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Libri febbraio 2013


World War Z, di Max Brooks.

Premessa: sono appassionato di storie di morti viventi e ne difendo la dignità culturale nei confronti di chi le squalifica come mero horror-pulp sensazionalistico.
Gli zombie mi piacciono (come argomento, non li terrei come animali domestici) perché li vedo come l’uomo postmoderno privato della sua retorica ed estremizzato nel concetto: un essere al di là del bene e del male, senza etica, senza razionalità, vittima dell’omologazione di massa eppure al tempo stesso profondamente solo e incapace di empatia, definito dai due impulsi  fondamentali che lo muovono: la vita eterna (nell’aldiquà, essendo l’aldilà scomparso dall’orizzonte concettuale) e la soddisfazione dei propri appetiti.
Posto quanto sopra, WWZ non poteva non piacermi al massimo grado. Si tratta di un libro EPICO, scritto da una massima autorità sull’argomento ovvero Max Brooks già autore del Manuale per sopravvivere agli zombie (da tenere nel comodino a portata di mano, metti caso serva). Io l’ho letto in inglese, perché in italiano non si trova, ma probabilmente lo ripubblicheranno a breve perché tra poco esce nelle sale il film tratto dal libro, di cui è già in circolazione il trailer. Considerato che il protagonista è Brad Pitt e che gli zombie in questo periodo tirano, probabilmente incasserà. Peraltro la pubblicità a me ha fatto alquanto ribrezzo, perché sembra la solita storia azioneazionefuggisparaesplodibumbumbum: o il trailer è infedele rispetto al film, oppure il film col libro c’entra poco e niente.
D’altra parte, mi rendo conto che non era così facile trasporre la storia in film (una serie sarebbe stata un format più adatto). Perché WWZ non è una semplice storia di morti che risorgono e mangiano i vivi. Tecnicamente non è neppure un romanzo. È proprio un’altra cosa, molto migliore.
La particolarità di WWZ è che avviene un mondo in cui c’è già stata la guerra contro gli zombie, e l’umanità ha vinto ed è sopravvissuta, seppure a malapena. L’autore intradiegetico del libro è un giornalista che viaggia per il mondo e intervista persone di tutti i tipi, di ogni continente e ceto sociale, facendosi raccontare quello che hanno vissuto e le cose che hanno fatto. È dunque palese la differenza rispetto alla classica zombie story, alla George A. Romero oppure The Walking Dead: lì il punto di vista è del singolo, qui invece è letteralmente globale.
WWZ è estremamente realistico dal punto di vista geopolitico. Sarebbe perfettamente degno di un numero speciale di Limes. Prende in considerazione una quantità immensa di fattori che nelle altre storie di zombie sono generalmente ignorati: la reazione dei mass-media e dei politici di fronte alle voci di apocalisse (negare sempre, anche l’evidenza, finché non è troppo tardi), le specifiche ragioni tecniche del fallimento delle normali tattiche militari di fronte a un nemico così radicalmente diverso (la battaglia di Yonkers), gli imprevedibili sconvolgimenti politici (Israele si chiude in quarantena e poi scoppia la guerra civile!), l’opportunismo di chi è contento dell’epidemia (Breckenridge “Breck” Scott e il suo vaccino-bufala Phalanx, del quale avevo già parlato qui), il tracollo psicologico collettivo di una società intera (i quisling, gli umani che si convincono di essere zombie), eccetera.
Dove invece WWZ rivela stretta continuità con il genere zombie è invece nella critica morale all’umanità, nel ritratto impietoso dei nostri simili: dalle interviste emerge un coro a 360° di vizi e virtù, eroismi, vigliaccherie, compromessi, dilemmi morali angoscianti. Pensate alla strategia attuata dai governi nazionali, il “Piano Redeker”: fondamentalmente consiste nel sacrificare volontariamente una parte della popolazione, usandola come diversivo e dandola letteralmente in pasto agli zombie, onde permettere al resto della nazione di emigrare verso zone sicure. L’ideatore di questa strategia di sopravvivenza dice che il genere umano per sopravvivere deve semplicemente rinunciare alla sua umanità, nel senso morale del termine. Cosa pensare di una simile scelta? Come giudicarla? Abbiamo il diritto di giudicarla? Ne abbiamo il dovere? La risposta è difficile, ma la domanda è inevitabile.

Altrimenti, se non abbiamo una morale, che differenza c’è tra noi e loro?

 

Missione sul Baltico, di Patrick O’ Brian.

il comandante del porto convocò il comandante Aubrey. «Mi rifiuto di credere, signore», disse, «che tranne uno tutti i vostri ufficiali discendano dalla regina Anna.» «Mi dispiace, signore, ma poiché la regina Anna è morta», rispose Jack, «la comune decenza m’impedisce di fare commenti.»

 Settimo libro della saga marinara (ma la definizione è riduttiva) di Aubrey & Maturin, e diretta continuazione e conclusione delle vicende raccontate nei due libri precedenti. E perbacco, che conclusione! Non lo scrivo perché uno spoiler sarebbe abominevole, ma si tratta di un evento che cambia radicalmente e irreversibilmente lo status di un certo personaggio.
Che ha finito di soffrire, forse… oppure, forse (e dico anche probabilmente), le sue più grandi sofferenze sono appena cominciate.

 

Le lettere di Babbo Natale, di John Ronald Reuel Tolkien.

Buffissime e tenerissime lettere dal Polo Nord, condite delle disastrose avventure di un Orso Polare pasticcione e degli auguri in Quenya degli elfi aiutanti, che Tolkien inventava per i suoi figli e faceva loro arrivare ogni Natale da parte di “Babbo Natale” – si badi bene, non Santa Claus, ma nel titolo originale “The Father Christmas Letters”.
Ora io non mi dilungo sui rapporti tra Santa Claus e Father Christmas, né su tutta l’annosa questione della valutazione “cattolica” di Babbo Natale, anche perché c’è già chi l’ha fatto molto bene; ma m’interessa far notare la posizione che implicitamente assume Tolkien nella vicenda, e che secondo me è strettamente legata alla sua concezione dello speciale rapporto tra paganesimo e cristianesimo: il primo rivalutato in positivo e visto non come opponente del secondo, ma come antecedente logico oltre che cronologico, veicolo di semina Verbi, propedeutico al messaggio cristiano.
Ecco allora che Babbo Natale, il quale ormai non è più il vecchio San Nicola bensì un personaggio ormai decristianizzato e paganeggiante, un mito per esprimere dei generici valori positivi di calore familiare, non viene da Tolkien semplicemente negato; viene piuttosto “ri-cristianizzato” nella figura di ­ Father Nicholas Christmas, che ha millenovecentoventi anni nel 1920 e ne ha millenovecentotrenta nel 1930 (cioè nasce con il cristianesimo) e che in un passaggio delle sue lettere accenna all’esistenza di suo padre… “Nonno Yule”.
Yule, capite?
Come sempre in Tolkien, una semplice parola basta per implicare concetti, epoche storiche, mondi lontani: il simbolo pagano che si fa da parte per far posto al simbolo cristiano, non già come Saturno che viene scalzato da Zeus, bensì come il padre che lascia serenamente in gestione al figlio “l’attività di famiglia” del portare regali all’umanità; il cristianesimo come successione del paganesimo, non per rigettarne in toto il passato, ma per ereditarne i contenuti positivi.

 Grazie, professore.

 

L’infanzia di Gesù, di Benedetto XVI.

Naturalmente ottimo, e fa venire voglia di rileggere tutto il trittico in successione continua. Anzi fa venir voglia di rileggersi tutta l’opera omnia dell’autore.

Anche perchè leggerlo proprio nel periodo contemporaneo all’evento storico che sappiamo, sapendo che non ce ne saranno altri, fa un certo effetto.

 

Dottor Futuro, di Philiph K. Dick.

Se non avessero limitato le nascite, adesso ci sarebbe una popolazione umana preziosa su Marte e Venere […] invece abbiamo una società calcificata che passa il tempo meditando sulla morte; che non ha progetti, non ha una meta, non ha nessun desiderio di crescita. Come la società egizia… la morte e la vita sono così strettamente collegate che il mondo è diventato un cimitero, e le persone nient’altro che custodi che vivono tra le ossa dei morti. In pratica, dentro di sé, si considerano premorti, non individui vivi. Così il loro grande retaggio è stato sprecato.

 Pubblicato nel 1960, eppure ancora una volta PKD si mostra straordinario profeta di quelle tendenze distruttive che oggi sono il nostro presente.
Jim Parsons è un medico che per ignoti motivi viene rapito dal suo presente (il 2012) e trasportato nel remoto futuro del 2405. Si ritrova così in una società caratterizzata da una profonda cultura di morte: il numero della popolazione è fisso, tutti sono sterilizzati e le fecondazioni avvengono solo per via artificiale, il governo decide di procedere ad una nuova nascita solo quando qualcuno è morto, e la morte è incoraggiata. L’omicidio è legale, il suicidio è lodato come un gesto di coscienza civica, mentre le cure mediche sono criminali e viste come un’indebita interferenza nelle leggi di natura. Quando la gente sta male, non va dal dottore, va dall’eutanasista: Parsons, per aver onorato il suo giuramento d’Ippocrate, passerà dei guai con la giustizia.
E così cominciano le allucinanti traversie spaziotemporali del Dottore, l’unico uomo al mondo rimasto a credere che la vita valga più della morte; l’unico uomo al mondo che può salvare la specie umana dall’estinzione.
Un PKD ingiustamente poco noto, da riscoprire, da farci un film, da far conoscere.


Donna, perchè piangi?

Ammiravo profondamente il cardinale Joseph Ratzinger, l’autore della Dominus Iesus; ho ammirato ancor di più il pontefice Benedetto XVI. Non credevo che questi sentimenti sarebbero significativamente cambiati.
Ebbene, oggi…

… lo ammiro ancora di più. Più di prima. Più che mai.

Mi colpiscono tre reazioni diverse alla notizia, tre sentimenti, tre atteggiamenti quasi antropologici: l’esultanza, lo scandalo, la tristezza.
In forme diverse, ne capisco le ragioni, ma non le condivido in alcun modo.

 

Comprensibile la gioia dei nemici della Chiesa, controprova che il Papa ha sempre fatto bene il suo mestiere: per loro (s’illudono) è un pericoloso avversario in meno. Casomai ci sarebbe stato da farsi domande se gli avessero detto, no, non te ne andare. Sono capitato sul sito di Liberazione e ho visto che in homepage hanno titolato “il papa si arrende”. Non ne sono sorpreso.
Illusi, ancora una volta, non capiscono la differenza tra la resa e il sacrificio. Non sanno che i santi, pure quando stanno da qualche parte in clausura zitti a pregare, pure quando muoiono, continuano a combattere il male; forse anche più efficacemente di prima.

 

Comprensibile anche lo scandalo di chi pensa al duro giudizio di Dante sul gran rifiuto, chi fa il paragone con la croce che Giovanni Paolo II portò nei suoi ultimi anni. Ma per favore, non esagerate. Certi stracciamenti di vesti, certe recriminazioni contro il tradimento, il pastore vigliacco che fugge davanti ai lupi, sono decisamente fuori luogo.
Il paragone con Celestino V, o il papa cinematografico di Nanni Moretti, non regge. Quelli hanno lasciato nel pieno delle loro forze, all’inizio della loro missione, per paura confessata. Benedetto XVI ha dato tutto sé stesso in quasi otto anni di lotte contro i lupi, fuori e dentro la Chiesa (soprattutto dentro). Nel suo gesto non vedo la fuga del disertore; vedo invece la saggezza del re stanco, ma libero dalle catene dell’orgoglio e del potere, che per il bene superiore affida il trono a mani ormai più capaci delle sue.
Giovanni Paolo II fece una scelta diversa. Papa fino alla fine, papa sofferente, muto, infermo di salute ma fermo nella fede. Una testimonianza di dignità nella malattia di cui questo mondo, innamorato dell’eugenetica e del mito della vita degna di essere vissuta, immemore delle cause che portarono all’orrore di un secolo fa, aveva estremo bisogno. Fu una scelta santa, ma il prezzo da pagare fu l’amministrazione petrina lasciata de facto a mani che non sempre sapevano o volevano far bene, la barca sbandante con un timoniere troppo debole per correggere gli errori di rotta.
Ecco, io credo la scelta di Benedetto XVI sia dovuta principalmente al fatto che da cardinale vide da vicino questo rovescio della medaglia, i danni che provocò o avrebbe potuto provocare, e che abbia deciso che in questo frangente la Chiesa non può permetterselo di nuovo.
C’è un tempo per ogni cosa; c’è un tempo per un Papa malato e stanco, e un tempo per un Papa forte e vigoroso.
Questi, purtroppo, non sono tempi da Papi stanchi.

 

Comprensibile, più di tutto, la tristezza di chi dice “ci mancherà”.
È vero. Ci mancherà.
Ma, detto brutalmente, prima o poi sarebbe morto comunque; forse dopo anni di malattia, che grazie alla sua saggezza non diventeranno anni di pseudo-governo inflitti a una Chiesa che ha estremo bisogno di veri pastori.
Nessun Papa è eterno; solo lo Spirito Santo lo è. Il miglior commento che abbia letto a questa vicenda? “La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro.
E poi, perché dobbiamo piangere chi sarà per sempre vivo?


Io non piango per la fine di Benedetto XVI. Invece lo ringrazio commosso per questi anni che ci ha dato, per il suo coraggio, la sua intelligenza, il suo sacrificio.

Non è tempo di piangere.

È tempo di pregare.

Conclave is coming


Un vero relativista

UN VERO RELATIVISTA

 
 
Nel precedente post ho citato il brano in cui Benedetto XVI spiegava i motivi per cui lo Stato nazista, pur nella sua legittimità formale, di fatto non era diverso da una banda di briganti: il potere nazista non era rivolto verso il diritto naturale, verso una superiore idea di giustizia, ma soltanto verso se stesso. Come Kelsen alla fine capì suo malgrado, il giuspositivismo puro, che diventa relativismo giuridico, spalanca le porte dell’inferno – basta che le carte siano in ordine e si può fare qualunque cosa. Così la legge dello Stato diventa la legge del più forte.
Altri commentatori hanno evidenziato meglio di me le implicazioni del discorso papale: il nazismo, e in genere lo Stato totalitario, non è come molti pensano la negazione del relativismo, ma al contrario la sua più cruda e completa espressione.
Io qui vorrei approcciare l’argomento da una prospettiva un po’ diversa.
 
 
Non so quanti conoscono Il mattino dei maghi. È un libro del 1960 scritto da Louis Pauwels, ex occultista  e discepolo pentito di Gurdjiev, e dallo scienziato Jacques Bergier. L’ho trovato una lettura estremamente affascinante: una storia dell’esoterismo che critica l’irrazionalismo senza cadere nel razionalismo, che abbraccia tanto la consapevolezza del mistero quanto la fiducia nella ragione.
La seconda parte del libro si intitola Alcuni anni nell’altrove assoluto ed è interamente dedicata alla descrizione del lato “magico” del nazismo. Gli autori descrivono le due dottrine esoterico-scientifiche che furono ufficialmente adottate dal regime: il ghiaccio eterno e la Terra vuota. Molti degli aneddoti che raccontano andrebbero verificati, ma se anche una parte di essi è vera, il quadro che ne esce è a dir poco inquietante.
“Sono due spiegazioni del mondo e dell’uomo che s’incontrano con dati tradizionali, giustificano i miti, ribadiscono un certo numero di “verità” difese da gruppi iniziatici. Hanno dominato molte menti. Di più, hanno determinato certe decisioni militari di Hitler, hanno talvolta influenzato l’andamento della guerra, e indubbiamente contribuito alla catastrofe finale.”
 
 
La prima dottrina fu esposta da Hans Horbiger e si basa sull’idea della lotta perpetua, negli spazi infiniti, tra il ghiaccio e il fuoco, e tra la forza di repulsione e quella d’attrazione.
Per come la riassumono Pauwels e Bergier, il nostro sistema solare deriva dallo scontro tra due primordiali corpi celesti, l’uno fatto di ghiaccio cosmico, l’altro di materia incandescente. I pianeti ubbidiscono a due forze: la forza iniziale dell’esplosione, che li allontana, e la forza di gravitazione, che li attira verso la massa più forte che si trova più vicina. Poiché la prima è in diminuzione, ma la seconda è costante, ogni pianeta si avvicina gradatamente al più vicino, fino a ricadere su di esso, e alla fine tutto ricadrà nel Sole per poi ricominciare nell’eterno ritorno.
Per Horbiger non esiste “la Luna”, ma le lune: il nostro pianeta attira periodicamente dei corpi celesti vaganti nello spazio, che ne diventano il satellite e gli girano intorno in un’orbita che non è un’ellisse ma una lenta spirale. Man mano che la luna si avvicina essa esercita una maggiore forza di gravità, e dunque diminuisce la gravità terrestre: gli oceani salgono, gli esseri viventi alleggeriscono e diventano più grandi e potenti, i raggi cosmici provocano mutazioni genetiche. Quando il satellite cade sulla Terra, provoca un’apocalisse a cui solo i più forti, i migliori, gli eletti sopravvivono. Dopodiché la gravità del pianeta aumenta, gli oceani discendono, gli animali rimpiccioliscono. Poi la Terra attira un altro satellite e il ciclo inizia di nuovo.
L’attuale luna è la quarta della serie. Ci sono già stati tre satelliti e con essi civiltà perdute, mostri estinti, uomini mastodontici. La Genesi dice che i primi uomini vivevano secoli. Le tradizioni esoteriche ebree e musulmane descrivono i giganti: sono loro, i sopravissuti allo schianto della seconda luna, che addomesticano i piccoli uomini che si sono formati sotto la terza e fondano la civiltà. “L’idea che gli uomini, partendo dallo stato bestiale e selvaggio, si sono lentamente innalzati fino alla civiltà, è recente. È un mito giudeo-cristiano imposto alle coscienze per scacciare un mito più potente e rivelatore. Quando l’umanità era più recente, più vicina al suo passato, essa sapeva di discendere dagli dei, dai re giganti che le avevano insegnato tutto. I greci ricordavano l’età di Saturno e la riconoscenza che i loro antenati avevano per Ercole”. Altre civiltà primitive, dagli egizi agli orientali, conservano il culto dei re giganti, i Superiori Sconosciuti, i semi-dei. Resti sacri sull’Himalaya, sulle Ande, nei posti più sperduti nel globo, testimoniano questo passato. Nel 1957 qualcuno, sotto lo pseudonimo di Lobsang Rampa, pubblica Il Terzo Occhio e scrive di aver trovato in una cripta di Lhasa, accessibile solo agli alti iniziati lama, le tombe dei giganti: corpi mummificati e ricoperti d’oro, alti dai tre ai cinque metri.
Sotto la luna terziaria sorge il primo impero marittimo di Atlantide, conquista tutto il pianeta e lo governa. I giganti possiedono immensi poteri psichici e mistici che influenzano il moto degli astri, ma la catastrofe può essere ritardata, non evitata. La prima Atlantide è distrutta quando la terza luna si abbatte sulla terra, cosa che secondo Horbiger succede 150.000 anni fa. I sopravvissuti, gli ultimi re giganti, formano un secondo e minore impero atlantideo nell’Atlantico del nord, quello di cui parla Platone; esso viene sommerso dalle acque quando queste si alzano, nel Diluvio di 12.000 anni fa, per effetto della cattura da parte della Terra della quarta luna, l’attuale. L’alta gravità provoca la definitiva scomparsa dei giganti dalla superficie del pianeta. L’umanità diventa nana, minuscola, miserabile: la civiltà giudeo-cristiana. L’uomo-dio è scomparso e ora resta solo l’uomo-schiavo.
Ma i tempi stanno per cambiare. Nuove mutazioni sono alle porte. La razza ariana è la discendente dei precedenti giganti e l’inizio di quelli nuovi prossimi venturi. Essi sono i veri esseri umani, mentre negri e giudei non sono altro che un passo indietro evolutivo, un animale formatosi nel periodo senza luna in cui la gravità era schiacciante, e saranno spazzati via.
Le potenze del freddo, che sono le potenze della solitudine e della decadenza, saranno spezzate dalle potenze del fuoco. Hitler era persuaso che il freddo avrebbe indietreggiato dove egli fosse avanzato. Questa convinzione mistica spiega in parte  il modo in cui egli condusse la campagna di Russia. Con i discepoli della teoria del ghiaccio eterno, era intimamente persuaso di aver fatto alleanza col freddo, e che la neve delle pianure russe non avrebbe potuto ritardare la sua marcia. L’umanità, sotto la sua guida, stava per entrare nel nuovo ciclo del fuoco. Ai soldati della campagna di Russia non aveva fatto dare che un supplemento ridicolo di vestiario: una sciarpa e un paio di guanti.
E nel dicembre del 1941, il termometro scese bruscamente a -40°. Le previsioni erano false. Era il ghiaccio che trionfava sul fuoco. Le armi automatiche si fermavano perché l’olio gelava. Nei serbatoi la benzina sintetica si separava, sotto l’azione del freddo, in due elementi inutilizzabili. Gli uomini morivano, la più lieve ferita li condannava. Migliaia di soldati, piegandosi per soddisfare i loro bisogni, morivano con l’ano congelato. Hitler rifiutò di credere a questo primo disaccordo tra la mistica e la realtà. Il generale Guderian, rischiando la destituzione e forse la morte, corse in Germania per mettere il Fuhrer al corrente della situazione e chiedergli di dare l’ordine della ritirata. «Il freddo» disse Hitler « è affar mio. Attaccate. » Fu così che tutte le truppe blindate che avevano vinto la Polonia in diciotto giorni e la Francia in un mese, le armate di Guderian, Reinhardt e Hoeppner, la formidabile legione di conquistatori che Hitler chiamava i suoi Immortali, falciata dal vento, bruciata dal ghiaccio, spariva nel deserto del freddo, perché la mistica fosse più vera della terra.”  
 
 
Questa era la dottrina di Horbiger, che fu una delle due pseudoscienze ufficiali del Reich.
L’altra teoria era ancora più folle.
Siamo nell'aprile del 1942. La Germania impegna tutte le sue forze nella guerra. Niente, sembra, potrebbe distogliere i tecnici, gli scienziati e i militari dal loro compito immediato. Tuttavia, con l'assenso di Goering, di Himmler e di Hitler, una spedizione organizzata lascia in gran segreto il Reich. I membri di questa spedizione sono alcuni fra i migliori specialisti del radar. Sotto la guida del dottor Heinz Fischer, noto per i suoi studi sui raggi infrarossi, sbarcano nell'isola baltica di Rùgen. Hanno in dotazione apparecchi radar perfezionatissimi. Eppure quegli apparecchi a quell'epoca sono ancora rari e distribuiti sui punti nevralgici del sistema difensivo tedesco. Ma le osservazioni da fare nell'isola di Rùgen sono considerate nello stato maggiore della marina come fondamentali per l'offensiva che Hitler si prepara a sferrare su tutti i fronti. Appena arrivato il dottor Fischer fa puntare i radar verso il cielo con un angolo di 45 gradi. Apparentemente non c'è niente da scoprire nella direzione scelta. Gli altri membri della spedizione credono che si tratti di un esperimento. Ignorano che cosa si attenda da essi. L'oggetto delle ricerche sarà loro rivelato più tardi. Con stupore constatano che i radar restano puntati cosi molti giorni. È allora che ricevono questa precisazione: il Führer ha buone ragioni per credere che la Terra non è convessa ma concava. Noi non abitiamo l'esterno ma l'interno del globo. La nostra posizione è paragonabile a quella di mosche che camminano all'interno di una sfera. Lo scopo della spedizione è di dimostrare scientificamente questa verità. Con la riflessione di onde radar che si propagano in linea retta si otterranno immagini di punti estremamente distanti all'interno della sfera. Il secondo scopo della spedizione è di ottenere con la riflessione immagini della flotta inglese ancorata a Scapaflow.”
Questa teoria fu predicata nella Germania nazista da Peter Bender, ex aviatore e fondatore della società segreta “Hohl Welt Lehre”. Essa è l’esasperazione di precedenti teorie per cui la Terra è cava all’interno e abitata (un’eco di tali teorie riecheggia nel romanzo di Verne). Ma se noi siamo all’interno, cosa c’è all’esterno sotto di noi?
La risposta è tanto semplice quanto a suo modo geniale: roccia all’infinito. L’universo è una massa di pietra, senza limiti, con una sola cavità sferica al cui interno viviamo noi esseri umani. Il cielo è al centro di questa sfera: è una massa di gas azzurrognolo, con punti di luce brillante che noi scambiamo per stelle. Ci sono solo il Sole e la Luna, ma infinitamente meno grandi di quanto dicono gli astronomi ortodossi. L’universo si limita a questo.
Questa teoria “scientifica” può sembrare allucinante. E lo è. Eppure interi circoli di alti ufficiali nazisti, uomini di governo, vi cedettero e su tale teoria basarono la propria condotta politica e militare. Il fallimento della spedizione di Rugen segnò la fine di questa teoria, e il sopravvento della scienza del ghiaccio eterno, ma fino a quel momento benderiani e horbigeriani dovettero convivere.
 
 
E qui arriviamo al punto che mi ha colpito più di tutti.
Sia il ghiaccio eterno e sia la Terra vuota erano le scienze ufficiali naziste. Tuttavia esse sono incompatibili: si potrà pure credere a un sistema dove le lune cadono periodicamente sulla terra, e si potrà perfino credere a un sistema dove la luna è un punto di luce brillante al centro di una sfera di gas incastonata nella roccia illimitata, ma non si può credere a tutti e due. Se uno è vero, l’altro è falso: così direbbe chiunque abbia conservato il senso della verità. A non può essere uguale a non-A.
Ecco come Pauwels e Bergier descrivono la convivenza tra i due sistemi scientifici nel Terzo Reich. Non sono in grado di sapere se l’aneddoto riportato è vero. Ma se lo è, allora ci dice sul nazismo molto più di quanto ci abbiano detto a scuola.
I discepoli di Horbiger coprivano Bender di sarcasmi e chiedevano la proibizione delle opere che sostenevano la teoria della Terra vuota. Il sistema di Horbiger ha le dimensioni della cosmologia ortodossa, e non si potrebbe contemporaneamente credere al cosmo in cui il ghiaccio e il fuoco continuano la loro eterna lotta e al globo vuoto scavato nella roccia che si estende all’infinito. Fu chiesto l’arbitraggio di Hitler. La risposta merita di essere meditata:
 
«Non abbiamo affatto bisogno» disse Hitler «di una concezione coerente del mondo. Possono avere ragione tutti e due».


La traduzione giusta

LA TRADUZIONE GIUSTA

 
 
Non so se avete letto o sentito il discorso di Benedetto XVI al Bundestag, il Parlamento tedesco. Vorrei dire che è un discorso eccezionale per  profondità e lucidità storica, ma la frequenza con cui questo papato produce simili discorsi può inflazionare l’aggettivo “eccezionale”. Mi limiterò dunque a dire che è un discorso che merita altamente di essere letto. Mi ha colpito in particolare questo passaggio:
 
Togli la giustizia  – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino. Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dalla giustizia, il porsi del potere contro la giustizia, il suo calpestare la giustizia, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione della giustizia – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire la giustizia e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra ciò che è veramente giusto e ciò che può solo sembrarlo?
 
Ma qui c’è un problema di trasposizione linguistica.
Dove io ho scritto giustizia con il rosso, la traduzione ufficiale italiana – cfr Foglio, Avvenire, Vatican.va, – ha tradotto con la parola “diritto”:
 
Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino. Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente?
 
L’unica occorrenza della parola “giusto” è quella che ho segnalato in verde (non vi confondete con tutti questi colori!); per il resto si usa la parola diritto anche nella citazione di Agostino, che io conoscevo già, ma proprio nella versione “secondo giustizia”.
 
Il fatto è che, con tutto il rispetto e salvo confutazione da traduttori più autorevoli ed esperti del sottoscritto (non ci vuole molto, visto che… beh… non so il tedesco), questa resa non mi convince pienamente.
Tutto il discorso di B16 si gioca precisamente sulla dicotomia tra il diritto positivo, la legge, e il diritto naturale, la giustizia; nell’attuale linguaggio italiano, a mia conoscenza (correggetemi se sbaglio), la parola “diritto” da sola è più vicina al primo che non al secondo significato.
E il problema non è se lo Stato sia senza diritto nel senso di ciò che è legale (il regime nazista aveva una legislazione formalmente ineccepibile), bensì se sia senza diritto nel senso di ciò che è giusto.

 
Ho controllato la versione inglese del discorso e qui si ha
 
Without justice – what else is the State but a great band of robbers?”, as Saint Augustine once said. We Germans know from our own experience that these words are no empty spectre. We have seen how power became divorced from right, how power opposed right and crushed it, so that the State became an instrument for destroying right – a highly organized band of robbers, capable of threatening the whole world and driving it to the edge of the abyss. To serve right and to fight against the dominion of wrong is and remains the fundamental task of the politician. At a moment in history when man has acquired previously inconceivable power, this task takes on a particular urgency. Man can destroy the world. He can manipulate himself. He can, so to speak, make human beings and he can deny them their humanity. How do we recognize what is right? How can we discern between good and evil, between what is truly right and what may appear right?
 
Le cose si complicano: justice per la citazione agostiniana, right per tutto il resto, compresa quella che nella versione ufficiale italiana è stata la sola occorrenza ad essere resa con “giusto”.
Per quanto ne so io, justice e right sono semanticamente più vicini al concetto di giustizia che di diritto (right or wrong, giusto o sbagliato); ma il mio inglese non è perfetto, e comunque questa è pur sempre un’altra traduzione.
 
A questo punto, pur non conoscendo il tedesco, mi vado a leggere il testo originale:
 
Nimm das Recht weg – was ist dann ein Staat noch anderes als eine große Räuberbande”, hat der heilige Augustinus einmal gesagt. Wir Deutsche wissen es aus eigener Erfahrung, daß diese Worte nicht ein leeres Schreckgespenst sind. Wir haben erlebt, daß Macht von Recht getrennt wurde, daß Macht gegen Recht stand, das Recht zertreten hat und daß der Staat zum Instrument der Rechtszerstörung wurde – zu einer sehr gut organisierten Räuberbande, die die ganze Welt bedrohen und an den Rand des Abgrunds treiben konnte. Dem Recht zu dienen und der Herrschaft des Unrechts zu wehren ist und bleibt die grundlegende Aufgabe des Politikers. In einer historischen Stunde, in der dem Menschen Macht zugefallen ist, die bisher nicht vorstellbar war, wird diese Aufgabe besonders dringlich. Der Mensch kann die Welt zerstören. Er kann sich selbst manipulieren. Er kann sozusagen Menschen machen und Menschen vom Menschsein ausschließen. Wie erkennen wir, was recht ist? Wie können wir zwischen Gut und Böse, zwischen wahrem Recht und Scheinrecht unterscheiden?
 
Ove si vede che ricorre incontrastato il termine Recht e composti vari.
Ahimè, i primi traduttori online che trovo mi riportano tranquillamente un elenco di possibili significati, tra cui proprio “giustizia” e “legge”, senza specificare quale sia il più aderente (di solito dovrebbero coincindere, il problema è quando non lo fanno); e non possedendo un vocabolario autorevole di tedesco, non posso approfondire come vorrei.
Non mi resta che chiedere aiuto alla mia germanofona prediletta, anche se forse – dati i suoi non idilliaci trascorsi con l’idioma teutonico – non ne sarà entusiasta. Pazienza.
 
Cari lettori, e voi cosa dite?  Giustizia o diritto?
Aiutatemi!
(Help me!)
(ehm… Helfen Sie mir?)


Il Logos e il Caos (3)

IL LOGOS E IL CAOS
(ANCORA?!? EH Sì…)

 
 
Cari visitatori, spero che abbiate passato bene la Pasqua. Non ho fatto gli auguri a nessuno quest’anno – imprevista lontananza dal pc – ma se state leggendo vuol dire che siete sopravvissuti lo stesso, dunque non c’è problema.
A proposito di Pasqua, e visto che si parlava di ragione e di casualità, colgo l’occasione per fare una cosa che faccio raramente, cioè un post-citazione: un brano dell’omelia del Papa per il sabato santo, nel verosimile caso che ve lo foste perso. Merita davvero.
Buona Pasqua a tutti – quella dell’anno prossimo, mi porto avanti.

 
San Giovanni, nelle prime parole del suo Vangelo, ha riassunto il significato essenziale [del racconto della creazione] in quest’unica frase: “In principio era il Verbo”. In effetti, il racconto della creazione che abbiamo ascoltato prima è caratterizzato dalla frase che ricorre con regolarità: “Dio disse…”. Il mondo è un prodotto della Parola, del Logos, come si esprime Giovanni con un termine centrale della lingua greca. “Logos” significa “ragione”, “senso”, “parola”. Non è soltanto ragione, ma Ragione creatrice che parla e che comunica se stessa. È Ragione che è senso e che crea essa stessa senso. Il racconto della creazione ci dice, dunque, che il mondo è un prodotto della Ragione creatrice. E con ciò esso ci dice che all’origine di tutte le cose non stava ciò che è senza ragione, senza libertà, bensì il principio di tutte le cose è la Ragione creatrice, è l’amore, è la libertà.
Qui ci troviamo di fronte all’alternativa ultima che è in gioco nella disputa tra fede ed incredulità: sono l’irrazionalità, l'assenza di libertà e il caso il principio di tutto, oppure sono ragione, libertà, amore il principio dell’essere? Il primato spetta all’irrazionalità o alla ragione? È questa la domanda di cui si tratta in ultima analisi. Come credenti rispondiamo con il racconto della creazione e con San Giovanni: all’origine sta la ragione. All’origine sta la libertà. Per questo è cosa buona essere una persona umana.
Non è così che nell’universo in espansione, alla fine, in un piccolo angolo qualsiasi del cosmo si formò per caso anche una qualche specie di essere vivente, capace di ragionare e di tentare di trovare nella creazione una ragione o di portarla in essa. Se l’uomo fosse soltanto un tale prodotto casuale dell’evoluzione in qualche posto al margine dell’universo, allora la sua vita sarebbe priva di senso o addirittura un disturbo della natura. Invece no: la Ragione è all’inizio, la Ragione creatrice, divina. E siccome è Ragione, essa ha creato anche la libertà; e siccome della libertà si può fare uso indebito, esiste anche ciò che è avverso alla creazione. Per questo si estende, per così dire, una spessa linea oscura attraverso la struttura dell’universo e attraverso la natura dell’uomo. Ma nonostante questa contraddizione, la creazione come tale rimane buona, la vita rimane buona, perché all’origine sta la Ragione buona, l’amore creatore di Dio. Per questo il mondo può essere salvato. Per questo possiamo e dobbiamo metterci dalla parte della ragione, della libertà e dell’amore – dalla parte di Dio che ci ama così tanto che Egli ha sofferto per noi, affinché dalla sua morte potesse sorgere una vita nuova, definitiva, risanata.


Caritas in veritate 8

(8) Un riassunto della Caritas in Veritate

(indice + sintesi)

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

Capitolo quarto: sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

Capitolo quinto: la collaborazione della famiglia umana

Capitolo sesto: lo sviluppo dei popoli e la tecnica

 

Conclusione

 

Lo sviluppo umano ha bisogno di Dio.

78. Dio è necessario all’uomo, e perciò è necessario allo sviluppo umano. Come diceva Paolo VI nella Populorum progressio, l’uomo non può gestire da solo il progresso perché non può fondare da solo un vero umanesimo. Lo sviluppo intiegrale è aiutato da un umanesimo cristiano, al servizio della carità e guidato dalla verità, mentre è ostacolato dalla ostilità ideologica a Dio e dall’ateismo indifferente. L’Amore di Dio  ci evita di diventare schiavi delle mode momentanee e ci sostiene nel laborioso impegno per la giustizia e lo sviluppo dei popoli, ci dà il coraggio di operare anche quando ciò che otteniamo è meno di ciò che desideriamo, perché Dio è la nostra maggiore speranza.

 

 

Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani che pregano. Auspicio finale della riunione della famiglia umana nella preghiera del Padre nostro. Citazione di San Paolo. Preghiera alla Vergine Maria.

79. Lo sviluppo ha pertanto bisogno di cristiani che pregano, consapevoli che l’amore nella verità non è un prodotto dell’uomo ma un dono ricevuto. Così si può rendere più degna la vita dell’uomo sulla terra, nella speranza che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come Padre nostro.

Benedetto XVI conclude l’enciclica citando San Paolo (amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno) e invocando la protezione della Vergine Maria, Mater Ecclesiae, e la sua intercessione per ottenere la forza necessaria a realizzare quello sviluppo integrale di cui parlava la Populorum progressio, lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.

Con la tradizionale preghiera alla Madonna, con cui abitualmente si chiudono le encicliche, finisce la Caritas in veritate e finisce anche questo riassunto commentato, che spero possa essere di qualche utilità a qualche visitatore, e in ogni caso è servito a me.

Nella stessa speranza aggiungo qui di seguito un sintetico riassunto finale di ogni capitolo e, per aiutare il lettore a orientarsi nel testo dell’enciclica se volesse trovare velocemente un argomento in particolare, un “indice” dei paragrafi.

 

 

 

Introduzione

 

Nei paragrafi introduttivi Benedetto XVI illustra il concetto della carità nella verità, che è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa,  e il rapporto irrinunciabile tra la carità e la verità. La carità della Chiesa non è un generico filantropismo umanitario perché nasce direttamente dalla Trinità, dall’amore tra le Persone di Dio, e si diffonde attraverso la Chiesa nella società contribuendo allo sviluppo del mondo. La dottrina sociale è proprio il modo corretto di diffondere quest’amore nella società e come tale ha sempre fatto parte della dottrina della Chiesa, anche se l’espressione “dottrina sociale” è relativamente recente.

 

1.     La carità nella verità come principale fonte di sviluppo.

2.     Veritas in caritate + caritas in veritate: concetti complementari.

3.     La carità senza verità è sentimentalismo.

4.     La carità senza verità è sostanzialmente irrilevante.

5.     La carità nasce dalla Trinità, è donata all’uomo e trasmessa al suo prossimo.

6.     Il criterio della giustizia. Carità > Giustizia.

7.     Il criterio del bene comune. La politica è un’altra forma di carità.

8.     L’importanza della Populorum Progressio.

9.     La dottrina sociale della Chiesa non ha soluzioni tecniche e non fa intromissioni politiche, ma serve la verità.

 

 

 

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

 

Nel primo capitolo Benedetto XVI tratta della Populorum progressio, l’importante enciclica sociale di Paolo VI sullo sviluppo umano, e ne attualizza l’insegnamento analizzando i problemi contemporanei che erano già sorti in quel momento storico. Il Papa lega inoltre questa enciclica agli altri insegnamenti di Paolo VI sullo sviluppo e approfondisce il concetto di sviluppo umano integrale, cioè uno sviluppo che riguarda l’intero ambito di ciò che è umano e l’intera totalità degli esseri umani.

 

10.  Leggere oggi la Populorum progressio: interpretazione alla luce della Tradizione.

11.  Legame della Populorum progressio con il Concilio Vaticano II. Carità non è mero assistenzialismo. Per uno sviluppo umano integrale serve una prospettiva eterna. Insufficienza delle istituzioni.

12.  Legame della Populorum progressio con la Tradizione preconciliare. Coerenza come fedeltà dinamica. Compito profetico dei Pontefici.

13.  Legame della Populorum progressio con il magistero complessivo di Paolo VI.

14.  La Octogesima adveniens. Utopie tecnocratiche VS utopie naturalistiche: entrambe separano il progresso dalla valutazione morale.

15.  L’Enciclica Humanae vitae e l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi.

16.  Lo sviluppo umano è vocazione.

17.  Lo sviluppo umano non è automatico perché non dipende solo dall’uomo. La libertà responsabile.

18.  Il vero sviluppo umano è integrale, cioè riguarda ogni ambito umano e ogni persona umana.

19.  Lo sviluppo umano presuppone la carità fraterna. La globalizzazione e la ragione da sole non bastano.

20.  Persistenza dell’urgenza delle riforme chieste dalla Populorum progressio.

 

 

 

Capitolo secondo: Lo sviluppo umano nel nostro tempo

 

Nel secondo capitolo Benedetto XVI analizza i problemi contemporanei dello sviluppo che all’epoca della Populorum progressio non si erano ancora manifestati. Il Papa tratta in particolare della globalizzazione e delle sue conseguenze politiche, economiche, culturali, religiose. Inoltre approfondisce ulteriormente il concetto di sviluppo umano, che non è un semplice incremento delle risorse.

 

21.  Nuovi problemi rispetto ai tempi di Paolo VI. Il profitto non è il fine ma un mezzo. Serve una nuova sintesi umanistica.

22.  Non c’è più una divisione netta tra paesi ricchi e poveri. Elenco di responsabilità economiche e culturali.

23.  Fine del comunismo e dei “blocchi contrapposti” à necessità di ripensare lo sviluppo.

24.  All’epoca di Paolo VI: poca globalizzazione, ambito economico = ambito politico, poteri pubblici forti. Oggi: globalizzazione avanzata, commercio e finanza internazionali, poteri pubblici deboli à sussidiarietà.

25.  Delocalizzazione produttiva, diminuzione delle reti di sicurezza sociale, mobilità lavorativa, disoccupazione.

26.  Interazione culturale: dialogo e perdità dell’identità, pericoli opposti  eclettismo VS appiattimento, separazione tra cultura e natura. L’uomo ridotto a cultura senza natura è facilmente manipolabile.

27.  La fame nel mondo e metodi per superarla. Lo sviluppo dei paesi poveri può aiutare i paesi ricchi a uscire dalla crisi.

28.  L’apertura alla vita. La mentalità antinatalista si trasmette dai paesi ricchi a quelli poveri e condiziona anche gli aiuti allo sviluppo. Questa mentalità a lungo andare è un ostacolo allo sviluppo integrale.

29.  La libertà religiosa ostacola lo sviluppo. Fanatismo religioso e ateismo pratico negano la libertà religiosa. Dio garantisce lo sviluppo autentico, mentre ridurre l’uomo a frutto del caso lo limita. Incremento sviluppo. Supersviluppo economico / sottosviluppo morale.

30.  Collaborazione interdisciplinare. Interazione tra intelligenza e carità.

31.  Dimensione interdisciplinare della dottrina sociale della Chiesa. Serve un allargamento della ragione.

32.  L’economia deve basarsi su una visione integrale dell’uomo: i costi umani sono costi economici. Breve periodo e lungo termine. Ripensare l’economia e il modello di sviluppo attuale.

33.  Interdipendenza planetaria, opportunità e rischio. Dilatare la ragione.

 

 

 

Capitolo terzo: Fraternità, sviluppo economico e società civile

 

Il terzo capitolo dell’enciclica è di argomento prevalentemente economico. Benedetto XVI tratta della visione cristiana del mercato e di come la giustizia può realizzarsi nella logica economica, del ruolo degli operatori economici e delle loro responsabilità.

 

34.   La gratuità e il dono. L’illusione di autosufficienza e la sottovalutazione del peccato originale sono pericolose. Legame tra la speranza cristiana e la carità nella verità.

35.  Il mercato non è solo giustizia commutativa, ma anche distributiva e sociale. I poveri come risorsa del mercato.

36.  Il mercato non è cattivo di per sé ma lo diventa se gestito male. Il mercato non è mai culturalmente neutro. Necessario spazio per la gratuità e il dono.

37.  La giustizia non può essere posticipata rispetto alla produzione della ricchezza ma deve essere subito rispettata. Presenza di soggetti economici a fine non lucrativo. La globalizzazione, le tre forme di giustizia e il dono.

38.  Richiamo alla Centesimus annus: sistema tripartito mercato + Stato + società civile. La gratuità risiede naturalmente nel terzo ambito, ma deve essere presente anche negli altri due.

39.  Richiamo alla Rerum novarum: il binomio mercato – Stato non è più sufficiente. Necessarie forme economiche solidali aperte alla gratuità.

40.  Gestione aziendale e responsabilità manageriale. Stake-holders e share-holders. Responsabilità dell’investimento finanziario e della delocalizzazione produttiva.

41.  Significato articolato dell’imprenditorialità. Significato articolato dell’autorità politica.

42.  La globalizzazione: serve un orientamento culturale attento alla persona e alla trascendenza. Rischio ed opportunità.

 

 

 

Capitolo quarto: Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

 

Il quarto capitolo dell’enciclica è di argomento “ecologico”, posto che con questo aggettivo Benedetto XVI si riferisce non solo alle problematiche relative al rispetto dell’ambiente, ma anche a quella che egli chiama ecologia umana e attiene al rispetto dell’uomo per sé stesso, ad esempio in ambito sessuale o economico. Queste due forme di ecologia sono strettamente collegate.

 

43.  I diritti, senza doveri e slegati da un fondamento oggettivo, si trasformano in arbitrio e ostacolano la solidarietà universale.

44.  Problema demografico e sessualità. L’apertura alla vita è una risorsa, la denatalità è un problema.

45.  L’etica nell’economia. Abuso della parola etica. La vera etica economica rispetta l’inviolabile dignità della persona umana e il valore delle norme morali naturali.

46.  Area intermedia tra imprese profit e non profit: esempi. Occorre una configurazione giuridica e fiscale particolare.

47.  Gli aiuti allo sviluppo nei Paesi poveri. Sussidiarietà. Per evitare disfunzioni della cooperazione internazionale serve trasparenza sui fondi e sul loro uso.

48.  L’ambiente. La natura non è frutto del caso o del determinismo. Due errori opposti: neopaganesimo / tecnica. La natura è una vocazione. Giustizia intergenerazionale.

49.  Risorse non rinnovabili e solidarietà. Riduzione del fabbisogno energetico, redistribuzione planetaria.

50.  Alleanza tra l’uomo e l’ambiente. Chi usa delle risorse comuni ambientali non può scaricarne il costo su altri.

51.  Ecologia ambientale ed ecologia umana. La natura non è una variabile indipendente. Antinomia della mentalità contemporanea, che chiede di rispettare l’ambiente mentre non rispetta l’essere umano.

52.  La verità e l’amore sono prodotti da Dio e accolti dall’uomo. Essi indicano la strada verso il vero sviluppo.

 

 

 

Capitolo quinto: La collaborazione della famiglia umana

 

Nel poderoso quinto capitolo dell’enciclica sono trattati vari argomenti attinenti alle relazioni tra gli esseri umani e ai modi in cui essi possono aiutarsi gli uni con gli altri. In particolar modo il Papa spiega il rapporto tra la persona e la comunità, il rapporto tra l’unica natura e le diverse culture, alcune problematiche educative ed economiche. Benedetto XVI auspica inoltre una riforma dell’ONU che renda davvero efficaci le norme internazionali a tutela dei più deboli.

 

53.  Povertà e solitudine. Vicinanza e comunione. La relazionalità come componente dell’essere umano. La persona sta alla comunità come un tutto sta a un altro tutto.

54.  Trinità e relazionalità umana.

55.  Anche le culture e religioni non cristiane contribuiscono allo sviluppo, ma bisogna distinguere. Esempi di atteggiamenti negativi.

56.  Laicismo e fondamentalismo minacciano la partecipazione di Dio alla sfera pubblica, e ostacolano la collaborazione per lo sviluppo tra ragione e fede religiosa.

57.  Collaborazione tra credenti e non credenti. Benefici del principio di sussidiarietà.

58.  Sussidiarietà e solidarietà. Gli aiuti internazionali e il commercio dei prodotti dei Paesi in via di sviluppo.

59.  Cooperazione allo sviluppo e dialogo. Superiorità tecnologica ≠ superiorità culturale. Pluralismo di culture e legge morale naturale.

60.  L’aiuto allo sviluppo dei PVS è creazione di valore. Eliminare gli sprechi interni. Sussidiarietà fiscale.

61.  Educazione della persona. Turismo internazione: momento educativo (conoscenza culturale) o diseducativo (edonismo, turismo sessuale).

62.  Migrazioni e problematiche connesse. Necessaria collaborazione tra i Paesi di partenza e arrivo. Utilità economica e diritti umani dei lavoratori stranieri.

63.  Nesso tra povertà e disoccupazione. Significati di decenza del lavoro.

64.  Il ruolo dei sindacati. Problemi contemporanei. Distinzione tra sindacati e politica.

65.  Responsabilità del risparmiatore. Microfinanza, microcredito, difesa dall’usura.

66.  Responsabilità del consumatore.

67.  Riforma dell’ONU. Auspicio di una Autorità politica mondiale e di un grado superiore di ordinamento internazionale.

 

 

 

Capitolo sesto: Lo sviluppo dei popoli e la tecnica

 

Il sesto capitolo dell’enciclica è incentrato sul tema della tecnica e sui rischi della mentalità tecnicistica, che cioè crede di poter risolvere tutti i problemi dell’uomo attraverso la tecnica fino a poter ricreare l’uomo stesso.

 

68.  Libertà e dono, “io” costruito e “sé” ricevuto. Degenerazioni dello sviluppo dei popoli.

69.  Lato positivo della tecnica: realizza la vocazione allo sviluppo e il mandato biblico del lavoro.

70.  Ambiguità della tecnica, che può diventare la nuova ideologia. “Come fare” e “perché fare”. Libertà e responsabilità morale.

71.  Tecnicizzazione dello sviluppo.

72.  Tecnicizzazione della pace.

73.  Tecnicizzazione della comunicazione: apparente neutralità e sostanziale subordinazione a poteri economici e ideologici. Necessario un fondamento antropologico per i mass media.

74.  Bioetica: razionalità aperta alla trascendenza VS razionalità chiusa nell’immanenza. Necessario binomio di ragione e fede.

75.  La questione sociale è diventata questione antropologica. La lotta contro povertà e contro la cultura della morte è un tutt’uno.

76.  Riduzionismo psicologico e neurologico. Unità di anima e corpo. Sofferenza spirituale nelle società opulente.

77.  Lo sviluppo umano integrale ha bisogno di una dimensione spirituale.

 

 

 

Conclusione

 

Benedetto XVI conclude la sua enciclica sociale ribadendo l’importanza per lo sviluppo umano della presenza di Dio e invocando l’aiuto della Madonna.

 

78.  Lo sviluppo umano ha bisogno di Dio.

79.  Lo sviluppo umano ha bisogno di cristiani che pregano. Auspicio finale della riunione della famiglia umana nella preghiera del Padre nostro. Citazione di San Paolo. Preghiera alla Vergine Maria.


Caritas in veritate 7

(7) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

Capitolo quarto: sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

Capitolo quinto: la collaborazione della famiglia umana

 

Capitolo sesto: Lo sviluppo dei popoli e la tecnica

 

 

Libertà e dono, “io” costruito e “sé” ricevuto. Degenerazioni dello sviluppo dei popoli.

68. La persona umana è dinamica, costantemente spinta verso lo sviluppo. Questo sviluppo non è meccanicamente predeterminato, perché noi siamo liberi, ma non è neanche completamente affidato alla nostra volontà, perché la nostra libertà non è assoluta ma è determinata dal nostro essere originario e dai nostri limiti. Noi non ci siamo autogenerati, ma siamo un dono ricevuto da noi stessi: ognuno costruisce il proprio “io” sulla base di un “sé” che ha ricevuto.

Se la persona s’illude di essere l’unica produttrice di sé stessa, il suo sviluppo ne soffre. Analogamente lo sviluppo dei popoli degenera se l’umanità crede di potersi ricreare grazie alla tecnologia, così come lo sviluppo economico si deteriora se fa affidamento su artifizi finanziari per inseguire una crescita innaturale. A fronte di questi pericoli bisogna sostenere una libertà non arbitraria, che riconosca il bene e sia orientata verso di esso.

Con questo che è l’ultimo capitolo dell’Enciclica, Benedetto XVI fa un discorso organico su un argomento emerso più volte nella Caritas in veritate: l’ambivalenza della tecnica, la pericolosa illusione di onnipotenza di chi si affida ad essa per ricreare completamente il mondo e l’umanità.

 

Una riflessione particolare. Io non ho alcuna competenza personale in tema di body building (come chiunque può evincere dell’esiguità del mio tono muscolare!), ma ne ho conosciuto alcuni appassionati che mi hanno descritto in toni addirittura entusiastici lo sforzo che fa il culturista per potenziare il proprio fisico, nonché il pericolo che corre se insegue il miraggio di uno sviluppo abnorme senza tenere in considerazione il limite oggettivo della propria struttura fisica per come è e non per come la desidera. Pare che negli ospedali sia pieno così di aspiranti forzuti che hanno esagerato, non hanno rispettato il programma che gli aveva dato l’allenatore e hanno pensato di bruciare le tappe illudendosi di poter diventare He-Man con poco tempo e non troppa fatica, finché una lesione o peggio distrugge il miraggio e li riporta bruscamente alla realtà. Per non parlare di tutto il marcio che gira intorno al mondo del doping, i cui catastrofici effetti spesso si rivelano davvero a distanza di anni.

Tenendo presente tutto questo, trovo particolarmente suggestiva e illuminante questa distinzione che fa il Papa tra “io” e “”, tra il nostro essere che costruiamo dinamicamente giorno per giorno e l’originario stato di partenza che abbiamo ricevuto e che non possiamo rinnegare. Mi sembra che Benedetto XVI stia proprio mettendo in guardia da una sorta di doping spirituale, tecnologico, economico, umano: l’ebbrezza di una libertà assoluta svincolata da ogni limite, l’illusione di potersi ricreare completamente, uno sviluppo impazzito e degenerato che si maschera da progresso ma che in realtà porta verso la distruzione.

 

 

Lato positivo della tecnica: realizza la vocazione allo sviluppo e il mandato biblico del lavoro.

69. Il progresso tecnologico è legato alla libertà dell’uomo. La tecnica diminuisce le difficoltà materiali per l’uomo, e dunque può anche permettergli di dedicarsi con maggiore dedizione al suo lato spirituale. Come nel lavoro, anche nella tecnica l’uomo può realizzare la propria vocazione allo sviluppo e la propria umanità. Perciò la tecnica va vista alla luce del mandato biblico “custodite e coltivate la terra” dato da Dio all’uomo, nel quale si consacra il lavoro umano e il rispetto dell’ambiente.

 

 

Ambiguità della tecnica, che può diventare la nuova ideologia. “Come fare” e “perché fare”. Libertà e responsabilità morale.

70. Ma la tecnica ha anche un volto ambiguo. Quando all’uomo interessa solo il “come fare” e non anche il “perché fare”, quando si illude che la tecnologia sia autosufficiente e possa dare da sola la felicità grazie ad una libertà illimitata, allora l’uomo è in pericolo. Dopo la caduta delle ideologie politiche, la tecnica può diventare una nuova ideologia: essa rinchiude l’essere umano in un mondo sostanzialmente privo di verità, perché fa coincidere il vero con il fattibile e l’utile.

Questo nega il vero sviluppo, il quale non risiede innanzitutto nel “fare” ma nell’intelligenza che governa il fare e gli dà senso. La tecnica amplia le possibilità operative e la libertà dell’uomo, ma non è svincolata dalla sua responsabilità morale.

 

 

Tecnicizzazione dello sviluppo.

 71. Un esempio di distorsione della tecnica è dato dal fatto che sempre più spesso lo sviluppo dei popoli è visto in modo tecnicistico: è cioè considerato come un problema che si può risolvere con l’ingegneria finanziaria e gli investimenti e le riforme e così via. Insomma ci si limita al fatto tecnico, come se il sottosviluppo fosse una macchina che si può aggiustare con uno sforzo impersonale e senza bisogno di buona volontà. Eppure è sotto gli occhi di tutti questo non funziona, perché per lo sviluppo non bastano le misure politico-economiche ma c’è innanzitutto bisogno di uomini giusti e sensibili all’appello del bene comune.

 

 

Tecnicizzazione della pace.

72. Analogamente, anche la pace tra i popoli rischia di essere vista solo come un problema tecnico, che necessita soltanto di rapporti diplomatici ed economici e progetti condivisi e così via. Tutte queste cose sono davvero necessarie, ma non sono sufficienti, perché per essere efficaci devono appoggiarsi su valori concreti e radicati nella verità.

 

 

Tecnicizzazione della comunicazione: apparente neutralità e sostanziale subordinazione a poteri economici e ideologici. Necessario un fondamento antropologico per i mass media.

73. Bisogna poi considerare la questione dei mass media, che grazie alle nuove tecnologie hanno raggiunto una pervasività altissima. Chi ne sostiene l’intrinseca neutralità e l’autonomia rispetto alla morale, considerando solo l’aspetto tecnico della comunicazione, in realtà ne favorisce la subordinazione a certi poteri economici e certi progetti ideologici di imposizione culturale. In realtà i mass media, per la loro estrema importanza nell’influenzare la gente e determinare il modo di percepire la stessa realtà, devono essere oggetto di attenta riflessione e devono trovare il proprio senso in un ben preciso fondamento antropologico. I mezzi di comunicazione di massa permettono l’interconnessione globale e la circolazione delle idee, ma ciò non favorisce di per sé la libertà e la democrazia e  lo sviluppo: a questo scopo è necessario che i mass media siano orientati al servizio delle persone, della carità e della verità.

Questo paragrafo riprende un concetto già espresso ai nn. 19 e 53, ovvero che la “vicinanza” propria della globalizzazione e dei mezzi di comunicazione di massa non si traduce automaticamente in “fratellanza”. Allo stesso modo la diffusione delle idee non garantisce automaticamente la conoscenza e la libertà, anzi è fin troppo facile che essa sia usata nel senso opposto. I regimi totalitari del ‘900 hanno ben saputo utilizzare per i propri fini la radio e il cinematografo, così come le ideologie antiumani di oggi fondano la propria forza anche sulla disinformazione tramite la televisione ed internet.

Si tratta insomma di un discorso estremamente importante ed attuale, come insegna anche la recente vicenda del caso Boffo. Molto facilmente la comunicazione di massa può essere usata per trasmettere la falsità invece della verità. Comunicare non è solo un fatto tecnico: i mass media non sono mai neutrali rispetto alla visione del mondo che trasmettono, anzi spesso si rivendica una falsa neutralità ed autonomia soltanto per meglio perseguire un progetto di disinformazione e manipolazione.

 

Questo porta anche al difficile e spinoso problema del controllo sui mass media, della sua opportunità e ragion d’essere, delle sue forme e dei suoi limiti. Esprimo qui una riflessione personale: pensare di poter rimediare agli abusi e alle storture dei mass media con un controllo pervasivo e preventivo, con la censura, è sbagliato per almeno tre motivi.

1) Anzitutto per una questione morale, e cioè perché cercando di impedire l’uso errato della libertà si va a finire quasi sicuramente per coartare la libertà stessa. Il Concilio Vaticano II ha espresso molto bene questo concetto, ma esso è respinto da una certa visione del cattolicesimo che si identifica con un ultra-tradizionalismo molto critico verso ogni forma di liberalismo, e che anzi a mio parere non riesce neppure a distinguere tra diversi tipi di liberalismo, e pertanto ritiene che un liberalismo cattolico non possa essere altro che una versione camuffata del liberalismo anticattolico. Ma in realtà questo “liberalismo cattolico”, o in qualunque modo lo si voglia chiamare, ha ben poco da spartire con la tipica mentalità liberal intrisa di relativismo. Quest’ultima basa la libertà di parola sull’equivalenza tra verità e falsità, sull’astratta tolleranza verso ogni idea qualunque purchessia (una tolleranza spesso ipocrita e selettiva, è da aggiungere); invece il Concilio Vaticano II lega la libertà di parola alla persona, non all’idea. Non sono le idee sbagliate ad aver diritto di essere diffuse, ma sono le persone che hanno la libertà di diffondere idee sbagliate perché hanno un libero arbitrio che non si può sopprimere senza provocare un danno maggiore. Naturalmente questo uso distorto della libertà è sbagliato, e da esso ci si deve difendere, ma senza che questa difesa sfoci nella negazione della libertà stessa.

(per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, ho trovato questo concetto spiegato egregiamente nel libro “Confini”, un dialogo tra il cardinale Camillo Ruini e lo storico Ernesto Galli Della Loggia, di cui consiglio vivamente la lettura)

2) In secondo luogo è irrealizzabile, perché la storia insegna che bloccare la circolazione delle idee è fattibile soltanto nel breve periodo, mentre nel medio e lungo termine è impossibile. E se questo è stato vero per i periodi storici in cui la conservazione e divulgazione del sapere si affidava soltanto alla trasmissione orale e ai manoscritti, è esponenzialmente più vero per il presente momento storico pervaso dalla comunicazione globale immediata. I pastori hanno il dovere di proteggere il gregge dai lupi, ma non si può riuscire a tenere il gregge in un recinto che sia una campana di vetro.

3) In terzo luogo la censura è controproducente, per vari motivi: per il perverso fenomeno del “frutto proibito” per cui ciò che è vietato diventa più attraente; perché chi viene censurato può spacciarsi per martire, e atteggiarsi a tale anche quando l’idea censurata era completamente sbagliata, ed anzi un’idea completamente infondata può ammantarsi di verità ed essere percepita come vera proprio in quanto è stata inizialmente censurata; e perché affidare a un’istituzione ecclesiastica un potere così grande, decidere a priori cosa deve o non deve essere obbligatoriamente conosciuto dalla totalità delle persone, rischia di corromperla, posto che la grazia di stato non implica che gli ecclesiastici siano automaticamente immuni dai difetti e dalle tentazioni del potere.

 

 

Bioetica: razionalità aperta alla trascendenza VS razionalità chiusa nell’immanenza. Necessario binomio di ragione e fede.

74. Il conflitto tra le due prospettive sulla tecnica, quella assolutista e quella legata alla responsabilità morale dell’uomo, si vede soprattutto nel campo della bioetica. Qui emerge in tutta la sua drammaticità l’illusione dell’uomo di produrre sé stesso dimenticando di dipendere da Dio. Bisogna allora scegliere tra una razionalità aperta alla trascendenza e una razionalità chiusa nell’immanenza; quest’ultima forma di ragione però in ultima analisi dimostra di essere irrazionale poiché rifiuta ogni senso intrinseco dell’esistenza e ogni valore, e poiché non riesce a spiegare come possa essere sorto l’essere dal nulla e come sia nata l’intelligenza dal caso. Qui si vede come la fede e la ragione hanno ciascuna bisogno dell’altra, perché la ragione che è senza fede e centrata solo sul puro “come fare” tecnico alla fine si perde nell’illusione di onnipotenza, mentre una fede senza ragione estrania la gente dalla vita concreta.

 

 

La questione sociale è diventata questione antropologica. La lotta contro povertà e contro la cultura della morte è un tutt’uno.

75. Oggigiorno la questione sociale è diventata una questione antropologica: la lotta alla povertà non può essere separata dalla difesa della vita. La manipolazione dell’uomo con le biotecnologie, la diffusione dell’aborto, la pianificazione eugenetica delle nascite, l’eutanasia per le vite considerate indegne di essere vissute, tutte queste manifestazioni della “cultura della morte” sono negazioni della dignità umana che incidono negativamente sullo sviluppo. Mentre il mondo povero soffre nel degrado e nella miseria, spesso il mondo ricco è indifferente e privo di compassione, e con stupefacente selettività si scandalizza di cose marginali e tollera ingiustizie inaudite.

 

 

Riduzionismo psicologico e neurologico. Unità di anima e corpo. Sofferenza spirituale nelle società opulente.

76. L’assolutismo della tecnica tende a ricondurre tutti i problemi non materiali a una questione psicologica, fino al riduzionismo neurologico. Così viene svilita la complessità dell’animo umano, si riduce l’io alla psiche e si confonde la salute dell’anima con il benessere emotivo. Ma lo sviluppo integrale non può ignorare la crescita spirituale oltre che materiale, perché la persona umana è unità di anima e corpo. Nonostante la ricchezza le società opulente sono colme di alienazioni sociali e nevrosi, di suicidi e schiavitù della droga, anche perché gli uomini sono allontanati da Dio. 

La persona umana è una unità di anima e corpo, un “sinolo” se vogliamo usare la terminologia aristotelica: non una unità monolitica e indifferenziata, e neppure un dualismo di elementi separabili e di per sé unitari, ma piuttosto un “uno-da-due” ovvero un insieme unico che nasce dalla congiunzione di due sostanze intrinsecamente legate che si appartengono l’un l’altra. In un certo senso il cristianesimo non è una religione spirituale, ma è profondamente materialista: il corpo non è la prigione dell’anima, anzi  è importante proprio quanto l’anima. Vale anche qui quel principio di et-et di cui parlavo commentando il paragrafo 59: come in passato si tendeva a svilire il corpo e considerare importante solo ciò che è spirituale e disincarnato, così oggi si eccede nel verso opposto e si disprezza tutto ciò che è spirituale inseguendo la brama di piacere materiale e animalesco. Il cristiano deve evitare entrambi gli errori.

 

 

Lo sviluppo umano integrale ha bisogno di una dimensione spirituale.

77. L’assolutismo della tecnica è incapace di capire tutto ciò che non si spiega con la semplice materia. Eppure tutti noi sperimentiamo aspetti immateriali e spirituali nella nostra vita, perché il conoscere implica sempre andare oltre il dato empirico e sperimentare un plusvalore che è un dono ricevuto. Lo sviluppo dell’uomo e dei popoli necessita di una dimensione spirituale che le dia un “oltre” che la sola tecnica, la sola visione materialistica del mondo, non può dare. Solo così è possibile perseguire uno sviluppo umano integrale, orientato dal criterio della carità nella verità.

Con questo paragrafo, che richiama alla fine il titolo dell’Enciclica, si conclude l’ultimo capitolo della Caritas in veritate. Ora restano soltanto i due paragrafi finali della conclusione.

(e se sapevo che era ‘sta faticaccia, forse non m’imbarcavo nell’impresa….)

 

 


Caritas in veritate 6

(6) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

Capitolo quarto: sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

 

Capitolo quinto: La collaborazione della famiglia umana

 

 

Povertà e solitudine. Vicinanza e comunione. La relazionalità come componente dell’essere umano. La persona sta alla comunità come un tutto sta a un altro tutto.

53. Spesso la povertà nasce dall’isolamento, dal rifiuto dell’amore di Dio, dall’alienazione di chi crede di essere un ente insignificante in un universo casuale. La solitudine è essa stessa una profonda povertà. Ma oggigiorno, ora che l’umanità è estremamente interconnessa, la vicinanza deve diventare vera comunione. I popoli devono riconoscere di essere una sola famiglia e devono integrarsi nel segno della solidarietà.

Questo auspicio ci porta ad approfondire il concetto di relazione. La creatura umana si realizza nelle relazioni interpersonali, nelle quali trova anche la propria identità personale. L’uomo, sia come singolo che come popolo, realizza sé stesso ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. In questo modo la rivelazione cristiana offre ispirazione alla ragione: mentre nei totalitarismi la comunità assorbe la persona annientandone l’autonomia, nella visione cristiana ciò non può accadere perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto. La persona è valorizzata, non assorbita. L’unità della famiglia umana non annulla le diverse popolazioni e le diverse culture, ma li unisce nelle loro legittime diversità.

Con questo paragrafo Benedetto XVI espone sinteticamente la visione cattolica della società, già accennata al paragrafo 7 dell’introduzione. Non vi è luogo per l’individualismo, perché ogni persona ha in sé stessa la tendenza a relazionarsi con gli altri, anzi senza la relazione con gli altri neanche potrebbe realizzarsi: nessuno è veramente self made man. D’altra parte non c’è posto neppure per il totalitarismo perché la persona ha un valore infinito, e perciò non può essere considerata semplicemente una frazione della comunità: la persona sta alla comunità non come la parte sta al tutto, ma (e qui il Papa cita in nota San Tommaso d’Aquino * ) come un tutto sta a un altro tutto.

 

Questa suggestiva immagine del “tutto al tutto” mi fa venire in mente, per un’associazione d’idee forse peregrina ma spero utile alla comprensione, la questione degli insiemi infiniti di Cantor. Ne accenno qui in modo non rigoroso, più intuitivo che analitico (ma sostanzialmente corretto secondo la mia matematica di fiducia, Crosta – grazie!), soltanto al fine di aiutare il lettore a visualizzare mentalmente l’idea di “tutto al tutto”.

Considerate l’insieme N dei numeri naturali {1,2,3,4,5…} e vi avvederete facilmente che è infinito: non esiste un numero così grande da non poter aggiungere ancora +1 e proseguire la serie. Ma ora considerate l’insieme dei multiplidi un qualunque numero, per esempio l’insieme P dei numeri pari {2,4,6,8…}. E’ chiaro che P è un sottoinsieme di N, ma è minore di N? Sembrerebbe ovvio rispondere sì, perché tutti gli elementi di P sono contenuti anche in N ma non è vero il contrario (i numeri dispari sono in N ma non sono in P). Saremmo addirittura tentati di dire che P è proprio la metà di N. Ecco però che ci accorgiamo che P è anch’esso infinito, perché non esiste un numero pari a cui non si possa ancora aggiungere ancora +2. Addirittura tra P e N c’è corrispondenza biunivoca, perché ad ogni elemento di N corrisponde precisamente un elemento di P e viceversa (ogni numero e il suo doppio). Insomma, l’insieme P è contenuto in N eppure non è minore di N (in termini tecnici si dice che P è “equipotente” a N e che i due insiemi hanno la stessa “cardinalità”). Quando si ha a che fare con numeri che coinvolgono l’infinito, la matematica “normale” non funziona più.

 

Ecco, io penso che possiamo usare quest’esempio dell’infinito nell’infinito per capire meglio quello che dicono San Tommaso e Benedetto XVI. Ogni persona ha sempre un valore infinito e perciò non diventa mai una semplice parte della comunità, un’appendice marginale e fungibile. Io sono nella comunità, ma al tempo stesso ho – passatemi la metafora matematica – la medesima “cardinalità” rispetto ad essa, in termini di valore della persona. Corollario principale di questa concezione è che il mio benessere non può essere “matematicamente” sacrificato al benessere della maggioranza: se io facessi parte di una comunità di 10 persone, e le altre 9 decidessero arbitrariamente che la mia morte le renderebbe tutte molto felici, loro non potrebbero comunque decidere di sopprimermi (almeno, non in una comunità che ha conservato il concetto cristiano di persona). Un voto 9 a 1 sulla mia uccisione non sarebbe valido. Non potrebbero argomentare che il piacere che io provo nel vivere vale proprio 1/9 del piacere che loro proverebbero alla mia morte. Non potrebbero farlo perché non si può applicare questa matematica al valore infinito della persona, perché rispetto alla comunità io non sono una parte ma un tutto infinito rapportato a un altro tutto.

Se casomai l’esempio della vita giudicata un n-esimo rispetto a una comunità di n membri vi sembrasse spinto troppo oltre, allora conviene notare che è proprio a questo che arriva l’utilitarismo contemporaneo. Proprio questo è ciò che teorizza un riverito filosofo come Peter Singer, il quale tra gli applausi sostiene tra l’altro che non c’è una differenza intrinseca di valore tra vita umana e animale, che le vite umane non sono tutte uguali ma hanno valore differente a seconda della “qualità della vita”, che la bioetica deve essere basata sull’utilitarismo, che i neonati e gli invalidi gravi non sono persone in quanto privi di consapevolezza e autonomia e perciò se indesiderati possono essere soppressi nonché vivisezionati per la ricerca scientifica… Capito? Bentornato totalitarismo.

 

* Per una traduzione delle citazioni dell’Aquinate (“ratio partis contrariatur rationi personae” e “Homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia sua”) riporto quanto gentilmente spiegatomi dal mio tomista di fiducia, piccolo Zaccheo (grazie!):

La prima citazione è tratta dal III libro del Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, distinctio V, quaestio 3, articulus 2. E’ un celebre assunto di Tommaso, secondo il quale, letteralmente, “il concetto di parte è contrario al concetto di persona”, vale a dire che i due concetti, quello di parte (di una totalità) e quello di persona, sono in opposizione fra di loro: la singola persona umana non può essere considerata come parte di un tutto, implicando con ciò che essa non avrebbe esistenza al di fuori di questo tutto, o che vivrebbe in funzione di questo tutto. La persona non è una “parte”, è irriducibile a parte di un tutto: perché essa stessa è un “tutto”.

In termini più chiari, la stessa cosa viene espressa nella seconda citazione, tratta dalla Summa Theologica, Prima (pars) secundae (partis), quaestio 21, articulus 4, in risposta al terzo argomento. La frase può essere tradotta così: “L’uomo non è fatto per (letteralm.: non è ordinato a, non ha come fine ultimo) l’associazione politica interamente e in tutto ciò che egli ha”; al contrario, prosegue Tommaso, “tutto ciò che l’uomo è, può ed ha, deve essere ordinato (o diretto) a Dio” (sed totum quod homo est et quod potest et habet ordinandum est ad Deum). Bellissimo concetto, che allontana Tommaso da qualunque visione immanentista e totalitaria di Stato. Potremmo dire in chiave moderna: non la persona è il fine dello Stato, ma il fine dello Stato è la persona.

 

Un’ultima riflessione sul paragrafo, prima di tornare al riassunto dell’Enciclica. Trovo particolarmente utile e interessante la distinzione che fa Benedetto XVI tra vicinanza e comunione, specie nell’epoca di Internet. Tutti i mezzi di comunicazione istantanea che noi possiamo utilizzare – telefonini, blog, chat, facebook, qualsiasi cosa – di per sé non ci rendono affatto più amici. Siamo virtualmente vicini, ma questo non vuol dire che ci vogliamo bene. Potrei avere tanti “amici” su facebook e tanti commenti sul blog e ciononostante sentirmi disperatamente solo e infelice fino a desiderare la morte. Quante persone “di successo”, quanti professionisti strapieni di relazioni pubbliche, quanti con l’agendina affollata improvvisamente si ammazzano lasciando “amici” e “conoscenti” nello sbalordimento totale?

Internet è una grandiosa opportunità di stringere amicizie, ma non è niente di più che questo, un’opportunità, destinata ad essere vana se non sappiamo trovare dentro noi stessi la capacità di relazionarci veramente con gli altri e uscire dal nostro isolamento e dalla nostra povertà affettiva.

Però, d’altra parte, io credo che valga anche la considerazione inversa. Se c’è quel contatto umano, se c’è quella comunione chiamata amicizia a cui ogni ognuno anela e di cui nessuno può fare a meno senza lesionarsi, allora la distanza chilometrica non conta. A questo scopo la vicinanza virtuale non è meno reale della vicinanza fisica. Ci sono varie persone che ho conosciuto su internet, delle quali non ho mai neppure visto il volto o sentito la voce, a cui posso dire: voi siete veramente miei amici.

 

 

Trinità e relazionalità umana.

54. L’unione di tutte le diverse persone e popolazioni in una sola famiglia umana è un argomento che può essere meglio compreso alla luce del mistero trinitario che ci è stato rivelato. La Trinità è assoluta unità perché le tre divine Persone sono pura relazionalità. Similarmente, la relazione tra gli uomini non significa dispersione ma compenetrazione. Anche noi esseri umani possiamo, conservando perfettamente la nostra identità, diventare una cosa sola con altri esseri umani, come nell’amore sacramentale che unisce i coniugi, come nella concordanza con cui pensano liberamente all’unisono le menti che hanno trovato la verità.

 

 

Anche le culture e religioni non cristiane contribuiscono allo sviluppo, ma bisogna distinguere. Esempi di atteggiamenti negativi.

55. La rivelazione cristiana insegna che la relazionalità è un elemento costitutivo dell’essere umano. D’altra parte vi sono anche altre culture e religioni che insegnano la fratellanza, e pertanto sono molto importanti per uno sviluppo umano integrale. Tuttavia vi sono altresì anche atteggiamenti culturali e religiosi in cui il principio dell’amore e della verità fa fatica ad affermarsi, e perciò ostacolano lo sviluppo umano: ad esempio quelle culture religiose che perseguono unicamente la gratificazione psicologica dell’individuo, la dispersione dei percorsi religiosi “fai-da-te” e del sincretismo, la permanenza di caste sociali che ingessano la società, le credenze magiche ed occultistiche. A fronte di tutto questo, è necessario riconoscere che la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso. Le religioni non sono tutte uguali ed è necessario discernere circa il diverso contributo che possono dare allo sviluppo.

Ecco un paragrafo molto politicamente scorretto, che afferma una verità “scandalosa” per gli uni e per gli altri: anche le culture e le religioni non cristiane sono importanti per lo sviluppo, ma bisogna distinguerne i vari aspetti. Benedetto XVI fa un riferimento in nota alla famosa (per tanti, anche nominalmente cattolici, “famigerata”) Dominus Jesus, cioè la Dichiarazione circa l’unicità e la l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa emanata da lui stesso quand’era alla Congregazione per la Dottrina della Fede. In quel testo il cardinale Ratzinger fondamentalmente ricordava che i cristiani cattolici sono tali se e solo se, ma guarda un po’, credono in Cristo e nella Chiesa cattolica e non credono in altre cose incompatibili: e molti reagirono male a questa pretesa così arrogante, così inammissibile, così contraria alla modernità…

 

 

Laicismo e fondamentalismo minacciano la partecipazione di Dio alla sfera pubblica, e ostacolano la collaborazione per lo sviluppo tra ragione e fede religiosa.

56. Il cristianesimo e le altre religioni possono essere d’aiuto allo sviluppo solo se Dio trova posto nella sfera pubblica. Ciò oggi è minacciato e impedito sia dal laicismo, che esclude ogni religione dall’ambito pubblico, e sia dal fondamentalismo, che impone a forza una religione sopprimendo le altre. In questo modo si indeboliscono i diritti umani, o perché privati del loro fondamento trascendente o perché è tolta la libertà personale; e si perde la possibilità di una collaborazione proficua tra la ragione e la fede religiosa, le quali hanno ciascuna bisogno dell’altra.

 

 

Collaborazione tra credenti e non credenti. Benefici del principio di sussidiarietà.

57. Il dialogo tra fede e ragione incentiva altresì la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti, tra cui ci sono importanti punti di contatto già affermati nella Gaudium et spes. I credenti sanno che il mondo non viene dal caso o dalla necessità, ma da un progetto di Dio; essi devono sforzarsi di fare effettivamente corrispondere il mondo a questo progetto, e a questo scopo devono unire i propri sforzi con tutte le persone di buone volontà, anche di altre religioni o non credenti.

A questo scopo, essi devono ispirarsi al principio di sussidiarietà. Secondo tale principio, si deve offrire aiuto alle persone ed ai soggetti sociali quando essi non riescono a raggiungere da soli i propri obiettivi. Con questo criterio si garantisce l’autonomia dei corpi intermedi, e si favoriscono tanto la libertà personale quanto l’assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità umana ed ostacola l’assistenzialismo paternalista, perché ha a cuore la reciprocità dell’aiuto e vede nella persona un soggetto capace non solo di chiedere, ma anche e innanzitutto di dare. Ed essa è imprescindibile se si vuole governare la globalizzazione, orientarla verso un vero sviluppo umano, senza sfociare in un pericoloso potere universale monocratico.

 

 

Sussidiarietà e solidarietà. Gli aiuti internazionali e il commercio dei prodotti dei Paesi in via di sviluppo.

58. La sussidiarietà deve essere strettamente connessa alla solidarietà: la prima senza la seconda scade nel particolarismo sociale, ma la solidarietà senza sussidiarietà scade nell’assistenzialismo umiliante. Questa regola vale anche per gli aiuti internazionali allo sviluppo, che nonostante le buone intenzioni possono mantenere situazioni di dipendenza e perfino di sfruttamento. Gli aiuti devono essere erogati sempre tenendo presente la sussidiarietà e cioè coinvolgendo i diretti interessati, facendoli partecipare dal basso, valorizzando le risorse locali.

I Paesi in via di sviluppo hanno altresì bisogno di inserire i loro prodotti nei mercati internazionali. Se gli aiuti creano soltanto mercati marginali per i prodotti locali dei PVS, non servono a molto. Bisogna aumentare la domanda di tali prodotti, e per fare ciò bisogna anzitutto aiutare i PVS a migliorarne la qualità. Molti temono la concorrenza delle importazioni di prodotti dai PVS, specie dei prodotti agricoli, ma per tali Paesi poter commercializzare i propri prodotti significa garantirsi la sopravvivenza nel lungo periodo a prescindere dagli aiuti internazionali. Un commercio internazionale bilanciato può portare benefici a tutti.

Con questo paragrafo il Papa, dopo aver spiegato il concetto generale di sussidiarietà, ne dà un esempio concreto e tocca un argomento assai controverso, ovvero quello della concorrenza internazionale tra produttori dei Paesi sviluppati e produttori dei PVS (Paesi in via di sviluppo), specie per quanto riguarda i beni agricoli. E’ comprensibile che i primi temano la concorrenza dei secondi, così come è comprensibile che ad un commerciante possa sembrare assurda l’idea di sostenere i propri potenziali concorrenti (ed anzi preferisca dar loro una magra elemosina “una tantum” che abbia proprio come fine, dichiarato o nascosto, quello di mantenerli eternamente nella subalternità economica).

Eppure ciò che dice Benedetto XVI è che aiutare i produttori dei PVS non è soltanto “buono” dal punto di vista morale, ma in prospettiva anche “utile” dal punto di vista economico: rendere i PVS capaci di sostenersi da soli ridurrebbe la necessità degli aiuti internazionali, fino a poterne definitivamente fare a meno. Ed è inoltre il caso di ricordare quanto si diceva al paragrafo 27, perché sostenere la redditività dei PVS significa sostenerne anche il potere di acquisto, il che in prospettiva va a vantaggio anche e proprio dei produttori dei Paesi avanzati, specialmente nei periodi di recessione in cui si contraggono le spese dei consumatori dei Paesi sviluppati.

Insomma, ancora una volta l’operatore economico è posto di fronte al dilemma: badare in modo egoistico e miope al proprio “particulare” immediato, oppure agire in modo solidale e mirato in vista del bene comune e di un futuro ritorno economico.

 

 

Cooperazione allo sviluppo e dialogo. Superiorità tecnologica superiorità culturale. Pluralismo di culture e legge morale naturale.

59. La cooperazione allo sviluppo non riguarda solo l’aspetto economico: essa può diventare una grande occasione di incontro culturale. I soggetti della cooperazione non possono svolgere efficacemente il proprio compito se ignorano l’identità culturale dei paesi poveri, né questi ultimi possono conseguire un autentico sviluppo se accettano acriticamente ogni proposta culturale delle società cosiddette progredite. Superiorità tecnologica non significa superiorità culturale. Le società avanzate devono riscoprire alcune virtù ora spesso dimenticate che sono alla base del proprio successo, e le società in via di sviluppo devono rimanere fedeli a quanto c’è di buono nelle proprie tradizioni.

Tutte le culture del mondo hanno convergenze etiche e tratti in comune che esprimono la radice di una medesima natura umana e una stessa legge morale naturale. Questa base comune permette il dialogo e consente un pluralismo positivo. E d’altra parte nessuna cultura può dirsi perfetta, ognuna ha delle ombre da cui deve purificarsi. La fede cristiana non si identifica con una cultura particolare, ma si incarna nelle culture trascendendole, e con ciò può aiutarle a crescere nella solidarietà universale per lo sviluppo umano.

Anche questo paragrafo tratta un argomento complesso ed importante. Il tema del rapporto tra le culture era già stato affrontato al paragrafo 26, in cui il Papa aveva parlato dei pericoli opposti di eclettismo e appiattimento culturale; ora Benedetto XVI amplia il discorso e si sofferma sul nesso tra natura, culture e cristianesimo.

Breve premessa. La logica cattolica si muove sovente all’insegna di un principio chiamato et – et, che sinteticamente consiste nell’associare due idee in relazione dialettica tra di loro. Ciò perché spesso è proprio questa relazione dialettica a dare luogo alla molteplicità del reale, all’immensa varietà e complessità della vita. Il tragico sbaglio dell’eresia, nonché di quella forma secolare di eresia che è l’ideologia, è spezzare questa relazione e separare le idee assolutizzando l’una e negando l’altra. Così l’ideologia perde la possibilità di capire appieno il reale e ne vede soltanto una frazione, scambiandola per il tutto. Questo è particolarmente dannoso quando l’ideologia è parzialmente corretta, abbastanza da convincere parecchia gente (fosse completamente sbagliata e slegata dalla realtà, non convincerebbe nessuno), tuttavia è ancor più incorretta e perciò provoca disastri.

 

In questo caso le due idee in relazione sono l’unità della natura umana e la pluralità delle culture. La vulgata diffusa del relativismo nega la prima idea, non esiste la natura e non c’è una morale naturale valida per tutti, e ammette solo l’esistenza delle diverse culture. E poiché non esiste un parametro universale di bene e male queste culture sono moralmente incommensurabili, non possono essere comparate tra loro, non si possono fare paragoni di superiorità e inferiorità e soprattutto non si può dire “la mia cultura è migliore della tua” perché questa è la scusa preferita dei colonialisti e degli invasori. Quello che non ci piace delle altre culture dobbiamo tollerarlo, non possiamo criticarlo. Questa mentalità provoca molti danni soprattutto in un tempo di migrazioni come questo. Interi gruppi socialmente chiusi si trasferiscono nelle nostre nazioni ma non si integrano con la nostra cultura, alcuni adattandosi a fatica e controvoglia alle nostre leggi, e si tende nel nome del politicamente corretto a tollerare da parte loro comportamenti intollerabili da parte degli autoctoni. Una società basata su una simile idea di tolleranza si avvia inesorabilmente verso la disgregazione; basta guardare cosa sta succedendo in Olanda e in Inghilterra, dove l’introduzione di tribunali che applicano la sharia per i musulmani non è più un’ipotesi inaudita e impensabile.

L’errore opposto è la negazione della pluralità di culture. Esiste una sola cultura valida, c’è un solo pervasivo e onnicomprensivo pensare che deve andar bene per tutti gli esseri umani. Questa cultura è assolutamente “giusta” mentre tutte le altre culture sono radicalmente “sbagliate” e devono essere eliminate. Cosa molto importante, Benedetto XVI ci fa notare che questo errore non è legato soltanto alle forme esplicite di colonialismo militare del passato e del presente; esso si presenta anche in forme più sfumate e subdole, tramite un’idea di progresso tecnocratico ed edonistico che vorrebbe cancellare, con un’accorta penetrazione culturale e ricatti economici e limitando la loro possibilità di esprimersi nel dibattito pubblico, tutte le antiche culture e tutti i tradizionali modi di pensare che si oppongono alle “magnifiche sorti e progressive”.

Il Papa, ovvero la dottrina sociale della Chiesa, respinge entrambi questi errori e coniuga l’unicità della natura con la pluralità delle culture. La natura sta alla cultura come la radice sta alla declinazione. Il pluralismo culturale è legittimo nella misura in cui le diverse culture sviluppano diversi aspetti positivi della comune natura umana. Ma poiché la natura umana non è perfetta, neanche le culture possono esserlo e ciascuna di esse contiene, in varia misura, degli aspetti negativi. Un confronto tra le culture in termini di maggiore o minore bontà può essere fatto, proprio perché c’è un parametro oggettivo di riferimento che è la natura umana, e deve essere fatto, nell’ottica della correzione fraterna, ma nessuna cultura può pretendere di essere assolutamente valida e imporsi come pensiero unico alla totalità del genere umano.

 

Come si inserisce il cristianesimo nel rapporto tra natura e culture? Il cristianesimo non è una cultura perché non deriva dalla natura ma da Dio, dal suo incontro personale con l’uomo, che completa e purifica la natura per mezzo della Grazia. Il cristianesimo di per sé non coincide con nessuna cultura specifica, anche se alcune in particolare gli sono maggiormente congeniali (vedi per esempio il “famigerato” discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sull’incontro provvidenziale con la razionalità greca e le conseguenze negative della dis-ellenizzazione del cristianesimo), mentre altre gli sono più ostili. Ma in linea generale il cristianesimo può (anzi deve, e ormai nell’epoca della globalizzazione non può non) adattarsi alle diverse culture, attraverso quel processo difficile ma doveroso che è chiamato inculturazione.

 

 

L’aiuto allo sviluppo dei PVS è creazione di valore. Eliminare gli sprechi interni. Sussidiarietà fiscale.

60. L’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri va considerato come un investimento per creare valore e ricchezza di cui tutti potranno beneficiare. In questa prospettiva, è opportuno per gli Stati avanzati destinare maggiori quote del prodotto interno lordo agli aiuti; questo sforzo economico può essere agevolmente sostenuto eliminando gli sprechi al proprio interno, in particolare nell’assistenza sociale. Un’ulteriore possibilità di aiuto può venire dall’applicazione della sussidiarietà fiscale, permettendo ai cittadini di decidere sulla destinazione di una quota delle imposte statali, purché si evitino degenerazioni particolaristiche.

 

 

Educazione della persona. Turismo internazione: momento educativo (conoscenza culturale) o diseducativo (edonismo, turismo sessuale).

61. Tra i compiti della solidarietà vi è anche garantire un maggiore accesso all’educazione. “Educare” non significa semplicemente dare un’istruzione o preparare al lavoro, ma riguarda la formazione integrale della persona, della quale perciò bisogna conoscere la natura. L’educazione diventa pertanto molto difficile in un contesto di relativismo che ostacola la percezione della morale naturale; e ne è compromesso l’aiuto fornito alle popolazioni bisognose, le quali necessitano non solo di mezzi economici ma anche di mezzi pedagogici che li portino a realizzarsi.

Un esempio del problema educativo è dato dal fenomeno del turismo internazionale. Esso può essere veicolo di sviluppo economico e di crescita culturale, momento educativo di conoscenza reciproca. Ma può essere altresì occasione di sfruttamento e degrado, esperienza diseducativa sia per il turista che per le popolazioni locali: ciò accade particolarmente nel caso del turismo sessuale, che non risparmia i bambini, perfino con l’avallo dei governi locali e dei governi da cui provengono i turisti nonché la complicità degli operatori turistici. Ed anche quando non si scende tanto in basso, è comunque frequente il turismo vissuto come evasione dalla morale quotidiana e sfogo edonistico. Bisogna perciò incoraggiare il turismo visto come educazione e dialogo culturale, con l’aiuto della cooperazione internazionale e l’imprenditoria per lo sviluppo.

 “Educare” deriva dal latino ed unisce la particella “ex-“ (fuori da) con il verbo duco (guidare, condurre). Educare vuol dire guidare fuori, far uscire allo scoperto qualcosa che è già presente nel soggetto educato; il quale pertanto non è un contenitore vuoto da riempire come pare e piace, ma possiede una natura intrinseca già presente che va rispettata e aiutata a svilupparsi.

Chiaramente si tratta di una concezione di educazione incompatibile con una visione relativista dell’uomo. Se non c’è natura ma soltanto cultura, allora educare diventa come creare un robot: l’uomo è una tabula rasa, un foglio bianco su cui l’autorità può tracciare il disegno che vuole per i propri fini. Qui si capisce meglio quanto Benedetto XVI diceva al paragrafo 26, e cioè che l’uomo separato dalla natura e ridotto a mero prodotto culturale può essere manipolato con estrema facilità da chi ha il potere.

 

 

Migrazioni e problematiche connesse. Necessaria collaborazione tra i Paesi di partenza e arrivo. Utilità economica e diritti umani dei lavoratori stranieri.

62. Un altro aspetto collegato allo sviluppo umano integrale è il fenomeno delle migrazioni. Si tratta di una questione che richiede una fortissima collaborazione tra i Paesi di provenienza e di arrivo dei migranti, nonché un’accorta legislazione che sappia salvaguardare sia i diritti umani delle persone e famiglie emigrate e sia le esigenze delle società di approdo. Nessun Paese può sperare di risolvere da solo i problemi legati ai flussi migratori. Peraltro, i lavoratori stranieri comportano un carico di difficoltà legate alla loro integrazione, ma recano un innegabile contributo allo sviluppo economico del Paese ospite e tramite le rimesse finanziarie anche al Paese originario; e non bisogna mai dimenticare che ogni migrante è una persona umana che possiede diritti fondamentali e inalienabili.

 

 

Nesso tra povertà e disoccupazione. Significati di decenza del lavoro.

63. C’è un evidente nesso diretto tra la povertà e la disoccupazione. La povertà nasce spesso dall’impossibilità di lavorare o dalla violazione dei diritti del lavoratore al giusto salario e alla sicurezza personale. Giovanni Paolo II nel 1 maggio del 2000, in occasione del Giubileo dei Lavoratori, lanciò un appello mondiale per un lavoro decente: intendendo con questa parola ad esempio un lavoro scelto liberamente, che contribuisce allo sviluppo della comunità e lascia spazio per ritrovare le proprie radici, che consente di mantenere e scolarizzare i figli senza costringerli al lavoro infantile, in cui i lavoratori non sono discriminati e possono organizzarsi liberamente e ricevono un trattamento dignitoso quando giungono alla pensione.

 

 

Il ruolo dei sindacati. Problemi contemporanei. Distinzione tra sindacati e politica.

64. È altresì urgente che le organizzazioni sindacali dei lavoratori si aprano alle nuove prospettive emergenti nel mercato del lavoro. Oggi negli studi di scienze sociali si parla di conflitto tra persona-lavoratrice e persona-consumatrice, e c’è chi parla di un compiuto passaggio dalla centralità del lavoratore alla centralità del consumatore: si tratta di un mutamento che i sindacati non possono ignorare. Parimenti i sindacati nazionali non possono limitarsi alla difesa esclusiva dei propri iscritti, ma devono rivolgersi anche ai non iscritti, e in particolare ai lavoratori dei Paesi in via di sviluppo dove i diritti sociali sono violati. La Chiesa ha sempre sostenuto le organizzazioni dei lavoratori, ricordando l’opportuna distinzione di ruoli e funzioni tra sindacati e politica. Tale distinzione individua nella società civile l’ambito proprio all’azione sindacale.

 

 

Responsabilità del risparmiatore. Microfinanza, microcredito, difesa dall’usura.

65. È necessario che la finanza, emendata dal cattivo uso che ha danneggiato l’economia reale, torni ad essere finalizzata allo sviluppo. Gli operatori finanziari devono riscoprire il fondamento etico della loro attività e non devono abusare di strumenti sofisticati per tradire i risparmiatori. La regolamentazione del settore deve tutelare questi ultimi, i quali devono peraltro essere consapevoli della propria responsabilità in relazione all’uso dei loro soldi, e alle conseguenze economiche e morali di quest’uso. A questo riguardo va notato che l’esperienza della cosiddetta microfinanza si è dimostrata molto utile – si pensi ai Monti di Pietà – e va ulteriormente rafforzata per dare aiuti concreti ai ceti deboli della società. Bisogna inoltre educare i soggetti deboli a difendersi dall’usura e a trarre reale vantaggio dal cosiddetto microcredito.

Il concetto di responsabilità del risparmiatore-investitore si lega a quanto già detto ai paragrafi 40 e 45.

Con microfinanza s’intende generalmente la prestazione di servizi economici e finanziari per cifre di importo relativamente esiguo e preferenzialmente rivolti alle fasce svantaggiate della società. Fondamentalmente la parte più importante della microfinanza è il microcredito, con il quale si concedono prestiti esigui ma utilissimi a soggetti imprenditoriali che non sono in grado di offrire le garanzie tipicamente richieste dalle banche tradizionali; si tratta di un mezzo di enorme aiuto nei Paesi in via di sviluppo e viene spesso ascritto all’inventiva del banchiere Muhammad Yunus, Nobel per la Pace 2006. Inoltre il microcredito e la microfinanza si vanno diffondendo anche nei Paesi sviluppati, anche se qui bisogna distinguere (e mi pare che Benedetto XVI ne faccia cenno) tra il microcredito effettivamente utile perché rivolto ai poveri e quelle forme di credito che sono invece rivolte a chi si indebita a cuor leggero, per beni superflui e in una spirale di consumismo crescente.

Infine è il caso di notare che l’accenno del Papa ai Monti di Pietà non pare casuale, ma sembra quasi “rivendicare” l’importanza del contributo cristiano e cattolico all’economia: i Monti di Pietà nascono già nel XV secolo per iniziativa dei Francescani e possono essere a tutti gli effetti considerati delle forme di microfinanza e microcredito ante litteram.

 

 

Responsabilità del consumatore.

66. L’interconnessione mondiale ha fatto emergere il fenomeno delle associazioni dei consumatori. È bene che le persone prendano consapevolezza che acquistare è un atto morale oltre che economico, e che esiste una responsabilità sociale del consumatore. Possono sorgere forme di cooperazione all’acquisto, come le cooperative di consumo; ed è opportuno privilegiare l’acquisto di prodotti provenienti da aree povere, in cui i produttori sono decentemente retribuiti. I consumatori possono e devono svolgere un ruolo importante di democrazia economica, facendo attenzione a non farsi strumentalizzare da associazioni non veramente rappresentative.

 

 

Riforma dell’ONU. Auspicio di una Autorità politica mondiale e di un grado superiore di ordinamento internazionale.

67. Infine, l’interdipendenza mondiale e la recessione globale richiedono urgentemente una riforma dell’ONU e dell’architettura economica internazionale, come pure nuovi modi per attuare il principio della responsabilità di proteggere e per implementare la partecipazione delle Nazioni povere alle decisioni comuni. Vi sono obiettivi impellenti di un buon governo della globalizzazione, del risanamento dell’economia, del disarmo, della tutela dell’ambiente e della disciplina dei flussi migratori. Per tutto ciò è necessaria una vera Autorità politica mondiale, che già fu auspicata dal Beato Papa Giovanni XXIII. Questa Autorità dovrebbe esercitare il proprio potere sulla base dei principi di sussidiarietà e solidarietà, essere impegnata ad uno sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità, essere dotata poteri effettivi per far rispettare le proprie decisioni: altrimenti il diritto internazionale continuerà ad essere condizionato dagli equilibri di potere dei più forti. Ai fini dello sviluppo integrale e della collaborazione internazionale deve essere istituito un grado superiore di ordinamento internazionale, di tipo sussidiario, che finalmente attui quanto già scritto nello Statuto delle Nazioni Unite circa la corrispondenza tra sfera morale e sociale, politica ed economica.

Questa parte ha fatto molto discutere i commentatori “laici” dell’Enciclica. Cosa vuol dire il Papa con questa Autorità politica mondiale? Sta forse auspicando uno Stato Mondiale? Che cosa dovrebbe essere un “grado superiore di ordinamento internazionale”? Una riforma dell’ONU in che senso?

In realtà, ciò che qui dice il Papa non è affatto nuovo o inaudito. Probabilmente molti non si sono neanche accorti che il paragrafo in effetti riprende fedelmente il Discorso all’Assemblea Generale dell’ONU tenuto da Benedetto XVI il 18 aprile 2008 (di cui si consiglia vivamente la lettura) e nel quale ugualmente si parlava di un “grado superiore di ordinamento internazionale” (che a sua volta è un’espressione derivante dalla Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II) e della responsabilità di proteggere, nonché degli attuali problemi del diritto internazionale – dei quali provo qui a dare una spiegazione comprensibile per quanto estremamente sintetica.

 

Il problema principale del diritto internazionale è che non si sa neppure se sia o non sia un diritto, un vero ordinamento giuridico composto da vere e proprie norme. Una norma si compone del precetto (la condotta che bisogna osservare o evitare) e della sanzione (la punizione verso chi viola il precetto): ma nelle norme internazionali non c’è vera sanzione, perché manca un’autorità centrale riconosciuta e dotata del potere effettivo di infliggere la sanzione. Né questo ruolo può essere svolto dall’ONU: anzitutto perché la sua natura è quella di un’associazione tra Stati, per quanto vasta, e non già quella di un ente ad essi superiore, e in secondo luogo perché l’attività dei suoi organi deliberanti (particolarmente del Consiglio di Sicurezza, che sarebbe competente a punire le minacce alla pace mondiale) è spesso paralizzata da veti incrociati e ostruzionismi procedurali.

D’altra parte le norme internazionali non sono neppure, in senso stretto, emanate. Esse si compongono di 1) consuetudini che si sono stratificate nel tempo attraverso le relazioni diplomatiche tra gli Stati, 2) accordi bilaterali o multilaterali tra Stati, 3) provvedimenti adottati dalle Organizzazioni Internazionali verso gli Stati aderenti; in tutti questi casi manca un’autorità superiore da cui promani la validità delle norme, le quali in concreto vincolano soltanto chi vuole continuare a rispettare la consuetudine o chi ha sottoscritto l’accordo o aderisce all’Organizzazione. Soltanto per le consuetudini che hanno riguardo ai cd. diritti umani si parla di ius cogens, cioè diritto che vincola tutti, ma si osserva facilmente che questa vincolatività resta più una dichiarazione di principio che una realtà di fatto.

Insomma il diritto internazionale è un “diritto senza forza”, acefalo e disarmato, che perciò spesso risulta inefficace mentre in concreto le relazioni tra gli Stati sono governate dal “diritto della forza”.

 

In questa situazione riaffiora allora in tutta la sua drammaticità la separazione tra giusnaturalismo e giuspositivismo, tra chi pensa che la norma giuridica derivi in ultima analisi da una Giustizia naturale oggettiva (ius naturale) e chi invece pensa che derivi semplicemente dall’autorità che la pone in essere (ius positum). Se nel diritto internazionale, già privo di suo di un vero e proprio ius positum, viene meno anche ogni richiamo ad un diritto naturale che precede le leggi, allora davvero non resta altro spazio che per la forza bruta. Ed in effetti la dottrina dei diritti umani dopo la II guerra mondiale ha rappresentato proprio un “ritorno di fiamma” del giusnaturalismo, in opposizione al giuspositivismo assoluto del nazismo; il Processo di Norimberga si basava sul presupposto che esistono azioni così disumane che non possono mai essere legittime, neanche se uno Stato sovrano le dichiara tali, né ci si può difendere obiettando che “eseguivamo gli ordini ricevuti”; ed esistono dei diritti che appartengono all’essere umano per la sua stessa natura, e non perché ci sia uno Stato che glieli attribuisce.

La stessa responsabilità di proteggere, ovvero il diritto/dovere d’intervento umanitario, nasce da questa prospettiva: se uno Stato opprime i propri cittadini e ne conculca i diritti umani, gli altri Stati hanno il diritto o addirittura il dovere di intervenire, anche violando la sovranità interna dello Stato colpevole. D’altra parte questo concetto si presta anche ad abusi e strumentalizzazioni, perché sarebbe comodo per lo Stato forte invadere il debole per i propri motivi di opportunità sotto il pretesto dell’intervento umanitario, e perciò bisogna usare estrema attenzione nel giudicare se sussistono davvero i requisiti della responsabilità di proteggere.

 

Alla luce di tutto questo, allora, la mia personale (opinabile) interpretazione è che la “ricetta” di Benedetto XVI per migliorare il diritto internazionale, portarlo ad un “grado superiore”, implichi agire in due direzioni. Dal “lato del giusnaturalismo”, bisogna riconoscere e ribadire con forza il fondamento naturale dei diritti umani, nonché il legame tra le norme di diritto internazionale ed il loro sostrato di giustizia sostanziale: infatti, come già diceva nel Discorso all’Assemblea ONU, “l’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali”.

Ma al tempo stesso è necessario agire anche dal “lato del giuspositivismo”, ed è per questo che il Papa parla di una riforma dell’ONU in modo che essa sia trasformata in, o affiancata da, una Autorità politica mondiale: un ente capace di emanare norme di diritto internazionale dalla validità e vincolatività incontestata, e perciò porre rimedio all’acefalia del diritto internazionale. Ma al tempo stesso è chiaro che Benedetto XVI non sta auspicando l’avvento di un Leviatano globale, perché il potere di questa Autorità dovrebbe essere limitato ad alcune materie fondamentali ed in ogni caso essere esercitato secondo il criterio della sussidiarietà.

 


Caritas in veritate 5

(5) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

Capitolo terzo: fraternità, sviluppo economico e società civile

 

Capitolo quarto: Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente

 

 

I diritti, senza doveri e slegati da un fondamento oggettivo, si trasformano in arbitrio e ostacolano la solidarietà universale.

43. La solidarietà universale è ostacolata dalla mentalità diffusa per cui molti ritengono di non dovere niente a nessuno, di essere titolari soltanto di diritti. In questo modo il diritto soggettivo, privo del contrappeso del dovere, si trasforma in arbitrio: si moltiplicano i presunti diritti, che sono rivendicati come irrinunciabili anche quando sono arbitrari e voluttuari e si pretende che siano promossi dalle strutture pubbliche, mentre alcuni veri diritti fondamentali sono disconosciuti e violati. I diritti individuali, non essendo inscritti in un quadro di doveri, perdono significato e alimentano una spirale illimitata di egoismo e pretese prive di criterio: così possiamo notare una relazione effettiva tra la rivendicazione nelle società opulente del diritto al superfluo, ed anche alla trasgressione e al vizio, e la mancanza nei paesi poveri (ma anche nelle periferie e nelle zone povere dei paesi ricchi) di risorse elementari come cibo, acqua, istruzione di base, cure mediche.

I diritti, come i doveri, sono solidi e sensati se fanno riferimento alla verità di un preciso quadro antropologico ed etico. Anzi i doveri, che rimandano al quadro globale, rafforzano i diritti. Se invece si perde di vista il fondamento antropologico, se i diritti si basano esclusivamente sulle deliberazioni di un’assemblea, allora essi sono mutevoli e possono essere più facilmente trascurati. Se i Governi dimenticano l’oggettività e l’indisponibilità dei diritti, lo sviluppo umano è in pericolo.

Questo paragrafo evidenzia una contraddizione di cui solitamente la stampa solidarista, terzomondista, progressista e politicamente corretta (insomma, spiace constatare, molta stampa “di sinistra”) evita accuratamente di parlare: mentre in certe parti del mondo la categoria dei diritti umani si amplia a dismisura, per ricomprendere sempre nuove cazzate bizzarre pretese che lo Stato dovrebbe riconoscere e incoraggiare e soddisfare, altrove i veri diritti fondamentali sono quotidianamente calpestati. Da una parte si crepa di fame e di malattie banali, nell’indifferenza di molti (non tutti) cittadini delle società ricche; dall’altra parte, molti (non tutti) di quegli stessi cittadini lamentano l’intollerabile persecuzione di uno Stato che, ad esempio, non chiama coniugi due persone a cui nessuno impedisce di stare insieme, oppure crudelmente non attribuisce i vantaggi del matrimonio a chi rifiuta di assumersene anche i doveri.

Benedetto XVI fa notare che il relativismo (non solo, ma prevalentemente) occidentale mette in pericolo lo sviluppo umano, per due motivi. Uno perché questa mentalità egocentrica, che eleva a diritto ogni capriccio dell’io voglio e tralascia i doveri, mal si concilia con la solidarietà verso chi soffre nella miseria. Due perché, se i diritti e i doveri dell’uomo non derivano da un fondamento oggettivo ma sono semplicemente decisi a maggioranza, allora essi sono sempre provvisori e l’assemblea, come oggi li concede, domani potrà negarli. Una democrazia fondata sul relativismo è sempre a rischio di scivolare nel totalitarismo.

 

 

Problema demografico e sessualità. L’apertura alla vita è una risorsa, la denatalità è un problema.

 44. La crescita demografica è strettamente intrecciata con il problema dello sviluppo. Considerare l’aumento della popolazione come la causa del sottosviluppo è sbagliato: la diminuzione della mortalità infantile e l’allungamento della vita media sono sintomi di sviluppo economico, mentre il calo delle nascite è un segno di crisi. La procreazione responsabile non può essere attuata riducendo la sessualità a gioco edonistico e trattando la procreazione come un rischio da cui difendersi o un programma da pianificare politicamente.

L’apertura moralmente responsabile alla vita è una risorsa. La denatalità aumenta i costi dei sistemi di assistenza sociale, contrae l’accantonamento di risparmio e dunque gli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, impoverisce i rapporti umani e le forme di solidarietà nelle famiglia di piccola dimensione, in sostanza denota poca fiducia nel futuro. Per gli Stati diventa economicamente necessario assumere politiche di centralità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la prima cellula della società, anche tramite aiuti di carattere economico e fiscale.

 

 

L’etica nell’economia. Abuso della parola etica. La vera etica economica rispetta l’inviolabile dignità della persona umana e il valore delle norme morali naturali.

45. L’economia ha bisogno di un’etica personalista. Oggi si parla molto di etica in campo finanziario e aziendale: business ethics, certificazioni etiche, fondi d’investimento etici, finanza etica. Tutto ciò è positivo, ma c’è il rischio che si abusi della parola etica, usandola per far passare per etico ciò che in realtà non lo è affatto. Quando si ha a che fare con un prodotto “etico” bisogna chiedersi in riferimento a quale sistema morale esso è definito etico. L’etica economica deve rispettare l’inviolabile dignità della persona umana e il valore delle norme morali naturali; se l’etica si allontana da questi principi è strumentalizzata, e anziché correggere le disfunzioni economiche del sistema diventa supinamente funzionale ad esso. E l’etica non deve essere una caratteristica selettiva – non si deve pensare a un “segmento di mercato” etico, l’intera economia deve essere considerata etica per le sue caratteristiche intrinseche.

In effetti la proliferazione della parola “etico” in campo aziendale-finanziario è impressionante. Si moltiplicano i fondi d’investimento che promettono di impiegare il denaro in modo “etico”; le imprese comprano da società specializzate apposite certificazioni attestanti il loro comportamento “etico”; e così via. In alcuni casi la parola etica sembra essere usata a proposito, in altri casi pare invece uno specchietto per le allodole per darsi una maschera di rispettabilità. Attenti a distinguere.

 

 

Area intermedia tra imprese profit e non profit: esempi. Occorre una configurazione giuridica e fiscale particolare.

46. La distinzione tra imprese che sono finalizzate al profitto ed imprese che non lo sono (non profit) non è più efficace. Nel tempo è emersa un’area intermedia tra le due tipologie imprenditoriali: aziende tradizionali che sottoscrivono patti di aiuto ai paesi arretrati, fondazioni collegate a singole imprese, gruppi di imprese che hanno scopi di utilità sociale, soggetti della cosiddetta economia civile. Si tratta di una nuova realtà imprenditoriale che coinvolge tanto il privato quanto il pubblico, che persegue il profitto come mezzo per realizzare finalità specifiche. Queste realtà non possono essere semplicemente ricondotte alla categoria del profit o del non profit, tantomeno basandosi su criteri come l’eventuale distribuzione di utili o della forma societaria assunta. È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino negli ordinamenti legislativi dei vari Stati la giusta configurazione giuridica e fiscale.


 

Gli aiuti allo sviluppo nei Paesi poveri. Sussidiarietà. Per evitare disfunzioni della cooperazione internazionale serve trasparenza sui fondi e sul loro uso.

47. Il potenziamento delle diverse tipologie di imprese, tra cui quelle di cui sopra, va perseguito anche e soprattutto nei Paesi sottosviluppati. Gli aiuti allo sviluppo devono rispettare la centralità della persona umana e devono basarsi sul principio di sussidiarietà, potenziando i diritti dei beneficiari ma al tempo stesso incoraggiando una loro assunzione di responsabilità, includendo quanto più possibile nella realizzazione dei progetti di aiuto i destinatari stessi. D’altra parte bisogna superare alcune disfunzioni della cooperazione internazionale: talvolta la presenza dei poveri da “aiutare” è meramente funzionale a mantenere in vita costose organizzazioni burocratiche, le quali riservano per sé stesse una parte eccessiva delle risorse destinate allo sviluppo. Gli organismi internazionali e le ONG devono impegnarsi ad una piena trasparenza sull’ammontare dei fondi ricevuti, sul loro uso, sull’effettiva realizzazione dei programmi di aiuto.

 

 

L’ambiente. La natura non è frutto del caso o del determinismo. Due errori opposti: neopaganesimo / tecnica. La natura è una vocazione. Giustizia intergenerazionale.

48. Il tema dello sviluppo è collegato anche al rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Questo ci è stato donato da Dio, e il suo giusto uso è una responsabilità verso i posteri e l’umanità intera: considerare la natura e l’uomo come frutti del caso o del determinismo evolutivo attenua tale senso di responsabilità. Se si perde la visione della natura come dono, si può incorrere in due errori opposti: o elevarla a tabù intoccabile, a cui si può anche sacrificare l’uomo stesso, pensando che l’uomo possa essere salvato da un felice rapporto con la natura (una visione neopagana e neopanteista), o ridurla a materia da laboratorio di cui abusare a piacimento (una visione tecnicista). Queste false concezioni provocano molti danni allo sviluppo. Il credente respinge entrambi questi errori, perché sa che la natura esprime un disegno divino di amore e verità, è destinata ad essere ricapitolata alla fine dei tempi ed è anch’essa in un certo senso una vocazione, un modo in cui Dio ci chiama a fare il bene. In tal modo l’uomo deve rispettare principi di giustizia intergenerazionale, cioè non può consumare le risorse ambientali lasciando poco o nulla per le generazioni successive.

Con questo paragrafo Benedetto XVI comincia un discorso molto importante sull’ecologia e sul giusto modo di intenderla, riprendendo un concetto già accennato al paragrafo 14 e cioè l’opposizione tra l’ideologia della Natura e l’ideologia della Tecnica, entrambe nemiche del cristianesimo e dannose per l’umanità.

A proposito di neopaganesimo, è vero che esistono oggigiorno realtà come le streghe di Wicca e i movimenti esoterici che in vario modo inneggiano alla Madre Terra, ma io credo che parlando di neopaganesimo il Papa intendesse riferirsi non tanto a questi fenomeni (che allo stato attuale sono statisticamente minoritari) ma semmai a quella mentalità “laica” ambientalista, questa sì abbastanza diffusa, che vede nell’uomo un animale come gli altri, se non addirittura un pericolo intrinseco per l’ecosistema (penso per esempio al film di M. Night Shyamalan “E venne il giorno”).

 In questo modo si innalza la natura per abbassare l’uomo e di fatto, senza neanche rendersene conto (proprio perché non è una religione ma una mentalità che si presume laica) ci si avvicina alla mentalità degli antichi che deificavano i vulcani e l’oceano e offrivano sacrifici umani al sole. Il che in effetti era anche comprensibile per tempi e luoghi in cui l’uomo era come sperduto in un mondo ostile, dove la natura era una variabile indipendente, feroce e indomabile.

Questa mentalità è stata superata in occidente dapprima dai filosofi greci come Talete e seguenti, che hanno cominciato a farsi domande sul mondo cercando risposte razionali, e poi dal cristianesimo. Sulla scia dell’ebraismo il cristianesimo ha desacralizzato la natura nella stessa misura in cui le ha riconosciuto la dignità di creazione divina. Dio affida all’uomo la natura affinché egli possa coltivare e costruire. La natura va rispettata ma non adorata e l’uomo deve operare su di essa, senza temere la collera degli dei superi e inferi, perciò può sorgere il concetto embrionale di progresso scientifico. L’uomo esercita sulla natura la propria “arte”, che è come i cristiani antichi chiamavano quello che noi oggi chiamiamo tecnica: “l’arte è figlia della natura” (si veda ad esempio il canto XI della Divina Commedia, vv. 101-105, dove si spiega il perché della punizione degli usurai).

La concezione cristiana della natura e della tecnica va in crisi dapprima con il cosiddetto rinascimento (che fu rinascimento proprio della mentalità pagana) e poi con l’Illuminismo. Con essi l’uomo rispetto alla natura non è più un comodatario, un amministratore delegato, uno che ha ricevuto un incarico di conservare e migliorare: nossignore, è proprio il dominus, il padrone che può usare e abusare come gli pare. Se volessimo fare una carrellata lungo i secoli potremmo partire da Francesco Bacone, il cui Novum Organum può forse essere considerato il manifesto fondativo della “vittoria della tecnica sulla natura” (con la scienza l’uomo può conoscere perfettamente la natura, e con la tecnica può dominarla); attraversare le scoperte della modernità e della Rivoluzione Industriale, in cui l’ostilità della nuova tecnica verso la natura si mostra chiaramente ed emerge il problema ecologico (la tecnica distrugge la natura); passare per il Frankenstein, o il Prometeo moderno di Mary Shelley, l’archetipo dello scienziato pazzo e un inascoltato monito contro il delirio di onnipotenza di una tecnica senza controllo; assistere alla metamorfosi della modernità in post-modernità, in cui il conflitto diventa ancora più radicale (mentre nella modernità la natura è succube della tecnica, nella post-modernità si arriva a negare che la natura esista); fino ad arrivare alla filosofia di un Emanuele Severino, che essendo un post-hegeliano (per lui la tecnica è ciò che per Marx era il comunismo, ovvero la realizzazione della coincidenza tra Realtà e Idea Razionale), lucidamente parla di un “paradiso della Tecnica” prossimo venturo in cui l’uomo potrà diventare il dio-in-terra e completare il percorso del Geist.

E siccome gli errori uguali e opposti si nutrono a vicenda, le catastrofi ecologiche provocate dall’uomo che si crede il padrone del mondo hanno rafforzato la propria opposizione, la mentalità “neopagana” che vede nell’uomo un pericolo per la terra, una minaccia da contenere e diminuire.

Entrambe queste visioni presuppongono la visione dell’uomo come un frutto del caso e/o della necessità evolutiva (e si coglie facilmente il riferimento al nefasto libro di Monod), spuntato da solo grazie a una macrocosmica botta di culo dose di fortuna e aggressività in un mondo privo di significato intrinseco. L’uomo è una creatura insignificante tra le altre, salvo che ha un po’ meno pelliccia e un po’ più materia grigia, e proprio con questa materia grigia può subordinare la natura ai propri desideri e spassarsela come un bambino di pochi anni che gioca con i fiammiferi quando i genitori non sono in casa (o meglio, crede che in casa non ci sia nessuno perché non vede nessuno).

E perciò, o dalla parte della natura contro l’uomo, o dalla parte dell’uomo contro la natura.

E i cristiani che propongono un’alleanza con la natura, e vedono l’uomo come il custode responsabile del giardino di Dio, stanno come tra l’incudine e il martello.

 

 

Risorse non rinnovabili e solidarietà. Riduzione del fabbisogno energetico, redistribuzione planetaria.

49. Bisogna poi considerare i problemi energetici, come l’esclusione dei paesi poveri dall’acquisizione delle risorse naturali, o il fatto che questi stessi paesi in cui si trovano le risorse sono teatro di conflitti sanguinosi per assicurarsene lo sfruttamento. Il problema delle risorse non rinnovabili deve essere affrontato nella prospettiva della solidarietà, sia tramite una riduzione del fabbisogno energetico da parte delle società tecnologicamente avanzate, sia tramite una redistribuzione planetaria delle risorse energetiche.

 

 

Alleanza tra l’uomo e l’ambiente. Chi usa delle risorse comuni ambientali non può scaricarne il costo su altri.

50. L’uomo deve pertanto esercitare un governo responsabile sulla natura, affinché tutta la famiglia umana possa vivere dignitosamente sulla terra: l’alleanza tra l’uomo e l’ambiente deve essere come uno specchio dell’amore di Dio. I costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse comuni devono essere pagati da chi ne usufruisce, e non da altri popoli o dalle generazioni future. L’economia ha il compito di individuare l’uso più efficiente delle risorse, senza scivolare nell’abuso e tenendo presente che il concetto di efficienza non è neutrale rispetto ai valori morali di riferimento.

 

 

Ecologia ambientale ed ecologia umana. La natura non è una variabile indipendente. Antinomia della mentalità contemporanea, che chiede di rispettare l’ambiente mentre non rispetta l’essere umano.

51. Il modo in cui l’uomo tratta l’ambiente è strettamente legato al modo in cui tratta sé stesso. La società odierna ha bisogno di riflettere sui danni dell’edonismo e di sviluppare nuovi stili di vita. Il progresso è arrivato a un punto tale che la natura non è più una variabile indipendente: perciò il degrado dell’ambiente è strettamente correlato al degrado della società. Tutelare l’uno vuol dire tutelare l’altra e viceversa.

La Chiesa ha una responsabilità per il creato, a cui non può rinunciare. Essa deve difendere i doni della creazione, e facendo ciò contribuisce alla difesa dell’uomo da sé stesso. Accanto all’ecologia ambientale esiste un’ecologia umana. Come si può impedire che la natura sia un mero strumento della tecnica se lo diventa l’uomo stesso, che nasce artificialmente e può essere sacrificato in embrione alla scienza? È contraddittorio chiedere alle nuove generazioni di rispettare l’ambiente mentre non viene rispettato l’essere umano. Questa è una grave e sottovalutata antinomia della mentalità contemporanea, che danneggia sia l’ambiente e sia la società.

 

 

La verità e l’amore sono prodotti da Dio e accolti dall’uomo. Essi indicano la strada verso il vero sviluppo.

52.  Non è l’uomo ad essere la fonte di verità e amore, ma bensì Dio, perché Egli stesso è Verità e Amore, che l’uomo non può produrre da sé ma solo accogliere e trasmettere. Questo principio si applica anche allo sviluppo umano, perché la vocazione allo sviluppo non si basa solo su decisioni umane ma è inscritta in un piano che fa parte di noi, ci precede ed è un dovere che siamo chiamati ad accogliere liberamente. L’Amore e la Verità che sussistono in noi ci indicano che cosa sono il bene e la felicità, perciò ci indicano la strada verso il vero sviluppo.


Caritas in veritate 4

(4) Un riassunto della Caritas in Veritate

 

 

Introduzione

Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio

Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo

 

 

Capitolo terzo: Fraternità, sviluppo economico e società civile

 

 

La gratuità e il dono. L’illusione di autosufficienza e la sottovalutazione del peccato originale sono pericolose. Legame tra la speranza cristiana e la carità nella verità.

34. La carità nella verità ci fa fare l’esperienza del dono gratuito in vari modi nella nostra vita, anche se non la riconosciamo perché abbiamo una visione meramente utilitaristica. Spesso l’uomo moderno crede di essere il solo autore di sé stesso e della società, con una presunzione che discende dal peccato originale. Ma la Chiesa ha sempre avvertito che ignorare la natura ferita dell’uomo e la sua inclinazione al male provoca gravi errori nel campo sociale, politico, educativo… ed anche economico, come prova questo momento storico. L’illusione dell’autosufficienza ha indotto l’uomo a identificare la felicità con il benessere materiale; e l’idea che lo strumento economico debba essere “autonomo”, non influenzato dalla morale, ha permesso gravi abusi di esso.

Come già detto nell’Enciclica Spe salvi, questo immanentismo che toglie dalla storia la speranza cristiana in realtà priva l’uomo di una potente risorsa sociale, perché la speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà, sorge dalla fede e nutre la carità nella verità dalla quale è manifestata. Essa è un dono di Dio che irrompe assolutamente gratuito nella nostra vita, dono che in quanto tale eccede il merito e trascende la giustizia, segno della presenza di Dio nella nostra anima. Come insegna Sant’Agostino (*), al pari della carità anche la verità è un dono: nel processo conoscitivo noi non produciamo la verità, ma la troviamo, o meglio la riceviamo.

In quanto dono comune all’umanità intera, la carità nella verità è capace di unificare la comunità umana. Questa può diventare una comunione fraterna ed universale solo in quanto con-vocata, chiamata tutta insieme alla comunione, dalla parola di Dio-Amore.

 

(*) L’accenno all’insegnamento di Sant’Agostino è spiegato con maggiori dettagli in una nota a piè pagina, l’unica dell’Enciclica che non si limita a un rinvio documentale ma apporta considerazioni aggiuntive. Nel De libero arbitrio, Agostino parla di qualcosa che esiste nell’anima umana e che lui chiama “senso interno”: un atto intellettuale che però è separato dalle normali funzioni razionali, anzi è quasi istintivo, e con il quale la ragione prende atto della propria fallibilità e ammette che al di sopra di sé stessa esiste qualcosa che è assolutamente vero e certo. Agostino identifica questa verità interiore con Dio, ovvero con Cristo.

La citazione da Sant’Agostino, oltre a testimoniare la preminenza che ha questo santo e filosofo nel pensiero di Benedetto XVI, s’inquadra in ciò che il Papa chiama ampliamento della ragione. Con questo “senso interno” la razionalità può superare i propri limiti ed evitare di ridursi a un mero razionalismo che si rifiuta di riflettere su ciò che lo sovrasta.

 

 

Il mercato non è solo giustizia commutativa, ma anche distributiva e sociale. I poveri come risorsa del mercato.

35. Il mercato è il luogo-istituzione in cui si incontrano gli operatori economici, che stipulano contratti e scambiano beni e servizi per soddisfare i propri bisogni e desideri. Questi rapporti economici rispondono ai principi della giustizia commutativa: ciò che io ricevo deve essere equivalente a ciò che io do. Tuttavia il mercato non può reggersi solo sulla giustizia commutativa, ma ha bisogno anche di forme di giustizia distributiva (devo ricevere ciò di cui ho bisogno) e di giustizia sociale (devo dare un po’ di ciò che è mio alla comunità): altrimenti perde quella coesione sociale interna, quella fiducia reciproca di cui ha bisogno per funzionare.

Un esempio di come il sistema economico trae vantaggio dalla giustizia, intesa nell’accezione ampia del termine, è dato dalla considerazione (fatta da Paolo VI nella Populorum progressio) che se i paesi ricchi aiutano i paesi poveri a svilupparsi, ne traggono vantaggio essi stessi. I poveri sono una risorsa economica per il mercato: non nel senso, come dice qualcuno, che il mercato abbia fisiologicamente bisogno di una quota di poveri e perciò non si debba eliminare la povertà, ma nel senso che l’emancipazione dei poveri va nell’interesse del mercato stesso.

 

 

Il mercato non è cattivo di per sé ma lo diventa se gestito male. Il mercato non è mai culturalmente neutro. Necessario spazio per la gratuità e il dono.

36. L’attività economica non può migliorare la società se si regge solo sulla logica mercantile, ma deve avere riguardo anche al fine del bene comune. D’altronde, non si deve demonizzare il mercato e considerarlo il luogo naturale della violenza dei forti sui deboli: lo diventa se gestito da chi ha come unico criterio l’egoismo, ma esso non è cattivo di per sé. In effetti il mercato allo stato puro non esiste, perché esso è sempre influenzato da questa o quella cultura che lo orienta in un certo senso. Anche all’interno del mercato possono essere vissuti rapporti di autentica amicizia e solidarietà. La grande sfida che ci attende consiste proprio nel mostrare che il mercato non solo ha bisogno dei tradizionali principi etici come onestà e trasparenza, ma che in esso devono avere un loro spazio anche la gratuità e il dono, e ciò per un’esigenza della stessa ragione economica.

 

 

La giustizia non può essere posticipata rispetto alla produzione della ricchezza ma deve essere subito rispettata. Presenza di soggetti economici a fine non lucrativo. La globalizzazione, le tre forme di giustizia e il dono.

37. La giustizia riguarda tutte le fasi dell’economia, comprese la produzione e il consumo, perché ogni decisione economica ha conseguenze morali. Un tempo si poteva forse pensare di tenere separati il momento produttivo della ricchezza (affidato all’economia) e il momento distributivo della ricchezza (affidato alla politica secondo giustizia); ma oggi, poiché l’ambito economico si è internazionalizzato, mentre non è così per l’autorità locale dei governi, questo equilibrio è sbilanciato e inefficace. La giustizia deve essere pertanto rispettata fin dall’inizio. Occorre altresì che nel mercato agiscano anche soggetti che non sono mossi dalla pura ricerca del profitto (il che non vuol dire rinunciare a produrre valore economico).

Nell’epoca della globalizzazione si trovano a dover interagire e competere modelli economici che derivano da culture molto diverse. Questi modelli trovano un terreno comune d’incontro sul piano della giustizia commutativa, del contratto che regola lo scambio di valori equivalenti; ma l’economia globalizzata ha bisogno anche della giustizia distributiva e della giustizia sociale, ed ha bisogno altresì di attività legate allo spirito del dono.

 

 

Richiamo alla Centesimus annus: sistema tripartito mercato + Stato + società civile. La gratuità risiede naturalmente nel terzo ambito, ma deve essere presente anche negli altri due.

38. Giovanni Paolo II nell’Enciclica Centesimus annus aveva parlato di un sistema tripartito: mercato, Stato, società civile. L’ambito naturale in cui può operare il principio di gratuità è quello della società civile, ma ciò non toglie che esso non possa e non debba essere presente anche negli altri due; specialmente nell’epoca della globalizzazione, che ha bisogno della solidarietà creata dalla gratuità. Pertanto, accanto alle imprese private orientate al profitto e alle imprese pubbliche, devono esistere anche imprese che perseguono fini mutualistici e sociali: dal loro reciproco confronto si può sperare che si avvii una sorta di osmosi dei modelli d’impresa.

 

 

 

Richiamo alla Rerum novarum: il binomio mercato – Stato non è più sufficiente. Necessarie forme economiche solidali aperte alla gratuità.

39. Paolo VI nella Populorum progressio auspicava un’economia inclusiva di tutti i popoli, dove il progresso dell’uno non fosse ostacolo allo sviluppo dell’altro. In ciò sviluppava le aspirazioni contenute nella Rerum novarum, nella quale si esaminava l’idea, innovativa per quel tempo, che a seguito della rivoluzione industriale fosse necessario un intervento redistributivo dello Stato.

Oggi il binomio mercato – Stato non basta più. Accanto al “dare per avere” (la logica di scambio) e al “dare per dovere” (l’imposizione pubblica che finanzia l’assistenzialismo statale) è necessaria la progressiva apertura a forme economiche solidali, caratterizzate da quote di gratuità e comunione, che hanno il loro habitat naturale nella società civile.

 

 

Gestione aziendale e responsabilità manageriale. Stake-holders e share-holders. Responsabilità dell’investimento finanziario e della delocalizzazione produttiva.

40. La globalizzazione sta cambiando anche il modo d’intendere l’impresa, specialmente se di grandi dimensioni. Spesso coloro che gestiscono l’azienda rendono conto soltanto agli investitori, e la variabilità degli amministratori fa sì che essi non si sentano responsabili a lungo termine dei risultati. La delocalizzazione produttiva attenua il senso di responsabilità dell’imprenditore verso i portatori di interessi (stake-holders: lavoratori, fornitori, consumatori, l’ambiente naturale e la comunità di riferimento) a vantaggio dei soli azionisti (share-holders), i quali non sono legati a uno spazio specifico ma possono trovarsi in ogni parte del globo, e poi sono spesso costituiti non già da singoli investitori ma da fondi anonimi (che di fatto stabiliscono essi stessi il proprio guadagno). Per fortuna questo processo è controbilanciato da una maggiore consapevolezza sulla responsabilità sociale dell’impresa, per cui si diffonde l’idea la gestione aziendale deve tener conto non solo degli share-holders ma anche dei stake-holders, in particolare del luogo in cui opera l’impresa.

È necessario ricordare che l’investimento finanziario ha sempre un significato morale oltre che economico. Per esempio bisogna tenere conto del luogo in cui il capitale da investire è stato generato (e dei possibili danni derivanti dal suo impiego all’estero piuttosto che in patria), della sostenibilità dell’impresa a lungo termine, del servizio dell’investimento finanziario a vantaggio dell’economia reale. La delocalizzazione produttiva, specie nei paesi in via di sviluppo, può essere vantaggiosa se favorisce realmente le popolazioni del paese ospitante; ma è illecita se volta solo ad approfittare delle condizioni di favore o a sfruttare la forza lavoro.

Ecco un altro paragrafo profondamente “economico”, ricco di spunti per un’attenta riflessione sulla finanza moderna, che qui di seguito provo a sviluppare parzialmente senza pretesa di completezza.

L’argomento stake-holders e share-holders  (il testo italiano dell’Enciclica non usa esattamente questi termini, ma essi sono presenti nella versione inglese e ormai fanno parte della terminologia specifica italiana, perciò ne faccio uso nel mio riassunto) è molto discusso tra coloro che si occupano di gestione aziendale. Ormai ogni grande impresa nella propria policy aziendale, cioè il documento che spiega la politica operativa dell’azienda, dichiara di voler tenere in considerazione tutti i portatori di interessi. Ma quante volte l’impegno resta sulla carta?

Il Papa nomina anche i problemi che derivano da una crescente “spersonalizzazione” degli azionisti delle imprese di grandi dimensioni (“a capitale diffuso”): anzitutto essi sono tantissimi, ciascuno dei quali detentore di una quota irrisoria di capitale (fenomeno noto come “polverizzazione del capitale”), e perciò il singolo azionista non è interessato o non è capace di controllare come viene gestita l’impresa; il che naturalmente va a tutto vantaggio dei manager e dei grandi gruppi finanziari che possono avere la maggioranza necessaria a gestire l’azienda tramite accordi dettagliati (“patti parasociali”) e percentuali minime attentamente calcolate di azioni possedute.

Inoltre, ormai è sempre più in disuso la formula “classica” dell’investimento finanziario, basata su una relazione diretta risparmiatore-imprenditore io-ti-affido-il-denaro-e-tu-lo-gestisci, o al limite indiretta con un singolo intermediario (es. una banca) a fare da tramite tra il creditore-risparmiatore e il debitore-imprenditore. Il moltiplicarsi dei fondi d’investimento ha dato vita a vere e proprie catene di intermediari di notevole lunghezza, per cui il risparmiatore affida il denaro a un fondo il quale (oltre a stabilire la propria commissione secondo criteri che spesso il risparmiatore non capisce) magari lo investe in altri fondi, che a loro volta investono in altri fondi… in questo modo la quantità di denaro che passa da un capo all’altro di questa “catena” (dal risparmiatore all’imprenditore) si assottiglia di una discreta percentuale, il tutto a vantaggio delle imprese di intermediazione (“l’economia finanziaria”) ma a danno dell’economia reale (cioè le imprese destinatarie finali dell’investimento, che producono beni e servizi “materiali”).

Ancora, Benedetto XVI accenna al fatto che l’investimento deve preoccuparsi anche della sostenibilità a lungo termine dell’impresa, e questo mi fa venire in mente il cosiddetto private equity. Sinteticamente si tratta di una tipologia di investimento finanziario-industriale consistente nell’acquisire la partecipazione di controllo di un’impresa sottosviluppata o in crisi, per gestirla con la prospettiva di migliorarla e liquidarla dopo tre o cinque anni, guadagnando sul ricavo. Come ogni strumento economico, anche l’investimento di private equity può essere usato positivamente o negativamente: può essere un’opportunità o un’ancora di salvezza per l’impresa gestita, ma può anche essere il pretesto con cui l’investitore intende “cannibalizzare” le risorse dell’impresa controllata, per spremerle fino all’ultimo lasciando alla fine un rottame industriale.

Infine merita di essere notato che il tema della delocalizzazione produttiva si pone in diretta continuità con il paragrafo 25 del precedente capitolo: lì erano analizzate le conseguenze della delocalizzazione per i lavoratori, qui sono trattate le implicazioni morali della stessa per gli investitori.

 

 

Significato articolato dell’imprenditorialità. Significato articolato dell’autorità politica.

41. L’imprenditorialità sta assumendo un significato articolato, ben oltre l’alternativa imprenditore privato / dirigente statale tipica del binomio mercato / Stato. Esistono vari tipi di imprese che superano tale distinzione. È bene che questa concezione ampia dell’imprenditoria favorisca il rapporto vantaggioso tra i settori del profit e del non profit, tra il settore pubblico e quello della società civile.

Anche l’autorità politica sta assumendo un significato articolato. L’economia integrata a livello mondiale richiede una più efficace collaborazione tra i governi, e dei progetti di aiuti internazionali efficaci, non limitati all’aspetto economico ma capaci di promuovere le garanzie proprie dello Stato di diritto e della democrazia. È da auspicare un’autorità politica articolata a livello locale, nazionale e internazionale, capace di orientare la globalizzazione economica.

 

 

La globalizzazione: serve un orientamento culturale attento alla persona e alla trascendenza. Rischio ed opportunità.

42. Bisogna evitare un atteggiamento fatalistico nei confronti della globalizzazione, come se essa fosse un’anonima forza impersonale e indipendente dalla volontà umana. In realtà essa non è semplicemente un processo socio-economico, ma l’interconnessione sempre più stretta tra tutti i popoli; un fatto non solo materiale, ma culturale, e come tale orientabile culturalmente ed eticamente. E dobbiamo impegnarci affinché tale orientamento sia a carattere personalista, comunitario, aperto alla trascendenza. La globalizzazione in sé non è né buona né cattiva, ma è semplicemente ciò che le persone fanno di essa. È un rischio ma anche un’opportunità, in particolare per le possibilità che porta di redistribuzione della ricchezza o della povertà. I popoli poveri non devono restare ancorati al loro stato di sottosviluppo e neanche accontentarsi della filantropia spicciola dei paesi ricchi: oggi le forze materiali per far uscire dalla miseria i paesi sottosviluppati sono effettivamente a disposizione, solo che le si voglia usare davvero.