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Memento

IL SOLIPSISMO SECONDO WITTGENSTEIN
E IL REALISMO SECONDO MEMENTO


La lettura del libro di/su David Foster Wallace (Fate, Time and Language – an essay oh Free Will) sta andando molto a rilento, sia perché usa un inglese filosoficamente hardcore che mette a dura prova il mio upper intermediate, sia perché offre spunti di riflessione talmente interessanti che ogni poche pagine devo fermarmi per ruminare quanto assorbito. Già solo nell’introduzione di James Ryerson ho trovato materiale per almeno due post, di cui uno è questo.
L’introduzione (se v’interessa la trovate qui) comincia riassumendo il contenuto del libro, poi abbozza una biografia di DFW da giovane, poi parla del suo primo libro La scopa del sistema, poi parla di un argomento ivi emergente ovvero Ludwig Wittgenstein e il solipsismo. E a tal proposito:

For Wallace, the most disquieting feature of the Tractatus was its treatment of solipsism. Toward the end of the book, Wittgenstein concludes, “The limits of my language mean the limits of my world.” This is a natural corollary of the picture theory of meaning: Given that there is a strict one-to-one mapping between states of affairs in the world and the structure of sentences, what I cannot speak of (that is, what I cannot meaningfully speak of) is not a fact of my world. But where am “I” situated in this world? By “I,” I don’t mean the physical person whom I can make factual reports about. I mean the metaphysical subject, the Cartesian “I,” the knowing consciousness that stands in opposition with the external world. “Where in the world,” Wittgenstein writes, “is a metaphysical subject to be found?”
On the one hand, the answer is nowhere. Wittgenstein can’t make any sense of the philosophical self—any talk of it is, strictly speaking, nonsense. On the other hand, Wittgenstein can get some purchase on this question. He draws an analogy between the “I” (and the external world) and the eye (and the visual field): Though I cannot see my own eye in my visual field, the very existence of the visual field is nothing other than the working of my eye; likewise, though the philosophical self cannot be located in the world, the very experience of the world is nothing other than what it is to be an “I”. Nothing can be said about the self in Wittgenstein’s philosophy, but the self is made manifest insofar as “the world is my world”—or, as Wittgenstein more strikingly phrases it, “I am my world.” This, he declares, is “how much truth there is in solipsism.”

Ovvero (mia traduzione alla meno peggio; ho messo in rosso alcuni punti dove gradirei suggerimenti / correzioni):

Per Wallace, la caratteristica più inquietante del Tractatus era il suo trattamento del solipsismo. Verso la fine del libro, Wittgenstein conclude “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Questo è un naturale corollario della teoria raffigurativa del linguaggio: dato un rigoroso rapporto uno-a-uno tra le circostanze del mondo e la struttura delle frasi, ciò di cui non posso parlare (ovvero, ciò di cui non posso significativamente parlare) non è un fatto del mio mondo. Ma dov’è che “io” sono situato nel mondo? Per “io”, non intendo la persona fisica di cui posso concretamente parlare. Intendo il soggetto metafisico, l’Io cartesiano, la coscienza conoscente che sta in opposizione al mondo esterno. “Dov’è nel mondo”, scrive Wittgenstein, “che può essere trovato un soggetto metafisico?”
Da un lato, la risposta è da nessuna parte. Per Wittgenstein un sé filosofico non ha alcun senso; ogni discorso su di esso è , strettamente parlando, insensato. D’altra parte, Wittgenstein può trovare qualche appiglio su questo interrogativo, tracciando un’analogia tra la relazione “io” / mondo esterno e la relazione occhio / campo visivo: sebbene io non possa vedere il mio proprio occhio nel mio campo visivo, l’esistenza stessa del campo visivo non è altro che il prodotto del mio occhio; allo stesso modo, sebbene il sé filosofico non possa essere localizzato nel mondo, l’esperienza stessa del mondo non è altro che ciò che significa essere un “io”. Niente può essere detto circa il sé nella filosofia di Wittgenstein, eppure il sé si manifesta in quanto “il mondo è il mio mondo”, ovvero, come si esprime più marcatamente Wittgenstein, “io sono il mio mondo”. Questo, a suo dire, è “quanto c’è di vero nel solipsismo”.

Ah, il solipsismo.
Ora, devo confessare che io Wittgenstein non me lo ricordo granché bene, però a me non pare che fosse precisamente un solipsista – infatti se ci fate caso sopra non si dice l’esistenza ma l’esperienza del mondo, e le due cose coincidono solo per un solipsista – casomai da tutta l’introduzione evinco semmai l’impressione che sia James Ryerson a essere proprio lui solipsista, ma potrei sbagliare, comunque: il solipsismo.
Puah.
Se seguite questo blog, forse vi siete accorti che io tengo in forte disistima il solipsismo e in genere tutte le forme di idealismo. Buttiamo giù un po’ di nozionismo filosofico for dummies e diciamo rozzamente che ci sono grossomodo due tipi di ontologie (= “che cos’è l’essere? parliamone!”), il realismo e l’idealismo. Mentre per il realismo la realtà oggettiva è indipendente dal pensiero con cui il soggetto conoscente se la immagina / ricostruisce / rappresenta nella propria testa, per l’idealismo la realtà in un certo qual modo dipende dall’idea pensata dall’Io che la rappresenta / la traduce / la crea.
Sennonché, chi diamine è quest’Io? Sono io, sei tu, siamo tutti quanti? Fondamentalmente l’idealismo può essere individuale o collettivo. Il solipsismo è la forma estrema dell’idealismo individuale: ogni individuo, tutto da solo (= solus ipse), crea la realtà che lo circonda, perciò ci sono tante realtà quanti sono gli individui (perciò facilmente il solipsismo coincide con la versione diffusa del relativismo). L’estremo opposto è la filosofia hegeliana, ovvero la realtà è unica ma non perché sia oggettiva, bensì perché è il prodotto di un Io Assoluto rispetto al quale il nostro piccolo io individuale è soltanto una cellula (si ricorda che Hegel è la radice dei vari nazifasciocomunismi, perché la traduzione politica dell’Io Assoluto è precisamente lo Stato totalitario).
Bene, detto questo, professo la mia fede ontologica: io sono un realista. Le cose sono come sono e non come le percepiamo: l’esistenza del mondo non si riduce alla nostra esperienza di esso. Un gatto in una scatola è vivo o è morto, anche se nessuno apre la scatola per controllare. In sostanza, anche se l’analogia io / mondo esterno = occhio / campo visivo è affascinante, il fatto è che il mondo continua a esistere anche quando chiudo gli occhi.

§§§

Ed ecco che, dopo aver scritto l’ultima frase, mi sono ricordato di Memento.
Per chi se lo fosse perso, Memento ( = “ricordati” in latino) è il film che nel 2000 ha reso noto il regista Christopher Nolan. Come anche altri film di Nolan (principalmente Inception, ma da una particolare angolatura anche The Prestige), è basato sulla relazione-opposizione tra la realtà e la percezione, in questo caso quella particolare forma di percezione del passato che è la memoria. Memento, anche se la cosa può passare inosservata di fronte agli altri suoi numerosi meriti, è un film filosofico.
Di più: Memento è un film ontologicamente realista.
Evitando spoiler indesiderati sulla “fine” perché sarebbero un atto abominevole, diciamo solo che tutto si basa sulla contrapposizione tra la complessità labirintica del mondo esterno e la difettosità della ricostruzione soggettiva che ne fa il protagonista, Leonard, il quale perde la memoria a breve termine quando un paio di balordi fanno irruzione notturna in casa sua; Leonard ne uccide uno ma l’altro lo stordisce danneggiandogli il cervello, uccide sua moglie e poi scompare. Tutto ciò che gli succede dopo l’incidente è come scritto sulla sabbia nella sua memoria, che cancella ogni esperienza pochi minuti dopo averla vissuta (questa sindrome pare esista sul serio: ne parla Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello). Ciononostante Leonard insegue il suo desiderio di vendetta e dà la caccia con scopi omicidi all’assassino, l’inafferrabile “John G”, e per superare il suo handicap usa se stesso come post-it vivente tatuandosi sul corpo gli indizi che man mano raccoglie e conservando fotografie commentate di cose e persone, aiutato e/o intralciato nella sua ricerca da estranei, come l’enigmatico Teddy, che agiscono per i più vari motivi.
La particolarità che ha reso famoso il film è di essere girato al contrario, ovvero comincia dalla fine e termina con l’inizio. Più precisamente: se etichettiamo gli eventi della storia in ordine cronologico da A fino a Z, c’è una linea temporale girata a colori che parte da Z e arriva ad M e c’è una linea temporale girata in b/n che parte da A e arriva ad L, e le due linee si alternano sicché il film segue l’ordine

Z A V B U C T D S E R F Q G P H O I N L M

Non vi preoccupate se vi gira la testa, è normale, se poi lo vedete si capisce meglio. La parte in b/n è una serie di brevi flashback dove Leonard parla al telefono e spiega la sua condizione; la parte a colori è la sua “indagine”, la cui struttura a blocchi regressivi mette noi spettatori nella stessa condizione del protagonista, perché ci troviamo scaraventati nel flusso degli eventi senza conoscerne le cause: il che è molto comico, come nella scena della doccia “non mi sento ubriaco…”, oppure è molto drammatico, come quando all’inizio del film – “Z”, cronologicamente la fine – Leonard uccide Teddy, convinto che sia lui John G. Se abbia ragione o no, per capirlo bisognerà arrivare alla conclusione del film – “M” – dopo averlo visto andare avanti tra innumerevoli peripezie seguendo “ordine e metodo” che gli permettono di sopperire alle sue deficienze gnoseologiche.
Bene, perché dico che Memento è un film ontologicamente realista? Innanzitutto perché è lo stesso protagonista a prendere questa posizione. Posto di fronte ai limiti della sua coscienza conoscente, realizza quanto è assurdo porre il proprio Io come pietra angolare del mondo in cui vive. La percezione non è tutto, la memoria non è totalmente affidabile per nessuno: “i ricordi possono essere distorti, sono una nostra interpretazione, non sono la realtà, sono irrilevanti rispetto ai fatti”. A chi gli chiede che senso ha prendere l’assassino di sua moglie, perché “anche se ci riesci, poi non te lo ricorderai, non saprai mai che è successo”,  Leonard replica “mia moglie merita vendetta, che io lo sappia o no è indifferente. Il fatto che io ricordi o meno le cose non toglie nulla al senso delle mie azioni: il mondo continua ad esserci anche se chiudo gli occhi”, e ribadisce la sua ontologia realista nel monologo finale, quando lanciato a gran velocità al volante della sua macchina chiude gli occhi (!) e, mentre immagina un paradisiaco lieto fine in cui ha vendicato sua moglie (“I’VE DONE IT” scritto sul cuore) e lei è con lui, pensa:

Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente. Devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che quando chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci. Allora, sono convinto o no che il mondo continua ad esserci? C’è ancora? (riapre gli occhi alla realtà) Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo. Io non sono diverso. (dimentica quello che gli è successo poco fa) Allora, a che punto ero?

Ma naturalmente la filosofia di vita del protagonista, in generale e particolarmente in questo caso, non può essere automaticamente identificata con la filosofia di fondo del film. Memento è realista non solo e neanche tanto perché Leonard è realista, ma perché la storia mostra la contrapposizione tra l’Io del protagonista e quello che è il grande rimosso del solipsismo: l’Altro, anzi gli altri. Perché la verità è che Leonard, nonostante il suo sistema di ordine e metodo, è terribilmente indifeso di fronte alle complessità della vita e praticamente chiunque si può approfittare di lui. Il gestore del motel dove alloggia gli fa pagare due stanze, la misteriosa Natalie “chiede” il suo aiuto per liberarsi di uno scomodo creditore, e c’è di peggio: a un certo punto Leonard ha dei sospetti ed esclama “c’è qualche stronzo che vuole farmi uccidere la persona sbagliata!”, ma naturalmente se ne dimentica. E poi c’è Teddy, il misterioso comprimario che conosce molto bene Leonard (ma come?) e lo aiuta a tirarsi fuori da un paio di guai (ma perché?), e in cambio ha ricevuto / riceverà in “Z” una pallottola in testa in quanto identificato come John G (è vero?). Il rapporto tra Leonard e Teddy è chiarito soltanto alla fine del film ovvero all’inizio dell’indagine, in “M”, in un confronto che non è esagerato definire epistemologico (segue spoiler-spiegazione, evidenziate se volete leggere a vostro rischio e pericolo): §→ Teddy, ovvero John Edward Gammell, è il poliziotto che si era occupato dell’irruzione in casa di Leonard. Da quello che dice Teddy emergono diverse ipotetiche verità dei fatti:

•    che Leonard ha già trovato e ucciso il vero John G ma non se lo ricorda;

•    che non c’è nessun John G perché quella notte c’era solo un balordo, quello che aveva già ucciso sua moglie prima di essere ucciso da Leonard che poi ha battuto la testa scivolando in bagno;

•    che sua moglie in realtà era sopravvissuta all’aggressione ed è lui stesso ad averla uccisa per sbaglio, con una serie di ripetute iniezioni di insulina, e poi ha trasferito il ricordo troppo doloroso nella storia immaginaria di “Sammy Jankis” (un precedente caso di perdita di memoria a breve che Leonard racconta nei flashback in b/n), mentre ha alienato il senso di colpa sull’irreale John G a cui dare la caccia.

Tutte queste ipotesi sono possibili e nessuna è certa, fatto sta che da allora Teddy sfrutta Leonard mettendolo su una pista dopo l’altra onde fargli uccidere gente per i propri fini personali. Infatti in “L”, l’ultimo pezzo in b/n, vediamo Leonard strangolare Jimmy Grantz, il fidanzato di Natalie e l’ultimo dei John G designati (uno dei tatuaggi dice che il nome John poteva anche essere James), mandatogli da Teddy che compare a omicidio compiuto per rubare i soldi del morto. Ma Leonard ha capito da un particolare che Jimmy non è il “vero” John G e affronta Teddy, il quale gli dice cose contraddittorie da cui si ricavano le ipotesi qui sopra e soprattutto gli propone una visione decisamente relativista della vita: quando Leonard dice che Jimmy “non era l’uomo giusto”, l’altro risponde “lo era per te… tu non vuoi sapere la verità, tu crei la tua verità… tu vivi in un sogno”. Teddy non nasconde di ricavare un utile dalla caccia ai John G, ma al tempo stesso afferma di farlo per il bene di Leonard, perché fabbricandogli queste verità fittizie gli dà uno scopo di vita. Da spettatori possiamo pensare che ci sia un po’ di sincerità almeno in questa pretesa di buona fede… oppure possiamo pensare che in sostanza Teddy sta incoraggiando in Leonard una visione solipsista perché sa che questo è il miglior modo per sfruttarlo, perché tanto più intensamente crediamo che il nostro io sia il centro del nostro mondo, quanto più facilmente possiamo diventare burattini mossi da qualcun altro.

La nemesi per Teddy è che lui stesso è anagraficamente un altro John G; Leonard, per porre fine a questa catena di cacce all’uomo in cui il suo manipolatore lo ha intrappolato, gli rivolge contro il suo stesso meccanismo relativistico di creazione della verità. Sapendo che dimenticherà inevitabilmente l’epifania che ha appena avuto, segna come indizio da tatuarsi il numero di targa di Teddy, prevedendo che prima o poi “scoprirà” che John Edward Gammell è John G e lo ucciderà, come infatti è accaduto / accadrà in “Z”. ←§ Dopodiché si lancia nella corsa al volante a occhi chiusi e fa il monologo già descritto sopra, e dimentica l’esperienza precedente, e il film finisce.

Ed ecco allora perché l’assioma di (Ryerson che spiega) Wittgenstein per cui «l’esperienza stessa del mondo non è altro che ciò che significa essere un “io”» è falso: non è solo e neanche tanto l’esistenza del mondo ad essere indipendente dal nostro io (questo richiederebbe in un certo senso un atto di fede: Christopher Nolan ha affrontato anche questo problema ontologico in Inception – prima o poi ci farò un post…); è che proprio l’esperienza del mondo, il nostro continuo accumulare percezioni e ricordi di ciò che ci accade, non può essere ridotta al nostro io perché dipende sempre in qualche modo anche (e forse soprattutto) dagli altri. Può essere un bene o un male, ma così è. Gli altri sono a volte un paradiso e a volte un inferno, ma inevitabilmente sono, ci sono: agiscono, ci aiutano, ci intralciano, ci amano, ci odiano, ci salvano, ci uccidono, e tante altre cose.
Io non sono il mio mondo, io non potrò mai essere il mio mondo, perché nel mondo e anche nel “mio” mondo (la piccola parte di mondo che vivo) ci sono anche gli altri io. Oltre il mio ego ci sono gli altri, anche se questo non a tutti fa piacere. Il solipsismo è fondamentalmente un’auto-gratificazione per egocentrici: nessuno è il proprio mondo, tutti siamo un po’ il mondo di qualcun altro e viceversa.
Nessun uomo è un’isola, nessun io è un mondo a sè.

Ricordatevelo.