazione tra l’originale trascendente e la sua parodistica imitazione. Allo stesso tempo, possiamo osservare un significativo slittamento nelle caratteristiche del bersaglio satirico nel corso della trilogia. In Lontano dal Pianeta Silenzioso, Lewis sta criticando quel naturalismo evoluzionistico basato su assunti strettamente materialistici ed una visione di incessante conflitto tra o dentro le specie. In Perelandra, il tentatore demoniaco espone una dottrina di evoluzionismo “creativo” o “emergente” che sorge da una critica alla scienza meccanicistica e offre una “via di mezzo” tra i punti di vista “spirituale” e “materiale”. E, come nel secondo romanzo si passa dal regno materiale all’organico, così nel romanzo finale il mito dell’evoluzione ci proietta oltre il mondo organico verso il regno spirituale del “nuovo uomo che non muore mai”. Sebbene il desiderio di trascendere la nostra condizione finita sia soggiacente all’intera trilogia, questa progressione – colonizzazione interplanetaria, evoluzionismo “creativo”, trasformazione tecno-magica dell’uomo in Dio – segue una precisa traiettoria dal piano materiale a quello spirituale.

 Così, in Lontano dal Pianeta Silenzioso, la concezione stile H.G. Wells della guerra dei mondi come prosecuzione interstellare della (pseudo)darwinistica sopravvivenza del più forte non viene a priori negata, ma bensì “redenta” dalla sua natura “ectipica” e trasfigurata nell’archetipo del mondo di Marte (non a caso, dio della guerra) dove sì le tre specie intelligenti convivono pacificamente, ma al tempo l’ecosistema marziano presenta la caccia e la lotta; intese però non come il forte che schiaccia il debole ma come simbiosi, agonismo, mutuo rispetto nella consapevolezza che per ogni creatura immacolata la morte non è che un passo verso la Vita.
E analogamente in Perelandra, come detto sopra, il vitalismo bergsoniano viene trasceso nell’universo in perenne creazione divina, mentre in Quell’orribile Forza l’unione perversa tra scientismo e spiritismo, incarnata nella diabolica figura del Mago Materialista, non è che la corruzione di quello che dovrebbe essere il giusto connubio tra scienza e religione.
L’autore argomenta molto bene, citando ampiamente dalle altre opere di CSL a dimostrazione di quanto radicato in lui fosse il nucleo concettuale su espresso (stranamente, però, mancano riferimenti alle Lettere di Berlicche) e inquadrandolo nel clima intellettuale del suo tempo (ho trovato molto ben fatta la parentesi descrittiva del pensiero di Bergson, di cui Lewis era tanto intellettualmente debitore quanto spiritualmente critico).
Da rileggere, anzi, da studiare.

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Felix Culpa, Felicissima Innocentia, di Elvis Spadoni.
Non si tratta esattamente di un libro, ma di una tesi di baccalaureato che ho trovato su internet a questo indirizzo cercando materiale su Lewis. L’argomento è il peccato originale così come concepito e descritto nel magistero cattolico, in Teilard de Chardin e nel libro Perelandra.
Mi riservo di parlarne in un post a parte, perché qui ho scritto anche troppo!!! il focus principale non mi è sembrato tanto Perelandra (a cui pure è dedicata la seconda metà della tesi) ma la teologia di Teilard de Chardin, che si vuole rivalutare e per quanto possibile accordare con quella di Lewis (e mi pare onestamente che il compito sia assai arduo, ma il tentativo merita).

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La porta chiusa, di Barbara Di Clemente.
Una gradita sorpresa. Si tratta di uno di quei cinquanta libri in formato elettronico che mi ero ritrovato gratis in un lettore ebook da me acquistato (prima che passassi al kindle). Il fatto che mi fossero stati così sbolognati, e che fossero pubblicati dal Gruppo Albatros che è una di quelle case stampatrici più che editrici, che non a caso in area anglosassone chiamano “vanity press”, non deponeva certo a loro favore. Comunque una mattina avevo voglia di dare un’occasione a qualcuno di essi, e ho pescato a caso questo La porta chiusa, senza aspettarmi niente di che.
Invece sapete cosa, il libro mi è piaciuto molto. È la vicenda straziante di una ragazza vittima fin dall’infanzia degli abusi sessuali di suo padre, con la complicità di sua madre: la poveretta viene stuprata ogni notte, messa incinta, e infine segregata dai genitori in uno sgabuzzino e tenuta a pane e acqua per niente meno che dieci anni. Gulp.
L’argomento è ovviamente pesantissimo, ma l’autrice (in veste dell’io narrante di un pazzo, che poi sarebbe l’ex psichiatra della ragazza, rinchiuso in un manicomio per motivi che saranno chiari solo alla fine) riesce a comunicarlo in un modo non insostenibile, puntando più sul lato emotivo che sui dettagli cruenti. In alcuni punti ha commosso perfino me, e ce ne vuole. Brava.


Libri maggio 2012

Costruire sulla roccia, di AAVV (Il Timone).
Libro comprato a 1 € grazie a sissi2002 (grazie). Greatest hits di articoli apparsi sul Timone, scritti da autori come Introvigne, Cammilleri, Agnoli, Gnocchi & Palmaro, eccetera. Insomma apologetica hardcore.

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Racconti fantastici, di Iginio Ugo Tarchetti.
Scaricato gratuitamente da amazon essendo scaduto il copyright, il libro essendo del 1869 e l’autore morto in quello stesso anno.
Non conoscevo assolutamente il nome di Tarchetti, i miei ricordi liceali sulla Scapigliatura milanese sono pressoché inesistenti, ma i racconti sono gradevoli e si leggono con piacere. Il libro offre anche l’opportunità di constatare i cambiamenti della lingua italiana nel tempo, per esempio si nota spesso l’uso della forma verbale pronome alla 1a +verbo alla 3a, es. io avea, io correva, io disse. Chissà se era un peculiare modo di esprimersi dell’autore o una forma corrente a quel tempo.

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Diario del figliol prodigo. Vent’anni dopo, di Guy Luisier.
Altro libro comprato a 1 € grazie a sissi2002 (grazie). L’autore, un sacerdote francese, ha avuto un vero colpo di genio: il figliol prodigo (che adesso non si chiama più così, vedi sotto) scrive un diario, vent’anni dopo essere tornato, dove descrive le sue impressioni, il suo faticoso riadattarsi alla vita nella casa del padre, il rapporto con il suo glaciale fratello e i di lui figli gemelli.
È breve, si legge in poco tempo, ma è una lettura feconda. Se lo trovate in giro, non fatevelo scappare.

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De Bibliotheca, di Umberto Eco.
Il libretto è scaricabile gratuitamente da qui, e consiste in un intervento tenuto dall’autore nel 1981 alla celebrazione dei 25 anni di attività della Biblioteca Comunale di Milano.
Eco comincia con una citazione dalla Biblioteca di Babele di Borges, perché “in un luogo così venerando è opportuno cominciare, come in una cerimonia religiosa, con la lettura del Libro, non a scopo di informazione, perché quando si legge un libro sacro tutti sanno già quello che il libro dice, ma con funzioni litaniali e di buona disposizione dello spirito”. Concordo. Da qui si sviluppa tutta una serie di riflessioni sulla natura e la funzione, diciamo pure l’essenza, della biblioteca – la quale peraltro, come sanno tutti quelli che hanno letto Terry Pratchett, è fondamentalmente un buco nero ben istruito.
Alcune considerazioni contingenti sono un po’ datate (per forza: nel 1981 nasceva ClaudioLXXXI, è una vita fa, ma vi rendete conto?!?) e sono state inevitabilmente superate dalla diffusione di internet ebook eccetera; per esempio il discorso sulla xerociviltà, cioè la civiltà della fotocopia, destinato a diventare sempre più marginale man mano che i lettori diversamente onesti, invece di fotocopiare il libro pagina per pagina (che almeno pagavano, se non con soldi, con tempo e fatica), se lo fanno portare a dorso di mulo comodamente stravaccati davanti al pc.
Altri concetti e problematiche invece sono tuttora perduranti: per esempio la divertente descrizione in 21 punti della biblioteca incubatica, cioè la biblioteca come non dovrebbe essere ma come spesso è, del tipo

I) Quasi tutto il personale deve essere affetto da limitazioni fisiche […]

P) Gli orari devono assolutamente coincidere con quelli di lavoro, discussi preventivamente coi sindacati: chiusura assoluta di sabato, di domenica, la sera e alle ore dei pasti. Il maggior nemico della biblioteca è lo studente lavoratore; il migliore amico è Don Ferrante, qualcuno che ha una biblioteca in proprio, quindi che non ha bisogno di venire in biblioteca e quando muore la lascia in eredità.

T) Possibilmente, niente latrine.

oppure l’annoso problema relazionale: come deve porsi la biblioteca nei confronti degli utenti?

bisogna scegliere se si vuole proteggere i libri o farli leggere. Non dico che bisogna scegliere di farli leggere senza proteggerli, ma non bisogna neanche scegliere di proteggerli senza farli leggere. E non dico neanche che bisogna trovare una via di mezzo. Bisogna che uno dei due ideali prevalga, poi si cercherà di fare i conti con la realtà per difendere l’ideale secondario. […] correre maggiori rischi sulla preservazione dei libri, ma avere tutti i vantaggi sociali di una loro più ampia circolazione. Cioè se la biblioteca è, come vuole Borges, un modello dell’Universo, cerchiamo di trasformarla in un universo a misura d’uomo, e, ricordo, a misura d’uomo vuol dire anche gaio, anche con la possibilità del cappuccino, anche con la possibilità per i due studenti in un pomeriggio di sedersi sul divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt nella biblioteca […]

E(c)co, io conosco una bibliotecaria che, alla prospettiva di veder ragazzotti in calore pomiciare nella sua biblioteca, minaccia di amputare lingue col tagliacarte.
Lei sì che ha le idee chiare sul problema relazionale, altroché.

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Come cambia la Bibbia, di Roberto Beretta & Antonio Pitta.
Si tratta di un agile libretto scritto a quattro mani da un giornalista (RB) e un biblista (AP) al fine di divulgare, spiegare, commentare alcuni dei cambiamenti più notevoli subiti dalla Bibbia CEI nell’ultima revisione del 2008.
Peraltro, mi sono accorto che il libro è del 2004 ma non è aggiornato, e alcune revisioni di cui parla (es. il lettuccio del paralitico che diventa una barella) sono state abolite all’ultimo minuto (e così la barella, poveretta, è rimasta il solito lettuccio). Questo in parte ne riduce l’utilità, che resta comunque pregevole per il profano che volesse farsi un’idea della complessità delle questioni.
Ordunque.
Non è mia intenzione essere polemico, né trinciare giudizi in un ambito del quale sono consapevole di avere scarsissime cognizioni. L’Italia è già troppo affollata di sapientoni da facebook quotidiano a tiratura nazionale osteria che parlano parlano e sarebbero sempre tutti quanti bravissimi a) investigatori b) giudici c) presidenti del consiglio con l’interim di tutti i ministeri d) papi e) allenatori della nazionale di calcio; naturalmente senza sbagliare mai e senza mai farsi corrompere dal potere, loro. Non voglio aggiungermi alla legione maledetta, perciò non dirò “io avrei fatto così” e “non dovevano fare così”. Mi limito solo a esprimere le mie perplessità e a dire che, da semplice fedele e fruitore del testo, mentre per la maggior parte dei cambiamenti si capisce la logica della revisione per tenere dietro al cambiamento linguistico, alcune scelte mi restano (vuoi per difetto oggettivo, vuoi per limite mio) incomprensibili. Peraltro non le capiscono neanche RB & AP, che segnalano ma non spiegano, o meglio, spiegano la propria perplessità.
Del tipo: ma era proprio necessario sostituire in Matteo 26:24 il vecchio “vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio” con il nuovo e lievemente criptico “seduto alla destra della Potenza”?
Oppure: ma è stata davvero una buona idea superare l’espressione figliol prodigo? Da un punto di vista strettamente biblistico capisco: “figliol prodigo” non fa strettamente parte del testo del vangelo; ormai pochissimi ricordano l’originario significato di prodigo, cioè spendaccione e dissipatore; e poi questo titolo focalizza l’attenzione solo su uno dei tre personaggi, mettendo in secondo piano gli altri due. Insomma, c’erano sicuramente buoni motivi per cambiare.
Tuttavia, il problema ha angolazioni anche non strettamente bibliche. “Figliol prodigo” è un esempio calzante di inculturazione cattolica, cioè di come il cattolicesimo esce dall’ambito strettamente religioso per travasarsi nel tessuto civile di un popolo, una lingua, una cultura. Quante opere d’arte hanno l’espressione figliol prodigo nel titolo? Quante volte abbiamo sentito questa espressione in libri, film, articoli di giornale, in ufficio, per strada, del tutto fuori da qualsiasi riferimento clericale? (un esempio a caso) È ormai una frase topos. È una fantastica economia del linguaggio: la dici e con pochi fonemi hai comunicato all’interlocutore, se condivide il tuo stesso patrimonio culturale – un patrimonio che nonostante tutto resta ancora molto impregnato di cristianesimo – un intero universo concettuale che altrimenti per essere espresso richiederebbe tempo e fiato e perifrasi. È, per farla breve, una bandiera verbale piantata dal cristianesimo sulla cultura occidentale, a segnalare “IO SONO QUI”.
Insomma, io non so se valeva la pena rinunciare a ciò, specie in un momento storico in cui si deve fronteggiare la pretesa di espellere il cattolicesimo da ogni ambito pubblico (dunque anche culturale, anzi, soprattutto culturale). Spero di sì, come spero che chi ha avuto l’ultima parola per decidere la revisione linguistica lo abbia fatto sulla base di valide ragioni che io, non essendo un tuttologo, non conosco.

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Noi marziani, di Philiph K. Dick.
Un altro libro di PKD, di qualità discreta, con molte delle topiche ricorrenti dell’autore: la confusione tra vero e apparente (declinata nella variante schizofrenica, come in Follia per sette clan), i paradossi temporali, la lotta del protagonista debole e “perdente” per non soccombere in un mondo aggressivo e vorace. Però, in effetti, chi è il vero protagonista del libro? Jack Bohlen, il meccanico timido e complessato e incline alla schizofrenia? Oppure Arnie Kott, l’egoista e lubrico capo del sindacato idraulici che agisce con metodi mafiosi e vuole sfruttare tutto e tutti per i suoi fini? L’interrogativo è lecito perché alla fine, con quello che mi sembra uno dei rari happy end della produzione di PKD, il primo, ricompensato per il suo atto iniziale di generosità verso i poveri Bleekman, gli autoctoni di Marte, vince; e il secondo soccombe, a causa di un’inaspettata e fortuita ritorsione alla sua prepotenza.
E allora chi era davvero il perdente?

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Catechismo della Chiesa cattolica, di AAVV (finito).
Ebbene, criticate finché volete il libro elettronico.
Sì, avere la carta tra le mani è tutta un’altra sensazione. No, non si può fare l’orecchio alla pagina. C’è il rischio che il formato in cui oggi abbiamo comprato i nostri libri tra una decade sia illeggibile, e dovremo ricomprarceli tutti quanti. Se capita una guerra nucleare / epidemia di zombie / invasione aliena / naufragio su isola nel Pacifico abitata da orsi polari, puoi leggere solo finché ti durano le batterie, poi ciccia. Si scarica proprio quando arrivi all’ultimo capitolo. Se si rompe senza preavviso o te lo rubano, hai perso mezza biblioteca ed è una catastrofe. Non puoi prestare un libro. Non puoi far vedere ai tuoi vicini di autobus la copertina del libro stai leggendo, e diciamocelo, pure questa era una piccola soddisfazioncina (e un modo per rimorchiare – a me non è mai riuscito, ma a qualcun altro sì). Il libro di carta lo puoi conservare per i tuoi figli, e puoi sognare che magari lo leggeranno anche i tuoi nipotini. Ci puoi scrivere una dedica, annotare tutte le glosse che vuoi, disegnare le faccine a lato dei paragrafi più belli.
Tutte queste cose, e altre ancora. Sì. Certo.
Però io, se non avevo il lettore ebook, col cavolo che riuscivo a leggermi il catechismo della Chiesa Cattolica in versione integrale, quello pesante, scaricato in pdf dal sito del Vaticano, 955 pagine e 122 megabytes.
Me lo sono letto poco per volta, un paio di pagine al giorno, dal 24/09/2011 al 16/05/2012. Senza fretta (certo, ha aiutato il fatto che sapessi già come va a finire: i buoni vincono). Molto agevolmente. Anche quando avevo la borsa strapiena di roba di lavoro e dovevo cambiare tre autobus e due metropolitane, potevo dotarmi di un mattone che cartaceamente non mi sarei proprio potuto permettere di trasportare, con un sentito grazie dalla mia colonna vertebrale. Potevo leggerlo sempre, ovunque, in qualsiasi situazione. Per dire, se la natura chiamava e io volevo passare quei cinque-dieci minuti (ma anche 15 volendo prendermela comoda) a soddisfare le esigenze della mia anima tanto quanto quelle del mio corpo, potevo infilare l’aggeggio nella tasca e portarmelo appresso senza tema di suscitare inarcate di sopracciglio in coloro che putacaso mi avessero visto col Catechismo Cattolico sottobraccio mentre mi recavo al cesso.
(non fare quella faccia scandalizzata da sepolcro imbiancato, tu; ricorda che il cristianesimo è religione materialista! Siamo un sinolo aristotelico, corpo e anima, l’uno non meno dignitoso dell’altra e non meno destinato alla vita eterna!)

Comunque, il catechismo.
Non ho la pretesa di aver capito tutto, meno ancora di ricordare tutto quello che ho capito, ma mi è servito moltissimo per inquadrare e sistematizzare molte cose che avevo imparato in modo disordinato e asistematico. Probabilmente è uno dei doni più grandi che Giovanni Paolo II ha fatto alla Chiesa (forse non spettacolare come altre cose grandi che ha fatto, ma di maggiore impatto nel lungo termine). Una esposizione lucida e rigorosa del cristianesimo “integrale”, del depositum fidei, articolata in quattro parti:

“il Credo; la sacra Liturgia, con i sacramenti in primo piano; l’agire cristiano, esposto a partire dai comandamenti; ed infine la preghiera cristiana. Le quattro parti sono legate le une alle altre: il mistero cristiano è l’oggetto della fede (prima parte); è celebrato e comunicato nelle azioni liturgiche (seconda parte); è presente per illuminare e sostenere i figli di Dio nel loro agire (terza parte); fonda la nostra preghiera, la cui espressione privilegiata è il « Padre Nostro », e costituisce l’oggetto della nostra supplica, della nostra lode, della nostra intercessione (quarta parte).”

Da leggere e da consultare.

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Buon vento dell’Ovest, di Patrick O’ Brian.
Terzo libro della saga di Jack Aubrey & Stephen Maturin; il titolo originale era HMS Surprise, che sarebbe il nome della nave capitanata da Jack; l’editore avrà pensato che fosse troppo ostico per il lettore italiano, optando per un riferimento a quel “buon vento dell’Ovest” più volte agognato dai nostri marinai durante i lunghi periodi di bonaccia nel Pacifico, vento che assurge a simbolo di tutto ciò di buono che sperano di ottenere dalla vita, aspettando, aspettando, aspettando… e quando arriva, il vento è una tempesta.
Bene, non mi profonderò un’altra volta in auspici tanatofili riguardanti Diana Villiers; peraltro, considerato come l’autore si diverte a torturare il povero Stephen, ho l’impressione che i patimenti di lui, e le occasioni per augurarmi il di lei decesso, siano solo all’inizio. Vorrei invece fare un’altra considerazione e cioè quanto questi libri siano eccellenti nel descrivere la guerra (ma si potrebbe dire: la vita tutta intera) fin nei suoi aspetti più prosaici, impietosi, brutali, senza per questo perdere l’eleganza del bello scrivere. E non sto parlando della necessità di mangiare i topi sulle navi o amputare una gamba nel bel mezzo di una battaglia navale, o almeno non soltanto di questo.
Le raccomandazioni, per esempio.
Casomai qualche lettore qui leggente appartenesse a quella schiera di italiani in cui certi pulpiti editoriali hanno instillato la convinzione autoafflittiva che certe cose succedono solo da noi, che negli altri paesi (magari protestanti, magari in quanto protestanti) le cose sono molto diverse e c’è un’etica pubblica sideralmente più rigorosa della nostra, bene, leggetevi O’Brian: vi aiuterà a scrollarvi di dosso un po’ di questo velleitario moralismo provinciale. Prendete per esempio quella scena nel secondo libro in cui, in un momento di tregua tra le guerre napoleoniche, Jack sta bevendo con un capitano francese suo amico (divenuto tale dopo averlo fatto prigioniero nel primo libro):

Jack e Christy-Pallière avevano bevuto parecchio e si stavano adesso raccontando le reciproche disgrazie professionali, ognuno stupito che l’altro avesse qualche ragione di lamentarsi. Anche Christy-Pallière era bloccato sulla scala delle promozioni, poiché, sebbene fosse capitarne de vaisseau, non c’era nella marina francese «un vero senso dell’anzianità di servizio… dappertutto intrighi, imbrogli… il successo solo agli avventurieri politici… i veri marinai buttati in un cantone» […] «Per voi è molto semplice», stava dicendo, «voi potete mettere insieme gli appoggi, gli amici, i Lord e i baronetti di vostra conoscenza e prima o poi, con le elezioni parlamentari che avete voi, ci sarà un cambiamento di ministero e i vostri evidenti meriti saranno riconosciuti. Ma da noi come vanno le cose? Interessi repubblicani, monarchici, dei cattolici, dei frammassoni, interessi consolari o, come mi si dice, molto presto imperiali, tutti in conflitto l’uno contro l’altro… catene che hanno preso le volte. Tanto vale scolarci questa bottiglia. Sapete», soggiunse dopo una pausa, «sono così stufo di starmene seduto in un dannato ufficio! La sola speranza, l’unica soluzione, è la…» La voce gli si spense.
«Suppongo che sia una cosa malvagia pregare perché scoppi una guerra», disse Jack, i cui pensieri avevano seguito esattamente lo stesso corso.

E ancora, in questo terzo libro, commentando la sfortunata carriera di un amico:

È una brava persona, comunque, un vero marinaio; ma non ha appoggi, e perciò non ha mai avuto un comando: diciotto anni come primo ufficiale. E poi, essendo riuscito a farsi saltare in aria una gamba, non ha potuto neanche trovare una nave; così si è rivolto alla Compagnia [delle Indie] ed eccolo qui a comandare un ‘vagone di tè’. Poveraccio: come sono stato fortunato, in confronto!»

Eh già, la meritocrazia.
E quante anticamere di segretari e ministri Jack ha dovuto occupare per andare a implorare l’agognata promozione a capitano di vascello; e quei nepotismi di famiglie di nobiltà marinara, che impongono i rampolli sulle navi pur sapendoli pessimi ufficiali, e al limite meglio piangerli in fondo al mare con onore che vederli vergognosi terrazzani senza giubba; e tutte le manovre politiche, le corruzioni, le vendette trasversali che si fanno più fitte man mano che si sale la scala del potere della marina inglese.
L’inizio del terzo libro, con la discussione in alto loco su come si debba spartire il tesoro spagnolo che era stato conquistato (con il concorso determinante di Jack Aubrey) alla fine di Costa sottovento, è un colpo nello stomaco per ogni anima bella che non conoscesse la meschinità del potere ad ogni latitudine; ed è impressionante vedere con quale faccia tosta, per un fottuto cavillo di diritto bellico, i mammasantissima dell’ammiragliato decidano che l’oro è della Corona, tutto quanto, e per i marinai che lo hanno recuperato rischiandoci la pelle, niente ricompensa di guerra. E peggio per Jack, sommerso dai debiti dopo che l’agente di borsa è scappato con la cassa, che aveva bisogno dei soldi per sposarsi.
Insomma, non è soltanto gente che si spara addosso per mare.
La definizione di libri d’avventura sta molto stretta a questa serie. O’Brian è capacissimo di rifilarci tra capo e collo in due righe una mazzata emotiva che ci stronca (una sola parola: Dil), ma è parimenti capacissimo di catturare l’attenzione anche con i momenti più narrativamente anticlimatici, lunghi, uggiosi. Come la vita vera, che difficilmente ci piacerebbe se la vedessimo in un film, perché già la viviamo ogni giorno. E difatti, nell’imminenza di una battaglia,

il signor White se ne stava solo, sconsolato e smorto in viso. «Credo, signore, che questo sia il vostro primo assaggio della guerra sul mare», gli disse [Jack]. «Temo che lo troviate piuttosto sgradevole, senza cabina e senza un vero pasto.» «Oh, no, non mi curo affatto di questo, signore», protestò il cappellano, «ma devo confessare che nella mia ignoranza mi ero aspettato qualcosa di più, diciamo, eccitante? Queste manovre lente e a distanza, quest’ansia prolungata dell’attesa non facevano parte dell’immagine che mi ero fatto di una battaglia. Tamburi e trombe, stendardi, esortazioni esaltanti, urla marziali, il tuffarsi nella mischia, comandanti che gridano: questo mi sarei aspettato, più che l’interminabile sconforto dell’attesa, la sospensione di ogni attività. Certo non mi fraintenderete se dico che mi domando come possiate sopportarne il tedio.» «L’abitudine, senza dubbio. La guerra è per nove decimi noia, e noi siamo abituati a questo nel servizio. Ma l’ultima ora compensa di tutto, credetemi.

Eppure è proprio per l’abilità di farci sentire, e addirittura piacere, questo tedio – questi nove decimi di noia di cui pure la nostra stessa vita è impastata – che Patrick O’Brian è definitivamente uno scrittore con gli attributi.

***

Heretics, di Gilbert Keith Chesterton.
Allora, non è che voglio fare una marchetta al kindle, però ci son cose che meritano di essere dette.
Come raccontavo precedentemente, l’aggeggio mi ha spalancato le porte del mondo chestertoniano: 27 libri scaricati for free, in lingua originale. WOW.
Leggere Chesterton sul kindle presenta certi vantaggi. Anzitutto, leggere in inglese è particolarmente agevole, perché il marchingegno dispone di vocabolari integrati, se trovo una parola che non conosco ci sposto su il cursore e mi appare in basso la definizione dell’Oxford Dictionary of English (oppure a scelta del New Oxford American Dictionary; ma per GKC è meglio il primo); comodo e utile.
In secondo luogo, ho apprezzato tanto la possibilità di evidenziare i brani che più mi colpivano e mandarli in un file txt di ritagli, dal quale ho potuto comodamente copiaincollarli dove mi pareva, per esempio sulle mie note anobiane. E, come potete immaginare, di GKC, prolificissimissimo produttore di aforismi e frasi memorabili, quei brani sono veramente tanti, e veramente impressionanti. Frasi incisive come spade. Per esempio il celeberrimo paragrafo finale di Eretici

The great march of mental destruction will go on. Everything will be denied. Everything will become a creed …  We shall look on the impossible grass and the skies with a strange courage. We shall be of those who have seen and yet have believed.

ma anche giudizi estremamente trancianti sul mondo moderno e le sue irrazionalità (e in  ultima analisi questa parola può essere considerata un sinonimo di eresia, perché l’eresia è un peccato, prima che contro la fede, contro la ragione)

When the old Liberals removed the gags from all the heresies, their idea was that cosmic truth was so important that every one ought to bear independent testimony. The modern idea is that cosmic truth is so unimportant that it cannot matter what any one says.

[a proposito della fama borghese di Oscar Wilde e del suo processo per omosessualità] The age of the Inquisition has not at least the disgrace of having produced a society which made an idol of the very same man for preaching the very same things which it made him a convict for practising.

Quest’uomo non capiva tutto, nè parlava di tutto; ma capiva davvero ciò di cui parlava.
È più di quanto si possa dire della quasi totalità del genere umano.

***

Tutte le storie di Padre Brown, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura).
Io vado pazzo per i Mammut della Newton Compton – lo avevo già detto, no? – che con pochi soldi ti fanno entrare in possesso del “tutto o quasi” di qualcuno su qualcosa.
€ 14,90 per 720 pagine per tutti i (n. 50) racconti di Padre Brown: un richiamo irresistibile.
Più sopra ho detto, neanche ricordo più dove, che il libro di carta ha un vantaggio inarrivabile per il libro elettronico: lo puoi lasciare in eredità ai figli (o, almeno, puoi illuderti che vorranno leggerlo). Ecco, questo è proprio quel tipo di libro che vorrei trasmettere al frutto dei miei lombi, se e quando ne avrò (cosa che ora non è). Difatti, anche se i racconti di Padre Brown li avevo già scaricati in inglese da amazon, il malloppone l’ho comprato l’ho stesso e  lo sto leggendo a poco a poco, un racconto ogni tanto (senza esagerare, come consiglia Berlicche, altrimenti vado in assuefazione).

***

Galateo per tutte le occasioni, di Sabrina Carollo (in lettura).
Agile e leggibile, non noioso contrariamente alle mie aspettative anzi abbastanza divertente (riesce perfino, per fare l’elogio delle presentazioni stringate, a citare il vitello dai piedi di balsa di Elio e le storie tese: + 100 punti simpatia), tutto sommato di gradevole lettura perfino per uno scabroso buzzurrone come il sottoscritto; e infatti il libro mi è stato imposto consigliato da qualcuno che vuole redimere il mio comportamento da… uhm… quelle asperità ed ineleganze che talvolta lo caratterizzano.
Umf.


Libri gennaio 2012

Pensare Dio – introduzione alla religione, di Giovanni Chimirri.
Residuano le perplessità espresse nel precedente post bibliografico: ma l’autore ci è o ci fa?
È un cristiano in buona fede che però si esprime usando un vocabolario concettuale di stampo hegeliano?
Oppure è proprio un hegeliano (senza giri di parole: un eretico) che, come dire, ce sta a provà, cercando di inquinare la coscienza del lettore indifeso con un cristianesimo sottilmente ma irrimediabilmente adulterato dall’idealismo?
Ditemi voi che ve ne pare:

Pensare Dio in definitiva vuol dire giocarci nell’autocoscienza divina, essere in vitale rapporto a Dio, porre quella compenetrazione tra la nostra coscienza e quella di Dio. Illustriamo brevemente questo passaggio essenziale. La coscienza di Dio ha per oggetto la coscienza umana, finita, differente da lui; così Dio per un certo aspetto trova se stesso (ha coscienza) pensando ad una coscienza differente da sé. Ma questa coscienza umana non è a sua volta che coscienza di Dio, coscienza che ha per oggetto Dio (l’uomo realizza veramente se stesso solo quando pensa Dio). Risulta così che la coscienza divina verso l’uomo, essendo a sua volta quest’uomo coscienza verso Dio, è in realtà coscienza divina di una coscienza divina ossia autocoscienza di Dio attraverso la coscienza finita dell’uomo che si è superata (tornata a Dio). Rimanga chiaro che per principio Dio non necessita della coscienza umana (per quanto divina questa si faccia) per avere coscienza di sé. È semmai l’uomo colui che ha bisogno della coscienza di Dio per farsi coscienza-di-sé-con-Dio […]
La coscienza umana in quanto pensiero su Dio, è pensiero in Dio e pensiero di Dio, dove Dio attraversando la coscienza umana riconcilia questa a sé, la fa partecipe gratuitamente della propria spiritualità. Dio deve pur avere l’idea di un pensiero finito (l’uomo) e questo deve pur essere qualcosa che si differenzi da Dio, ma essendo Dio spirito assoluto e onnicomprensivo, il finito viene tolto dal suo isolamento e fatto partecipe di una vita eterna: la coscienza umana in Dio si immortala, ossia si infinitezza pur rimanendo finita […]
La comunione tra Dio e l’uomo è una comunione di spirito, nella quale l’uomo conosce Dio solo in quanto il suo sapere l’ha avuto da Dio e questo sapere di Dio è a sua volta quel pensiero con cui Dio conosce l’uomo e se stesso: lo spirito umano pensante Dio non è che lo stesso spirito di Dio, ossia lo spirito umano non è solo dell’uomo ma è soprattutto quello spirito di Dio (spirito divino, santo) che Dio gli ha infuso, che abita nell’uomo, che lo domina e che prenderà definitivamente possesso del suo essere materiale e mortale (Rm 8,9-11). Diceva a tale proposito lo Spaventa: «non l’uomo è o si fa Dio, e neppure il pensiero umano è semplice ombra del pensiero divino, giacché nel primo caso non avremmo il vero Dio e nel secondo il vero uomo; ma, la coscienza che noi abbiamo di Dio è uguale alla coscienza che Dio ha di sé in noi, di modo che non siamo noi a fare Dio bensì è lui che fa noi. Se Dio non fosse immanente all’uomo, l’uomo non potrebbe conoscerlo e Dio non potrebbe farlo».
Pagg. 151-152
.

Insomma, Dio per avere piena coscienza di se stesso “deve” pensare l’uomo che a sua volta deve pensare Dio.
Ma scusate, questa non è proprio la cara vecchia triade hegeliana tesi → antitesi → sintesi (però l’autore non scrive mai queste parole… sennò era troppo facile sgamarlo?), e precisamente la progressione Idea → Natura → Spirito?
E la citazione da Spaventa, non ho capito se Silvio o Bernardo (hegeliani tutti e due, toh), forse vorrebbe essere “tranquillizzante”? Ma io mi sento ben poco tranquillizzato: perché quest’immanenza di Dio nell’uomo, così intesa, non ci mette niente a diventare, antropoteosoficamente, identificazione esoterica Uomo = Dio.
Insomma, il dubbio resta: Giovanni Chimirri ci è o ci fa?
A qualcun altro l’ardua sentenza. Io ci ho dedicato già abbastanza tempo.

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Tolkienology – il segreto della tua personalità coi personaggi del Signore degli Anelli, di Paolo Gulisano – Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro.
Divertissement
degli autori che, sulla scia di un bestseller di argomento zodiacale, analizzano i personaggi di Tolkien  alla luce dei rispettivi segni zodiacali (segni, peraltro, attribuiti ai personaggi abbastanza arbitrariamente, ma tant’è).
Dico divertissement perché, come ci si chiede qui (vi segnalo la pagina, c’è l’indice con tutti i personaggi analizzati, casomai v’interessasse), sorge facile la domanda: ma come gli è venuto a Gnocchi e Palmaro, cattolici diciamo… hardcore, di immischiarsi con l’astrologia e l’oroscopo? Boh. L’unica risposta che ho trovato è che, appunto, il libro è stato scritto per divertimento, per parlare un po’ dei personaggi di Tolkien, lo zodiaco è un pretesto.
In quest’ottica il libro si fa leggere senza noia da un tolkieniano all’ultimo stadio, anche se non dice niente di nuovo o di particolarmente brillante. Insomma senza infamia e senza lode.

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L’androide Abramo Lincoln, di Philip K. Dick.
Capolavoro.
Il tema del “simulacro”, di colui che sembra umano ma non lo è davvero (e dunque: ma che significa essere “davvero” umani? qual è il quid costitutivo dell’essere umano?), fondamentale nella produzione dickiana, è qui svolto ai massimi livelli e con un’originale angolazione.
Infatti stavolta il simulacro, l’androide pseudo-umano, non è una “nuova” creatura in cerca di un suo posto nel mondo come accadeva al replicante Roy Batty, ma una riproduzione – non si sa quanto fedele – a di quello che era un essere umano vero, cioè , appunto Abramo Lincoln (ed anche Edwin M. Stanton, il suo ministro della Guerra).
Questo tema si interseca con le traversie costruttori del simulacro, che vedono distrutti i loro progetti commerciali dall’interesse di un avido e gelido miliardario, e con il tema inverso dell’anempatico. Mentre il simulacro è un non-umano vicinissimo e forse arrivato all’umanità, l’anempatico è un essere umano privo di alcune caratteristiche basilari della comune psicologia umana quali amore ed empatia. Nel romanzo ci sono due personaggi di questo tipo, uno è il miliardario e l’altro è Pris, la figlia del collega del protagonista, l’ennesima incarnazione della dark-haired girl ovvero il fenotipo di donna distruttiva da cui PKD si sentiva suo malgrado attratto. In coda al romanzo c’è un estratto da un articolo autobiografico (“L’evoluzione di un amore vitale”) dove l’autore esplicita il concetto:

In linea generale, considero Pris una persona odiosa, malata e schizoide, una despota. Mi disgusta e mi attrae: il peggiore dei legami. È una specifica tipologia di anima, che sputa sentenze, è priva di calore emotivo, autoritaria, castrante, intellettuale, originale e talentuosa, il tipo di ragazza che un uomo ammira, a cui finisce per legarsi, di cui non riesce a liberarsi… e dalla quale finisce per lasciarsi distruggere, con sua somma gioia. Tornando a quei tempi, ricordo che ero solito interrogarmi cupamente su quel mio fatale tropismo: mi sentivo come una formica attratta senza possibilità di scampo da un certo insetticida. […] “Sei attratto da donne distruttive”, mi diceva sempre il mio analista, anno dopo anno. Ma non è mai riuscito a risolvere la situazione. Così ho continuato a scrivere romanzi su romanzi con donne simili a Pris. L’androide Abramo Lincoln è stato scritto molto tempo fa, e nessun editore di fantascienza lo voleva, perché come dicevano tutti, e loro se ne intendevano, “Non è fantascienza”. L’ho riscritto molte volte, mettendoci tanto lavoro da non poter essere più monetizzabile. Ma ero ammaliato dal soggetto del romanzo: un androide (Abe Lincoln), dotato di reali qualità umane, confrontato con un’umana (Pris) che è simile a un automa.

§§§

Skull-face, di Robert E. Howard.
Racconti miscellanei del creatore di Conan il Barbaro, pubblicati in America a cavallo tra gli anni ’20 e ‘30. Gli ingredienti ricorrenti sono quelli della letteratura pulp dell’epoca: orrori ancestrali, antichi misteri, civiltà perdute… e razzismo.
Sì, razzismo. La cosa che più mi ha colpito di questi racconti è infatti la naturalità – segno che l’argomento a quell’epoca non solo era pacifico ma “vendeva” –  con cui si esprime e si giustifica il razzismo di fondo presente nelle storie (non so se anche nelle personali convinzioni dell’autore, ma è probabile).
Prendete per esempio il racconto più lungo dell’antologia: Skull-Face. Il cattivo è un redivivo stregone d’Atlantide, sopravvissuto ai millenni (soprannominato appunto Faccia di Teschio per motivi facilmente comprensibili), il cui intento diabolico è nientemeno che “il rovesciamento delle razze bianche”. Apperò. “Il suo scopo supremo è un impero nero: e lui stesso sarà il sovrano del mondo. Per questo scopo ha legato in una cospirazione mostruosa i negri, i bruni e i gialli”. Ovviamente il cattivo è sconfitto, e il mantenimento della supremazia bianca nel mondo è salvo: happy end.
Potrei parlare anche del ciclo di Kirby Buckner (avventuriero del sud rurale americano che si trova alle prese con rivolte di negri capeggiati da uno stregone vudù), o del ciclo di Bran Mak Morn (re celtico che combatte per la sua razza contro i romani), ma non mi dilungo. Il succo è: quel che trapela dalla filosofia di fondo espressa in questi racconti è che l’appartenenza dell’individuo a una determinata razza è fondamentale nel definire come e chi è quell’individuo, in senso fisico, psicologico, intellettuale… anche morale.
Certo, erano gli anni ’30 dello scorso secolo. Non possiamo farne una specifica colpa di Howard. È passato quasi un secolo e molte cose sono cambiate. Allora il razzismo era normale parte integrante dell’orizzonte concettuale di un individuo civile; oggi invece no.
Ma pensateci un attimo: quante delle idee che oggi il mondo dà per scontate come moderne e politicamente corrette, domani o dopodomani saranno invece considerate reazionarie e inaccettabili?

§§§

Elementi di politica, di Benedetto Croce.
Libro uscito con il Corriere della Sera al prezzo di € 3, e che nella mia libreria Anobii stazione attualmente nella sezione “Non finito”. Infatti debbo a malincuore ammettere di averlo abbandonato dopo poche decine di pagine, in quanto ho scoperto Croce che scrive difficile, ma veramente difficile, anzi ha uno stile così intorcinato da proiettarsi oltre la mia soglia di comprensione.
Certo posso invocare attenuanti ambientali, come il fatto che abbia provato a leggerlo in mezzi pubblici molto affollati, ma insomma.
L’ho messo da parte e ci riprovo in momenti più tranquilli.

§§§

Fate, Time and Language – an Essay on Free Will, di David Foster Wallace e altri AAVV.
Letta la prima parte del libro, quella che contiene l’articolo sul fatalismo del filosofo Richard Taylor pubblicato nel 1962, alcune delle obiezioni postegli da altri filosofi sulle riviste di filosofia, le contro-obiezioni di Taylor, le contro-contro-obiezioni, e così via.
Adesso ho la riposta a una domanda che talvolta mi ero fatto e cioè “ma il flame esisteva anche prima di internet?”. Sì.
L’argomento fatalista di Richard Taylor meriterà un post a parte.

§§§

Kabbalah – tutti i segreti del misticismo ebraico, di Gabriella Samuel.
Oddio, forse tutti tutti no, però il libro è molto ricco nell’illustrare, in una struttura a dizionario (sono arrivato alla C), argomenti cabalistici. Anche se, considerato il taglio estremamente divulgativo, viene spontaneo chiedersi quanto sia approfondito e ortodosso rispetto a quel patrimonio religioso-culturale.
(casomai vi fosse apparso un punto interrogativo sulla testa, non è che mi sto convertendo o cosa. L’argomento mi interessa perché stavo preparando un post su Neon Genesis Evangelion, il miglior anime di tutti i tempi, e volevo approfondire un po’ il significato – ammesso che ce ne sia davvero uno – delle sephirot)
Comunque, trovo notevole che l’autrice, dovendo scrivere Dio ma non volendo nominare invano il Suo nome, scriva “D*o”.
Proprio così: D*o.
Con tutto il rispetto, sembra l’esclamazione di Homer Simpson.


libri novembre 2011

 

 §→ questi simboli indicano uno spoiler, evidenziare per leggere ←§

Demoni amanti, di Shirley Jackson.
Antologia di racconti, che nell’originale si chiamava The Lottery (la storia più famosa di SJ), e che l’editore italiano, forse nella speranza che il potenziale acquirente pensasse che il libro descrive copule tra angeli caduti, ha pensato bene di rinominare come sopra giocando sul fatto che c’è un racconto che si chiama Le diable amoureux (ovviamente non parla di coiti). Cosa questo dica sul mercato editoriale italiano, può essere oggetto di speculazione.
Si tratta di racconti realistici, folgoranti, che sovente portano i propri personaggi in situazioni stranianti e poi li lasciano lì, la storia termina e il lettore resta a chiedersi cos’è successo dopo e io che farei al posto suo eccetera.
Esempio: nel racconto Charles, una madre descrive preoccupata la cattiva influenza che suo figlio subisce dal compagno di classe Charles. Ogni giorno il figlio torna dall’asilo e racconta con tono inquietantemente ammirato le birichinate dell’amico, e la mamma vorrebbe tanto dirne quattro alla donna che ha generato un tale discolo. §→ Un giorno la narratrice si reca a un incontro genitori-insegnanti e nomina Charles; il maestro la guarda perplesso e dice in classe non c’è nessun Charles. ←§ Fine.
Poi c’è il racconto conclusivo, La lotteria (Adelphi lo mette a disposizione qui, per chi volesse leggere).  È l’unico racconto non strettamente realistico e metterlo alla fine e senza preavviso è un ulteriore colpo per il lettore ignaro (io non lo ero, ne avevo letto citazioni in almeno cinque o sei opere, ma me lo sono goduto lo stesso), proprio perché uno ha letto tanti racconti di un certo tipo e si aspetta che lo sia anche l’ultimo e invece si becca la mazzata psicologica. La storia è semplice, in un villaggio innominato ogni anno si tiene una lotteria. La data è il 27 giugno, cioè si usa il calendario gregoriano, e i personaggi hanno nomi comuni, buoni vecchi nomi americani tipo Joe o Bill: tutte cose che aumentano la sensazione di realismo e familiarità, e dunque lo shock finale quando la medesima è distrutta. SJ descrive brevemente i preparativi, la tranquillità con cui gli abitanti si preparano all’evento di routine. Il sorteggio è diviso per famiglie e ci sono dei tiratori designati che tirano per la propria, pescando un foglietto da una cassetta nera. Il lettore comincia a percepire qualcosa di strano quando esce la famiglia sorteggiata e la moglie, §→ anziché esultare, protesta. Ma la lotteria va avanti, adesso devono pescare i membri della famiglia, padre madre e tre figli. Il bambino piccolo è orgoglioso di partecipare alla cosa dei grandi. I cinque tirano ed è la moglie a pescare il foglio con il cerchio nero, dopodiché “anche se la gente del villaggio aveva dimenticato il rituale e perso la cassetta originale, sapeva ancora come si usavano le pietre”, le pietre che i bambini avevano raccolto all’inizio della novella e ammucchiato in un angolo della piazza senza che il lettore capisse perché, e la donna “era adesso in mezzo a uno spazio vuoto, e tendeva disperatamente le braccia mentre la gente del villaggio avanzava verso di lei. — Non è giusto — protestò ancora. Una pietra la colpì sulla tempia. — Non è giusto, non è giusto — gridò ancora, e poi tutti calarono su di lei. ←§
Si dice (spero sia una leggenda) che quando il racconto fu pubblicato nel 1949, molti lettori scrissero alla rivista pensando che fosse un fatto vero, e volevano sapere dove succedeva e se si poteva assistere.
Ciò che più mi ha colpito è che non c’è assolutamente nessuna delucidazione del perché si tenga la lotteria. La cosa che più si avvicina a una spiegazione è quando un tizio dice che in un villaggio vicino non la fanno più, e un vecchio protesta sostenendo che la lotteria c’è sempre stata e che a interromperla si attirano guai. La storia sembra dunque essere una messa in guardia contro la tradizione, o meglio la degenerazione della stessa, laddove per degenerazione intendo “facciamo così perché abbiamo sempre fatto così” al posto di “facciamo così perché ci hanno insegnato che è giusto”. Qui si aprirebbe un discorso molto interessante sul concetto di tradizione, che è innanzitutto traditio ovvero consegna, passaggio di idee di generazione in generazione, e della differenza tra un concetto statico e uno dinamico di tradizione (Tolkien la descriveva come un albero), eccetera, ma il discorso diventa troppo lungo per questo post perciò mi limito a dire LEGGETELO.

§§§

Follia per sette clan, di Philip K. Dick.
Molto bello e divertente, ennesima variazione sul tema “cosa è reale e cosa no e come faccio a capire la differenza”, stavolta sviluppata nella dicotomia sanità mentale / pazzia. La risposta alla fine sembrerebbe essere che la sanità mentale è un sottotipo di pazzia, ma la conclusione e il tono generale del romanzo sono così parodistici che non sono proprio sicuro che sia esattamente questo il “messaggio” del libro (ammesso che ce ne sia uno). Il protagonista Chuck è il tipico antieroe dickiano, perdente, mite, succube delle donne caparbie e/o dal seno grosso, in sostanza una trasfigurazione letteraria dell’autore.
P.S. Un paio di citazioni di San Paolo fatte dai personaggi aggiungono un altro anello alla catena della teologia paolina nella letteratura di PKD, che vorrei esaminare quando avrò finito di leggere tutti i suoi libri.

     §§§

Tutto, e di più – storia compatta dell’∞, di David Foster Wallace.
DFW racconta la storia del concetto di infinito in matematica rendendola avvincente come un romanzo.
Fino alle prime 100 pagine sono riuscito a seguirlo, poi però la faccenda è diventata così esoterica – nel senso di inaccessibile ai profani – che la mia limitata cultura matematica ne è uscita decisamente sconfitta, e ho capito sì e no il 10% di quello che scrive. Sono tutti concetti che mi piacerebbe approfondire, ma dovrei dedicarvi un quantitativo tale di tempo che onestamente faccio prima ad aspettare di morire e constatare l’infinito per esperienza personale. Pazienza.
Però mi resta la curiosità di

  1. Approfondire la figura di Bernard Placidus Johann Nepomuk Bolzano, da aggiungere al mio elenco di scienziati credenti (in questo caso anche prete) (però DFW dice che era una specie di eretico perché tenne discorsi pacifisti all’università dove insegnava) (embè? Mica perché uno è pacifista è automaticamente eretico  approfondire);
  2. Wallace, sulla scia di Bertrand Russell e altri simpaticoni, in sostanza sposa la tesi per cui lo sviluppo del concetto di infinito è stato ritardato di circa un migliaio di anni dalla concezione aristotelica di attualità/potenzialità dell’infinito, e di fatto anche dalla Chiesa che ha sposato e dogmatizzato l’aristotelismo; io, prima di pronunciarmi sulla verità/falsità della cosa, vorrei approfondire l’argomento – qualcuno mi può consigliare letture in merito, possibilmente fruibili anche da profani?

§§§

Così dolce, così innocente, di Shirley Jackson.
Altro libro della Jackson, altro titolo modificato (l’originale è Abbiamo sempre vissuto nel castello), ma almeno stavolta il titolo italiano non è fuori luogo. È una storia di agorafobia e tragedia familiare raccontata in prima persona da una pazza. Non si tratta di uno spoiler perché il lettore è in grado di accorgersi immediatamente che la voce narrante non ha tutte le rotelle che girano, ma è impressionante la perizia con cui l’autrice ci introduce al punto di vista di una persona mentalmente disturbata.
Shirley Jackson è stata una delle mie recenti scoperte letterarie più felici. Vi consiglio vivamente di leggerla.

 §§§

Shock 1, di Richard Matheson.
Primo volume di una famosa antologia di racconti di Matheson, di qualità variabile tra il sufficiente e il discreto. Particolarmente piaciuti Dissolvenza e fuga (uno sceneggiatore esprime l’incauto desiderio che la propria vita sia come un film e ne paga le conseguenze) e Il dispensatore (nuovo vicino semina caos nel quartiere; mi ha ricordato il romanzo di Stephen King Cose preziose).

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Shock 2, di Richard Matheson.
Secondo volume della suddetta antologia, con una qualità media decisamente buona. Particolarmente piaciuti I vampiri non esistono (come da titolo, gran finale a sorpresa), Scadenza (un uomo, un  anno), Muto (storia toccante di un bambino vittima di un esperimento scientifico).

 §§§

Controrealtà, di AAVV.
Si tratta del numero 52 di Urania Millemondi, uscito nell’agosto 2010. È la versione in italiano della collezione americana The Year’s Best SF n. 12, cioè la selezione dei migliori racconti di fantascienza pubblicati nel 2006. L’avevo già letto l’anno scorso ma mi è venuta voglia di riprenderlo. La qualità media dei racconti è eccezionalmente alta per gli standard delle antologie Urania; di solito ne apprezzo circa la metà, qui invece mi sono piaciuti quasi tutti, con un paio di storie che gridano ECCELLENTE!!!. Me lo sto rileggendo un po’ alla volta per gustarlo meglio.

 (N.B. sono un fiero sostenitore della rilettura, anche più volte. Credo fermamente che se un libro non merita una seconda lettura, allora non meritava neanche la prima. C’è un piacere tutto particolare nel ripercorrere strade già battute, del tipo: la percezione dei rimandi infratestuali, l’apprezzamento della scena senza l’assillo del “cosa succede dopo”, la comprensione di livelli di significato che erano sfuggiti la volta precedente. Guardo il mio foglio excel e mi deprimo nel constatare che rileggo troppo poco, l’ultimo “2°” risale addirittura a febbraio – La realtà in trasparenza di JRRT – e scuoto la testa. Vorrei poter rileggere ogni libro che ho letto, sfortunatamente l’applicazione di tale ideale richiederebbe una vita di durata tendente a ∞, così mi devo accontentare di rileggere quel che più mi “chiama”, sempre con un vago senso di colpa perché sottraggo tempo a chissà quali altre nuove meraviglie che mi aspettavano e che lascerò al momento della fine. Pazienza. Avrò tempo per leggere quando sarò morto.)

 Già solo l’introduzione mi aveva “acchiappato” con una riflessione meritevole di commento:

i critici letterari sono spesso avvezzi a leggere narrativa per la sua sincronicità, ovvero per il modo in cui le miriadi di voci di un dato momento concorrono a rappresentare quel punto preciso dello spaziotempo. Questa non è la stessa idea che John Clute ha del “vero anno” di una storia, l’idea che ogni pezzo di narrativa rifletta inevitabilmente e inconsciamente l’anno in cui è stato composto, non importa se ambientato milioni di anni nel futuro e in un’altra galassia. È anche l’opposto del modo in cui i lettori di fantascienza vogliono leggere la loro narrativa: questi desiderano che le affascinanti idee degli autori li trasportino dalla loro quotidianità verso luoghi e tempi fantastici che potrebbero concretizzarsi, ma che non esistono ancora. Vogliono evadere dal presente.
La fantascienza ha sempre posseduto un certo grado di deliberata sincronicità, particolarmente evidente nella SF americana satirica degli anni ’50 e nella SF dell’Europa orientale prima della caduta del Muro di Berlino. Ma in maggioranza, i lettori di SF preferiscono una buona storia a una buona allegoria. A tutti piace distanziarsi dalla realtà, puntare verso il futuro. Ma è già adesso che ci troviamo nel futuro, e non è affatto il luogo piacevole che volevamo che fosse.

E ce ne sarebbero di cose da dire, sia su questo concetto di sincronicità (il futuro non è concepibile a sé, ma sempre in relazione al momento in cui è concepito: il futuro esiste solo come proiezione del presente), sia sul vero significato dell’evasione (ah, Tolkien: “non confondete l’Evasione del Prigioniero con la Fuga del Disertore”)!
Molti racconti di quest’antologia sono sincronici perché parlano di una catastrofe, della fine della civiltà, insomma sono chiaramente post 11/9/01. Quelli che mi sono piaciuti di più sono:

  • Nanomacchine a Clifford Falls: la diffusione della nanotecnologia (macchine che producono istantaneamente qualsiasi cosa, dal cibo ai beni di lusso) promette il paradiso in terra. Tutti possono avere tutto. Fine della povertà, fine della fame nel mondo, fine dei bisogni materiali. Doveva essere il trionfo glorioso della Tecnica e invece è la distruzione della società. Bisognerebbe farlo leggere a Emanuele Severino. Mi è piaciuto così tanto che si merita un post a parte.
  • Quando gli amministratori di sistemi dominavano la Terra: altro racconto postapocalittico, storia di un amministratore di sistemi intrappolato con altri sysadmins in un palazzo pieno di server e mentre fuori il mondo crolla per esplosioni nucleari guerre batteriologiche etc. questi nerd semiautistici sognano di fondare un nuovo mondo peace&love&bytes. Il linguaggio è magnificamente geek (ho imparato locuzioni come PEBKAC, gtg, killare, eccetera).
  • il resto dei racconti lo rileggo il mese prossimo.

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Fate, Time and Language – an Essay on Free Will, di David Foster Wallace e AAVV.
È la tesi di laurea (o qualunque cosa sia una undergraduate thesis) scritta da DFW in filosofia modale. Quando l’ho ordinato su Amazon non ne sapevo molto di più, se non che era di DFW ed era molto scontato e parlava di destino, tempo, linguaggio e libero arbitrio, insomma la copertina balzava letteralmente fuori dallo schermo e urlava COMPRAMI!!!
In realtà soltanto 78 pagine (30,95% del libro di 250 pagine) sono state effettivamente scritte da Wallace. Il resto è roba scritta da altri, e devo ancora capire se sia un bene o un male.
Insomma è andata così: nel 1962, questo tale filosofo Richard Taylor scrive un articolo in favore del fatalismo (pressappoco: non siamo noi a decidere ciò che facciamo). Nel 1985 DFW scrive la sua tesi come una replica-confutazione del lavoro di RT. La tesi resta a prendere polvere in uno scaffale del dipartimento di filosofia dello Amherst College. Nel 2008 DFW muore in tragiche circostanze, cioè si impicca (considero il suo suicidio come la dimostrazione ultima che l’intelligenza non garantisce la felicità), e a questo punto ci sono due modi possibili di interpretare i fatti:

  1. Gli ex-professori di Wallace, sconvolti dal dolore, decidono di rendere omaggio al loro brillante studente pubblicando la sua tesi di laurea, e per completezza arricchiscono il volume con il lavoro originale di Taylor criticato da DFW, nonché altri articoli di altra gente competente a parlare del fatalismo e annessi e connessi;
  2. Gli ex-professori di Wallace fiutano quattrini e, subodorando che tutto ciò che porta in copertina il nome di DFW si venderà come il pane, cercano affannosamente qualsiasi cosa pubblicabile in loro possesso e trovano la tesi, solo che è troppo breve per essere stampata da sola, così aggiungono al malloppo altra roba  al fine di raggiungere una massa cartacea tale da giustificare il prezzo di copertina di $ 19,95.

Immagino che alla fine del libro avrò un’idea chiara di quale delle due interpretazioni sia più attinente alla realtà.
Intanto il libro l’ho iniziato, però essendo scritto in inglese e trattando di un argomento complicato con linguaggio da filosofi professionisti, penso che ci metterò un po’. Seguiranno aggiornamenti nei prossimi post mensili.


libri agosto 2011

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(rubando l’idea da qui)

Storia della letteratura del terrore – il “gotico” dal Settecento a oggi, di David Punter.
Comprato l’anno scorso da una bancarella che vendeva tutto a 3 euro. A volte un po’ troppo nozionistico, e la chiave di lettura onnicomprensivamente psicoanalitica non mi convince mica tanto, ma in definitiva – se si riesce a passare sul gravissimo difetto di deprecare Lovecraft al punto da definire la sua prosa “rozza, ripetitiva, leggibile dietro coercizione” – interessante e utile.
Qualche anno fa avevo letto un mammuth newton compton con i classici romanzi gotici –  Il castello di Otranto, Il monaco, L’italiano o Il confessionale dei Penitenti Neri, Melmoth l’uomo errante – e avevo scoperto una cosa che a scuola nessuno mi aveva spiegato, cioè che molti di questi libri erano intrisi di pura propaganda anticattolica (la sadicissima inquisizione, il convento-prigione, il monaco che inevitabilmente si eccita guardando le tette delle sante, etc.). Si trattava di un giudizio fondamentalmente veritiero, ma  riduttivo: leggendo questo libro ho scoperto che il gotico inglese ha avuto molte altre sfaccettature.
Da rileggere.

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I.N.R.I., di Michael Moorcock.
Delusione al cubo. Mi aspettavo molto di più da un romanzo con questa copertina (tanto per confermare il proverbio).
In sintesi, il protagonista è un nevrotico religioso (endiadi, ovviamente) che si procura una macchina del tempo e torna indietro per incontrare Cristo; dopo aver scoperto che il Gesù storico era solo uno scimunito deforme figlio di una sgualdrina, comincia a girare per la Palestina e impersona lui stesso il messia – tanto lo sanno tutti che i vangeli sono chiaramente stati scritti secoli dopo i fatti – fino a farsi crocifiggere.
Ma tutto questo impallidisce di fronte al vero peccato del libro, cioè quello di essere mediocre proprio come libro: lo stile è ridondante, le descrizioni sono assenti, non c’è alcun approfondimento psicologico dei personaggi diversi dal protagonista, e pure quest’ultimo alla fine non si capisce affatto perché faccia quello che fa, a parte (chiudere il loop del paradosso temporale e) l’essere nevrotico, che però non è granché come spiegazione.
Insomma, fondamentalmente il libro serve solo a spalare un po’ di escrementi sul cristianesimo e sui fessi che ci credono. Obiettivo editorialmente ineccepibile, ma io rimpiango i miei 5,5 €.

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Scorrete lacrime, disse il poliziotto, di Philip K. Dick.
Molto bello, anche se deve essere il ventesimo o giù dei libri dickiani che alla fin fine si basano tutti sullo stesso plot device. Proseguo comunque nella lettura dell’opera omnia di PKD e ne traggo enormi soddisfazioni.

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C’è nessuno?, di Jostein Gaarder.
Una favoletta. Si legge in fretta, non si sente il bisogno di rileggerla.

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Paura degli stranieri, di E. C. Tubb.
Due racconti di fantascienza, niente di che.

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Il teologo e l’economia – L’orizzonte economico di Bernard Lonergan, di Natalino Spaccapelo SJ, Michele Tomasi, Frederick G. Lawrence.
Si tratta di uno dei tanti libri comprati, grazie all’intermediazione di sissi2002 che non ringrazierò mai abbastanza, ad euro 1 da una favorevolissima svendita bibliotecaria. La prima parte descrive sinteticamente il pensiero di Bernard Lonergan (il teologo preferito di cabasilas e poemen), con particolare riguardo alla sua gnoseologia del M.E.G. – Metodo Empirico Generalizzato; la seconda e la terza parte approfondiscono il suo pensiero macroeconomico (ma approfondiscono sul serio; anzi, molti concetti li ho trovati così tecnici e specialistici da essere ben al di là della mia capacità immediata).
Da rileggere e da studiare.

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A Dance with Dragons, di George RR Martin.
Il quinto libro del ciclo delle Cronache del ghiaccio e del fuoco (cfr apposito post di Berlic). Molto bello (finalmente sappiamo che fine ha fatto quel personaggio, e quello, e anche quell’altro!) ma non eccelso in quanto soffre un po’ la scelta disgraziata di splittare le storylines dei personaggi tra quarto e quinto libro (GRRM, ma come ti è saltato in testa?).
Fondamentalmente Martin ha fatto per il fantasy quel che Herbert aveva fatto per la fantascienza, cioè ha demitizzato: come nell’universo narrativo di Dune non conta granché la tecnologia futuristica, che anzi è pressoché assente, allo stesso modo il fantasy di ASOIAF è pochissimo fantasy: non conta la magia ma i personaggi, le storie, le complicate guerre a tre-quattro-dieci-n fazioni diverse. E il risultato si vede.
Appuntarsi post contro il manicheismo – la divisione tra buoni e cattivi non è una linea netta ma attraversa il cuore di ogni essere umano – portando ad esempio il personaggio di Tyrion.

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Terra imperiale, di Arthur C. Clarke.
Noiosissimo. Dopo le prime pagine la storia diventa veramente piatta, tra risvolti pseudo-gialli e rimpianti d’amore giovanile che non suscitano nessun interesse. In sostanza è solo un panino narrativo da riempire con descrizioni scientifiche, il tutto sullo sfondo della solita tecno-soteriologia clarkiana così ingenua da far quasi sorridere (zero religione + Progresso scientifico + promiscuità sessuale = mondo perfetto tutti felici), che manco i più positivisti degli illuministi settecenteschi.
Niente, Clarke non lo reggo proprio.

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Lettera a un amico antisionista, di Pierluigi Battista.
Premessa: sono un essere spregevole e ripugnante.
Sono un lettore a scrocco: passeggiavo per la libreria, ho visto il libro sullo scaffale, ne ho constatato lo scarso spessore e… beh… mi sono accomodato su una poltroncina e me lo sono letto tutto lì in loco, in un’oretta scarsa, per poi riporlo sullo scaffale e andarmene tranquillamente col portafoglio intatto.

Se Pierluigi Battista passa da queste parti, ha tutto il diritto di incazzarsi.
Detto questo, il libro è molto utile e interessante, vuoi sul piano teorico (relazione tra antisionismo e antisemitismo: il primo non è il secondo, ma tende a diventarlo) vuoi sul piano storico (l’autore ricorda tutta una serie di episodi, la nave Altalena, l’omicidio del piccolo Stefano Gay Tachè, la tortura di Ilan Hamili, etc., che spesso passano in secondo piano nella stampa e nel sentire comune).
Può essere un utile regalo di compleanno: breve com’è, magari il donatario se lo legge davvero.

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Vennero dal futuro, di AAVV.
Il Millemondi Urania di quest’estate. Però stavolta la maggior parte dei racconti mi è sembrata, con poche eccezioni, abbastanza mediocre.

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Ritrattazioni, di Carlo Falconi.
Tuttora in lettura. Un altro dei libri a 1 € comprati grazie a sissi2002 (grazie). È un libro anomalo: l’autore è un personaggio strano, uno spretato del post concilio (ha anche scritto dei libri per la Kaos edizioni contro Pio XII e Paolo VI), insomma un tipo mezzo Kung mezzo Mancuso per intenderci. Sennonché nell’introduzione del libro, che parla fondamentalmente del Concilio Vaticano II e del il casino che ne è seguito (il libro è degli anni ‘70), costui afferma di voler criticare gli “eccessi” progressisti e ritrattare, appunto, certe sue idee espresse pubblicamente.
Per adesso sono alla prima metà. Giudizio compiuto al prossimo post.


Il caso Rautavaara

Il caso Rautavaara

 

No Alessandro, non penso affatto che questo racconto di Philip K. Dick sia blasfemo, anzi può essere utilissimo per capire un aspetto particolare del cristianesimo e cioè la sua concezione assolutamente rivoluzionaria del sacrificio e del rapporto uomo-Dio.

Bisogna conoscere il racconto per capire di che stiamo parlando, chi non ha problemi con l’inglese può leggerlo qui, gli altri dovranno scapicollarsi in libreria a comprare il massiccio volume Tutti i racconti 1964 – 1981 (che merita assolutamente i 25 € non foss’altro perché c’è pure Le pre-persone) altrimenti dovranno accontentarsi del mio misero riassunto.

 

Tre tecnici umani su un’astronave hanno un impatto accidentale con dei meteoriti e muoiono. All’incidente assistono per caso delle intelligenze aliene fatte di plasma e sostanzialmente prive di corpo, dal cui punto di vista è narrata tutta la storia, che hanno stipulato con i terrestri degli accordi di mutuo soccorso e perciò cercano di assistere gli umani (“noi non desideravamo aiutarli, ma rispettiamo le regole”). Due dei terrestri sono troppo danneggiati e non c’è nulla da fare, ma la terza, tale Agneta Rautavaara, ha ancora i tessuti neurali abbastanza integri e perciò il robot degli alieni cerca di recuperarla, ripristinando le sue funzioni cerebrali e a questo scopo fornendo al cervello ossigeno tratto dallo stesso corpo morto della donna (l’alieno narratore allude al quesito se sarebbe stato più opportuno usare il corpo dei suoi compagni morti, considerazione molto interessante col senno di poi). A questo punto gli alieni, che nel frattempo hanno consultato via radio gli umani sulla terra per informarli dell’accaduto, decidono di monitorare a scopo diagnostico i pensieri del cervello della terrestre.

Ecco allora che alieni e umani scoprono con sorpresa che, nei pensieri del cervello della terrestre, lei e gli altri due sono sopravvissuti all’incidente e sono visitati sull’astronave da una Figura che compare in mezzo a loro e che è Gesù Cristo, con tunica sandali barba e aureola, preciso uguale all’iconografia tradizionale (“proprio come nella pubblicità olo delle chiese terrestri”). Cristo pronuncia una serie di frasi palesemente tratte dai vangeli. I tecnici si dividono tra fervore mistico e scetticismo e inquietudine.

Gli alieni che osservano i pensieri della terrestre sono tutti eccitati perché ritengono che lei stia vivendo una vera esperienza ultraterrena, come se avessero una sorta di telecamera sull’aldilà: “eravamo in contatto con l’altro mondo e con le forze che lo dominano”. Gli umani sulla terra invece pensano sia tutta un’allucinazione e insistono per spegnere il cervello della donna. A questo punto l’alieno narratore, dopo aver notato quanto trovi bizzarra e primitiva la concezione umana del Salvatore, decide che sarebbe “interessante” introdurre nel cervello della terrestre, che è pur sempre tenuto in vita dai mezzi artificiali alieni, delle variabili collegate alla concezione aliena dell’aldilà. L’obiezione fatta dai suoi compagni che ciò contraddice la precedente considerazione della vicenda è respinta con l’enigmatica ossimorica risposta “Entrambe le cose sono vere, è una finestra sull’altro mondo ed è una rappresentazione delle propensioni culturali della razza di Rautavaara”, e l’alieno mette in pratica la sua decisione.

Nella visione della terrestre, Cristo invita gli astanti a credere in lui per avere la vita eterna, ma subito dopo i tecnici avvertono in Lui un sottile mutamento. Ed ecco che Cristo si avvicina ad uno di loro e lo morde e lo divora. Orrore degli altri due. La Figura dice “io bevo il suo sangue, il sangue della vita eterna, e vivrò per sempre. Io non possiedo un corpo, sono soltanto plasma, e mangiando il suo corpo ottengo la vita eterna. È questa la nuova verità che io proclamo: la mia eternità”. Rautavaara e il tecnico superstite si difendono a colpi di pistola laser e uccidono la Figura, che muore dicendo “Eli, Eli, lama sabachtani?”.

A questo punto gli umani sulla terra intervengono e interrompono l’esperimento alieno di ibridazione teologica, spegnendo il cervello di Rautavaara e rimproverando aspramente gli alieni. Il narratore commenta: “Avevamo visto l’inizio di un esperimento scientifico assolutamente sorprendente: la teologia di una razza trasfusa in quella di un’altra. Spegnere il cervello della terrestre fu una tragedia scientifica. Per esempio, nei termini del rapporto di base con Dio, la razza terrestre possedeva un punto di vista diametralmente opposto al nostro. Questo, ovviamente, va attribuito al fatto che loro sono una razza somatica, mentre noi siamo di plasma. Loro bevono il sangue del loro Dio; mangiano la sua carne; e così diventano immortali. Per loro non vi è scandalo in ciò, lo trovano perfettamente naturale. Eppure per noi è mostruoso. Il fedele che mangia e beve il proprio Dio? Mostruoso per noi, veramente mostruoso. Un orrore e una vergogna; un abominio. Il superiore deve sempre cibarsi dell’inferiore; il Dio deve consumare il fedele.” Le ultime parole dell’alieno narratore esprimono sorpresa per la condanna morale ricevuta dagli incomprensibili esseri umani a seguito della vicenda, e per l’abisso che separa razze che si sono sviluppate in sistemi stellari diversi, nonché rammarico per il fatto che ciò che egli definisce il Salvatore non sia riuscito a mangiare anche l’altro tecnico e Rautavaara.

 

Cos’è questo racconto e cosa vuole essere? Una fantasia cristologica frutto dell’immaginazione di un PKD già gnosticheggiante e/o sotto allucinogeni? Uno scherzo grottesco o qualche paginetta buttata giù da vendere a una rivista per pagarsi l’affitto del mese prossimo? Una metafora della diversità culturale e degli equivoci che ne possono sorgere?

Ecco quello che vedo io: la concezione teologica dell’alieno non è affatto “aliena”, ma rappresenta una diffusissima visione religiosa pagana e precristiana, e anche postcristiana lì dove il cristianesimo è stato rifiutato e combattuto. Dio è in alto, l’uomo è in basso, fine. Lui non viene a morire per te, sei solo tu che devi morire per lui. Il sacrificio è qualcosa che Dio non fa altro che chiedere: oro, verdure bruciate, animali scannati, prigionieri che urlano di agonia mentre il pugnale strappa il cuore oppure martiri che si fanno esplodere tra gli innocenti urlando la grandezza di un Dio che odia gli infedeli e sottomette i fedeli… Qui non c’è pietà. Qui non c’è la compassione. Qui non c’è vero affetto. Ci sono solo la forza, l’arbitrio, l’ingordigia di potere. Dio sopra e tutti gli uomini sotto – alcuni uomini un po’ meno sotto perché sono una casta di eletti, una conventicola gnostica di illuminati, un clero incaricato di accrescere e mantenere la sottomissione dei sottomessi, e intanto si accalcano per spartirsi bramosamente le briciole dello spietato potere divino.

 

Ecco, se io avessi questa concezione della divinità, la odierei e la bestemmierei e troverei giusto combatterla con tutte le mie forze. Sarei forse il più antiteista degli antiteisti e il più anticlericale degli anticlericali. Forse è per questo che a volte provo simpatia e comprensione per coloro che possiamo genericamente definire come gli atei e gli anticlericali (beninteso, per quelli in cui non vedo disonestà intellettuale): perché la distanza tra noi è minore di quanto può sembrare, perché la loro battaglia è un po’ anche la mia, perché da una certa parziale ma non insignificante prospettiva addirittura hanno ragione giacché questo dio qua non esiste, e se esistesse dovremmo ergerci come Capaneo e urlare con tutta la forza che abbiamo e mandarlo affanculo. In un certo senso, gli atei anticlericali fanno la guerra giusta contro il bersaglio sbagliato.

Ma la differenza tra me e gli atei anticlericali è appunto questa: che io sono cristiano e so che questa visione religiosa è un idolo, uno schermo comodo, un dio falso e bugiardo dietro il quale si nascondono uomini e demoni. Perché il cristianesimo ha rovesciato questa visione e ha realizzato l’unica rivoluzione che abbia mai veramente funzionato. Dio non resta in alto ma scende in basso, nella povertà, nella feccia, nella merda in cui tutti noi poveri cristi ci arrabattiamo giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno.

(che poi, poveri cristi: ma dove si era mai sentito prima e dove si è mai sentito dopo il nome di una divinità usato come sinonimo di sofferenza ed evocativo di compassione? Si è mai pronunciato sulla faccia della terra un povero anubi, povero zeus, povero allah?? Ma quale cultura ha prodotto mai un’esclamazione spontanea che legasse così intrinsecamente la gloria celeste e la fatica del vivere umano??? Ma com’è bella e significativa quest’espressione, un povero cristo!)

Già il Dio di Abramo, il Dio di Israele, aveva rifiutato Isacco e con lui tutti i sacrifici umani; ma poi Dio si rivela in Cristo, che è a un tempo sacerdote e altare e sacrificio, e pone fine a tutti i sacrifici rituali perché egli stesso è il sacrificio supremo e definitivo. E la logica religiosa del superiore che mangia l’inferiore, questa specie di implacabile darwinismo ante litteram, è scardinata alla radice: ora è l’inferiore a nutrirsi del superiore, perché è il superiore stesso a darsi come cibo e bevanda. Dio potrà ancora chiederti (non ordinarti, chiederti) di morire per lui, ma non semplicemente perché lui è Dio e perché lui è potente e perché sì e zitto, ma proprio perché prima è stato lui a morire per te.

 

Ma allora, data la rivoluzionarietà di questa concezione, come meravigliarsi del fatto che non tutti l’abbiano accolta, che ci sia stato e ci sia tuttora e sempre ci sarà chi la rifiuta e la combatte e non la capisce?

Ed ecco che l’alieno del racconto di PKD si rivela ancora una volta drammaticamente umano: vede una rappresentazione di Cristo ma non la comprende, forse perché non può o non vuole, e la cambia per farla rientrare in qualcosa che sa capire, qualcosa a cui è abituato e che non minaccia i suoi canoni culturali. Sfortunato – ma anche colpevole – colui che rifugge il terribile confronto con la realtà colta nella sua totalità e preferisce rifugiarsi nell’ideologia, nel piacere illusorio di un qualche vicodin psicologico, in un preconcetto comodo e frusto come un paio di vecchie pantofole. E mentre la concettualizzazione operata dall’alieno a proposito delle differenze tra corpo e plasma ricorda certi miopi tentativi di fenomenologia della religione, che riducono tutto quanto  a cause storico-culturali e negano tutto ciò che trascende l’appagante schemino preconfezionato, il suo esperimento scientifico di ibridazione teologica diventa spaventosamente familiare. Il Cristo cannibale, il Salvatore che mangia anziché offrirsi per essere mangiato, è soltanto l’ultimo o penultimo anello della catena di falsi cristi già preconizzata da Mt 24, 24 e Mc 13, 22 e che dura da circa duemila anni, dall’eone in missione segreta delle conventicole gnostiche al cristo radicale del farneticante don giorgio de capitani passando per il cristo carbonaro e il cristo socialista e il cristo dell’esegesi protestante e il cristo dell’esegesi fintocattolicaesottosottoprotestante e il cristo protofemminista e il cristo hippy e il cristo volemosebbene e il cristo “ahòmacheddevofàchenuncestòacapìgnente?” e tutti i cristi vattelappesca che una variopinta umanità ha dovuto inventare fondamentalmente perché Gesù il Cristo, quello vero, era troppo limpido per gli orgogliosi e troppo mite per i colmi d’odio e troppo casto per i rattusi e troppo autorità per gli eversivi etc. etc. etc.

 

(presagisco già la possibile obiezione di qualcuno: ma come fai ad essere così sicuro di averlo capito tu il “vero” cristo, come fai ad escludere così categoricamente che anche la tua non è che l’ennesima ricostruzione tendenziosa di un cristo adulterato ed orientato agli interessi di una specifica casta/cultura/politica/eccetera?

Per questa obiezione non ho che una risposta, cioè che io credo nella ragionevolezza della fede. Che io credo che scegliere un cristo piuttosto che un altro non sia un atto dettato dal sentimento o dal fideismo puro, nel qual caso sarebbero pressappoco tutti uguali, ma l’esito probabile di una ponderazione attenta e cauta e addirittura oggettiva. Che io credo, come il Papa autore del Gesù di Nazareth, che il Cristo emergente dai quattro vangeli sia davvero una figura molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni e secoli e millenni, una figura storicamente sensata e convincente. E che in generale io credo davvero che un essere umano possa sia pur faticosamente arrivare a una verità oggettiva talora addirittura inconfutabile e lampante nella sua veridicità, nonostante tutti le possibili opinioni sbagliate in cui altri meno fortunati o meno volenterosi o meno intellettualmente onesti possono incappare: che io credo che l’esistenza degli errori non provi l’inesistenza della verità.)

 

 

Alla fin fine, la conclusione di questo post è molto semplice. Dopo duemila anni la Terra è ancora piena di umani che ragionano come l’alieno narratore del racconto di PKD, e ancora s’aggirano per il mondo miti imitatori e ingannatori come quella Figura vorace, e c’è sempre un caso Rautavaara che accade da qualche parte nel mondo. Attenti al cannibale, attenti al pericolo nascosto.

Dai frutti li riconoscerete.