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Libri gennaio 2012

Pensare Dio – introduzione alla religione, di Giovanni Chimirri.
Residuano le perplessità espresse nel precedente post bibliografico: ma l’autore ci è o ci fa?
È un cristiano in buona fede che però si esprime usando un vocabolario concettuale di stampo hegeliano?
Oppure è proprio un hegeliano (senza giri di parole: un eretico) che, come dire, ce sta a provà, cercando di inquinare la coscienza del lettore indifeso con un cristianesimo sottilmente ma irrimediabilmente adulterato dall’idealismo?
Ditemi voi che ve ne pare:

Pensare Dio in definitiva vuol dire giocarci nell’autocoscienza divina, essere in vitale rapporto a Dio, porre quella compenetrazione tra la nostra coscienza e quella di Dio. Illustriamo brevemente questo passaggio essenziale. La coscienza di Dio ha per oggetto la coscienza umana, finita, differente da lui; così Dio per un certo aspetto trova se stesso (ha coscienza) pensando ad una coscienza differente da sé. Ma questa coscienza umana non è a sua volta che coscienza di Dio, coscienza che ha per oggetto Dio (l’uomo realizza veramente se stesso solo quando pensa Dio). Risulta così che la coscienza divina verso l’uomo, essendo a sua volta quest’uomo coscienza verso Dio, è in realtà coscienza divina di una coscienza divina ossia autocoscienza di Dio attraverso la coscienza finita dell’uomo che si è superata (tornata a Dio). Rimanga chiaro che per principio Dio non necessita della coscienza umana (per quanto divina questa si faccia) per avere coscienza di sé. È semmai l’uomo colui che ha bisogno della coscienza di Dio per farsi coscienza-di-sé-con-Dio […]
La coscienza umana in quanto pensiero su Dio, è pensiero in Dio e pensiero di Dio, dove Dio attraversando la coscienza umana riconcilia questa a sé, la fa partecipe gratuitamente della propria spiritualità. Dio deve pur avere l’idea di un pensiero finito (l’uomo) e questo deve pur essere qualcosa che si differenzi da Dio, ma essendo Dio spirito assoluto e onnicomprensivo, il finito viene tolto dal suo isolamento e fatto partecipe di una vita eterna: la coscienza umana in Dio si immortala, ossia si infinitezza pur rimanendo finita […]
La comunione tra Dio e l’uomo è una comunione di spirito, nella quale l’uomo conosce Dio solo in quanto il suo sapere l’ha avuto da Dio e questo sapere di Dio è a sua volta quel pensiero con cui Dio conosce l’uomo e se stesso: lo spirito umano pensante Dio non è che lo stesso spirito di Dio, ossia lo spirito umano non è solo dell’uomo ma è soprattutto quello spirito di Dio (spirito divino, santo) che Dio gli ha infuso, che abita nell’uomo, che lo domina e che prenderà definitivamente possesso del suo essere materiale e mortale (Rm 8,9-11). Diceva a tale proposito lo Spaventa: «non l’uomo è o si fa Dio, e neppure il pensiero umano è semplice ombra del pensiero divino, giacché nel primo caso non avremmo il vero Dio e nel secondo il vero uomo; ma, la coscienza che noi abbiamo di Dio è uguale alla coscienza che Dio ha di sé in noi, di modo che non siamo noi a fare Dio bensì è lui che fa noi. Se Dio non fosse immanente all’uomo, l’uomo non potrebbe conoscerlo e Dio non potrebbe farlo».
Pagg. 151-152
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Insomma, Dio per avere piena coscienza di se stesso “deve” pensare l’uomo che a sua volta deve pensare Dio.
Ma scusate, questa non è proprio la cara vecchia triade hegeliana tesi → antitesi → sintesi (però l’autore non scrive mai queste parole… sennò era troppo facile sgamarlo?), e precisamente la progressione Idea → Natura → Spirito?
E la citazione da Spaventa, non ho capito se Silvio o Bernardo (hegeliani tutti e due, toh), forse vorrebbe essere “tranquillizzante”? Ma io mi sento ben poco tranquillizzato: perché quest’immanenza di Dio nell’uomo, così intesa, non ci mette niente a diventare, antropoteosoficamente, identificazione esoterica Uomo = Dio.
Insomma, il dubbio resta: Giovanni Chimirri ci è o ci fa?
A qualcun altro l’ardua sentenza. Io ci ho dedicato già abbastanza tempo.

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Tolkienology – il segreto della tua personalità coi personaggi del Signore degli Anelli, di Paolo Gulisano – Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro.
Divertissement
degli autori che, sulla scia di un bestseller di argomento zodiacale, analizzano i personaggi di Tolkien  alla luce dei rispettivi segni zodiacali (segni, peraltro, attribuiti ai personaggi abbastanza arbitrariamente, ma tant’è).
Dico divertissement perché, come ci si chiede qui (vi segnalo la pagina, c’è l’indice con tutti i personaggi analizzati, casomai v’interessasse), sorge facile la domanda: ma come gli è venuto a Gnocchi e Palmaro, cattolici diciamo… hardcore, di immischiarsi con l’astrologia e l’oroscopo? Boh. L’unica risposta che ho trovato è che, appunto, il libro è stato scritto per divertimento, per parlare un po’ dei personaggi di Tolkien, lo zodiaco è un pretesto.
In quest’ottica il libro si fa leggere senza noia da un tolkieniano all’ultimo stadio, anche se non dice niente di nuovo o di particolarmente brillante. Insomma senza infamia e senza lode.

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L’androide Abramo Lincoln, di Philip K. Dick.
Capolavoro.
Il tema del “simulacro”, di colui che sembra umano ma non lo è davvero (e dunque: ma che significa essere “davvero” umani? qual è il quid costitutivo dell’essere umano?), fondamentale nella produzione dickiana, è qui svolto ai massimi livelli e con un’originale angolazione.
Infatti stavolta il simulacro, l’androide pseudo-umano, non è una “nuova” creatura in cerca di un suo posto nel mondo come accadeva al replicante Roy Batty, ma una riproduzione – non si sa quanto fedele – a di quello che era un essere umano vero, cioè , appunto Abramo Lincoln (ed anche Edwin M. Stanton, il suo ministro della Guerra).
Questo tema si interseca con le traversie costruttori del simulacro, che vedono distrutti i loro progetti commerciali dall’interesse di un avido e gelido miliardario, e con il tema inverso dell’anempatico. Mentre il simulacro è un non-umano vicinissimo e forse arrivato all’umanità, l’anempatico è un essere umano privo di alcune caratteristiche basilari della comune psicologia umana quali amore ed empatia. Nel romanzo ci sono due personaggi di questo tipo, uno è il miliardario e l’altro è Pris, la figlia del collega del protagonista, l’ennesima incarnazione della dark-haired girl ovvero il fenotipo di donna distruttiva da cui PKD si sentiva suo malgrado attratto. In coda al romanzo c’è un estratto da un articolo autobiografico (“L’evoluzione di un amore vitale”) dove l’autore esplicita il concetto:

In linea generale, considero Pris una persona odiosa, malata e schizoide, una despota. Mi disgusta e mi attrae: il peggiore dei legami. È una specifica tipologia di anima, che sputa sentenze, è priva di calore emotivo, autoritaria, castrante, intellettuale, originale e talentuosa, il tipo di ragazza che un uomo ammira, a cui finisce per legarsi, di cui non riesce a liberarsi… e dalla quale finisce per lasciarsi distruggere, con sua somma gioia. Tornando a quei tempi, ricordo che ero solito interrogarmi cupamente su quel mio fatale tropismo: mi sentivo come una formica attratta senza possibilità di scampo da un certo insetticida. […] “Sei attratto da donne distruttive”, mi diceva sempre il mio analista, anno dopo anno. Ma non è mai riuscito a risolvere la situazione. Così ho continuato a scrivere romanzi su romanzi con donne simili a Pris. L’androide Abramo Lincoln è stato scritto molto tempo fa, e nessun editore di fantascienza lo voleva, perché come dicevano tutti, e loro se ne intendevano, “Non è fantascienza”. L’ho riscritto molte volte, mettendoci tanto lavoro da non poter essere più monetizzabile. Ma ero ammaliato dal soggetto del romanzo: un androide (Abe Lincoln), dotato di reali qualità umane, confrontato con un’umana (Pris) che è simile a un automa.

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Skull-face, di Robert E. Howard.
Racconti miscellanei del creatore di Conan il Barbaro, pubblicati in America a cavallo tra gli anni ’20 e ‘30. Gli ingredienti ricorrenti sono quelli della letteratura pulp dell’epoca: orrori ancestrali, antichi misteri, civiltà perdute… e razzismo.
Sì, razzismo. La cosa che più mi ha colpito di questi racconti è infatti la naturalità – segno che l’argomento a quell’epoca non solo era pacifico ma “vendeva” –  con cui si esprime e si giustifica il razzismo di fondo presente nelle storie (non so se anche nelle personali convinzioni dell’autore, ma è probabile).
Prendete per esempio il racconto più lungo dell’antologia: Skull-Face. Il cattivo è un redivivo stregone d’Atlantide, sopravvissuto ai millenni (soprannominato appunto Faccia di Teschio per motivi facilmente comprensibili), il cui intento diabolico è nientemeno che “il rovesciamento delle razze bianche”. Apperò. “Il suo scopo supremo è un impero nero: e lui stesso sarà il sovrano del mondo. Per questo scopo ha legato in una cospirazione mostruosa i negri, i bruni e i gialli”. Ovviamente il cattivo è sconfitto, e il mantenimento della supremazia bianca nel mondo è salvo: happy end.
Potrei parlare anche del ciclo di Kirby Buckner (avventuriero del sud rurale americano che si trova alle prese con rivolte di negri capeggiati da uno stregone vudù), o del ciclo di Bran Mak Morn (re celtico che combatte per la sua razza contro i romani), ma non mi dilungo. Il succo è: quel che trapela dalla filosofia di fondo espressa in questi racconti è che l’appartenenza dell’individuo a una determinata razza è fondamentale nel definire come e chi è quell’individuo, in senso fisico, psicologico, intellettuale… anche morale.
Certo, erano gli anni ’30 dello scorso secolo. Non possiamo farne una specifica colpa di Howard. È passato quasi un secolo e molte cose sono cambiate. Allora il razzismo era normale parte integrante dell’orizzonte concettuale di un individuo civile; oggi invece no.
Ma pensateci un attimo: quante delle idee che oggi il mondo dà per scontate come moderne e politicamente corrette, domani o dopodomani saranno invece considerate reazionarie e inaccettabili?

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Elementi di politica, di Benedetto Croce.
Libro uscito con il Corriere della Sera al prezzo di € 3, e che nella mia libreria Anobii stazione attualmente nella sezione “Non finito”. Infatti debbo a malincuore ammettere di averlo abbandonato dopo poche decine di pagine, in quanto ho scoperto Croce che scrive difficile, ma veramente difficile, anzi ha uno stile così intorcinato da proiettarsi oltre la mia soglia di comprensione.
Certo posso invocare attenuanti ambientali, come il fatto che abbia provato a leggerlo in mezzi pubblici molto affollati, ma insomma.
L’ho messo da parte e ci riprovo in momenti più tranquilli.

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Fate, Time and Language – an Essay on Free Will, di David Foster Wallace e altri AAVV.
Letta la prima parte del libro, quella che contiene l’articolo sul fatalismo del filosofo Richard Taylor pubblicato nel 1962, alcune delle obiezioni postegli da altri filosofi sulle riviste di filosofia, le contro-obiezioni di Taylor, le contro-contro-obiezioni, e così via.
Adesso ho la riposta a una domanda che talvolta mi ero fatto e cioè “ma il flame esisteva anche prima di internet?”. Sì.
L’argomento fatalista di Richard Taylor meriterà un post a parte.

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Kabbalah – tutti i segreti del misticismo ebraico, di Gabriella Samuel.
Oddio, forse tutti tutti no, però il libro è molto ricco nell’illustrare, in una struttura a dizionario (sono arrivato alla C), argomenti cabalistici. Anche se, considerato il taglio estremamente divulgativo, viene spontaneo chiedersi quanto sia approfondito e ortodosso rispetto a quel patrimonio religioso-culturale.
(casomai vi fosse apparso un punto interrogativo sulla testa, non è che mi sto convertendo o cosa. L’argomento mi interessa perché stavo preparando un post su Neon Genesis Evangelion, il miglior anime di tutti i tempi, e volevo approfondire un po’ il significato – ammesso che ce ne sia davvero uno – delle sephirot)
Comunque, trovo notevole che l’autrice, dovendo scrivere Dio ma non volendo nominare invano il Suo nome, scriva “D*o”.
Proprio così: D*o.
Con tutto il rispetto, sembra l’esclamazione di Homer Simpson.