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Libri dicembre 2011

E buon anno a tutti.

 §→ questi simboli indicano uno spoiler, evidenziare per leggere ←§

Controrealtà, di AAVV.
Ho finito di rileggerlo. I racconti migliori:

  • Fallo e basta!: storia terribile, nel senso positivo del termine (sì esiste un senso positivo). Ricordo che la prima volta che l’ho letto mi ha dato un senso di vera e propria rabbia nauseabonda, perché racconta di una manipolazione del libero arbitrio a dir poco brutale. È ambientato in un futuro distopico in cui la pubblicità di prodotti alimentari è attuata tramite manipolazione biochimica, ovvero ci sono questi Tiratori scelti che sparano dardi alla gente per iniettare sostanze che provocano una vera propria bramosia di consumo. In qualche modo tutto questo è considerato legale. La protagonista è un’attivista che si infiltra in un’azienda di marketing e ne seduce il manager a scopo sabotaggio, ma §→ finisce per essere  raggirata dal manager che ha capito il suo gioco, la sfrutta per i suoi fini, e infine le inietta un dardo nel collo e le “chiede” di sposarlo. Il finale è agghiacciante: la narratrice cerca di svegliare suo figlio, che non vuole andare a scuola, e “Lui si gira dall’altra parte, gemendo, ma non fa una mossa per alzarsi. Sfodero la mia pistola genitoriale e regolo il tamburo da Vai a Letto a Svegliati. – Alzati, Tommy – dico mentre miro con cura ai suoi capelli arruffati dal sonno. – Non farmelo dire due volte.←§ Sembra uno scherzo ma è uno dei finali più agghiaccianti che abbia mai letto da molto tempo a questa parte. L’introduzione dei curatori dice che la storia può essere letta come una satira sull’uso dei farmaci psichiatrici. Io aggiungerei anche del degrado educativo contemporaneo.
  • Filmini casalinghi: è una storia sul rapporto tra memoria e identità. La protagonista noleggia sé stessa (sì, il parallelo con la prostituzione è accennato nel racconto) per vivere su richiesta di facoltosi clienti esperienze che poi saranno espiantate dalla sua memoria e trasferite in quella degli acquirenti.
  • Questa è l’era glaciale: racconto post-apocalittico in cui l’intero pianeta è stato sconvolto da una catastrofe improvvisa, cioè tutti gli aggeggi elettrici emettono senza preavviso “frattali di ghiaccio quantistico”, gelidi spunzoni che infilano chiunque nelle vicinanze. In pochi secondi in tutto il globo gli aerei sono caduti, le automobili sono diventate trappole mortali, “portare un telefono cellulare in tasca significava essere trafitti dal ghiaccio nella zona pelvica” (ugh!). Non c’è assolutamente nessuna spiegazione del perché e del percome, semplicemente la storia parte dal post-disastro e racconta sentimenti e vicende di una ragazza che cerca di sopravvivere. Il racconto di per sé non è questa grande cosa, però mi è piaciuto perché io sono un grande estimatore delle storie post-apocalittiche, le quali hanno il merito di ricordarci che tutto ciò che noi occidentali normalmente diamo per scontato (il benessere, la pace, la democrazia eccetera) non lo è affatto.
  • Spedizione, con ricette: altro racconto post-apocalittico nel quale non c’è neppure una vaga spiegazione di COSA abbia ridotto a pezzi la civiltà, semplicemente si descrive la routine di alcuni bambini che cercano disperatamente di non morire di fame. Il racconto è intervallato da alcune paradossali ricette di novelle cousine su topi e scarafaggi.
  • Quill: se mai doveste ritrovarvi tra le mani l’antologia che sto recensendo, nella quale ogni racconto è preceduto dall’introduzione dei curatori, fate un grosso favore a voi stessi: quando arrivate a questo racconto NON LEGGETE L’INTRODUZIONE. Via, distogliete gli occhi, sciò. Perché questi disgraziati, non so se per disattenzione o noncuranza o vero sadismo, ti spoilerano senza preavviso l’ottimo plot twist della storia, ovvero che stiamo parlando di §→ dinosauri intelligenti ←§. Bastardi.
  • Tigre, in fiamme: fantascienza hardcore, tra universi paralleli e fisiche aliene e paradossi temporali, con gradevoli citazioni dalla letteratura classica (a cominciare dal titolo).
  • Damasco: parla di religione. Il titolo si spiega considerato che la protagonista si chiama Paula e si converte a una religione che ti fa letteralmente vedere Cristo al tuo fianco, ma che in realtà è una malattia neurodegenerativa che altera la sua biochimica cerebrale e sostanzialmente coarta il suo libero arbitrio. Dal punto di vista letterario il racconto mi è piaciuto perché è scritto bene, anche se quanto a valori ovviamente stiamo proprio agli antipodi perché la storia veicola la concezione (assolutamente prevalente nella fantascienza mainstream fino a qualche anno fa, tuttora molto diffusa) della fede religiosa come oppiaceo psicologico se non addirittura vera e propria malattia mentale, una cosa alla Dawkins tipo chi pensa non crede e chi crede non pensa.
  • Prevenzione: molto divertente. Gli alieni attaccano improvvisamente il pianeta, ma la loro strategia è molto strana, perché non si curano minimamente di colpire importanti strutture politico-militari ma solo obiettivi ben più secondari. Alla fine viene fuori che §→ gli alieni vogliono eliminare preventivamente la futura minaccia terrestre alle altre razze della galassia… e non siamo noi, tanto ci autodistruggeremo prima. Sono i nostri cani. ←§. Ouch, colpiti nell’orgoglio.

§§§

Ossessione, di Stephen King.
È uno dei primi romanzi di King, a suo tempo pubblicato con lo pseudonimo di Richard Bachman. Era praticamente l’unico suo romanzo che dovevo ancora leggere (a parte le ultime uscite, per quelle aspetto l’edizione paperback), molto difficile da trovare perché King lo ha tolto dalle librerie dopo i vari fatti americani tipo strage di Columbine eccetera, infatti il protagonista è un adolescente che esce fuori di testa a scuola, ammazza due professori e prende in ostaggio una classe. O forse in realtà è la classe che prende in ostaggio lui. I ragazzi cominciano a confidarsi liberamente e vengono fuori un bel po’ delle ossessioni e dei neri segreti di questi “bravi ragazzi”.
La trama è discreta, ma lo stile è ancora un po’ rozzo (il giovane SK doveva ancora affinarsi).

§§§

Guerra al Grande Nulla, di James Blish.
Il titolo originale era A Case of Conscience, ovvero “un caso di coscienza”.
Molto interessante e problematico, è un libro del 1958 (all’epoca ha vinto anche un Hugo Award, una specie di equivalente dell’Oscar nella narrativa sf) che ha per protagonista un gesuita e i suoi dubbi di coscienza. Mandato in missione in quanto biologo sul pianeta alieno Lithia e venuto a contatto con i suoi abitanti rettiliformi (volgarmente chiamati Serpenti!), finisce per concludere che essi sono creature di Satana; e siccome ha attribuito un potere creativo al Diavolo, cade nell’eresia manichea e merita la scomunica.
Le ragioni per cui il gesuita conclude che questi alieni sono figli del diavolo sono essenzialmente:

1)      Abitano in pace ed armonia, in una specie di paradiso terrestre senza malvagità, però non hanno nessuna religione: perciò sono una tentazione diabolica per far credere all’uomo che si possa essere perfettamente buoni senza Dio;

2)      Sono essenzialmente logici, eppure usano un codice morale basato su assiomi morali indimostrati, dei quali non è spiegata l’origine e che sono straordinariamente convergenti con quelli cristiano-occidentali: perciò “la civiltà lithiana è così congegnata da suggerire che si possa giungere a questi assiomi fondamentali del Cristianesimo, e della civiltà occidentale terrestre in generale, attraverso la ragione pura, nonostante il fatto che la cosa non è possibile”;

3)      Il loro sviluppo biologico attraversa una ricapitolazione esterna al corpo, ovvero gli embrioni alieni ripercorrono l’evoluzione della specie da pesci a rettili: perciò sono una tentazione diabolica per convincere l’uomo della validità dell’evoluzionismo.

Ora, io non so quanto James Blish, che da wikipedia risulta un agnostico, conoscesse bene il pensiero cattolico, però devo dire che tutti questi motivi mi sembrano alquanto pretestuosi: l’impressione è che l’autore ne avesse bisogno per portare la trama dove voleva e se li sia cercati non importa quanto scricchiolanti. Provo a sistemare le contro-obiezioni che farei io se fossi un altro personaggio del romanzo, magari un confratello gesuita che accompagna il protagonista (in effetti qualcuno mi dice che talvolta ragiono un po’ troppo gesuiticamente!):

1)      Siamo sul pianeta da troppo poco tempo, qualche mese appena. La nostra conoscenza della lingua e della cultura e della storia lithiana è ancora molto approssimativa. Il fatto che i lithiani non ci abbiamo mai parlato di Dio non è una prova certa del fatto che siano assolutamente atei: la loro cultura potrebbe considerare Dio come una presenza lontana da adorare silenziosamente. Oppure, il loro ateismo morale potrebbe essere la corruzione di una precedente cultura teista, che in seguito a qualche rivoluzione culturale ha abolito la nozione di Dio, mantenendone però in parte gli insegnamenti morali; questo risolverebbe anche la tua eresia manichea, perché è vero che Satana non può creare, però può corrompere ciò che è già stato creato;

2)      Caro confratello, ma non stai dimenticando (come minimo) San Paolo e San Tommaso? Che ne è della legge morale naturale, che Dio inscrive nei cuori di tutti gli esseri umani (e possiamo immaginare anche degli alieni)? Esiste un giusnaturalismo razionale, che il cristianesimo porta a perfezione ma non abolisce. Anche chi è ateo può derivare dalla morale naturale un codice di condotta con nozioni basilarmente corrette di bene e male (pur se il peccato originale e l’opera diabolica complicano questa possibilità). Forse noi siamo semplicemente in un mondo nel quale deve ancora cominciare la Rivelazione.

3)      Aaargh! L’autore nel 1958 si inventa che nel 1995, in una fantomatica “Dieta di Bassora”, la Chiesa cattolica accoglierà contro l’evoluzionismo l’argomento dell’omphalos di Philip Henry Gosse (ne parla anche Jorge Luis Borges in Altre inquisizioni) proposto per conciliare le immense ere geologiche suggerite dalla presenza dei fossili con il dettato letterale della Genesi: Dio crea testimonianze storiche di un passato che è verosimile ma non è vero. Adamo è stato creato con l’ombelico, anche se non aveva madre; i primi animali sono creati già adulti, il che ne presupporrebbe un passato da cuccioli, ma non sono mai stati cuccioli; esistono scheletri di glittodonte, ma non è mai esistito il glittodonte; esiste l’ontogenesi che ricapitola la filogenesi, ma non c’è mai stata la filogenesi; e così via. MA CHE SCHERZIAMO?!? Il problema di questo argomento (non per niente elaborato da un protestante) è il suo estremo fideismo. In base a cosa possiamo credere che il passato verosimile non sia vero? Solo in base alla fede, senza nessun aiuto dall’esperienza o dalla ragione che anzi sono di ostacolo. Questa gnoseologia è decisamente non cattolica. E a questo punto, se esiste un passato fittizio, perché dovrei credere proprio al passato reale proposto dalla Bibbia? Tanto varrebbe fare come fa Bertrand Russell, che in un suo libro ipotizza per assurdo che il mondo sia “realmente” cominciato cinque minuti fa: e come dargli torto? Se tutto ciò che abbiamo per conoscere è la fede, come capiamo/decidiamo in che cosa avere fede?

Insomma, l’impressione finale è che l’autore, seppure animato da buone intenzioni – colpisce la “serietà” del cattolicesimo descritto, nel senso che l’ortodossia cattolica, o almeno quella che Blish reputa tale, è presa estremamente sul serio, specie dai gesuiti… un quadro che sembra lontano anni luce dalla desolante realtà odierna che spesso ci troviamo di fronte: ed era “solo” il 1958, poco più di mezzo secolo fa!!! – sia caduto nel vieto stereotipo in cui cadono spesso i non credenti quando pensano ai credenti: gente che crede, appunto, ma non sa ragionare su ciò che crede.

§§§

Brivido crudele, di Robert Silverberg.
Ottimo Silverberg d’annata, anche se si perde un po’ nel finale. Il titolo originale era Thorns, “spine”, assolutamente calzante perché l’argomento del romanzo è il dolore. I protagonisti sono persone straziate dal dolore: un astronauta reduce da un viaggio interstellare in cui è stato vivisezionato dagli alieni e rimontato in un corpo mostruoso e grottesco (descritto soltanto per sporadiche allusioni, es. i tentacoli sulle dita, le palpebre che si aprono in orizzontale), che gli provoca trafitture ad ogni istante; ed una ragazza a cui per esperimento hanno provocato e negato la maternità (simultanea fecondazione in vitro di cento suoi ovuli, gestazione dei feti in uteri artificiali, e divieto per lei di accudire o vedere anche solo uno dei suoi 100 figli), che vive nella depressione e tenta più volte il suicidio.
Queste agonie si incontrano quando entrambi sono contattati da un magnate della comunicazione, che li convince con false promesse (a lui un corpo nuovo, a lei un paio dei suoi bambini) a diventare i protagonisti dei suoi spettacoli trasmessi in tutta la galassia – avete presente quelle orribili trasmissioni televisive che lobotomizzano gli spettatori a base di gossip di vita morte e misfatti delle celebrità o pseudo tali? Ecco. Quel che i due non sanno è che l’uomo in realtà è un sadico vampiro psichico che si nutre letteralmente della sofferenza altrui, e li manipola prima per metterli assieme (e vendere al pubblico la storia d’amore del secolo) e poi per “mangiare” lo sfascio della loro relazione tra dispetti e odî (e vendere al pubblico la fine della storia d’amore del secolo), perché la loro unione era solo l’insieme di due solitudini aggrappate l’una all’altra per calcolo e disperazione, perché due egoismi non fanno un amore.
Per circa tre quarti il libro mi è piaciuto moltissimo, il finale mi ha lasciato insoddisfatto perché §→ sa troppo di deus ex machina sia il modo in cui i due personaggi apprendono la reale natura del loro sfruttatore, sia il modo in cui lo distruggono, sia la loro unione finale dopo che si erano odiati a morte. ←§. Ma resta comunque un buon libro. Silverberg è un autore estremamente sottovalutato e meriterebbe di essere conosciuto anche dal grande pubblico, tipo un Asimov o un Clarke (a cui è di gran lunga superiore).

§§§

Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento, di Antonio Illibato.
Primo volume di una biografia in tre parti del Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei (nel quale infatti è stato comprato il libro, onde consegnarlo a Lucyette).
La descrizione storica dei quei tempi e luoghi – tra le province di Napoli e Brindisi, verso la fine del regno borbonico – offre un quadro invero assai pessimistico: tra i poveri, un’ignoranza molto diffusa delle verità di fede e il permanere di un sostanziale paganesimo superstizioso; tra i ricchi, il diffondersi dell’odio per la Chiesa, della filosofia hegeliana che dominava nelle università, di “mode” come lo spiritismo e il satanismo (lo stesso Bartolo Longo, prima di convertirsi, da giovane era entrato in una cerchia iniziatica che sperimentava fenomeni medianici); tra il clero, molti sacerdoti santi ma anche molti chierici, come dire, di costumi non irreprensibili. Per non dire della miseria, delle malattie, della mortalità e continuate voi l’allitterazione in emme. Pertanto: se il 2011 è stato un anno brutto, e il 2012 sarà più brutto ancora, ricordiamoci di quando si stava peggio…
Molto interessante anche la parte sulle ansie da neoconvertito del biografato, indeciso se prendere i voti oppure cercare la perfezione cristiana da laico consacrato se non da padre di famiglia: c’è un mezzo capitolo interamente dedicato ai suoi tragicomici fidanzamenti, finì anche per lasciare una poveretta praticamente sull’altare (scherzo, si era “solo” in fase di fissazione della data del matrimonio, ma da quelle parti è comunque una cosa presa molto seriamente…); fatto sta che per certi versi Bartolo Longo ha anticipato la presa di coscienza del ruolo missionario del laico, e della possibilità di santificazione personale in ogni stato sociale, che poi è stata espressa dall’Opus Dei e dal CV II.
Insomma, avevo cominciato a leggerlo di sfuggita nell’attesa di recapitarlo alla destinataria interessata, ed è stata una piacevole sorpresa.

§§§

Pensare Dio – introduzione alla religione, di Giovanni Chimirri.
Uhmmm.
Perplessità.
Si tratta di un altro dei libri comprati a poco prezzo grazie all’intermediazione di Sissi2002. Come si capisce dal titolo, si tratta di un libro di teologia, il quale

attraverso un nuovo tentativo di divulgazione, sviluppa in modo teoretico-sistematico le classiche “questioni” di teologia filosofica, tra cui l’essenza della religione, le deformazioni religiose, il linguaggio teologico, il rapporto ragione-fede, l’ateismo, il male, il nichilismo, soffermandosi sulle dimostrazioni dell’esistenza di Dio, sui vari attributi divini e sul concetto di creazione e rivelazione. La categoria del pensiero, che determina la nuova prospettiva d’indagine del volume, è sempre alla base del discorso, articolato in cinque capitoli e arricchito da un’ampia bibliografia ragionata. Di qui, pur senza rinunciare alla necessaria precisione terminologica (ogni termine “tecnico” o, se si preferisce, specialistico viene di volta in volta opportunamente introdotto e spiegato), il linguaggio è chiaro e semplice, tale da coinvolgere il lettore in una meditazione che rimette comunque in gioco il modo stesso di avvicinarsi e di “pensare” Dio.

Cari lettori, non so voi ma io se leggo l’espressione “nuova prospettiva” unita all’argomento “teologia” mi metto un po’ paura. Di solito quelli che propongono nuove prospettive teologiche o sono santi o sono eretici, e i secondi sono assai più frequenti dei primi.
Ma insomma qual è questa categoria del pensiero che determina la nuova prospettiva? Per adesso ho letto meno della metà, non posso dare un giudizio definitivo, ma la mia opinione provvisoria è che l’autore stia sottilmente proponendo – non so se per confusione in buona fede o malizia deliberata – un cristianesimo impastato di idealismo. Cioè l’idea che il mondo e addirittura Dio siano “reali” perché ed in quanto “pensati” dall’uomo. Ciò si evince, a parte le frequenti citazioni compiaciute dagli idealisti tedeschi (che pure sono sintomatiche), e certi frasi inquietanti di vago sapore hegeliano del tipo “la verità è lo spirito nel suo processo”, da passaggi del tipo:

Infatti il mondo non sa nulla di se stesso, e gli esseri del mondo non hanno coscienza di essere quello che sono; se non ci fosse l’uomo che si serve del mondo e che lo pensa, a nulla esso servirebbe ed è come se non esistesse: che senso avrebbe un essere che non sia essere per una coscienza, un oggetto che non sia un oggetto detto da un soggetto?
[…]
l’essere è essere (ha valore) perché è pensato da qualcuno che lo dice, che lo pone in essere. L’esserci del mondo non può darsi che in forza dell’esserci dell’Io: l’apparire del mondo non è che l’esistenza dell’Io al quale appare quel mondo: se il conoscere deve valere, l’oggetto della conoscenza non soltanto deve essere accessibile e penetrabile all’Io, ma deve essere creato, nel suo valore e verità, dallo spirito dell’Io (da dove il pensiero dovrebbe trarre la verità se non da se stesso?): solo così il nostro pensiero è vero, reale, poiché qui è il reale stesso quello che si pensa ( = autocoscienza, mediazione assoluta). Pagg. 25-26.

o peggio:

Se lo spirito umano arriva a Dio è perché già Dio attraverso il mondo (la natura) era in qualche modo disceso nello spirito umano. Non è tanto il limitato pensiero umano (o la “ragione naturale”) che conosce Dio bensì è lo spirito di Dio che è nell’uomo che conosce Dio; è l’autocoscienza di Dio che si sa nel sapere dell’uomo, è lo Spirito Santo che venendo dato all’uomo permette la relazione di coscienza tra pensiero umano e pensiero divino; relazione per cui da una parte Dio risulta un oggetto immanente alla coscienza umana (come se la coscienza umana fosse l’unica coscienza esistente, ossia la coscienza assoluta, la stessa coscienza divina: non c’è Dio che l’uomo stesso!), e dall’altra Dio risulta invece un soggetto trascendente l’esperienza che l’uomo ha del mondo e di Dio stesso.
[…]
Non bisogna fermarsi al fatto, pur vero ed innegabile, che io trovo in me la rappresentazione di Dio e di Dio come colui che è, dove l’esperienza di Dio si riduce all’essere mio, dove Dio è un oggetto la cui realtà è esaurita completamente dalla mia particolare attività di conoscenza, ma è necessario svolgere questo pensiero immediato in un sapere mediato, dove Dio possa prendere realmente una sua consistenza tanto da diventare egli stesso il Soggetto dell’evento del nostro parlare e pensare. Pag. 60.

Cazzo! Ma che significa che Dio deve “prendere consistenza” e “diventare”? Nel senso che io penso qualcosa e poi mi accorgo che quella cosa non esiste solo nel mio pensiero ma è proprio lì fuori da me? Oppure che “diventa” perché e in quanto io la penso, e prima non c’era (o al limite, hegelianamente, era esistente ma non reale)? E poi che è questa cosa che Dio è il Soggetto del “mio” parlare e pensare? Autocoscienza del pensiero che si pensa?? Subordinazione dell’oggetto al soggetto??? L’essere è essere se l’Io lo pensa???? Correggetemi se sbaglio, non sono esperto di filosofia, ma qua non siamo dalle parti del peggio post-cartesianesimo e precisamente in zona Hegel, che sotto l’apparenza cristianeggiante cela una sostanza estremamente gnostica e antropocentrica (anzi: antropoteista)?
Ma insomma, dottor (dalla quarta di copertina: “licenza in filosofia teoretica e in filosofia teologia” – c’è scritto filosofia e qualcuno ha sbarrato e scritto a penna teologia – “dogmatica presso la Pontificia Università Lateranense, nonché laurea in filosofia morale presso la seconda Università Statale di Roma”, mica niente!) dottor Giovanni Chimirri, parliamoci chiaro, a che gioco stiamo giocando? Esattamente che roba è questo “pensare Dio”?
La risposta a tale angosciante domanda arriverà a libro finito, suppergiù il prossimo mese. Suspence.


1408: lasciate ogni speranza…

1408: lasciate ogni speranza…

 

 

Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel mondo » […] compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente.

Benedetto XVI, Spe Salvi

 

Gli chiesi una volta, dopo l’uscita di Shining, se credeva nei fantasmi. Mi rispose che sarebbe bello se i fantasmi esistessero perché ciò avrebbe implicato che esiste qualcosa dopo la morte. Infatti, mi pare avesse detto “Gesù, ci spero!”

             testimonianza su Stanley Kubrick da parte di sua figlia Katharina

 

 

1408 è un buon film che fa poche promesse, ma le mantiene tutte: poca carne al fuoco, ma cotta bene.

Si tratta di carne umana, ovviamente.

 

La trama del film è in effetti di per sé molto semplice: un scrittore vuole entrare in una stanza d’albergo “infestata”, la numero 1408; il direttore tenta di dissuaderlo ma lui, scettico sul paranormale, insiste; lo scrittore entra nella stanza, si accorge che qualcosa c’è, e deve affrontare l’orrore.

In un certo senso, 1408 è una specie di Shining in piccolo: lì c’era una famiglia imprigionata in un albergo, qui c’è un uomo solo chiuso una stanza. La reminiscenza è d’obbligo se consideriamo la fonte comune di entrambe le storie, ovvero la fantasia macabra di Stephen King, l’autore del racconto (contenuto nella raccolta Tutto è fatidico; l’idea base si trova nel suo “manuale sulla scrittura” On Writing).

 In realtà, il film innova piacevolmente la storia originale. Il racconto kinghiano, semplice ma efficace, basa la propria forza sulla descrizione dei processi mentali sempre più declinanti del protagonista che passa in poche pagine dalla lucidità alla pazzia, sconvolto dalle immagini e dai pensieri provocatigli dall’entità malefica che abita la 1408; roba del tipo:

 

Mike si girò ansimando e guadò la stanza – era proprio quella la sensazione che aveva – fino allo scrittoio. Vide le tende ondeggiare leggermente ai lati della finestra che aveva aperto a forza, ma non sentiva neanche un refolo di aria fresca sul viso. Era come se la stanza la stesse inghiottendo. Sentiva ancora i clacson sulla Quinta Avenue, ma molto distanti. Sentiva ancora il sassofono? Anche se fosse stato così, la stanza ne aveva carpito tutta la dolcezza e la melodia, lasciando solo un suono stridulo e atonale, come quello del vento che soffia attraverso il foro nel collo di un morto o in una bottiglia piena di dita mozzate, oppure…

Smettila, cercò di imporsi, ma non riusciva più a parlare.

 

E poi, via, c’è anche il divertimento per il Fedele Lettore nel vedere un protagonista così scettico e pragmatico, impermeabile a qualsiasi accenno d’invisibile nella vita, chiuso in un materialismo ruvido che non vuole vedere al di là del proprio naso… fino a quando non va a sbattere, naso e tutto quanto, nell’invisibile che si fa troppo visibile. Un uomo per cui “non esistono i fantasmi, né un buon Dio che ci possa salvare da loro”.

 

 

 

Bene: il film 1408 conserva questa dicotomia tra scetticismo e accettazione della metafisica, e la riveste di ulteriori significati, approfondendo apprezzabilmente la figura del protagonista. Mike Enslin sul grande schermo non è soltanto un incredulo, uno scrittore che per fare soldi vende libri sulle notti che ha passato in luoghi che si dice siano infestati, e in quei libri smonta sistematicamente tutte le storie di fantasmi; è anche un uomo fondamentalmente infelice, che aveva scritto un ottimo primo romanzo finito nel dimenticatoio, e soffre per un trauma che la stanza non tarda a far venire alla luce – la morte di sua figlia.

Ed ecco che scopriamo che quest’uomo è infelice perché sua figlia è morta, e perché non crede a nulla dopo la morte. Lui e sua moglie, quando la loro bambina si è ammalata, le hanno raccontato che sarebbe andata in un posto molto bello, dove sarebbe stata felice, dove c’era anche Dio; dopo la sua morte, si è pentito di non aver insistito per convincerla a lottare con tutte le sue forze, invece di “riempirle la testa con tutte queste storie sul paradiso, il nirvana, e tutte queste stronzate!”, e alla fine ha lasciato sua moglie.

Ma nella 1408 quest’uomo triste arriva a scoprire che “tutte quelle storie” non sono solo fesserie… anche se in quella camera d’albergo l’argomento non è il paradiso ma l’inferno, di cui anzi la stanza potrebbe benissimo essere l’anticamera. Le sofferenze che Mike deve affrontare sono via via più pesanti, psicologiche e fisiche, con ottimo uso degli effetti speciali (il sangue che cola dal muro, la stanza invasa dal clima polare, perfino l’alluvione; ho anche particolarmente apprezzato, data la mia sensibilità, la scena in cui l’ex scettico corre a prendere la Bibbia della stanza sussurrando “hai vinto, hai vinto!”… e scopre che le pagine sono diventate bianche).

 

C’è una sfumatura nella trama del film che ho particolarmente apprezzato. Nel racconto, Mike resiste nella stanza per circa settanta minuti, dopodichè l’autore ci dice che la “cosa” sta arrivando a prenderlo – e non vi dico come finisce. Nel film, lo sfortunato scrittore attraversa esperienze terribili, e infine riceve una telefonata dalla “reception”, cioè in realtà un’altra manifestazione della stanza, a cui risponde:

        perché non mi ammazzi e basta?

        perché tutti gli ospiti dell’albergo godono del libero arbitrio, Mr. Enslin. Lei può scegliere di rivivere quest’ora più e più volte, oppure può usufruire del nostro sistema rapido di check-out.

La stanza uccide i suoi prigionieri non direttamente, ma terrorizzandoli fino al suicidio; ma che cos’è il suicidio, se non un atto di disperazione, cioè l’assenza di ogni speranza che le cose possano andare meglio di come intollerabilmente vanno adesso? E che cos’è il terrore, se non il rovescio della speranza, cioè la forte sensazione o l’atroce certezza che succederà non qualcosa di positivo, ma bensì qualcosa di negativo e spaventoso?

Il fine della 1408 è togliere la speranza; la condizione di non ha più speranza, ma solo terrore e disperazione, è l’inferno.

Questo è in un certo senso il contrappasso per Mike Enslin: prima di entrare nella stanza, non aveva speranza di qualcosa oltre la vita e il mondo che vediamo, anzi forse la toglieva ai suoi lettori ai quali trasmetteva il suo scetticismo; la 1408 distrugge la sua incredulità, perché “quelle cose” diventano fin troppo reali, ma al tempo stesso cerca di uccidere in lui ogni speranza, dandogli terrore e disperazione. La stanza gli restituisce, moltiplicato per cento, quel che già aveva.

(osserviamo che queste considerazioni, per quanto limitate al film 1408 e non al racconto originale, non sono di per sé estranee all’universo narrativo kinghiano; in un precedente romanzo del Re dai connotati esplicitamente cristiani, Desperation, si affermava che “la condizione naturale di chi non ha fede è la disperazione”.)

Ma la conclusione per il protagonista (e qui copro per non rovinare il finale a chi non vuole spoiler),

dopo aver davvero passato l’inferno nella 1408, è positiva: Mike riesce ad uscire dalla stanza, riesce perfino a distruggerla (forse); torna a vivere con sua moglie, salvando il suo matrimonio in pezzi; un giorno, riordinando le sue cose, trova il registratore che si era portato nella 1408, lo attiva e… sente la voce della figlia, che aveva incontrato nella stanza. Adesso sa che potrà rivederla, perché c’è qualcosa dopo la morte. La sua vita non è più senza speranza, e dopotutto non valeva la pena passare l’inferno per questo?

Io sono convinto di sì. E voi?