(4) Un riassunto della Caritas in Veritate
Capitolo primo: il messaggio della Populorum progressio
Capitolo secondo: lo sviluppo umano nel nostro tempo
Capitolo terzo: Fraternità, sviluppo economico e società civile
La gratuità e il dono. L’illusione di autosufficienza e la sottovalutazione del peccato originale sono pericolose. Legame tra la speranza cristiana e la carità nella verità.
34. La carità nella verità ci fa fare l’esperienza del dono gratuito in vari modi nella nostra vita, anche se non la riconosciamo perché abbiamo una visione meramente utilitaristica. Spesso l’uomo moderno crede di essere il solo autore di sé stesso e della società, con una presunzione che discende dal peccato originale. Ma la Chiesa ha sempre avvertito che ignorare la natura ferita dell’uomo e la sua inclinazione al male provoca gravi errori nel campo sociale, politico, educativo… ed anche economico, come prova questo momento storico. L’illusione dell’autosufficienza ha indotto l’uomo a identificare la felicità con il benessere materiale; e l’idea che lo strumento economico debba essere “autonomo”, non influenzato dalla morale, ha permesso gravi abusi di esso.
Come già detto nell’Enciclica Spe salvi, questo immanentismo che toglie dalla storia la speranza cristiana in realtà priva l’uomo di una potente risorsa sociale, perché la speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà, sorge dalla fede e nutre la carità nella verità dalla quale è manifestata. Essa è un dono di Dio che irrompe assolutamente gratuito nella nostra vita, dono che in quanto tale eccede il merito e trascende la giustizia, segno della presenza di Dio nella nostra anima. Come insegna Sant’Agostino (*), al pari della carità anche la verità è un dono: nel processo conoscitivo noi non produciamo la verità, ma la troviamo, o meglio la riceviamo.
In quanto dono comune all’umanità intera, la carità nella verità è capace di unificare la comunità umana. Questa può diventare una comunione fraterna ed universale solo in quanto con-vocata, chiamata tutta insieme alla comunione, dalla parola di Dio-Amore.
(*) L’accenno all’insegnamento di Sant’Agostino è spiegato con maggiori dettagli in una nota a piè pagina, l’unica dell’Enciclica che non si limita a un rinvio documentale ma apporta considerazioni aggiuntive. Nel De libero arbitrio, Agostino parla di qualcosa che esiste nell’anima umana e che lui chiama “senso interno”: un atto intellettuale che però è separato dalle normali funzioni razionali, anzi è quasi istintivo, e con il quale la ragione prende atto della propria fallibilità e ammette che al di sopra di sé stessa esiste qualcosa che è assolutamente vero e certo. Agostino identifica questa verità interiore con Dio, ovvero con Cristo.
La citazione da Sant’Agostino, oltre a testimoniare la preminenza che ha questo santo e filosofo nel pensiero di Benedetto XVI, s’inquadra in ciò che il Papa chiama ampliamento della ragione. Con questo “senso interno” la razionalità può superare i propri limiti ed evitare di ridursi a un mero razionalismo che si rifiuta di riflettere su ciò che lo sovrasta.
Il mercato non è solo giustizia commutativa, ma anche distributiva e sociale. I poveri come risorsa del mercato.
35. Il mercato è il luogo-istituzione in cui si incontrano gli operatori economici, che stipulano contratti e scambiano beni e servizi per soddisfare i propri bisogni e desideri. Questi rapporti economici rispondono ai principi della giustizia commutativa: ciò che io ricevo deve essere equivalente a ciò che io do. Tuttavia il mercato non può reggersi solo sulla giustizia commutativa, ma ha bisogno anche di forme di giustizia distributiva (devo ricevere ciò di cui ho bisogno) e di giustizia sociale (devo dare un po’ di ciò che è mio alla comunità): altrimenti perde quella coesione sociale interna, quella fiducia reciproca di cui ha bisogno per funzionare.
Un esempio di come il sistema economico trae vantaggio dalla giustizia, intesa nell’accezione ampia del termine, è dato dalla considerazione (fatta da Paolo VI nella Populorum progressio) che se i paesi ricchi aiutano i paesi poveri a svilupparsi, ne traggono vantaggio essi stessi. I poveri sono una risorsa economica per il mercato: non nel senso, come dice qualcuno, che il mercato abbia fisiologicamente bisogno di una quota di poveri e perciò non si debba eliminare la povertà, ma nel senso che l’emancipazione dei poveri va nell’interesse del mercato stesso.
Il mercato non è cattivo di per sé ma lo diventa se gestito male. Il mercato non è mai culturalmente neutro. Necessario spazio per la gratuità e il dono.
36. L’attività economica non può migliorare la società se si regge solo sulla logica mercantile, ma deve avere riguardo anche al fine del bene comune. D’altronde, non si deve demonizzare il mercato e considerarlo il luogo naturale della violenza dei forti sui deboli: lo diventa se gestito da chi ha come unico criterio l’egoismo, ma esso non è cattivo di per sé. In effetti il mercato allo stato puro non esiste, perché esso è sempre influenzato da questa o quella cultura che lo orienta in un certo senso. Anche all’interno del mercato possono essere vissuti rapporti di autentica amicizia e solidarietà. La grande sfida che ci attende consiste proprio nel mostrare che il mercato non solo ha bisogno dei tradizionali principi etici come onestà e trasparenza, ma che in esso devono avere un loro spazio anche la gratuità e il dono, e ciò per un’esigenza della stessa ragione economica.
La giustizia non può essere posticipata rispetto alla produzione della ricchezza ma deve essere subito rispettata. Presenza di soggetti economici a fine non lucrativo. La globalizzazione, le tre forme di giustizia e il dono.
37. La giustizia riguarda tutte le fasi dell’economia, comprese la produzione e il consumo, perché ogni decisione economica ha conseguenze morali. Un tempo si poteva forse pensare di tenere separati il momento produttivo della ricchezza (affidato all’economia) e il momento distributivo della ricchezza (affidato alla politica secondo giustizia); ma oggi, poiché l’ambito economico si è internazionalizzato, mentre non è così per l’autorità locale dei governi, questo equilibrio è sbilanciato e inefficace. La giustizia deve essere pertanto rispettata fin dall’inizio. Occorre altresì che nel mercato agiscano anche soggetti che non sono mossi dalla pura ricerca del profitto (il che non vuol dire rinunciare a produrre valore economico).
Nell’epoca della globalizzazione si trovano a dover interagire e competere modelli economici che derivano da culture molto diverse. Questi modelli trovano un terreno comune d’incontro sul piano della giustizia commutativa, del contratto che regola lo scambio di valori equivalenti; ma l’economia globalizzata ha bisogno anche della giustizia distributiva e della giustizia sociale, ed ha bisogno altresì di attività legate allo spirito del dono.
Richiamo alla Centesimus annus: sistema tripartito mercato + Stato + società civile. La gratuità risiede naturalmente nel terzo ambito, ma deve essere presente anche negli altri due.
38. Giovanni Paolo II nell’Enciclica Centesimus annus aveva parlato di un sistema tripartito: mercato, Stato, società civile. L’ambito naturale in cui può operare il principio di gratuità è quello della società civile, ma ciò non toglie che esso non possa e non debba essere presente anche negli altri due; specialmente nell’epoca della globalizzazione, che ha bisogno della solidarietà creata dalla gratuità. Pertanto, accanto alle imprese private orientate al profitto e alle imprese pubbliche, devono esistere anche imprese che perseguono fini mutualistici e sociali: dal loro reciproco confronto si può sperare che si avvii una sorta di osmosi dei modelli d’impresa.
Richiamo alla Rerum novarum: il binomio mercato – Stato non è più sufficiente. Necessarie forme economiche solidali aperte alla gratuità.
39. Paolo VI nella Populorum progressio auspicava un’economia inclusiva di tutti i popoli, dove il progresso dell’uno non fosse ostacolo allo sviluppo dell’altro. In ciò sviluppava le aspirazioni contenute nella Rerum novarum, nella quale si esaminava l’idea, innovativa per quel tempo, che a seguito della rivoluzione industriale fosse necessario un intervento redistributivo dello Stato.
Oggi il binomio mercato – Stato non basta più. Accanto al “dare per avere” (la logica di scambio) e al “dare per dovere” (l’imposizione pubblica che finanzia l’assistenzialismo statale) è necessaria la progressiva apertura a forme economiche solidali, caratterizzate da quote di gratuità e comunione, che hanno il loro habitat naturale nella società civile.
Gestione aziendale e responsabilità manageriale. Stake-holders e share-holders. Responsabilità dell’investimento finanziario e della delocalizzazione produttiva.
40. La globalizzazione sta cambiando anche il modo d’intendere l’impresa, specialmente se di grandi dimensioni. Spesso coloro che gestiscono l’azienda rendono conto soltanto agli investitori, e la variabilità degli amministratori fa sì che essi non si sentano responsabili a lungo termine dei risultati. La delocalizzazione produttiva attenua il senso di responsabilità dell’imprenditore verso i portatori di interessi (stake-holders: lavoratori, fornitori, consumatori, l’ambiente naturale e la comunità di riferimento) a vantaggio dei soli azionisti (share-holders), i quali non sono legati a uno spazio specifico ma possono trovarsi in ogni parte del globo, e poi sono spesso costituiti non già da singoli investitori ma da fondi anonimi (che di fatto stabiliscono essi stessi il proprio guadagno). Per fortuna questo processo è controbilanciato da una maggiore consapevolezza sulla responsabilità sociale dell’impresa, per cui si diffonde l’idea la gestione aziendale deve tener conto non solo degli share-holders ma anche dei stake-holders, in particolare del luogo in cui opera l’impresa.
È necessario ricordare che l’investimento finanziario ha sempre un significato morale oltre che economico. Per esempio bisogna tenere conto del luogo in cui il capitale da investire è stato generato (e dei possibili danni derivanti dal suo impiego all’estero piuttosto che in patria), della sostenibilità dell’impresa a lungo termine, del servizio dell’investimento finanziario a vantaggio dell’economia reale. La delocalizzazione produttiva, specie nei paesi in via di sviluppo, può essere vantaggiosa se favorisce realmente le popolazioni del paese ospitante; ma è illecita se volta solo ad approfittare delle condizioni di favore o a sfruttare la forza lavoro.
Ecco un altro paragrafo profondamente “economico”, ricco di spunti per un’attenta riflessione sulla finanza moderna, che qui di seguito provo a sviluppare parzialmente senza pretesa di completezza.
L’argomento stake-holders e share-holders (il testo italiano dell’Enciclica non usa esattamente questi termini, ma essi sono presenti nella versione inglese e ormai fanno parte della terminologia specifica italiana, perciò ne faccio uso nel mio riassunto) è molto discusso tra coloro che si occupano di gestione aziendale. Ormai ogni grande impresa nella propria policy aziendale, cioè il documento che spiega la politica operativa dell’azienda, dichiara di voler tenere in considerazione tutti i portatori di interessi. Ma quante volte l’impegno resta sulla carta?
Il Papa nomina anche i problemi che derivano da una crescente “spersonalizzazione” degli azionisti delle imprese di grandi dimensioni (“a capitale diffuso”): anzitutto essi sono tantissimi, ciascuno dei quali detentore di una quota irrisoria di capitale (fenomeno noto come “polverizzazione del capitale”), e perciò il singolo azionista non è interessato o non è capace di controllare come viene gestita l’impresa; il che naturalmente va a tutto vantaggio dei manager e dei grandi gruppi finanziari che possono avere la maggioranza necessaria a gestire l’azienda tramite accordi dettagliati (“patti parasociali”) e percentuali minime attentamente calcolate di azioni possedute.
Inoltre, ormai è sempre più in disuso la formula “classica” dell’investimento finanziario, basata su una relazione diretta risparmiatore-imprenditore io-ti-affido-il-denaro-e-tu-lo-gestisci, o al limite indiretta con un singolo intermediario (es. una banca) a fare da tramite tra il creditore-risparmiatore e il debitore-imprenditore. Il moltiplicarsi dei fondi d’investimento ha dato vita a vere e proprie catene di intermediari di notevole lunghezza, per cui il risparmiatore affida il denaro a un fondo il quale (oltre a stabilire la propria commissione secondo criteri che spesso il risparmiatore non capisce) magari lo investe in altri fondi, che a loro volta investono in altri fondi… in questo modo la quantità di denaro che passa da un capo all’altro di questa “catena” (dal risparmiatore all’imprenditore) si assottiglia di una discreta percentuale, il tutto a vantaggio delle imprese di intermediazione (“l’economia finanziaria”) ma a danno dell’economia reale (cioè le imprese destinatarie finali dell’investimento, che producono beni e servizi “materiali”).
Ancora, Benedetto XVI accenna al fatto che l’investimento deve preoccuparsi anche della sostenibilità a lungo termine dell’impresa, e questo mi fa venire in mente il cosiddetto private equity. Sinteticamente si tratta di una tipologia di investimento finanziario-industriale consistente nell’acquisire la partecipazione di controllo di un’impresa sottosviluppata o in crisi, per gestirla con la prospettiva di migliorarla e liquidarla dopo tre o cinque anni, guadagnando sul ricavo. Come ogni strumento economico, anche l’investimento di private equity può essere usato positivamente o negativamente: può essere un’opportunità o un’ancora di salvezza per l’impresa gestita, ma può anche essere il pretesto con cui l’investitore intende “cannibalizzare” le risorse dell’impresa controllata, per spremerle fino all’ultimo lasciando alla fine un rottame industriale.
Infine merita di essere notato che il tema della delocalizzazione produttiva si pone in diretta continuità con il paragrafo 25 del precedente capitolo: lì erano analizzate le conseguenze della delocalizzazione per i lavoratori, qui sono trattate le implicazioni morali della stessa per gli investitori.
Significato articolato dell’imprenditorialità. Significato articolato dell’autorità politica.
41. L’imprenditorialità sta assumendo un significato articolato, ben oltre l’alternativa imprenditore privato / dirigente statale tipica del binomio mercato / Stato. Esistono vari tipi di imprese che superano tale distinzione. È bene che questa concezione ampia dell’imprenditoria favorisca il rapporto vantaggioso tra i settori del profit e del non profit, tra il settore pubblico e quello della società civile.
Anche l’autorità politica sta assumendo un significato articolato. L’economia integrata a livello mondiale richiede una più efficace collaborazione tra i governi, e dei progetti di aiuti internazionali efficaci, non limitati all’aspetto economico ma capaci di promuovere le garanzie proprie dello Stato di diritto e della democrazia. È da auspicare un’autorità politica articolata a livello locale, nazionale e internazionale, capace di orientare la globalizzazione economica.
La globalizzazione: serve un orientamento culturale attento alla persona e alla trascendenza. Rischio ed opportunità.
42. Bisogna evitare un atteggiamento fatalistico nei confronti della globalizzazione, come se essa fosse un’anonima forza impersonale e indipendente dalla volontà umana. In realtà essa non è semplicemente un processo socio-economico, ma l’interconnessione sempre più stretta tra tutti i popoli; un fatto non solo materiale, ma culturale, e come tale orientabile culturalmente ed eticamente. E dobbiamo impegnarci affinché tale orientamento sia a carattere personalista, comunitario, aperto alla trascendenza. La globalizzazione in sé non è né buona né cattiva, ma è semplicemente ciò che le persone fanno di essa. È un rischio ma anche un’opportunità, in particolare per le possibilità che porta di redistribuzione della ricchezza o della povertà. I popoli poveri non devono restare ancorati al loro stato di sottosviluppo e neanche accontentarsi della filantropia spicciola dei paesi ricchi: oggi le forze materiali per far uscire dalla miseria i paesi sottosviluppati sono effettivamente a disposizione, solo che le si voglia usare davvero.
15 agosto 2009 at 10:23
LA VERITA’ SULLA RIFORMA DELLA LITURGIA PROMOSSA DAL VATICANO 2°.
Occorre anzitutto spazzare via una serie di equivoci che ancora gravano pesantemente sul modo con cui la comprendiamo:
questo a causa di un nuovo fenomeno di arretramento ritualistico
che, per sconfiggere il revival tridentino, cerca di farne proprie alcune posizioni.
Così si afferma che la liturgia, per restare se stessa, non possa essere ridotta a “funzione” o “occasione” per una “comunicazione diversa”:
ma questo non è altro che panliturgismo sotto mentite spoglie e chiusura alla vita: non è il rito che giudica la vita dall’esterno, ma la vita che giudica il rito e lo sconfessa quando sconfina nel magismo e nella superstizione.
Gesù non ha certo fondato una liturgia, quindi è scorretto e viziato di tridentinismo dire che la liturgia è
essa stessa “comunione originaria”con lui.
L’ideologia della liturgia come fonte e culmine cancella l’esperienza dello Spirito che soffia dove vuole, quindi non necessariamente soffia nella liturgia.
Non ha senso parlare come i tridentini fanno di ex opere operato, anche nella ritrascrizione caseliana come Mistero che rende presente l’Evento.
Simili teorie smentiscono la rivoluzione rahneriana: non è certo il sacramento la via privilegiata di comunicare con il Signore.
Checchè ne dica il tridentinismo di ritorno che si veste di ritualismo nonvusordo, la liturgia non è “culmen et fons”,
“culmen et fons” è la vita terrena ripiena di Spirito anche in modo atematico: questo è il vero sacramento fondamentale.
La chiesa, nella versione ritualistica tridentina o postconciliare, teme il mondo e lo rifiuta, oppure o strumentalizza per interessi di potere.
La società secolare ha dimostrato l’inutilità di ogni strategia di manifestazione e copertura, rifiuta una chiesa esoterica, intimistica e pudibonda, come rifugge da ogni chiesa compromessa col Potere ed essa stessa Potere.
Oggi è il seculum che ha da dire,
come capì Bonhoeffer.
Non basta dirci conciliari per non essere integralisti, se non si assume come teologumeno e liturgoumeno il mondo profano!
d. mercenaro
LA VERITA’ SULLA RIFORMA DELLA LITURGIA PROMOSSA DAL VATICANO 2°.
Occorre anzitutto spazzare via una serie di equivoci che ancora gravano pesantemente sul modo con cui la comprendiamo:
questo a causa di un nuovo fenomeno di arretramento ritualistico
che, per sconfiggere il revival tridentino, cerca di farne proprie alcune posizioni.
Così si afferma che la liturgia, per restare se stessa, non possa essere ridotta a “funzione” o “occasione” per una “comunicazione diversa”:
ma questo non è altro che panliturgismo sotto mentite spoglie e chiusura alla vita: non è il rito che giudica la vita dall’esterno, ma la vita che giudica il rito e lo sconfessa quando sconfina nel magismo e nella superstizione.
Gesù non ha certo fondato una liturgia, quindi è scorretto e viziato di tridentinismo dire che la liturgia è
essa stessa “comunione originaria”con lui.
L’ideologia della liturgia come fonte e culmine cancella l’esperienza dello Spirito che soffia dove vuole, quindi non necessariamente soffia nella liturgia.
Non ha senso parlare come i tridentini fanno di ex opere operato, anche nella ritrascrizione caseliana come Mistero che rende presente l’Evento.
Simili teorie smentiscono la rivoluzione rahneriana: non è certo il sacramento la via privilegiata di comunicare con il Signore.
Checchè ne dica il tridentinismo di ritorno che si veste di ritualismo nonvusordo, la liturgia non è “culmen et fons”,
“culmen et fons” è la vita terrena ripiena di Spirito anche in modo atematico: questo è il vero sacramento fondamentale.
La chiesa, nella versione ritualistica tridentina o postconciliare, teme il mondo e lo rifiuta, oppure o strumentalizza per interessi di potere.
La società secolare ha dimostrato l’inutilità di ogni strategia di manifestazione e copertura, rifiuta una chiesa esoterica, intimistica e pudibonda, come rifugge da ogni chiesa compromessa col Potere ed essa stessa Potere.
Oggi è il seculum che ha da dire,
come capì Bonhoeffer.
Non basta dirci conciliari per non essere integralisti, se non si assume come teologumeno e liturgoumeno il mondo profano!
d. mercenaro
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15 agosto 2009 at 11:23
LA VERITA’ SULLA RIFORMA DELLA LITURGIA PROMOSSA DAL VATICANO 2°.
Occorre anzitutto spazzare via una serie di equivoci che ancora gravano pesantemente sul modo con cui la comprendiamo:
questo a causa di un nuovo fenomeno di arretramento ritualistico
che, per sconfiggere il revival tridentino, cerca di farne proprie alcune posizioni.
Così si afferma che la liturgia, per restare se stessa, non possa essere ridotta a “funzione” o “occasione” per una “comunicazione diversa”:
ma questo non è altro che panliturgismo sotto mentite spoglie e chiusura alla vita: non è il rito che giudica la vita dall’esterno, ma la vita che giudica il rito e lo sconfessa quando sconfina nel magismo e nella superstizione.
Gesù non ha certo fondato una liturgia, quindi è scorretto e viziato di tridentinismo dire che la liturgia è
essa stessa “comunione originaria”con lui.
L’ideologia della liturgia come fonte e culmine cancella l’esperienza dello Spirito che soffia dove vuole, quindi non necessariamente soffia nella liturgia.
Non ha senso parlare come i tridentini fanno di ex opere operato, anche nella ritrascrizione caseliana come Mistero che rende presente l’Evento.
Simili teorie smentiscono la rivoluzione rahneriana: non è certo il sacramento la via privilegiata di comunicare con il Signore.
Checchè ne dica il tridentinismo di ritorno che si veste di ritualismo nonvusordo, la liturgia non è “culmen et fons”,
“culmen et fons” è la vita terrena ripiena di Spirito anche in modo atematico: questo è il vero sacramento fondamentale.
La chiesa, nella versione ritualistica tridentina o postconciliare, teme il mondo e lo rifiuta, oppure o strumentalizza per interessi di potere.
La società secolare ha dimostrato l’inutilità di ogni strategia di manifestazione e copertura, rifiuta una chiesa esoterica, intimistica e pudibonda, come rifugge da ogni chiesa compromessa col Potere ed essa stessa Potere.
Oggi è il seculum che ha da dire,
come capì Bonhoeffer.
Non basta dirci conciliari per non essere integralisti, se non si assume come teologumeno e liturgoumeno il mondo profano!
d. mercenaro
LA VERITA’ SULLA RIFORMA DELLA LITURGIA PROMOSSA DAL VATICANO 2°.
Occorre anzitutto spazzare via una serie di equivoci che ancora gravano pesantemente sul modo con cui la comprendiamo:
questo a causa di un nuovo fenomeno di arretramento ritualistico
che, per sconfiggere il revival tridentino, cerca di farne proprie alcune posizioni.
Così si afferma che la liturgia, per restare se stessa, non possa essere ridotta a “funzione” o “occasione” per una “comunicazione diversa”:
ma questo non è altro che panliturgismo sotto mentite spoglie e chiusura alla vita: non è il rito che giudica la vita dall’esterno, ma la vita che giudica il rito e lo sconfessa quando sconfina nel magismo e nella superstizione.
Gesù non ha certo fondato una liturgia, quindi è scorretto e viziato di tridentinismo dire che la liturgia è
essa stessa “comunione originaria”con lui.
L’ideologia della liturgia come fonte e culmine cancella l’esperienza dello Spirito che soffia dove vuole, quindi non necessariamente soffia nella liturgia.
Non ha senso parlare come i tridentini fanno di ex opere operato, anche nella ritrascrizione caseliana come Mistero che rende presente l’Evento.
Simili teorie smentiscono la rivoluzione rahneriana: non è certo il sacramento la via privilegiata di comunicare con il Signore.
Checchè ne dica il tridentinismo di ritorno che si veste di ritualismo nonvusordo, la liturgia non è “culmen et fons”,
“culmen et fons” è la vita terrena ripiena di Spirito anche in modo atematico: questo è il vero sacramento fondamentale.
La chiesa, nella versione ritualistica tridentina o postconciliare, teme il mondo e lo rifiuta, oppure o strumentalizza per interessi di potere.
La società secolare ha dimostrato l’inutilità di ogni strategia di manifestazione e copertura, rifiuta una chiesa esoterica, intimistica e pudibonda, come rifugge da ogni chiesa compromessa col Potere ed essa stessa Potere.
Oggi è il seculum che ha da dire,
come capì Bonhoeffer.
Non basta dirci conciliari per non essere integralisti, se non si assume come teologumeno e liturgoumeno il mondo profano!
d. mercenaro
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