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Libri ottobre 2012

Anzitutto, desidero NON-ringraziare wordpress che ha tolto la possibilità di mettere i link interni al post (ma perché? perché?!?).
A me cambia poco, il problema è vostro: se vi interessa uno solo di questi libri, non potete più andarci direttamente, ma dovete cercarvelo in mezzo a tutto il resto.

Per facilitarvi le cose, faccio due post separati per singolo mese, anche se a ottobre ho letto poco.

 

333 – La formula segreta di Dante, di Robert Masiello.
Non fatevi ingannare, Dante c’entra ben poco, viene nominato un paio di volte all’inizio e poi scompare. Infatti il titolo originale è The Medusa Amulet, e si spiega perché Benvenuto Cellini ha fabbricato con le sue arti negromantiche (pare dopo aver evocato lo spirito di Dante) uno specchio con l’effigie della Medusa che dà la vita eterna a chi vi si specchia sotto la luna piena. Ma l’editore deve aver pensato che Dante lo conoscono tutti, la Medusa no.
Il libro si scosta poco dalla media dell’abituale pacchetto post-Codice da Vinci, di cui ricalca lo schema classico: congiure, dietrologie storiche, lo scontatissimo lato sentimentale (quando lui vede lei, dopo la prima sillaba abbiamo già capito che scatterà l’ammmore), un paio di descrizioni di chiese e/o musei, la sorpresa sull’identità del Cattivone. A questo si aggiunge però una cavalcata attraverso i secoli, vista con gli occhi dell’immortale Cellini, che non è affatto male. Mi è piaciuta in particolare la descrizione delle brutalità della Francia rivoluzionaria.
Se siete di bocca buona e lo trovate a poco, potreste dargli una possibilità; altrimenti lasciate pure perdere.

 

L’altra faccia della realtà, di AAVV.
Il libro è l’antologia Urania Millemondi dell’estate 2009. L’ho trovato su una bancarella a 1 € ed è stato un ottimo affare, la media qualitativa dei racconti è davvero alta. Mi sono piaciuti in particolare “Oltre lo squarcio di Aquila”, di Alastair Reynolds, che ha un paio di colpi di scena notevoli; “Un caso di concordanza”, di Ken MacLeod, che ricalca le orme di Guerra al grande Nulla di Blish; ma soprattutto “Seconda persona tempo presente”, di Daryl Gregory. Potete trovarlo in inglese in pfd qui.
È questa una riflessione davvero interessante sul tema dell’identità. Racconta di un’adolescente, Therese, che è andata in coma dopo aver provato una nuova droga, la “Z” (sta per Zen oppure Zombie), che distrugge l’autopercezione riducendo l’individuo a un burattino privo di preoccupazioni che agisce senza pensare, anzi senza pensare di pensare (ovviamente spopola tra i gggiovani). Dopo il coma, la protagonista non riesce a riallacciare i fili con la previa identità che considera morta per overdose, e si considera una nuova persona che deve ricominciare da capo, rifiuntando tutto della precedente ragazza compreso il nome. Il problema è che i genitori non sono d’accordo.
La storia è scritta in modo da dare ragione al punto di vista della protagonista, la quale peraltro è stata aiutata da un simpatico medico buddista (non so se è buddista anche l’autore). Infatti questa mi pare una concezione molto buddista dell’identità, che considera il corpo un semplice “veicolo” per l’anima, diversamente dalla concezione aristotelico-cristiana del sinolum come unità bipartita di corpo + anima definitivamente indissolubili.
Se fossi stato lì presente, avrei fatto notare alla ragazza che lei non è ricominciata da capo un bel niente, perché il corpo è sempre quello; e che le differenze di carattere tra la vecchia Therese e la nuova (per esempio, Therese era ben inserita in una parrocchia cristiana descritta come una massa di bigottoni ipocriti, mentre la narratrice pare sessualmente disinibita) puntano piuttosto alla conclusione che la narratrice è Therese non come lei era, ma come sotto sotto lei voleva essere.
Ma io nel racconto non c’ero, mannaggia.
Comunque, non sottovalutate il vostro corpo.
Voi non avete un corpo. Voi SIETE un corpo.


Vulcano 3, di Philip K. Dick.

Le cose erano diventate vive,
e gli esseri viventi erano stati ridotti a cose.

A quanto pare è considerato un PKD minore, eppure l’ho trovato sorprendentemente attuale per il presente momento storico. Il che non è poco, considerato che è stato scritto nel 1960.

 Dopo l’ennesima disastrosa guerra mondiale, la democrazia è ritenuta pericolosa, perché le popolazioni sono troppo emotive ed irrazionali per prendere le decisioni giuste ed eleggere i capi giusti. Perciò le elitès, ops, volevo dire le nazioni, hanno deciso di passare alla tecnocrazia ed hanno affidato il potere amministrativo a un potente supercomputer, il terzo modello della serie Vulcano, che è indubbiamente il miglior tecnocrate che si possa avere essendo esso stesso un prodotto della tecnica. Il computer elabora, decide, nomina gli umani che occupano le posizioni amministrative più elevate, ai quali impartisce le appropriate direttive di governo; essendo una fredda macchina calcolatrice il suo giudizio non può essere inficiato dall’emotività, dalla corruzione per motivi personali, dall’egoismo. Insomma, Vulcano 3 è il governante ideale, e così il governo del mondo è diventato “una scienza amministrata da esperti”. I quali esperti, non essendo eletti dal popolo bue ma nominati da un computer, sono per definizione ottimi gestori della cosa pubblica.
Pare, insomma, che il mondo diventi un posto molto felice. Almeno secondo la versione ufficiale dei mezzi d’informazione, i quali, incidentalmente, sono tutti controllati dal governo tecnocratico.
Inspiegabilmente, non tutti sono d’accordo con questa utopia: il movimento popolare clandestino para-religioso dei Guaritori sostiene la felicità universale è una frottola, che la tecnocrazia non garantisce affatto maggior equità, che povertà e delitti non sono affatto stati cancellati; che i tecnici al potere ci hanno messo poco ad acquisire i vizi dei vecchi politici, e infatti gli amministratori agli ordini di Vulcano 3 sono avidi, corrotti, si scambiano sgambetti e raccomandazioni proprio come ai vecchi tempi; che il supercomputer, per giunta, “ha detronizzato Dio”.
Peggio ancora, strani incidenti accadono, così che qualcuno comincia a farsi venire sospetti sulla vera natura di Vulcano 3…

Insomma, il libro mi è piaciuto. Ve lo consiglio vivamente.
Penso che nella mia letterina a Babbo Natale gli chiederò di farne arrivare qualche copia a Palazzo Chigi, Bruxelles, il Palazzo di Vetro a New York.
Qualcuno dovrebbe leggerlo, lì.

 

Verso Mauritius, di Patrick O’Brian.
È il quarto libro della serie di Jack Aubrey e Stephen Maturin, nonché il primo che non mi abbia entusiasmato.
Non che non sia piacevole da leggere, per carità; O’Brian sa scrivere e seguire i due protagonisti è sempre bello; è solo che non ho trovato quel quid che mi aveva così colpito in precedenza. Giunto alla fine mi sono reso conto che, a parte le prime pagine dedicata al nuovo status familiare di Jack e alla sua terribile suocera, e a parte la triste figura dell’invidioso Clonfert, non c’era niente che mi fosse rimasto impresso, poco che mi ricordassi davvero.
Forse è stato un momento di stanchezza dell’autore, o forse sono io che sono stato troppo viziato dalla superlativa qualità dei precedenti libri.
Il prossimo, comunque, è molto migliore.


Libri aprile 2012

Con moltissimo ritardo…


Storie dal crepuscolo di un mondo (vol. 2), di AAVV.
Trattasi del secondo volume (di una serie di tre) che Urania sta pubblicando per tradurre una smisurata antologia di racconti americani, curata da Gardner Dozois e George R.R. Martin, che omaggia il ciclo della Terra morente di Jack Vance riprendendone personaggi e ambientazioni e stile (vedi sotto).
Mentre il primo volume mi aveva lasciato pressoché indifferente, perché i racconti mi erano sembrati nulla di più che un tiepido divertissement similfantasy (da cui l’interrogativo “ma che ci fa un fantasy in una collana dedicata alla sf?” → vedi sotto), il secondo invece porta una media qualitativa parecchio più alta; quelli che mi sono piaciuti di più sono stati L’uccello verde (con cui ho conosciuto il fantastico personaggio di Cugel l’Astuto) e La lamentabile tragedia comica (o la risibile commedia tragica) di Lixal Laqavee. Per chi fosse interessato, qui si trova una recensione particolareggiata dei racconti (nonché un dibattito classificatorio tra abbonati Urania che si lamentano perché, avendo chiesto e pagato in anticipo dei prodotti di fantascienza, si sono visti recapitare un prodotto che invece non lo pare proprio; polemiche sull’infiltrazione nella sf Urania di residui da altri settori merceologici appioppati ex abrupto ai lettori; lunga storia).
Comunque sia, questo libro mi è piaciuto così tanto che …

 

La Terra morente, di Jack Vance.
… sono andato a leggermi la saga originale di Vance, per la precisione l’edizione italiana della NORD che riunisce le prime due (su quattro) parti della saga.
La prima parte è una miscellanea di racconti ambientanti nella Terra morente, e personalmente li ho trovati abbastanza mediocri: le avventure di Turjan di Miir, Mazirian il Mago e così via, non mi sono sembrate altro che una sequela di cliché fantasticheggianti con poca originalità. Giusto giusto qualcosa me l’ha dato il penultimo racconto, quello di Ulan Dohr nella città di Ampridatvir (che mi ha ricordato la città di Lud nella Torre Nera di Stephen King). Non mi capacitavo del perché del successo della saga finché non ho approcciato la seconda parte, con le (dis)avventure di Cugel, e qui il livello è cambiato da così a così : l’ironia è onnipresente e irresistibile, e alcune pagine mi hanno fatto ridere di gusto come non accadeva dai tempi di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome (il mio affezionato termine di paragone per la comicità in un libro).
Ma insomma, cos’è questa Terra morente?
È la Terra in un futuro lontanissimo, migliaia o fors’anche milioni di anni da ora, quando il Sole starà lì lì sul punto di spegnersi e ogni giorno potrebbe essere l’ultimo (non so se può essere che il Sole si spegne all’improvviso come una candela, ma vabbè). Nuove specie animali, nuove culture, nuove religioni, nuovi popoli, ma l’essere umano è sempre lo stesso con i suoi vizi di sempre. I personaggi sono ribaldi e infingardi, si parlano l’un l’altro in un divertentissimo stile forbito anche quando stanno per tagliarsi la gola. Vance è maestro del genere picaresco e Cugel l’Astuto è il suo capolavoro: un avventuriero inaffidabile, ladro e truffatore, che dovunque si rechi – costretto a un’impresa improba da Ioconou il Mago Ridente – porterà tragicomiche sventure su di sé e su tutti quelli che incontra.
La Terra morente fa parte di quei libri che pongono un interessante problema classificatorio ( ← vedi sopra): si tratta di fantasy o di fantascienza? In questo remoto futuro, in un mondo dove le civiltà sono morte e rinate e rimorte, la scienza e la magia si sono scambiate di posto: ciò che per noi è scienza moderna è diventato un sapere arcaico, esoterico e dimenticato, mentre la magia è comunemente studiata e praticata. Vero è che quella che a noi lettori appare magia potrebbe essere “soltanto” una forma avanzatissima di tecnologia (cfr la nota frase di Arthur Clarke); ma intanto pure ci sono i maghi e gli incantesimi e così via.
I critici americani hanno risolto il problema con una specie di mossa da Alessandro-e-il-nodo-gordiano, inventandosi il nuovo genere della science-fantasy, che sarebbe appunto una commistione di fantasy e science fiction; sarei curioso di sapere dove andare a trovare tale ibrido nel codice Dewey (per chi fosse interessato, posso fornire nei commenti ulteriori ragguagli sulle spaventose complicazioni filosofico-cognitive evocate dal codice Dewey e le sue limitazioni a base decimale; almeno per come mi sono state descritte dalla mia bibliotecaria di fiducia).

 

John Carter, di Edgar Rice Burroughs.
La cosa strana di questo libro (titolo originale Under the Moons of Mars, Sotto le lune di Marte; ma anche A Princess of Mars, La principessa di Marte) è che appena finita l’ultima pagina mi è venuto istintivo pensare “ma che storia mediocre”, poi mi sono ricordato che è un classico del suo genere, e è allora scattato una sorta di istinto condizionato pavloviano che fa subentrare il rispetto che si sente dovuto a un classico. Certo ci si potrebbe chiedere dov’è allora la linea di confine tra il “nostro” giudizio su un’opera d’arte e quello che “subiamo” dal giudizio altrui (critici, generazioni di lettori precedenti, professori di scuola, eccetera), ma c’è un’altra domanda ancora più pressante.
Cos’è un classico?
Per come la vedo io, ci sono grossomodo tre definizioni possibili, diciamo tre “gradi” del classico:

  1. Un libro molto famoso;
  2. Un libro che esprime la sua epoca;
  3. Un libro che trascende la sua epoca.

 Questo libro è sicuramente un classico nel primo senso del termine: ebbe un enorme successo ed una lunga serie di seguiti che, per chi fosse interessato, possono essere legalmente e gratuitamente scaricati in lingua originale qui (grazie, progetto Gutenberg → vedi sotto). Burroughs poi è popolare di suo, essendo il creatore di un altro classico dell’immaginario ovvero Tarzan. Insomma John Carter è famoso, tanto che quest’anno, nel centenario della pubblicazione, la Disney ne ha fatto uscire una versione cinematografica.
Perché sì, John Carter è del 1912. E si vede.
La storia è piena di meccanismi narrativi ingenui e artificiosi. Carter, ex soldato sudista nell’immediato dopoguerra di secessione, viene inseguito dagli indiani; per cause che l’autore non spiega minimamente (l’avrà fatto nei libri successivi? boh), muore sulla terra – nel senso che vede proprio il suo stesso cadavere – e si risveglia su Marte. Diventa l’ago della bilancia nella guerra tra due specie opposte di marziani, una antropomorfa e l’altra mostruosa; impara in poco tempo la lingua marziana fin nelle più delicate sfumature (presumo che i soldati sudisti avessero tutti un Phd in glottologia); cavalca, duella, ammazza, guerreggia e così via; incontra una principessa di Marte in circostanze appassionanti (prigioniera dei cattivi, denudata barbaramente; immagino il brivido erotico del lettore maschio del 1912); lui s’innamora di lei; viceversa; litigano, si riappacificano, lei è in pericolo, lui la salva due o tre volte, alla fine la sposa (c’era bisogno di coprire lo spoiler? ma no). Ovviamente l’eroe è aiutato dalle solite circostanze fortuite, i soliti personaggi deuteragonisti così palesemente aiutanti che sembrano appena usciti dal libro delle funzioni di Propp, e poi c’è il mostro repellente che insidia la bella (“insidia” è una delicata perifrasi per “vuole stuprarla”), l’agnizione del figlio perduto, non mi ricordo che altro ancora. Ah, già, alla fine con la principessa ci fa anche un figlio. Cioè un uovo, perche la razza della principessa, per quanto esteriormente antropomorfa, è ovipara od ovovivipara o che cosa. Come fa il sesso interspecie umano-marziana a prolificare? E chi lo sa. Ma chi se ne frega.
E il libro piace. Vende un botto. Ha incantato milioni di lettori dell’inizio novecento e delle generazioni successive. È, appunto, un classico. Allora uno si chiede: ma perché? Com’è che un libro diventa un classico? Come si crea e cresce la sua fama fino a farne dire “ah, è un classico, lo conoscono tutti”? Perché ha tanto successo?
Qui arriviamo al secondo grado. Un classico non è semplicemente un libro famoso: è un libro che è diventato famoso perché offre ai lettori quello che i lettori cercano, uno specchio in cui guardare se stessi e i propri desideri, vizi e virtù, la propria Weltanschauung; perché esprime un’epoca, un contesto socioculturale spaziotemporalmente determinato, e i posteri potranno usarlo per capire il loro passato.
E allora cosa ci dice John Carter con la sua atmosfera da western marziano, la sua sottile misoginia, l’ingenuità delle sue soluzioni narrative con tutte quelle circostanze pensate apposta per favorire l’eroe, e tutto il resto? Cosa ci dice dell’anno 1912 e dei lettori che ne hanno decretato il successo? Possiamo considerarlo rappresentativo della sua epoca, un classico nel secondo senso del termine? Inclino a pensare di sì, ma se ne può discutere.
Sennonché, quegli stessi elementi che ne hanno forse favorito il successo un secolo fa, oggi rendono il libro peggio che desueto: lo rendono brutto (ovvero, lo renderebbero tale se non si attivasse il riflesso condizionato “ma è un classico!”). Come scrive Giuseppe Lippi nella postfazione  all’edizione Urania:

Due dei più esperti critici italiani del settore – Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – hanno scritto a proposito di Burroughs: “Tutta questa massa di letteratura, che pure ha fatto vendere più di cinquanta milioni di libri, è quasi completamente priva di valore artistico. Burroughs stesso attribuiva la sua popolarità al fatto che le sue storie non imponevano al lettore il minimo sforzo intellettuale. Non vi è caratterizzazione, eccetto che i Buoni sono buoni e i Cattivi cattivi” […]
Paragonandolo a H.G. Wells, Brian W. Aldiss ha detto che ERB “ci insegna a non pensare”. A parte il fatto che per eccellere in tale attività non sembra indispensabile alcun insegnamento, e che gran parte dell’umanità vi ambisce come a un diritto inalienabile, bisogna riconoscere che Burroughs non ha mai voluto ammaestrare il suo pubblico, ma che si è limitato a praticare un’antica forma della narrativa: quella che descrive il fisico anziché il mentale […]

È qui dunque che l’eroico John Carter perde la sua sfida più grande, quella contro il tempo. Infatti il libro, per tutti i motivi sopraddetti, non riesce ad essere un classico nel “terzo grado”, nel senso più alto del termine: un libro che “parla” non solo ai suoi contemporanei, ma anche ai posteri. Un libro che tra cento o mille anni sarà letto non solo per interesse storico (“vediamo come pensavano gli scrittori del XX secolo”), ma anche e innanzitutto per il puro piacere letterario del leggere. Questo, io credo, è un vero classico: un libro che è sempre contemporaneo. Che ha un piede nel suo tempo e l’altro nell’eternità.
Dante è un vero classico. Shakespeare è un vero classico. Manzoni è un vero classico. Borges e Tolkien saranno dei veri classici, anche se giudicare come classico un autore del proprio secolo è sempre un azzardo (perché chi decide davvero è il futuro, e il futuro è impredicibile). Forse anche David Foster Wallace. Ma Burroughs, no, non è un vero classico.
Peccato.

 

Le grandi storie della fantascienza (vol. 19 – anno 1957), di AAVV.
Antologia, a cura di Isaac Asimov e Martin H. Greenberg, dei migliori (secondo loro) racconti di fantascienza usciti nel 1957.
Il libro mi è stato prestato dall’amico Joe, che legge questo blog e ringrazio pubblicamente, con la didascalia “uno di questi racconti potresti averlo scritto tu, leggili e dimmi quale”. Descrizione invero accattivante e inquietante a un tempo, e fin troppo lusinghiera. Il livello generale dei racconto è molto buono (qui l’elenco completo dal catalogo Vegetti); mi sono particolarmente piaciuti Onnilinguista di H. Beam Piper, La Gabbia di A. Bertram Chandler, Il Melodista di Lloyd Biggler jr., e poi il racconto (che ho indovinato – YEY!!!) cui si riferiva il mio amico, L’educazione di Tigress McCardle di C.M. Kornbluth. Potete leggerlo qui in inglese e qui in italiano. È molto divertente, descrive le peripezie di una coppia di coniugi in un futuro in cui, prima di fare un bambino, gli aspiranti genitori possono fare la prova con un robot (“Tesorino”) che simula in tutto e per tutto il comportamento di un vero neonato. Sennonché il robot fa parte di un programma governativo per “disinnescare la bomba demografica”, e ci siamo capiti. Il tono generale della storia è molto ironico, ma la conclusione non lo è (o forse sì, ma di un’ironia amarissima);  e se siete di quelli che al rientro dolce ci credono davvero, fate un favore a voi stessi: leggete il racconto, arrivate all’ultimo paragrafo, e rileggetevi l’inizio. E poi ne riparliamo.

 

Costa sottovento, di Patrick O’Brian.

Diana Villiers deve morire.

 Ero tentato di far consistere la descrizione del libro in questa sola frase, e sarebbe stato abbastanza. Ma in effetti sarebbe ingiusto sia verso il libro, sia verso il personaggio.
Verso il libro, perché la storia non può essere ridotta soltanto a quella specie di quadrangolo sentimentale a geometria variabile in cui sono incardinati Jack, Stephen, Diana Villiers e Sophia Williams. Il titolo originale è Post Captain, che allude alla promozione ricevuta da Jack: l’edizione italiana ha rinunciato all’espressione idiomatica (perché? non era così difficile da tradurre) e ha preferito citare  – presumo – da un punto in cui Jack dice “ho una sensazione maledettamente strana: non ho voglia di tornare a casa stasera. Strano, perché non vedevo l’ora di esserci, stamattina ero arzillo come un marinaio in franchigia, e adesso questa sensazione…. Talvolta in mare si prova la stessa cosa in prossimità di una costa sottovento. Tempo da lupi, vele di gabbia a terzaroli bassi, niente sole, nessuna possibilità di fare il punto per giorni e giorni, nessuna idea di dove si è nel raggio di un centinaio di miglia, e poi una notte si avverte la presenza di una costa sottovento. Non si vede assolutamente niente, ma pare quasi di sentire gli scogli grattare sulla carena.” Cioè instabilità, inquietudine, pericolo nascosto. Tutti sentimenti che si attagliano bene alle traversie occorse ai nostri, sia di natura amorosa (le prime duecento pagine circa non sono neanche ambientate in mare, sono una roba alla Jane Austen tra caccia alla volpe e patemi emotivi, eppure la storia tiene), sia di natura politica (l’attività di Stephen Maturin come spia), sia di natura bellico-nautica (le descrizione dei movimenti nautici della Polychrest, lo “sbaglio del carpentiere”, sono irresistibili perfino a chi non ci capisce niente di  nautica).
Poi c’è lei. Diana Villiers. La tentazione di odiarla è forte, perché rovinare l’amicizia tra Jack e Stephen, spingendoli financo al duello, è atto che non può passare imperdonato. Eppure in qualche modo, da qualche pagina della sua sfortunata biografia, delle angherie cui la costringe la (lei sì, senza attenuanti) sgradevolissima mamma Williams, si sente che Diana Villiers più che femme fatal è vittima: di sé stessa, delle sue ambizioni, dei pregiudizi della sua epoca.
E però, insomma: povero Stephen!

 

Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento (vol. 2), di Antonio Illibato.
Dopo il primo volume, proseguo la  biografia del Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei. Ma si potrebbe anche dire fondatore di Pompei tout court, visto la città praticamente si è sviluppata a partire dalla e attorno alla costruzione della chiesa: case, stazione ferroviaria, ospedali, eccetera. E la cosa che più colpisce (e invero lo rende tanto simpatico, una specie di Paperino dei santi) è scoprire che il Beato Bartolo era… beh… un imbranato.
Il libro infatti, con taglio storico piuttosto che agiografico, non esita a riportare anche quelle vicende nelle quali il protagonista non ci fa una brillantissima figura: le occasioni sprecate, i guai combinati, le inefficienze amministrative. Diciamo la verità: in alcuni punti si ha quasi l’impressione che il Santuario sia stato fondato, più che grazie, nonostante Bartolo Longo.
Ma questo non potrebbe forse dirsi di tutti i santi? Che altro non sono che strumenti, volenterosi ma imperfetti, nelle mani del vasaio?

 

Heretics, di Gilbert Keith Chesterton (in lettura).
Allora, ho comprato su amazon il kindle, e per adesso sono abbastanza soddisfatto. Descrivere vantaggi e svantaggi dell’ebook rispetto al libro di carta sarebbe un discorso qui troppo lungo (casomai se ne può parlare nei commenti), diciamo solo che avere il kindle offre un vantaggio non irrilevante e cioè la possibilità di scaricare dal sito di amazon direttamente sull’aggeggio, legalmente e gratuitamente, tutte quelle opere sulle quali è scaduto il copyright per decorrenza di tot decadi dalla morte (in questo caso diciamo pure la nascita al cielo) dell’autore.
Onestamente non credo di avere la capacità di esprimere in parole il gaudio praticamente fisico, di livello quasi orgasmico, da me esperito nel fare il download di 27 – dico ventisette – libri di Gilbert Keith Chesterton, molti dei quali di scarsa o impossibile reperibilità in italiano. Non ve lo posso proprio dire. Dovevate stare lì e vedermi.
Successivamente ho scoperto che anche chi non è amazon user può facilmente procurarsi questo genere di ebook gratuiti e legali: vedi il progetto Gutenberg e il suo omologo italiano, il progetto Manuzio.

Per esempio, i libri di Chesterton sul progetto Gutenberg si trovano qui.
Oh, gioia.
E insomma, il primo libro di GKC che ho abbordato è questo Heretics, del quale Ortodossia si porrà in termini di prosecuzione ideale. Manco a dirlo, è fantastico. Ma ne parlerò al post del mese prossimo.


Libri dicembre 2011

E buon anno a tutti.

 §→ questi simboli indicano uno spoiler, evidenziare per leggere ←§

Controrealtà, di AAVV.
Ho finito di rileggerlo. I racconti migliori:

  • Fallo e basta!: storia terribile, nel senso positivo del termine (sì esiste un senso positivo). Ricordo che la prima volta che l’ho letto mi ha dato un senso di vera e propria rabbia nauseabonda, perché racconta di una manipolazione del libero arbitrio a dir poco brutale. È ambientato in un futuro distopico in cui la pubblicità di prodotti alimentari è attuata tramite manipolazione biochimica, ovvero ci sono questi Tiratori scelti che sparano dardi alla gente per iniettare sostanze che provocano una vera propria bramosia di consumo. In qualche modo tutto questo è considerato legale. La protagonista è un’attivista che si infiltra in un’azienda di marketing e ne seduce il manager a scopo sabotaggio, ma §→ finisce per essere  raggirata dal manager che ha capito il suo gioco, la sfrutta per i suoi fini, e infine le inietta un dardo nel collo e le “chiede” di sposarlo. Il finale è agghiacciante: la narratrice cerca di svegliare suo figlio, che non vuole andare a scuola, e “Lui si gira dall’altra parte, gemendo, ma non fa una mossa per alzarsi. Sfodero la mia pistola genitoriale e regolo il tamburo da Vai a Letto a Svegliati. – Alzati, Tommy – dico mentre miro con cura ai suoi capelli arruffati dal sonno. – Non farmelo dire due volte.←§ Sembra uno scherzo ma è uno dei finali più agghiaccianti che abbia mai letto da molto tempo a questa parte. L’introduzione dei curatori dice che la storia può essere letta come una satira sull’uso dei farmaci psichiatrici. Io aggiungerei anche del degrado educativo contemporaneo.
  • Filmini casalinghi: è una storia sul rapporto tra memoria e identità. La protagonista noleggia sé stessa (sì, il parallelo con la prostituzione è accennato nel racconto) per vivere su richiesta di facoltosi clienti esperienze che poi saranno espiantate dalla sua memoria e trasferite in quella degli acquirenti.
  • Questa è l’era glaciale: racconto post-apocalittico in cui l’intero pianeta è stato sconvolto da una catastrofe improvvisa, cioè tutti gli aggeggi elettrici emettono senza preavviso “frattali di ghiaccio quantistico”, gelidi spunzoni che infilano chiunque nelle vicinanze. In pochi secondi in tutto il globo gli aerei sono caduti, le automobili sono diventate trappole mortali, “portare un telefono cellulare in tasca significava essere trafitti dal ghiaccio nella zona pelvica” (ugh!). Non c’è assolutamente nessuna spiegazione del perché e del percome, semplicemente la storia parte dal post-disastro e racconta sentimenti e vicende di una ragazza che cerca di sopravvivere. Il racconto di per sé non è questa grande cosa, però mi è piaciuto perché io sono un grande estimatore delle storie post-apocalittiche, le quali hanno il merito di ricordarci che tutto ciò che noi occidentali normalmente diamo per scontato (il benessere, la pace, la democrazia eccetera) non lo è affatto.
  • Spedizione, con ricette: altro racconto post-apocalittico nel quale non c’è neppure una vaga spiegazione di COSA abbia ridotto a pezzi la civiltà, semplicemente si descrive la routine di alcuni bambini che cercano disperatamente di non morire di fame. Il racconto è intervallato da alcune paradossali ricette di novelle cousine su topi e scarafaggi.
  • Quill: se mai doveste ritrovarvi tra le mani l’antologia che sto recensendo, nella quale ogni racconto è preceduto dall’introduzione dei curatori, fate un grosso favore a voi stessi: quando arrivate a questo racconto NON LEGGETE L’INTRODUZIONE. Via, distogliete gli occhi, sciò. Perché questi disgraziati, non so se per disattenzione o noncuranza o vero sadismo, ti spoilerano senza preavviso l’ottimo plot twist della storia, ovvero che stiamo parlando di §→ dinosauri intelligenti ←§. Bastardi.
  • Tigre, in fiamme: fantascienza hardcore, tra universi paralleli e fisiche aliene e paradossi temporali, con gradevoli citazioni dalla letteratura classica (a cominciare dal titolo).
  • Damasco: parla di religione. Il titolo si spiega considerato che la protagonista si chiama Paula e si converte a una religione che ti fa letteralmente vedere Cristo al tuo fianco, ma che in realtà è una malattia neurodegenerativa che altera la sua biochimica cerebrale e sostanzialmente coarta il suo libero arbitrio. Dal punto di vista letterario il racconto mi è piaciuto perché è scritto bene, anche se quanto a valori ovviamente stiamo proprio agli antipodi perché la storia veicola la concezione (assolutamente prevalente nella fantascienza mainstream fino a qualche anno fa, tuttora molto diffusa) della fede religiosa come oppiaceo psicologico se non addirittura vera e propria malattia mentale, una cosa alla Dawkins tipo chi pensa non crede e chi crede non pensa.
  • Prevenzione: molto divertente. Gli alieni attaccano improvvisamente il pianeta, ma la loro strategia è molto strana, perché non si curano minimamente di colpire importanti strutture politico-militari ma solo obiettivi ben più secondari. Alla fine viene fuori che §→ gli alieni vogliono eliminare preventivamente la futura minaccia terrestre alle altre razze della galassia… e non siamo noi, tanto ci autodistruggeremo prima. Sono i nostri cani. ←§. Ouch, colpiti nell’orgoglio.

§§§

Ossessione, di Stephen King.
È uno dei primi romanzi di King, a suo tempo pubblicato con lo pseudonimo di Richard Bachman. Era praticamente l’unico suo romanzo che dovevo ancora leggere (a parte le ultime uscite, per quelle aspetto l’edizione paperback), molto difficile da trovare perché King lo ha tolto dalle librerie dopo i vari fatti americani tipo strage di Columbine eccetera, infatti il protagonista è un adolescente che esce fuori di testa a scuola, ammazza due professori e prende in ostaggio una classe. O forse in realtà è la classe che prende in ostaggio lui. I ragazzi cominciano a confidarsi liberamente e vengono fuori un bel po’ delle ossessioni e dei neri segreti di questi “bravi ragazzi”.
La trama è discreta, ma lo stile è ancora un po’ rozzo (il giovane SK doveva ancora affinarsi).

§§§

Guerra al Grande Nulla, di James Blish.
Il titolo originale era A Case of Conscience, ovvero “un caso di coscienza”.
Molto interessante e problematico, è un libro del 1958 (all’epoca ha vinto anche un Hugo Award, una specie di equivalente dell’Oscar nella narrativa sf) che ha per protagonista un gesuita e i suoi dubbi di coscienza. Mandato in missione in quanto biologo sul pianeta alieno Lithia e venuto a contatto con i suoi abitanti rettiliformi (volgarmente chiamati Serpenti!), finisce per concludere che essi sono creature di Satana; e siccome ha attribuito un potere creativo al Diavolo, cade nell’eresia manichea e merita la scomunica.
Le ragioni per cui il gesuita conclude che questi alieni sono figli del diavolo sono essenzialmente:

1)      Abitano in pace ed armonia, in una specie di paradiso terrestre senza malvagità, però non hanno nessuna religione: perciò sono una tentazione diabolica per far credere all’uomo che si possa essere perfettamente buoni senza Dio;

2)      Sono essenzialmente logici, eppure usano un codice morale basato su assiomi morali indimostrati, dei quali non è spiegata l’origine e che sono straordinariamente convergenti con quelli cristiano-occidentali: perciò “la civiltà lithiana è così congegnata da suggerire che si possa giungere a questi assiomi fondamentali del Cristianesimo, e della civiltà occidentale terrestre in generale, attraverso la ragione pura, nonostante il fatto che la cosa non è possibile”;

3)      Il loro sviluppo biologico attraversa una ricapitolazione esterna al corpo, ovvero gli embrioni alieni ripercorrono l’evoluzione della specie da pesci a rettili: perciò sono una tentazione diabolica per convincere l’uomo della validità dell’evoluzionismo.

Ora, io non so quanto James Blish, che da wikipedia risulta un agnostico, conoscesse bene il pensiero cattolico, però devo dire che tutti questi motivi mi sembrano alquanto pretestuosi: l’impressione è che l’autore ne avesse bisogno per portare la trama dove voleva e se li sia cercati non importa quanto scricchiolanti. Provo a sistemare le contro-obiezioni che farei io se fossi un altro personaggio del romanzo, magari un confratello gesuita che accompagna il protagonista (in effetti qualcuno mi dice che talvolta ragiono un po’ troppo gesuiticamente!):

1)      Siamo sul pianeta da troppo poco tempo, qualche mese appena. La nostra conoscenza della lingua e della cultura e della storia lithiana è ancora molto approssimativa. Il fatto che i lithiani non ci abbiamo mai parlato di Dio non è una prova certa del fatto che siano assolutamente atei: la loro cultura potrebbe considerare Dio come una presenza lontana da adorare silenziosamente. Oppure, il loro ateismo morale potrebbe essere la corruzione di una precedente cultura teista, che in seguito a qualche rivoluzione culturale ha abolito la nozione di Dio, mantenendone però in parte gli insegnamenti morali; questo risolverebbe anche la tua eresia manichea, perché è vero che Satana non può creare, però può corrompere ciò che è già stato creato;

2)      Caro confratello, ma non stai dimenticando (come minimo) San Paolo e San Tommaso? Che ne è della legge morale naturale, che Dio inscrive nei cuori di tutti gli esseri umani (e possiamo immaginare anche degli alieni)? Esiste un giusnaturalismo razionale, che il cristianesimo porta a perfezione ma non abolisce. Anche chi è ateo può derivare dalla morale naturale un codice di condotta con nozioni basilarmente corrette di bene e male (pur se il peccato originale e l’opera diabolica complicano questa possibilità). Forse noi siamo semplicemente in un mondo nel quale deve ancora cominciare la Rivelazione.

3)      Aaargh! L’autore nel 1958 si inventa che nel 1995, in una fantomatica “Dieta di Bassora”, la Chiesa cattolica accoglierà contro l’evoluzionismo l’argomento dell’omphalos di Philip Henry Gosse (ne parla anche Jorge Luis Borges in Altre inquisizioni) proposto per conciliare le immense ere geologiche suggerite dalla presenza dei fossili con il dettato letterale della Genesi: Dio crea testimonianze storiche di un passato che è verosimile ma non è vero. Adamo è stato creato con l’ombelico, anche se non aveva madre; i primi animali sono creati già adulti, il che ne presupporrebbe un passato da cuccioli, ma non sono mai stati cuccioli; esistono scheletri di glittodonte, ma non è mai esistito il glittodonte; esiste l’ontogenesi che ricapitola la filogenesi, ma non c’è mai stata la filogenesi; e così via. MA CHE SCHERZIAMO?!? Il problema di questo argomento (non per niente elaborato da un protestante) è il suo estremo fideismo. In base a cosa possiamo credere che il passato verosimile non sia vero? Solo in base alla fede, senza nessun aiuto dall’esperienza o dalla ragione che anzi sono di ostacolo. Questa gnoseologia è decisamente non cattolica. E a questo punto, se esiste un passato fittizio, perché dovrei credere proprio al passato reale proposto dalla Bibbia? Tanto varrebbe fare come fa Bertrand Russell, che in un suo libro ipotizza per assurdo che il mondo sia “realmente” cominciato cinque minuti fa: e come dargli torto? Se tutto ciò che abbiamo per conoscere è la fede, come capiamo/decidiamo in che cosa avere fede?

Insomma, l’impressione finale è che l’autore, seppure animato da buone intenzioni – colpisce la “serietà” del cattolicesimo descritto, nel senso che l’ortodossia cattolica, o almeno quella che Blish reputa tale, è presa estremamente sul serio, specie dai gesuiti… un quadro che sembra lontano anni luce dalla desolante realtà odierna che spesso ci troviamo di fronte: ed era “solo” il 1958, poco più di mezzo secolo fa!!! – sia caduto nel vieto stereotipo in cui cadono spesso i non credenti quando pensano ai credenti: gente che crede, appunto, ma non sa ragionare su ciò che crede.

§§§

Brivido crudele, di Robert Silverberg.
Ottimo Silverberg d’annata, anche se si perde un po’ nel finale. Il titolo originale era Thorns, “spine”, assolutamente calzante perché l’argomento del romanzo è il dolore. I protagonisti sono persone straziate dal dolore: un astronauta reduce da un viaggio interstellare in cui è stato vivisezionato dagli alieni e rimontato in un corpo mostruoso e grottesco (descritto soltanto per sporadiche allusioni, es. i tentacoli sulle dita, le palpebre che si aprono in orizzontale), che gli provoca trafitture ad ogni istante; ed una ragazza a cui per esperimento hanno provocato e negato la maternità (simultanea fecondazione in vitro di cento suoi ovuli, gestazione dei feti in uteri artificiali, e divieto per lei di accudire o vedere anche solo uno dei suoi 100 figli), che vive nella depressione e tenta più volte il suicidio.
Queste agonie si incontrano quando entrambi sono contattati da un magnate della comunicazione, che li convince con false promesse (a lui un corpo nuovo, a lei un paio dei suoi bambini) a diventare i protagonisti dei suoi spettacoli trasmessi in tutta la galassia – avete presente quelle orribili trasmissioni televisive che lobotomizzano gli spettatori a base di gossip di vita morte e misfatti delle celebrità o pseudo tali? Ecco. Quel che i due non sanno è che l’uomo in realtà è un sadico vampiro psichico che si nutre letteralmente della sofferenza altrui, e li manipola prima per metterli assieme (e vendere al pubblico la storia d’amore del secolo) e poi per “mangiare” lo sfascio della loro relazione tra dispetti e odî (e vendere al pubblico la fine della storia d’amore del secolo), perché la loro unione era solo l’insieme di due solitudini aggrappate l’una all’altra per calcolo e disperazione, perché due egoismi non fanno un amore.
Per circa tre quarti il libro mi è piaciuto moltissimo, il finale mi ha lasciato insoddisfatto perché §→ sa troppo di deus ex machina sia il modo in cui i due personaggi apprendono la reale natura del loro sfruttatore, sia il modo in cui lo distruggono, sia la loro unione finale dopo che si erano odiati a morte. ←§. Ma resta comunque un buon libro. Silverberg è un autore estremamente sottovalutato e meriterebbe di essere conosciuto anche dal grande pubblico, tipo un Asimov o un Clarke (a cui è di gran lunga superiore).

§§§

Bartolo Longo – un cristiano tra Otto e Novecento, di Antonio Illibato.
Primo volume di una biografia in tre parti del Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario di Pompei (nel quale infatti è stato comprato il libro, onde consegnarlo a Lucyette).
La descrizione storica dei quei tempi e luoghi – tra le province di Napoli e Brindisi, verso la fine del regno borbonico – offre un quadro invero assai pessimistico: tra i poveri, un’ignoranza molto diffusa delle verità di fede e il permanere di un sostanziale paganesimo superstizioso; tra i ricchi, il diffondersi dell’odio per la Chiesa, della filosofia hegeliana che dominava nelle università, di “mode” come lo spiritismo e il satanismo (lo stesso Bartolo Longo, prima di convertirsi, da giovane era entrato in una cerchia iniziatica che sperimentava fenomeni medianici); tra il clero, molti sacerdoti santi ma anche molti chierici, come dire, di costumi non irreprensibili. Per non dire della miseria, delle malattie, della mortalità e continuate voi l’allitterazione in emme. Pertanto: se il 2011 è stato un anno brutto, e il 2012 sarà più brutto ancora, ricordiamoci di quando si stava peggio…
Molto interessante anche la parte sulle ansie da neoconvertito del biografato, indeciso se prendere i voti oppure cercare la perfezione cristiana da laico consacrato se non da padre di famiglia: c’è un mezzo capitolo interamente dedicato ai suoi tragicomici fidanzamenti, finì anche per lasciare una poveretta praticamente sull’altare (scherzo, si era “solo” in fase di fissazione della data del matrimonio, ma da quelle parti è comunque una cosa presa molto seriamente…); fatto sta che per certi versi Bartolo Longo ha anticipato la presa di coscienza del ruolo missionario del laico, e della possibilità di santificazione personale in ogni stato sociale, che poi è stata espressa dall’Opus Dei e dal CV II.
Insomma, avevo cominciato a leggerlo di sfuggita nell’attesa di recapitarlo alla destinataria interessata, ed è stata una piacevole sorpresa.

§§§

Pensare Dio – introduzione alla religione, di Giovanni Chimirri.
Uhmmm.
Perplessità.
Si tratta di un altro dei libri comprati a poco prezzo grazie all’intermediazione di Sissi2002. Come si capisce dal titolo, si tratta di un libro di teologia, il quale

attraverso un nuovo tentativo di divulgazione, sviluppa in modo teoretico-sistematico le classiche “questioni” di teologia filosofica, tra cui l’essenza della religione, le deformazioni religiose, il linguaggio teologico, il rapporto ragione-fede, l’ateismo, il male, il nichilismo, soffermandosi sulle dimostrazioni dell’esistenza di Dio, sui vari attributi divini e sul concetto di creazione e rivelazione. La categoria del pensiero, che determina la nuova prospettiva d’indagine del volume, è sempre alla base del discorso, articolato in cinque capitoli e arricchito da un’ampia bibliografia ragionata. Di qui, pur senza rinunciare alla necessaria precisione terminologica (ogni termine “tecnico” o, se si preferisce, specialistico viene di volta in volta opportunamente introdotto e spiegato), il linguaggio è chiaro e semplice, tale da coinvolgere il lettore in una meditazione che rimette comunque in gioco il modo stesso di avvicinarsi e di “pensare” Dio.

Cari lettori, non so voi ma io se leggo l’espressione “nuova prospettiva” unita all’argomento “teologia” mi metto un po’ paura. Di solito quelli che propongono nuove prospettive teologiche o sono santi o sono eretici, e i secondi sono assai più frequenti dei primi.
Ma insomma qual è questa categoria del pensiero che determina la nuova prospettiva? Per adesso ho letto meno della metà, non posso dare un giudizio definitivo, ma la mia opinione provvisoria è che l’autore stia sottilmente proponendo – non so se per confusione in buona fede o malizia deliberata – un cristianesimo impastato di idealismo. Cioè l’idea che il mondo e addirittura Dio siano “reali” perché ed in quanto “pensati” dall’uomo. Ciò si evince, a parte le frequenti citazioni compiaciute dagli idealisti tedeschi (che pure sono sintomatiche), e certi frasi inquietanti di vago sapore hegeliano del tipo “la verità è lo spirito nel suo processo”, da passaggi del tipo:

Infatti il mondo non sa nulla di se stesso, e gli esseri del mondo non hanno coscienza di essere quello che sono; se non ci fosse l’uomo che si serve del mondo e che lo pensa, a nulla esso servirebbe ed è come se non esistesse: che senso avrebbe un essere che non sia essere per una coscienza, un oggetto che non sia un oggetto detto da un soggetto?
[…]
l’essere è essere (ha valore) perché è pensato da qualcuno che lo dice, che lo pone in essere. L’esserci del mondo non può darsi che in forza dell’esserci dell’Io: l’apparire del mondo non è che l’esistenza dell’Io al quale appare quel mondo: se il conoscere deve valere, l’oggetto della conoscenza non soltanto deve essere accessibile e penetrabile all’Io, ma deve essere creato, nel suo valore e verità, dallo spirito dell’Io (da dove il pensiero dovrebbe trarre la verità se non da se stesso?): solo così il nostro pensiero è vero, reale, poiché qui è il reale stesso quello che si pensa ( = autocoscienza, mediazione assoluta). Pagg. 25-26.

o peggio:

Se lo spirito umano arriva a Dio è perché già Dio attraverso il mondo (la natura) era in qualche modo disceso nello spirito umano. Non è tanto il limitato pensiero umano (o la “ragione naturale”) che conosce Dio bensì è lo spirito di Dio che è nell’uomo che conosce Dio; è l’autocoscienza di Dio che si sa nel sapere dell’uomo, è lo Spirito Santo che venendo dato all’uomo permette la relazione di coscienza tra pensiero umano e pensiero divino; relazione per cui da una parte Dio risulta un oggetto immanente alla coscienza umana (come se la coscienza umana fosse l’unica coscienza esistente, ossia la coscienza assoluta, la stessa coscienza divina: non c’è Dio che l’uomo stesso!), e dall’altra Dio risulta invece un soggetto trascendente l’esperienza che l’uomo ha del mondo e di Dio stesso.
[…]
Non bisogna fermarsi al fatto, pur vero ed innegabile, che io trovo in me la rappresentazione di Dio e di Dio come colui che è, dove l’esperienza di Dio si riduce all’essere mio, dove Dio è un oggetto la cui realtà è esaurita completamente dalla mia particolare attività di conoscenza, ma è necessario svolgere questo pensiero immediato in un sapere mediato, dove Dio possa prendere realmente una sua consistenza tanto da diventare egli stesso il Soggetto dell’evento del nostro parlare e pensare. Pag. 60.

Cazzo! Ma che significa che Dio deve “prendere consistenza” e “diventare”? Nel senso che io penso qualcosa e poi mi accorgo che quella cosa non esiste solo nel mio pensiero ma è proprio lì fuori da me? Oppure che “diventa” perché e in quanto io la penso, e prima non c’era (o al limite, hegelianamente, era esistente ma non reale)? E poi che è questa cosa che Dio è il Soggetto del “mio” parlare e pensare? Autocoscienza del pensiero che si pensa?? Subordinazione dell’oggetto al soggetto??? L’essere è essere se l’Io lo pensa???? Correggetemi se sbaglio, non sono esperto di filosofia, ma qua non siamo dalle parti del peggio post-cartesianesimo e precisamente in zona Hegel, che sotto l’apparenza cristianeggiante cela una sostanza estremamente gnostica e antropocentrica (anzi: antropoteista)?
Ma insomma, dottor (dalla quarta di copertina: “licenza in filosofia teoretica e in filosofia teologia” – c’è scritto filosofia e qualcuno ha sbarrato e scritto a penna teologia – “dogmatica presso la Pontificia Università Lateranense, nonché laurea in filosofia morale presso la seconda Università Statale di Roma”, mica niente!) dottor Giovanni Chimirri, parliamoci chiaro, a che gioco stiamo giocando? Esattamente che roba è questo “pensare Dio”?
La risposta a tale angosciante domanda arriverà a libro finito, suppergiù il prossimo mese. Suspence.


libri novembre 2011

 

 §→ questi simboli indicano uno spoiler, evidenziare per leggere ←§

Demoni amanti, di Shirley Jackson.
Antologia di racconti, che nell’originale si chiamava The Lottery (la storia più famosa di SJ), e che l’editore italiano, forse nella speranza che il potenziale acquirente pensasse che il libro descrive copule tra angeli caduti, ha pensato bene di rinominare come sopra giocando sul fatto che c’è un racconto che si chiama Le diable amoureux (ovviamente non parla di coiti). Cosa questo dica sul mercato editoriale italiano, può essere oggetto di speculazione.
Si tratta di racconti realistici, folgoranti, che sovente portano i propri personaggi in situazioni stranianti e poi li lasciano lì, la storia termina e il lettore resta a chiedersi cos’è successo dopo e io che farei al posto suo eccetera.
Esempio: nel racconto Charles, una madre descrive preoccupata la cattiva influenza che suo figlio subisce dal compagno di classe Charles. Ogni giorno il figlio torna dall’asilo e racconta con tono inquietantemente ammirato le birichinate dell’amico, e la mamma vorrebbe tanto dirne quattro alla donna che ha generato un tale discolo. §→ Un giorno la narratrice si reca a un incontro genitori-insegnanti e nomina Charles; il maestro la guarda perplesso e dice in classe non c’è nessun Charles. ←§ Fine.
Poi c’è il racconto conclusivo, La lotteria (Adelphi lo mette a disposizione qui, per chi volesse leggere).  È l’unico racconto non strettamente realistico e metterlo alla fine e senza preavviso è un ulteriore colpo per il lettore ignaro (io non lo ero, ne avevo letto citazioni in almeno cinque o sei opere, ma me lo sono goduto lo stesso), proprio perché uno ha letto tanti racconti di un certo tipo e si aspetta che lo sia anche l’ultimo e invece si becca la mazzata psicologica. La storia è semplice, in un villaggio innominato ogni anno si tiene una lotteria. La data è il 27 giugno, cioè si usa il calendario gregoriano, e i personaggi hanno nomi comuni, buoni vecchi nomi americani tipo Joe o Bill: tutte cose che aumentano la sensazione di realismo e familiarità, e dunque lo shock finale quando la medesima è distrutta. SJ descrive brevemente i preparativi, la tranquillità con cui gli abitanti si preparano all’evento di routine. Il sorteggio è diviso per famiglie e ci sono dei tiratori designati che tirano per la propria, pescando un foglietto da una cassetta nera. Il lettore comincia a percepire qualcosa di strano quando esce la famiglia sorteggiata e la moglie, §→ anziché esultare, protesta. Ma la lotteria va avanti, adesso devono pescare i membri della famiglia, padre madre e tre figli. Il bambino piccolo è orgoglioso di partecipare alla cosa dei grandi. I cinque tirano ed è la moglie a pescare il foglio con il cerchio nero, dopodiché “anche se la gente del villaggio aveva dimenticato il rituale e perso la cassetta originale, sapeva ancora come si usavano le pietre”, le pietre che i bambini avevano raccolto all’inizio della novella e ammucchiato in un angolo della piazza senza che il lettore capisse perché, e la donna “era adesso in mezzo a uno spazio vuoto, e tendeva disperatamente le braccia mentre la gente del villaggio avanzava verso di lei. — Non è giusto — protestò ancora. Una pietra la colpì sulla tempia. — Non è giusto, non è giusto — gridò ancora, e poi tutti calarono su di lei. ←§
Si dice (spero sia una leggenda) che quando il racconto fu pubblicato nel 1949, molti lettori scrissero alla rivista pensando che fosse un fatto vero, e volevano sapere dove succedeva e se si poteva assistere.
Ciò che più mi ha colpito è che non c’è assolutamente nessuna delucidazione del perché si tenga la lotteria. La cosa che più si avvicina a una spiegazione è quando un tizio dice che in un villaggio vicino non la fanno più, e un vecchio protesta sostenendo che la lotteria c’è sempre stata e che a interromperla si attirano guai. La storia sembra dunque essere una messa in guardia contro la tradizione, o meglio la degenerazione della stessa, laddove per degenerazione intendo “facciamo così perché abbiamo sempre fatto così” al posto di “facciamo così perché ci hanno insegnato che è giusto”. Qui si aprirebbe un discorso molto interessante sul concetto di tradizione, che è innanzitutto traditio ovvero consegna, passaggio di idee di generazione in generazione, e della differenza tra un concetto statico e uno dinamico di tradizione (Tolkien la descriveva come un albero), eccetera, ma il discorso diventa troppo lungo per questo post perciò mi limito a dire LEGGETELO.

§§§

Follia per sette clan, di Philip K. Dick.
Molto bello e divertente, ennesima variazione sul tema “cosa è reale e cosa no e come faccio a capire la differenza”, stavolta sviluppata nella dicotomia sanità mentale / pazzia. La risposta alla fine sembrerebbe essere che la sanità mentale è un sottotipo di pazzia, ma la conclusione e il tono generale del romanzo sono così parodistici che non sono proprio sicuro che sia esattamente questo il “messaggio” del libro (ammesso che ce ne sia uno). Il protagonista Chuck è il tipico antieroe dickiano, perdente, mite, succube delle donne caparbie e/o dal seno grosso, in sostanza una trasfigurazione letteraria dell’autore.
P.S. Un paio di citazioni di San Paolo fatte dai personaggi aggiungono un altro anello alla catena della teologia paolina nella letteratura di PKD, che vorrei esaminare quando avrò finito di leggere tutti i suoi libri.

     §§§

Tutto, e di più – storia compatta dell’∞, di David Foster Wallace.
DFW racconta la storia del concetto di infinito in matematica rendendola avvincente come un romanzo.
Fino alle prime 100 pagine sono riuscito a seguirlo, poi però la faccenda è diventata così esoterica – nel senso di inaccessibile ai profani – che la mia limitata cultura matematica ne è uscita decisamente sconfitta, e ho capito sì e no il 10% di quello che scrive. Sono tutti concetti che mi piacerebbe approfondire, ma dovrei dedicarvi un quantitativo tale di tempo che onestamente faccio prima ad aspettare di morire e constatare l’infinito per esperienza personale. Pazienza.
Però mi resta la curiosità di

  1. Approfondire la figura di Bernard Placidus Johann Nepomuk Bolzano, da aggiungere al mio elenco di scienziati credenti (in questo caso anche prete) (però DFW dice che era una specie di eretico perché tenne discorsi pacifisti all’università dove insegnava) (embè? Mica perché uno è pacifista è automaticamente eretico  approfondire);
  2. Wallace, sulla scia di Bertrand Russell e altri simpaticoni, in sostanza sposa la tesi per cui lo sviluppo del concetto di infinito è stato ritardato di circa un migliaio di anni dalla concezione aristotelica di attualità/potenzialità dell’infinito, e di fatto anche dalla Chiesa che ha sposato e dogmatizzato l’aristotelismo; io, prima di pronunciarmi sulla verità/falsità della cosa, vorrei approfondire l’argomento – qualcuno mi può consigliare letture in merito, possibilmente fruibili anche da profani?

§§§

Così dolce, così innocente, di Shirley Jackson.
Altro libro della Jackson, altro titolo modificato (l’originale è Abbiamo sempre vissuto nel castello), ma almeno stavolta il titolo italiano non è fuori luogo. È una storia di agorafobia e tragedia familiare raccontata in prima persona da una pazza. Non si tratta di uno spoiler perché il lettore è in grado di accorgersi immediatamente che la voce narrante non ha tutte le rotelle che girano, ma è impressionante la perizia con cui l’autrice ci introduce al punto di vista di una persona mentalmente disturbata.
Shirley Jackson è stata una delle mie recenti scoperte letterarie più felici. Vi consiglio vivamente di leggerla.

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Shock 1, di Richard Matheson.
Primo volume di una famosa antologia di racconti di Matheson, di qualità variabile tra il sufficiente e il discreto. Particolarmente piaciuti Dissolvenza e fuga (uno sceneggiatore esprime l’incauto desiderio che la propria vita sia come un film e ne paga le conseguenze) e Il dispensatore (nuovo vicino semina caos nel quartiere; mi ha ricordato il romanzo di Stephen King Cose preziose).

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Shock 2, di Richard Matheson.
Secondo volume della suddetta antologia, con una qualità media decisamente buona. Particolarmente piaciuti I vampiri non esistono (come da titolo, gran finale a sorpresa), Scadenza (un uomo, un  anno), Muto (storia toccante di un bambino vittima di un esperimento scientifico).

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Controrealtà, di AAVV.
Si tratta del numero 52 di Urania Millemondi, uscito nell’agosto 2010. È la versione in italiano della collezione americana The Year’s Best SF n. 12, cioè la selezione dei migliori racconti di fantascienza pubblicati nel 2006. L’avevo già letto l’anno scorso ma mi è venuta voglia di riprenderlo. La qualità media dei racconti è eccezionalmente alta per gli standard delle antologie Urania; di solito ne apprezzo circa la metà, qui invece mi sono piaciuti quasi tutti, con un paio di storie che gridano ECCELLENTE!!!. Me lo sto rileggendo un po’ alla volta per gustarlo meglio.

 (N.B. sono un fiero sostenitore della rilettura, anche più volte. Credo fermamente che se un libro non merita una seconda lettura, allora non meritava neanche la prima. C’è un piacere tutto particolare nel ripercorrere strade già battute, del tipo: la percezione dei rimandi infratestuali, l’apprezzamento della scena senza l’assillo del “cosa succede dopo”, la comprensione di livelli di significato che erano sfuggiti la volta precedente. Guardo il mio foglio excel e mi deprimo nel constatare che rileggo troppo poco, l’ultimo “2°” risale addirittura a febbraio – La realtà in trasparenza di JRRT – e scuoto la testa. Vorrei poter rileggere ogni libro che ho letto, sfortunatamente l’applicazione di tale ideale richiederebbe una vita di durata tendente a ∞, così mi devo accontentare di rileggere quel che più mi “chiama”, sempre con un vago senso di colpa perché sottraggo tempo a chissà quali altre nuove meraviglie che mi aspettavano e che lascerò al momento della fine. Pazienza. Avrò tempo per leggere quando sarò morto.)

 Già solo l’introduzione mi aveva “acchiappato” con una riflessione meritevole di commento:

i critici letterari sono spesso avvezzi a leggere narrativa per la sua sincronicità, ovvero per il modo in cui le miriadi di voci di un dato momento concorrono a rappresentare quel punto preciso dello spaziotempo. Questa non è la stessa idea che John Clute ha del “vero anno” di una storia, l’idea che ogni pezzo di narrativa rifletta inevitabilmente e inconsciamente l’anno in cui è stato composto, non importa se ambientato milioni di anni nel futuro e in un’altra galassia. È anche l’opposto del modo in cui i lettori di fantascienza vogliono leggere la loro narrativa: questi desiderano che le affascinanti idee degli autori li trasportino dalla loro quotidianità verso luoghi e tempi fantastici che potrebbero concretizzarsi, ma che non esistono ancora. Vogliono evadere dal presente.
La fantascienza ha sempre posseduto un certo grado di deliberata sincronicità, particolarmente evidente nella SF americana satirica degli anni ’50 e nella SF dell’Europa orientale prima della caduta del Muro di Berlino. Ma in maggioranza, i lettori di SF preferiscono una buona storia a una buona allegoria. A tutti piace distanziarsi dalla realtà, puntare verso il futuro. Ma è già adesso che ci troviamo nel futuro, e non è affatto il luogo piacevole che volevamo che fosse.

E ce ne sarebbero di cose da dire, sia su questo concetto di sincronicità (il futuro non è concepibile a sé, ma sempre in relazione al momento in cui è concepito: il futuro esiste solo come proiezione del presente), sia sul vero significato dell’evasione (ah, Tolkien: “non confondete l’Evasione del Prigioniero con la Fuga del Disertore”)!
Molti racconti di quest’antologia sono sincronici perché parlano di una catastrofe, della fine della civiltà, insomma sono chiaramente post 11/9/01. Quelli che mi sono piaciuti di più sono:

  • Nanomacchine a Clifford Falls: la diffusione della nanotecnologia (macchine che producono istantaneamente qualsiasi cosa, dal cibo ai beni di lusso) promette il paradiso in terra. Tutti possono avere tutto. Fine della povertà, fine della fame nel mondo, fine dei bisogni materiali. Doveva essere il trionfo glorioso della Tecnica e invece è la distruzione della società. Bisognerebbe farlo leggere a Emanuele Severino. Mi è piaciuto così tanto che si merita un post a parte.
  • Quando gli amministratori di sistemi dominavano la Terra: altro racconto postapocalittico, storia di un amministratore di sistemi intrappolato con altri sysadmins in un palazzo pieno di server e mentre fuori il mondo crolla per esplosioni nucleari guerre batteriologiche etc. questi nerd semiautistici sognano di fondare un nuovo mondo peace&love&bytes. Il linguaggio è magnificamente geek (ho imparato locuzioni come PEBKAC, gtg, killare, eccetera).
  • il resto dei racconti lo rileggo il mese prossimo.

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Fate, Time and Language – an Essay on Free Will, di David Foster Wallace e AAVV.
È la tesi di laurea (o qualunque cosa sia una undergraduate thesis) scritta da DFW in filosofia modale. Quando l’ho ordinato su Amazon non ne sapevo molto di più, se non che era di DFW ed era molto scontato e parlava di destino, tempo, linguaggio e libero arbitrio, insomma la copertina balzava letteralmente fuori dallo schermo e urlava COMPRAMI!!!
In realtà soltanto 78 pagine (30,95% del libro di 250 pagine) sono state effettivamente scritte da Wallace. Il resto è roba scritta da altri, e devo ancora capire se sia un bene o un male.
Insomma è andata così: nel 1962, questo tale filosofo Richard Taylor scrive un articolo in favore del fatalismo (pressappoco: non siamo noi a decidere ciò che facciamo). Nel 1985 DFW scrive la sua tesi come una replica-confutazione del lavoro di RT. La tesi resta a prendere polvere in uno scaffale del dipartimento di filosofia dello Amherst College. Nel 2008 DFW muore in tragiche circostanze, cioè si impicca (considero il suo suicidio come la dimostrazione ultima che l’intelligenza non garantisce la felicità), e a questo punto ci sono due modi possibili di interpretare i fatti:

  1. Gli ex-professori di Wallace, sconvolti dal dolore, decidono di rendere omaggio al loro brillante studente pubblicando la sua tesi di laurea, e per completezza arricchiscono il volume con il lavoro originale di Taylor criticato da DFW, nonché altri articoli di altra gente competente a parlare del fatalismo e annessi e connessi;
  2. Gli ex-professori di Wallace fiutano quattrini e, subodorando che tutto ciò che porta in copertina il nome di DFW si venderà come il pane, cercano affannosamente qualsiasi cosa pubblicabile in loro possesso e trovano la tesi, solo che è troppo breve per essere stampata da sola, così aggiungono al malloppo altra roba  al fine di raggiungere una massa cartacea tale da giustificare il prezzo di copertina di $ 19,95.

Immagino che alla fine del libro avrò un’idea chiara di quale delle due interpretazioni sia più attinente alla realtà.
Intanto il libro l’ho iniziato, però essendo scritto in inglese e trattando di un argomento complicato con linguaggio da filosofi professionisti, penso che ci metterò un po’. Seguiranno aggiornamenti nei prossimi post mensili.


libri agosto 2011

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(rubando l’idea da qui)

Storia della letteratura del terrore – il “gotico” dal Settecento a oggi, di David Punter.
Comprato l’anno scorso da una bancarella che vendeva tutto a 3 euro. A volte un po’ troppo nozionistico, e la chiave di lettura onnicomprensivamente psicoanalitica non mi convince mica tanto, ma in definitiva – se si riesce a passare sul gravissimo difetto di deprecare Lovecraft al punto da definire la sua prosa “rozza, ripetitiva, leggibile dietro coercizione” – interessante e utile.
Qualche anno fa avevo letto un mammuth newton compton con i classici romanzi gotici –  Il castello di Otranto, Il monaco, L’italiano o Il confessionale dei Penitenti Neri, Melmoth l’uomo errante – e avevo scoperto una cosa che a scuola nessuno mi aveva spiegato, cioè che molti di questi libri erano intrisi di pura propaganda anticattolica (la sadicissima inquisizione, il convento-prigione, il monaco che inevitabilmente si eccita guardando le tette delle sante, etc.). Si trattava di un giudizio fondamentalmente veritiero, ma  riduttivo: leggendo questo libro ho scoperto che il gotico inglese ha avuto molte altre sfaccettature.
Da rileggere.

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I.N.R.I., di Michael Moorcock.
Delusione al cubo. Mi aspettavo molto di più da un romanzo con questa copertina (tanto per confermare il proverbio).
In sintesi, il protagonista è un nevrotico religioso (endiadi, ovviamente) che si procura una macchina del tempo e torna indietro per incontrare Cristo; dopo aver scoperto che il Gesù storico era solo uno scimunito deforme figlio di una sgualdrina, comincia a girare per la Palestina e impersona lui stesso il messia – tanto lo sanno tutti che i vangeli sono chiaramente stati scritti secoli dopo i fatti – fino a farsi crocifiggere.
Ma tutto questo impallidisce di fronte al vero peccato del libro, cioè quello di essere mediocre proprio come libro: lo stile è ridondante, le descrizioni sono assenti, non c’è alcun approfondimento psicologico dei personaggi diversi dal protagonista, e pure quest’ultimo alla fine non si capisce affatto perché faccia quello che fa, a parte (chiudere il loop del paradosso temporale e) l’essere nevrotico, che però non è granché come spiegazione.
Insomma, fondamentalmente il libro serve solo a spalare un po’ di escrementi sul cristianesimo e sui fessi che ci credono. Obiettivo editorialmente ineccepibile, ma io rimpiango i miei 5,5 €.

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Scorrete lacrime, disse il poliziotto, di Philip K. Dick.
Molto bello, anche se deve essere il ventesimo o giù dei libri dickiani che alla fin fine si basano tutti sullo stesso plot device. Proseguo comunque nella lettura dell’opera omnia di PKD e ne traggo enormi soddisfazioni.

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C’è nessuno?, di Jostein Gaarder.
Una favoletta. Si legge in fretta, non si sente il bisogno di rileggerla.

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Paura degli stranieri, di E. C. Tubb.
Due racconti di fantascienza, niente di che.

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Il teologo e l’economia – L’orizzonte economico di Bernard Lonergan, di Natalino Spaccapelo SJ, Michele Tomasi, Frederick G. Lawrence.
Si tratta di uno dei tanti libri comprati, grazie all’intermediazione di sissi2002 che non ringrazierò mai abbastanza, ad euro 1 da una favorevolissima svendita bibliotecaria. La prima parte descrive sinteticamente il pensiero di Bernard Lonergan (il teologo preferito di cabasilas e poemen), con particolare riguardo alla sua gnoseologia del M.E.G. – Metodo Empirico Generalizzato; la seconda e la terza parte approfondiscono il suo pensiero macroeconomico (ma approfondiscono sul serio; anzi, molti concetti li ho trovati così tecnici e specialistici da essere ben al di là della mia capacità immediata).
Da rileggere e da studiare.

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A Dance with Dragons, di George RR Martin.
Il quinto libro del ciclo delle Cronache del ghiaccio e del fuoco (cfr apposito post di Berlic). Molto bello (finalmente sappiamo che fine ha fatto quel personaggio, e quello, e anche quell’altro!) ma non eccelso in quanto soffre un po’ la scelta disgraziata di splittare le storylines dei personaggi tra quarto e quinto libro (GRRM, ma come ti è saltato in testa?).
Fondamentalmente Martin ha fatto per il fantasy quel che Herbert aveva fatto per la fantascienza, cioè ha demitizzato: come nell’universo narrativo di Dune non conta granché la tecnologia futuristica, che anzi è pressoché assente, allo stesso modo il fantasy di ASOIAF è pochissimo fantasy: non conta la magia ma i personaggi, le storie, le complicate guerre a tre-quattro-dieci-n fazioni diverse. E il risultato si vede.
Appuntarsi post contro il manicheismo – la divisione tra buoni e cattivi non è una linea netta ma attraversa il cuore di ogni essere umano – portando ad esempio il personaggio di Tyrion.

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Terra imperiale, di Arthur C. Clarke.
Noiosissimo. Dopo le prime pagine la storia diventa veramente piatta, tra risvolti pseudo-gialli e rimpianti d’amore giovanile che non suscitano nessun interesse. In sostanza è solo un panino narrativo da riempire con descrizioni scientifiche, il tutto sullo sfondo della solita tecno-soteriologia clarkiana così ingenua da far quasi sorridere (zero religione + Progresso scientifico + promiscuità sessuale = mondo perfetto tutti felici), che manco i più positivisti degli illuministi settecenteschi.
Niente, Clarke non lo reggo proprio.

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Lettera a un amico antisionista, di Pierluigi Battista.
Premessa: sono un essere spregevole e ripugnante.
Sono un lettore a scrocco: passeggiavo per la libreria, ho visto il libro sullo scaffale, ne ho constatato lo scarso spessore e… beh… mi sono accomodato su una poltroncina e me lo sono letto tutto lì in loco, in un’oretta scarsa, per poi riporlo sullo scaffale e andarmene tranquillamente col portafoglio intatto.

Se Pierluigi Battista passa da queste parti, ha tutto il diritto di incazzarsi.
Detto questo, il libro è molto utile e interessante, vuoi sul piano teorico (relazione tra antisionismo e antisemitismo: il primo non è il secondo, ma tende a diventarlo) vuoi sul piano storico (l’autore ricorda tutta una serie di episodi, la nave Altalena, l’omicidio del piccolo Stefano Gay Tachè, la tortura di Ilan Hamili, etc., che spesso passano in secondo piano nella stampa e nel sentire comune).
Può essere un utile regalo di compleanno: breve com’è, magari il donatario se lo legge davvero.

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Vennero dal futuro, di AAVV.
Il Millemondi Urania di quest’estate. Però stavolta la maggior parte dei racconti mi è sembrata, con poche eccezioni, abbastanza mediocre.

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Ritrattazioni, di Carlo Falconi.
Tuttora in lettura. Un altro dei libri a 1 € comprati grazie a sissi2002 (grazie). È un libro anomalo: l’autore è un personaggio strano, uno spretato del post concilio (ha anche scritto dei libri per la Kaos edizioni contro Pio XII e Paolo VI), insomma un tipo mezzo Kung mezzo Mancuso per intenderci. Sennonché nell’introduzione del libro, che parla fondamentalmente del Concilio Vaticano II e del il casino che ne è seguito (il libro è degli anni ‘70), costui afferma di voler criticare gli “eccessi” progressisti e ritrattare, appunto, certe sue idee espresse pubblicamente.
Per adesso sono alla prima metà. Giudizio compiuto al prossimo post.