Babele 2.0

L’imputato parlava molto lentamente.

“Chi non è cattolico fa schifo, è un sub-umano. Chi non è cattolico deve andare in prigione e brucerà all’inferno. Il catechismo cattolico deve diventare legge dello Stato e il Papa deve diventare il padrone del mondo. Dio odia lo Stato laico. Dio odia chi non è cattolico. Dio odia…”

I giudici non riuscirono a capire il resto della frase, letteralmente sepolta dai boati della folla urlante. Ma ormai non importava più, avevano sentito abbastanza, e raramente avevano ascoltato qualcosa di più agghiacciante. Praticamente ogni sillaba che usciva dalla bocca di quel fondamentalista era l’apologia di un qualche reato, dal femminicidio alla teocrazia, dall’omofobia al delitto di lesa autodeterminazione, non mancava nulla. Lo interruppero mentre blaterava qualcosa sui grumi di cellule, voleva imporre le sue opinioni agli altri, tipico dei cattolici, gente malata.
Quei fanatici erano erano un pericolo per la società. Lasciarli a piede libero era impensabile. I liberi cittadini andavano protetti dalle loro menzogne.
La camera di consiglio fu veloce, la sentenza equa, l’esecuzione immediata. Il pubblico applaudì e chiese il bis. C’erano altri prigionieri da giudicare, ma Nimrodio ne aveva abbastanza. Amministrare la giustizia era un lavoro stancante. Diede a un collega di cui si fidava la delega per votare anche a suo nome, salutò gli altri magistrati e prese il primo aerobus per tornare a casa.

“Cara, sono tornato.”
“Amore, finalmente! Mi sei mancato tanto!”
La voce dolce e familiare di sua moglie lo accolse dalla cucina, mentre Nimrodio si svestiva nel pianerottolo.
“Oh, sapessi, che giornata.”
“Povero tesoro, devi essere distrutto. Tu ti fai in quattro per meritare il tuo mega-stipendio, io invece faccio una vita da favola grazie a te.”
“Ma no, non esagerare, anche tu hai un lavoro…”
“Sì, ma non è certo faticoso e importante come il tuo. Non preoccuparti, adesso penso a tutto io. Tu stenditi sul divano e accendi la olovisione, intanto preparo la cena, so già quello che ti piace”.
“Tesoro, sei fantastica, davvero… sei perfetta!”
“Mai quanto te! Ora riposati, e recupera le energie per il dopocena… ihih! Guardiamo assieme la partita della tua squadra, vincerà sicuramente, e poi andiamo a letto e facciamo tutto quello che vuoi. Anelo la tua virilità mastodontica, non ho pensato ad altro per tutto il giorno!”
“Uahaha, sei proprio una birichina…”
Andò sul divano e si aprì una birra intanto che aspettava la cena. All’ologiornale parlavano dei processi di quel giorno ed elogiavano il suo lavoro. Procedendo a quel ritmo, la setta teocratica sarebbe stata sgominata nel giro di pochi anni, e a quel punto la carriera sua sarebbe decollata. Addirittura lo speaker nel servizio citava per intero, virgole punti e virgola e tutto quanto, un brano della sentenza scritto da lui, proprio lui! Ah, domani gli altri giudici sarebbero schiattati d’invidia. Gongolò a immaginarsi la faccia di Nembrotto, il suo vicino di scrivania, quell’incapace arrogante…
Distratto nei suoi pensieri, Nimrodio badò a malapena al resto dell’o.g., l’attenzione gli tornò soltanto quando vennero le previsioni del tempo presentate dalle donne nude safficheggianti. L’olovisione in HD e grandezza naturale valeva ogni centesimo pagato.
Poi partì la sigla di chiusura e in quel momento guardò l’orologio e realizzò che si era fatto tardi, e né sua moglie né la cena erano arrivate.
Strano.
“Tesoro… tutto bene?”
Nessuna risposta. Ma che cavolo. Molto seccante. Era quello il modo di comportarsi?
“Cara, ma che stai facendo?!?”
Silenzio.
Ora era un po’ preoccupato. Le fosse successo qualcosa? Un incidente domestico? Rabbrividì all’idea. Lui era un giudice equo e probo, ma certi suoi colleghi appioppavano condanne per femminicidio al primo livido, senza manco disporre una CTU. Cane non mangia cane, però…
“Amore, ti prego, rispondimi!”
Si alzò a fatica dal divano, corse in cucina e trovò sua moglie seduta a piangere, senza parlare e senza neppure singhiozzare. Lo guardava in silenzio, rigida, mentre le lacrime scendevano lungo le guance. Alzò una mano facendogli cenno di stare fermo, di non avvicinarsi, di non parlare.
Nimrodio era frastornato. Ma che era quella novità? Il mondo era sottosopra? Quando mai sua moglie aveva sofferto di depressione?
Lei si portò la mano all’orecchio e fece il gesto di togliersi qualcosa.

 

Allora lui capì.
Si era dimenticato, un’altra volta, di togliersi il babelfish dopo il lavoro. L’aveva lasciato lì nella cavità auricolare e quello aveva continuato a tradurre tutto quello che sentiva.
Mannaggia.
Si levò il dannato affare così in fretta da farsi male, buttandolo nel lavandino. Il pesce di Babele non si lamentò, resto lì a mangiare i grumi di cerume che gli erano rimasti appiccati, per lui dovevano essere un bocconcino prelibato.
“Tesoro! Perdonami! Mi ero scorda…”
Ma improvvisamente lei abbandonò la sua quiete.
“SEI UNO STRONZO!!!”
Prese una scopa e cominciò a dargliela addosso, furibonda, mentre lui era ancora scioccato e non riusciva a far altro che tentare vanamente di difendersi.
“Stronzo! Egoista! Per l’ennesima volta torni a casa con quel coso nell’orecchio e non te lo togli neanche per mangiare! Non ne posso più! Fai schifo! Vaffanculo! TI ODIO!!!”
“Ti prego, amore, non merito… ouch!”
“Mi tratti come se fossi uno dei tuoi imputati! Parlo parlo e non ascolti mai quello che dico! Hai la testa sempre altrove, pensi solo alle tue cose, ai tuoi processi, alla tua carriera!”
“Ma lo faccio per te! La mia carriera è importante per la nostra famiglia, noi… ahia! Basta! Pietà!”
“Anche io ho un lavoro! Credi che non sia importante quanto il tuo? Credi che i robot per pulire la casa si programmino da soli? Non ti interessi mai di quello che faccio, non mi chiedi mai com’è andata la MIA giornata! Oppure lo chiedi per finta e poi non mi senti, hai il babelfish acceso e chissà cosa stai pensando di ascoltare!”
“Basta! Basta! Ti ho chiesto scusa! Non è sufficiente? Cos’altro pretendi da me?”
Lei si fermò, ansante, gli occhi di ghiaccio. Nimrodio si tastò dolorante un paio di costole, probabilmente incrinate, e si leccò il sangue da un taglio sulla faccia. Era imprigionato in un angolo della cucina e  sua moglie incombeva minacciosa, con quella maledetta scopa modello de luxe che lui le aveva regalato per il quinto anniversario.
“Voglio” disse livida “che butti nell’immondizia quell’aggeggio e non te lo metti più. MAI più.”
Panico.
“Amore, ma non ti basta se me lo tolgo quando stacco dal lavoro? Lo lascio in tribunale e…”
“L’hai già promesso tante volte, e poi te ne sei dimenticato comunque.”
“Questa volta manterrò la promessa.”
“Anche questa promessa l’hai già fatta, e infranta. Non mi fido più. Si vede che il pesce dà assuefazione. O me, o lui. Deciditi!”
“Ma non è possibile! Mi serve! Come faccio senza?! Tutti i colleghi lo usano! Come faremmo altrimenti a fare tanti processi al giorno? Io, noi, loro…”
Preso dalla disperazione, si ritrovò a improvvisare su due piedi un bignami di storia forense, difendendo l’esistenza e l’utilità anzi la necessità del babelfish, la meravigliosa invenzione biotecnologica che assorbiva le frequenze inconsce, le masticava, le digeriva e le defecava in una matrice di frequenze consce diretta verso i centri cerebrali del linguaggio. Se indossavi un babelfish nessuno poteva mentirti, perché convertiva quello che uno ti diceva in quello che tu già sapevi che lui voleva veramente dire. Il pesce di babele aveva rivoluzionato la procedura civile e penale, nessun giudice poteva più essere preso in giro dagli imputati, l’interrogatorio diretto aveva sostituito e reso obsoleti tutti gli altri mezzi probatori. Perciò lei non poteva chiedergli di rinunciare al babelfish, non poteva assolutamente non poteva, tutto ma non quello, se non lo usava l’avrebbero tolto dai processi importanti, la sua carriera…
“AAAAAAHHHH!!!!!!”
La scopa si abbattè ancora, implacabile.
“Se nomini ancora una volta la tua carriera, giuro che questa scopa la uso per fare una cosa che non hai mai visto neppure nel peggiore dei tuoi porno. Non me ne frega niente della tua carriera. Non me ne frega niente neppure dei tuoi imputati. Condannateli appena li catturate, tanto cosa li fate parlare a fare?”
“Amore, dipendesse da me lo farei subito. Quella gente non merita rispetto. Pensa che l’altro giorno uno dei loro capi ha detto che si possono violentare le donne che hanno abortito. Bastardi schifosi, io li affiderei tutti al boia e buonanotte. Ma noi giudici dobbiamo essere giusti, bisogna rispettare il codice, la procedura, gli articoli…”
“Che poi magari non dicono neppure davvero quello i quotidiani dicono che loro dicano.”
“Non è vero! Non è vero! Queste sono le bufale messe in giro dai tecnofobici oscurantisti che odiano la scienza! Il pesce-babele ha un margine di errore soltanto del 6,66% e comunque ciò che gli imputati dicono è sempre attendibile nel suo senso generale, anche se non nelle singole formulazioni. Guarda, in teoria sono anche disposto a ipotizzare che talvolta qualcuno non abbia detto alcune delle cose che gli ho attribuito, ma questo non conta! Quelle cose sono comunque importanti per far capire alla gente chi era lui, come pensano i cattolici! E poi c’è la prova del nove! Vedi, quando noi giudici interroghiamo un prigioniero con il babelfish, verbalizziamo le sue dichiarazioni e le mandiamo a tutti i giornali per l’edizione del giorno dopo, così tutti possono leggerle e farsi un’opinione autonomamente. Anche i cattolici stessi le leggono, indubbiamente, mentre si nascondono in clandestinità. Ebbene, ci hanno mai fatto contestazioni? Si sono mai lamentati? NO! Nessun giornale ha mai pubblicato una loro lettera di protesta, e nessun prigioniero sotto interrogatorio ha mai ricusato i nostri verbali!”
“Questo spiega tutto, in effetti.”
“Sì! Esatto! BRAVISSIMA! Perciò tu certamente capisci, cara, che il mio lavoro è importantissimo per la società, la mia c…” si interruppe, terreo, al suo sguardo truce.
“Insomma, non puoi proprio rinunciare a quel coso.”
“Io… eh… no. Ma ti prometto, ti garantisco, ti giuro solennemente, amore mio, che…”
“Allora non mi resta che una sola cosa da fare.”
Gli diede l’ennesima botta in testa.

 Quando riprese coscienza, la cucina era vuota. Il pesce di babele era stato spiaccicato. Lei non c’era più. La chiamò, la cercò paurosamente in ogni stanza: se n’era andata. E con lei se ne erano andati tutti i suoi vestiti, tutti i suoi gioielli, tutto quanto.
Quello che non era scomparso era distrutto. Aveva fatto a pezzi tutto quello che non poteva portare, l’olovisione costosissima, il divano, la scrivania del suo studio. Il letto su cui si erano tanto divertiti ora aveva la rete sfondata e il materasso squarciato. Non capì dove fossero finiti tutti i suoi manuali di diritto finchè non realizzò la singolarità del camino acceso nel mese di messidoro.
Anche il frigorifero era vuoto. Niente da mangiare per cena. Restava solo la birra, che lei gli aveva lasciato probabilmente come implicito suggerimento di darsi all’alcolismo.
Decise di accettare il suo consiglio.

 

Si risvegliò la mattina dopo, la testa rintronante, il telefono che squillava senza sosta. Dormire sul pavimento non aveva migliorato la situazione della sua schiena. Gemendo, si trascinò alla cornetta e rispose biascicando.
Era Nembrotto, il suo vicino di scrivania.
“Nimrodio! Ma che fine hai fatto? Ti stiamo aspettando! Dobbiamo andare avanti con i processi! Oggi abbiamo un pezzo grosso, uno col berretto rosso! Se ci andiamo giù abbastanza pesante, magari riusciamo a farci confessare dove si nasconde il tizio vestito di bianco! Non puoi mancare! Corri qui! Sbrigati!”
“Io… non posso… malato…”
“Ah, mi spiace molto. Pazienza. Ho la tua delega, vero? Posso mettere anche il tuo nome?”
Tra le sue tempie martellenti si fece faticosamente strada la vaga immaginazione delle stupidaggini pseudogiuridiche che quell’idiota sarebbe stato capace di scribacchiare e sottoscrivere con la sua firma. Gli poteva rovinare la carriera.
“Eh… veramente… cioè, ti ringrazio tanto dell’offerta, sei premurosissimo, un vero amico… tuttavia, ecco, senza offesa, io invece preferirei dare la mia delega a qualcun altro, per favore passami al telefono…”
“Ah ah, lo so! Sei gentilissimo, come sempre. Ti ringrazio. Non preoccuparti. La tua fiducia non poteva essere riposta in mani migliori.”
“Sì… io… cosa? Non ho capito…”
“Allora siamo d’accordo, firmo anche per te.”
“No… fermo… aspetta…”
“Va bene, lo terrò a mente.”
“NOOOOO! Nembrotto, aspetta, tu… anche tu ieri sera hai dimenticato di toglierti il babelfish! Fermo! fermo! Devi levartelo dall’orecchio! Senti quello che ti dico! Nembrotto, tu devi ascoltarmi, devi…”
“SÌÌÌÌÌÌ! È vero! Ho visto anche io l’ologiornale ieri sera! A un certo punto lo speaker nel servizio ha citato per intero, virgole punti e virgola e tutto quanto, proprio il brano che avevo scritto io! Che grandiosa soddisfazione! Bravissimo, sei stato l’unico ad accorgertene, qua nessun altro mi ha detto niente! Staranno tutti schiattando d’invidia! Sei proprio un grande amico!”
“no, no, Nembrotto, ti sbagli! L’ologiornale ha citato me, ha parlato del mio lavoro… non ci senti bene… togliti il pesce dall’orecchio, toglitelo! Ascoltami, tronfio babbeo, devi ASCOLTARMI!!! Sturati le orecchie! Cretino! Deficiente!”
“ah ah, basta, non merito tutti questi elogi. Carissimo, è sempre un piacere discutere con te che sei tanto intelligente e sai riconoscere l’altrui valore, ora però devo proprio andare. I criminali aspettano tremanti, la giustizia chiama. Mi raccomando, riposati. Salutami tanto tua moglie, sono sicuro che con le sue amorevoli cure ti rimetterai in men che non si dica. Ciao!”
“NOOOOOOOO! Fermo! Ascoltami… ascoltami… ascoltami…”
Silenzio. Aveva riattaccato.

“Nembrotto, ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami… ascoltami…”

 


L’amore è un apostrofo rosa tra le parole “ti lascio”

Commento velocemente, in pochi minuti strappati a molte cose da fare nella vita offline, un fatto marginale ma non insignificante, segno dei tempi.

Scopro casualmente l’esistenza del libro “101 modi per dimenticare il tuo ex e trovarne subito un altro”, di Federica Bosco, Newton Compton 2011. Quarta di copertina:

 Quando una storia finisce male, sul campo non restano che macerie, fumo, ambulanze e un ferito grave: quello che è stato colpito dalla granata. L’altro è già scappato lontano. Se solo ci fosse un modo per smettere di soffrire a comando, se bastasse una parola magica per tornare indietro e lasciarlo prima che ti lasci lui… Ma chiuderti in te stessa non serve, non lo farà tornare e non ti farà star meglio: l’unico modo per sconfiggere il dolore è reagire. […]E infine, la terapia d’attacco: un insieme di idee per rifare il look alla tua vita, riconquistare la fiducia in te stessa ed essere pronta a un nuovo amore.”

 Fate attenzione al titolo del libro: potenza del linguaggio, una sola lettera è decisiva per il significato.

 Se il titolo fosse “dimenticare il tuo ex e trovare subito un altro”, l’aggettivo “altro” sottintenderebbe un sostantivo pacificamente ovvio: altro fidanzato, marito, compagno, uomo purchessia.
Invece, in “dimenticare il tuo ex e trovarne subito un altro”, per quella n di troppo trovarne = verbo trovare + particella ne, riferita alla parola ex. Perciò è proprio a questa parola che si lega l’aggettivo “altro”.
La parola ex, mi conferma lo Zanichelli, ha funzione sia di aggettivo sia di sostantivo. Quest’ultimo è il caso dell’accezione sentimentale, il mio ex, la mia ex, la persona con cui è terminato un rapporto amoroso.
Crudele morfosintassi: per com’è scritto, il titolo significa “trovare un altro ex”. Il che, considerato il target del libro, è tragicomico.
Sventurata pulzella, non farti illusioni: anche il prossimo tizio ti lascerà, o tu lascerai lui, o vi lascerete consensualmente, insomma finirà pure il prossimo giro di valzer.
L’amore è a tempo determinato, questo il sottinteso postulato.

Tre possibilità. La prima è che chi ha deciso il titolo del libro non padroneggiasse perfettamente la grammatica e non si fosse reso conto delle implicazioni semantiche. L’idea è triste, la Newton Compton è la mia casa editrice preferita, saperla ricettacolo di redattori incompetenti mi addolora.
La seconda è un lapsus freudiano, possibile, comunque ricordate che Freud è soltanto un simbolo fallico.
La terza è che colui o colei se ne rendesse conto, e che il titolo sia voluto proprio così per chissà quali motivi (autoironici?), forse nel libro sono spiegati, per saperlo dovrei leggerlo ma non ho voglia.

Non voglio lanciare facili giudizi derisori sul libro, magari è pure ben scritto, non è questo il punto.
È solo un piccolo aneddoto, ma rende bene l’immagine di una società ormai, più che “liquida” alla Zygmunt Baumant, direi evaporata proprio nel senso cinetico del termine: singoli che si accoppiano e si disaccoppiano in rapida successione, non ci sono più legami (al limite solo “lègami”, nel senso del gioco erotico), gli individui come molecole in perenne moto browniano sentimental-sessuale.

Riccardo Ruggeri, un pensatore che giudico molto saggio, qualche settimana fa, commentando questo modello di «singoli apolidi politicamente corretti, concentrati su loro stessi nel consumare la vita, intesa solo come soddisfazione e piacere» informava i lettori di una nuova frontiera della società liquida:

gli avanguardisti californiani hanno innovato uno degli istituti più antichi: il testamento. In California, questi prototipi umani avanzati sono detti «Skier» (Spending the kids’ inheritance; spendono l’eredità dei figlioletti). Semplicemente dilapidano tutti i risparmi della Famiglia, mobili e immobili. Certo, se sbagliano la programmazione sono spacciati: o diventano barboni, o si affidano all’eutanasia statale o parastatale, o si suicidano all’antica. […]

Una società di monadi, in fuga dal passato, avide di presente, senza futuro.
L’amore è diventato un apostrofo rosa tra le parole “ti lascio” (al verde?).

La morale di questo post è che bisogna prestare attenzione ai titoli e alla grammatica.
Infatti, qualcuno avrà già notato qualcosa di strano nel titolo del post: come fa l’amore ad essere l’apostrofo in “ti lascio” se, tra queste due parole, non c’è nessun apostrofo?

Appunto.


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Morale naturale for dummies (ivi incluso Paolo Flores d’Arcais).
Provo a spiegare in modo basilare e comprensibile che il bene oggettivo esiste; per fare ciò userò un esempio preso da LOST, la mia serie tv preferita.

(per inciso LOST è un capolavoro perché ha portato in tv la filosofia come genere narrativo, ma questo è un mio opinabile punto di vista e un discorso a parte; se non siete d’accordo, continuate pure)

Supponete che vi capiti di entrare in possesso di una scatola da cui dipende il destino dell’universo. Per comodità narrativa facciamo che la scatola è stata inventata da uno scienziato pazzo vostro amico – quel tipo di scienziato pazzo che quando va al bagno inventa il flusso canalizzatore per viaggiare nel tempo, quel tipo di scienziato pazzo delle cui capacità non dubitate affatto – che per bizzarri motivi vi affida la scatola scongiurandovi di farne saggio uso.
Il funzionamento della scatola è semplice. C’è un bottone che deve essere periodicamente premuto. Non è necessario che sia una periodicità di 108 minuti; per semplificare le cose ipotizziamo che sia un compito che non richiede alcun sacrificio. Se si preme l’interruttore, il mondo va tranquillamente avanti come ha sempre fatto. Se non si preme l’interruttore, parte una reazione a catena che provoca L’ANNICHILIMENTO DELL’UNIVERSO. Una specie di Big Bang inverso e istantaneo. Finisce tutto, non resta letteralmente più niente, nulla, zero, insieme vuoto, Ø, [   ].
Chiaramente la premessa richiede una certa dose di sospensione d’incredulità, ma fatela questa sospensione, perché qui non interessa la verosimiglianza tecnica della cosa – che peraltro è fantascientifica ma non necessariamente impossibile, o almeno non possiamo escluderlo a priori – ma piuttosto le implicazioni morali della stessa.
Allora insomma bisogna decidere, premere o non premere il bottone.
Domande:

  1. Cosa fate?
  2. Perché lo fate?
  3. Cosa è giusto fare?

 Andiamo oltre. Supponiamo che lo scienziato abbia affidato non a voi soli la scatola, ma a voi e un amico vostro. Ed ecco che, quando si arriva al dunque, l’amico se ne esce dicendo che no, lui il bottone non vuole premerlo. Non spiega perché, ma vuole che il mondo finisca, vuole che tutto smetta di essere. Qualcuno non è d’accordo? E chi se ne frega.
Piglia la scatola e scappa, per evitare che possiate premere il bottone.
Che fate, gli correte appresso?

L’esempio è estremo, ma l’intellettualismo postmoderno è arrivato a un tale punto di impazzimento che servono esempi estremi. Questo ci pone di fronte a un’alternativa infinitamente amletica: o l’essere o il niente, tertium non datur.

E dunque ditemi, cari lettori: vi passa seriamente per la capa di dire che le due opzioni – premere o non premere il bottone – sono oggettivamente indifferenti? Che l’una vale l’altra? Che è una questione di giudizio soggettivo, esclusivamente radicato nella “coscienza” autonoma e nella libera scelta del soggetto agente? Che non c’è nessun intrinseco “questo è meglio di quello”? Che se l’universo, le cose che sono, gli enti tutti quanti, la res cogitans e la res extensa, le sostanze gli accidenti e li mortacci tua, se essi potessero in qualche modo impersonificarsi per un istante e prendere parola, ci direbbero…?
ma sì, che ce frega, pigialo oppure non pigiarlo ‘sto bottone del cavolo: per noi è la stessa cosa!

Insomma: si può dire che da questo FATTO – l’universo è, le cose sono, noi esistiamo o quantomeno cogitiamo di esistere, e quello che è continua ad essere – non si può in alcun modo ricavare un qualche minimo VALORE di preferenza di un’opzione rispetto all’altra ?

 Presumo che una nutrita schiera di lettori – cattolici, teisti razionali, atei, vattelapesca – avrà già raggiunto la conclusione che SI DEVE premere quel fottuto interruttore. Che È MEGLIO rincorrere quello stronzo che se l’è data a gambe (qualcuno dalla regia aggiunge: dargli pure un fracco di botte) ed evitare che l’universo sprofondi nel nulla cosmico, e noi con esso.

 Invece i soggettivisti radicali, se volessero essere coerenti con i loro assiomi, dovrebbero rispondere sì a tutte quelle domande: perché secondo loro dal fatto (ciò che è) non si può dedurre l’etica (ciò che deve essere). Le cose che sono, “sono” e basta. Non esiste una natura che ci “dica” di fare qualcosa o di essere in un modo invece che in un altro: tutto ciò che esiste è già naturale di suo, “naturale” diventa parola priva di confini, dunque priva di significato. Al soggettivista radicale piace tanto un’espressione: “fallacia naturalistica”. Questa fallacia si ha quando da una descrizione si passa indebitamente ad una prescrizione. Esempio banale di fallacia naturalistica:

  1. Ci sono esseri umani che hanno la pelle chiara.
  2. Gli esseri umani devono avere la pelle chiara.
  3. Chi non ha la pelle chiara, non è un essere umano.

Purtroppo, il soggettivista radicale fa ampio abuso della fallacia naturalistica: è sempre pronto a tirarla fuori ovunque, una specie di arbitro della logica col cartellino rosso sempre alzato e il fischietto pronto a fischiare “fallacia naturalistica! Fallacia naturalistica!”. Dal fatto che esistono indebiti salti descrizione→prescrizione, il soggettivista radicale ricava (per inciso mi chiedo se non sia questa, essa stessa, una fallacia naturalistica) che non possono esisterne di debiti.

Come scrive Paolo Flores d’Arcais (La Stampa, 11/12/2012), “l’etica è soggettiva”:

 la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi […]
da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuori umani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip.
Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.

Sarebbe inutile obiettare a PFD’A che la sua visione del mondo è dannosa e agghiacciante, perché ci consegna dritti dritti alla guerra brutale del tutti contro tutti, alla legge del più forte. Che, così, contro lo stupratore l’assassino il genocida eccetera non possiamo portare argomenti (che non valgono, perché non esistono “valori” ma solo “valutazioni”); possiamo portare solo una corda per impiccarlo più in alto, perché «non è questione di conoscenza, ma di lotta», e noi prevaricheremo lui oppure lui prevaricherà noi, e la Storia è tutta qua.
Inutile, perché PFD’A non ci sente da quell’orecchio, è troppo inebriato dalla sua terrorizzante & ineludibile “responsabilità” (ma verso chi?). Come può essere brutto, un mondo in cui è “lui” a decidere? Come può essere spaventoso, un mondo in cui è “lui” ad essere creatore e signore del bene e del male?

Allora quello che bisogna obiettare, per avere la minima speranza di scuotere PFD’A e tutti i soggettivisti radicali dalla loro illusione (gnostica) di dominio etico, è che la tesi non è semplicemente dannosa: è sbagliata, anzi, è proprio scema.
Perché dei valori morali oggettivi esistono, ancorchè basilari e generali, e con l’esperienza e la ragione – la fede aiuta, ma viene dopo – qualunque essere umano mediamente pensante può arrivarci:

  • ESPERIENZA: il mondo esiste. È un’evidenza. Si mostra, non si dimostra.
  • ESPERIENZA: il mondo continua ad esistere, ed anche gli enti che ne fanno parte continuano ad esistere finchè possono. Gli esseri viventi, noi compresi, hanno volontà e istinto di autoconservazione. Gli oggetti inanimati non hanno “volontà” o “istinto”, ma hanno una “tendenza”: le pietre non si sgretolano da sole, la Terra non ridiventa plasma e polvere cosmica, la forza di gravità continua a “funzionare”.
  • RAGIONE: gli enti hanno un orientamento, una inclinazione, una propensione, una “preferenza”, un fine intrinseco, insomma una teleologia, per cui essere è meglio che non essere.
  • RAGIONE: non è vero che dall’essere non si può dedurre il dover essere; dall’essere si può dedurre almeno un grado minimo di dover essere, cioè il fatto di dover continuare ad essere.

GIUDIZIO DI FATTO:
ciò che è, “vuole”, “deve” continuare ad essere

GIUDIZIO DI VALORE:
PREMI QUEL C**** DI BOTTONE!!!

  Siamo scesi, mi pare, al grado minimo di etica naturale oggettiva. Più sotto c’è solo da scavare (una tomba, ché una società così intellettualmente spappolata da dimenticare l’istinto di conservazione, non ha futuro).
Eppure so già che amabili zuzzurelloni soggettivisti, o perché si divertono così o perché ci credono davvero, negheranno anche questo grado minimo. Non per niente questa è l’epoca disgraziata in cui ci tocca combattere per i prodigi visibili come se fossero invisibili.

 Ecco il valore morale base: essere è oggettivamente meglio che non essere. È “scritto” nel mondo, in ciò che noi stessi siamo, nel nostro “modo” di essere.
Definiamo “natura” (definizione vaga, ma per ora accontentiamoci) questo modo di essere dell’ente. Definiamo “naturale” ciò che asseconda questo modo. Definiamo “innaturale” ciò che lo contrasta.
È naturale, buono, premere il bottone.
È innaturale, cattivo, non premerlo.

MORALE NATURALE
essere = bene
non essere = male

Ora, il nostro è un esempio estremo. La stramaledetta scatola non conosce mezze misure: o l’essere, o il niente. Ci serve per partire proprio dall’ABC della morale naturale, perché a questo ci siamo ridotti.
Ma la vita quotidiana non è così estrema. Noi vediamo (e anche questo è un giudizio di esperienza + ragione) che nel mondo non si dà questa dualità brutale. Alzi la mano chi si è mai trovato davvero a dover decidere tra l’alternativa x e l’annichilimento immediato e totale di tutto ciò che esiste.
Ecco allora che ci accorgiamo che esiste una gradualità, tale per cui gli enti non si limitano semplicemente ad essere o non essere, ma conoscono una fascia di situazioni intermedie, di mescolanza tra essere e non essere.
Perciò la nostra povera grezza morale naturale può già essere riformulata in maniera un po’ meno grezza:

 MORALE NATURALE
+ essere = meglio
– essere = peggio

Buono è ciò che ci porta verso la pienezza dell’essere.
Cattivo è ciò che ce ne allontana.
Da ciò si potrà poi cominciare a concepire – sempre razionalmente – la differenza tra essere e divenire; la differenza tra uno e molteplice (dunque lo spazio); la differenza tra statico e dinamico (dunque il tempo); la differenza tra potenza e atto (dunque la causalità); la differenza tra sostanza e accidente (dunque la persona); la differenza tra singolo e organizzazione sociale (dunque la relazione personale); la differenza tra bene di uno e bene di molti (dunque la possibilità del sacrificio); la differenza tra necessario e contingente (dunque la libertà); la differenza tra immanente e trascendente (dunque la Divinità)…
Ma questi sono già discorsi ulteriori, ben oltre la spiegazione for dummies che mi proponevo. Il soggettivista radicale avrà già problemi a ruminare il concetto che essere è oggettivamente meglio che non essere.

A chi è interessato ad approfondire il discorso, e non è ostile per preconcetto alla roba cattolica (non necessaria, per capire cos’è la morale naturale, ma neanche inutile), segnalo questo testo che ho letto in questi giorni e non mi pare fatto male: “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”. In particolare mi ha aiutato la tripartizione (paragrafo 46) della morale naturale in tre precetti generali ovvero «insiemi di dinamismi naturali che agiscono nella persona umana»:

  1.  Il primo, che le è comune con ogni essere sostanziale, comprende essenzialmente l’inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza.
  2. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende l’inclinazione a riprodursi per perpetuare la specie.
  3. Il terzo, che le è proprio come essere razionale, comporta l’inclinazione a conoscere la verità su Dio e a vivere in società.

A partire da queste inclinazioni si possono formulare i precetti primi della legge naturale, conosciuti naturalmente. Tali precetti sono molto generali, ma formano come un primo substrato che è alla base di tutta la riflessione ulteriore sul bene da praticare e sul male da evitare.

Successivamente questi tre precetti morali naturali vengono descritti con maggiore precisione. Dai tre precetti generali saranno poi ricavati i precetti “secondi”, i quali poi dovranno essere calati nel concreto delle diverse culture e contigenze della vita reale, etc.


Conclusione.
La natura esiste. Il bene oggettivo esiste. La morale naturale esiste.
Se indaghiamo il “piano dell’essere” alla luce della ragione, scopriamo che in questo “piano” c’è una “scala” che ci porta al piano superiore, del “dover essere”. Un piano che non è costruito da noi, ma è oggettivamente dato, e fondato precisamente sul piano sottostante dell’essere (anche quello, non lo abbiamo costruito noi).
Noi non siamo i creatori e signori dell’etica: noi non decidiamo ciò che è bene o male. Invece noi decidiamo se fare il bene o il male, perché abbiamo il libero arbitrio.
Siamo liberi di fare la nostra musica; ma il pentagramma su cui la suoniamo, non ce lo siamo fatti da soli.


 


 


La grande marcia della distruzione intellettuale…

…terminerà.
Non potrà non terminare, perchè si basa su una bugia.
Proseguirà fino al suo apice. Seguirà l’inevitabile declino.

 Allora inizierà una una nuova grande marcia. La marcia della ricostruzione intellettuale. La marcia del ritorno alla realtà.
Tutto ciò che è reale sarà affermato.
Tutto ciò che non è reale sarà negato.
Ridiventerà ragionevole affermare le pietre della strada; ridiventerà un dogma fideista negarle.
Sarà di nuovo una forma dissennata di misticismo dire che siamo tutti immersi in un sogno; sarà di nuovo razionale asserire che siamo tutti svegli.

Noi saremo lì.
Attizzeremo i nostri fuochi per testimoniare che due più due fa quattro.
Sguaineremo le nostre spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate.
Noi ci ritroveremo a difendere non solo qualcosa di veramente credibile, come le virtù e la sensatezza della vita umana; cose che sono veramente credibili, perché SONO VERE; ma noi difenderemo qualcosa di più credibile ancora: questo immenso, evidente, evidente, EVIDENTE universo che ci fissa in volto.

Combatteremo per i prodigi visibili precisamente PERCHÈ SONO VISIBILI.

Guarderemo l’erba e i cieli straordinari con un coraggio più straordinario ancora.

Perchè noi saremo coloro che hanno visto.
E PROPRIO PER QUESTO hanno creduto.


Libertà religiosa e legge naturale

Traduco in forma libera un articolo apparso sulla CNA (Catholic News Agency).

 

SE Robert C. Morlino, SJ

Arlington (Virginia). 28 agosto 2013, 12:00 am (CNA/EWTN News)

 

Robert C. Morlino, vescovo della diocesi di Madison, nello Stato americano del Wisconsin, ha chiesto ai cattolici di schierarsi a favore della libertà religiosa e della verità dopo aver spiegato il nesso tra le due cose nella sua lezione tenuta il 23 agosto nella città di Arlington (Stato della Virginia) all’Istituto di Cultura Cattolica.

La libertà di religione, dice il vescovo, è il più basilare di tutti i diritti umani. Questo perché gli altri diritti umani riguardano solo questioni temporali, contingenti; la libertà di religione riguarda invece la mia salvezza eterna, che io sono libero di conseguire – per grazia di Dio – oppure no. Non c’è nulla di più importante di questo.

 Il vescovo Morlino ha parlato della Dignitatis Humanae, la dichiarazione del Concilio Vaticano II che descrive la relazione tra la Chiesa e gli Stati e la giusta comprensione del concetto di libertà religiosa. Spiegando lo sviluppo storico di tale concetto, ha detto che gli ultimi tre concili ecumenici – il Concilio di Trento, il Vaticano primo, il Vaticano secondo – sono la risposta della Chiesa alla modernità.
Il vescovo ha illustrato come, prima della filosofia moderna, sia la Chiesa sia la società civile fossero consapevoli che conoscere la verità significa che c’è una corrispondenza tra la mente e la realtà fuori da essa. Questa corrispondenza rende capace l’uomo di conoscere la legge naturale, che è “la partecipazione della ragione umana nella legge divina”.

Prima della filosofia moderna si sapeva che c’era una conformità della mente con ciò che era reale e indipendente dalla mente. Ma la filosofia moderna è stata una rivoluzione copernicana nel modo in cui l’essere umano concepisce la conoscenza; ha causato una visione più soggettiva della realtà, in cui è la percezione dell’individuo a determinare ciò che lui o lei crede essere reale.
In questa visione moderna, non è il mio pensiero ad essere responsabile verso ciò che è indipendente dalla mente, a dover rendere conto dei propri errori; invece è il mondo ad essere come io lo penso. Si è deciso che non c’è una realtà indipendente dal pensiero.

Questa visione della realtà e della verità ha profonde implicazioni per il significato della parola coscienza. Nel significato originale del termine, la legge naturale mantiene la coscienza responsabile, perché la coscienza guida l’individuo a riconoscere la verità ed agire secondo la legge morale naturale. La coscienza non ci dispensa da ciò che oggettivamente giusto, anche se è così che viene intesa oggi. Questo fraintendimento della coscienza ha trasformato gli argomenti di morale naturale in credenze confessionali prese per fede.

 Ma questo è sbagliato: noi cattolici osserviamo la legge naturale non solo perché siamo cattolici, ma soprattutto perché è vera.

 La legge naturale, in sé e per sé, non è una questione di fede, perché le posizioni di legge naturale possono essere capite con la sola ragione e valgono per tutti. Tuttavia, se ciascuno costruisce il suo proprio mondo, allora ci sarà per forza un conflitto; e il conflitto tra la modernità e la legge naturale ha avuto gravi implicazioni per le persone di fede.
La legge naturale mi rede libero di cercare la verità su Dio, dunque cercare la mia salvezza eterna. Nessuno ha il diritto di interferire nella mia relazione con Dio, nessuno ha il diritto di bloccare la mia abilità di fare ciò che è giusto.

La libertà religiosa è un problema unico nel suo genere, diverso dagli altri diritti umani, proprio perché ha conseguenze eterne e dunque non c’è nulla di più importante o fondamentale. Concepita nel modo corretto, la libertà religiosa è la libertà della persona dallo Stato su ciò che riguarda le questioni religiose. Ma questo non è il concetto di libertà religiosa che abbiamo oggi; invece abbiamo un secolarismo, imposto dallo Stato e dai mass media, che travalica ogni possibile confine. Questo secolarismo distrugge la coscienza, rigetta il diritto naturale, e vieta alle persone di agire secondo ciò che esse sanno (proprio attraverso la ragione e la legge naturale) essere vero.

 I cattolici devono migliorare la loro difesa della legge naturale e del giusto concetto di coscienza, allo scopo di promuovere il rispetto per ciò che la Chiesa insegna. Purtroppo invece molti di essi, mentre affermano a parole di testimoniare che Cristo è unito alla Chiesa, di fatto professano con le loro azioni che Cristo è diviso dalla Chiesa.
Ma nessuno può vivere per sempre nella contraddizione: queste persone inevitabilmente finiranno per affermare o l’una o l’altra cosa, o la fede che professano, o le regole mondane secondo cui vivono.

 Il vescovo ha esortato tutte le persone cui importa la libertà religiosa, e la libertà in generale, a parlare in difesa della legge naturale, per esempio scrivendo lettere ai giornali. In particolare, dice Morlino, noi cattolici dobbiamo smettere di stare zitti: i cattolici devono promuovere la legge naturale e la giusta interpretazione della coscienza, non solo perché noi siamo cattolici, ma prima di tutto perché esse sono vere. Altrimenti, se continuimo a perdere tempo senza fare niente, renderemo un terribile disservizio alla società.


Tommaso Moro e il Purgatorio

301Avevo detto in un precedente post che Tommaso Moro nel suo libro La supplica delle anime, contro gli argomenti dei protestanti che negano il Purgatorio, individua dieci passi biblici da cui si evince che già nei primi cristiani, ed anche negli ebrei, era presente la nozione di una purificazione post-mortem dei defunti ( = il purgatorio non se l’è inventato la Chiesa nel medioevo).
Ora, per la cultura dei lettori interessati (moltissimi naturalmente: chi mai, a metà agosto, preferirebbe le parole crociate sotto l’ombrellone alle dense disquisizioni teologiche?), elenco i dieci passi e riassumo le argomentazioni di Moro.
Aggiungo anche le mie considerazioni, per quel che valgono – poco, essendo le mie nozioni esegetiche alquanto scarse, chiedo anzi aiuto ai biblisti eventualmente sintonizzati.

1) Isaia: 38Quarto libro dei Re: 20

 Sono citate assieme perché la storia narrata è la stessa, quella del re Ezechia a cui Isaia predice la morte imminente. Ezechia piange, prega, Dio gli concede altri 15 anni di vita.
Moro afferma che il re ha paura del purgatorio. Infatti, nel momento in cui Dio gli annuncia che morirà di lì a poco, Ezechia si pente dei suoi peccati. Perciò in teoria non avrebbe più nulla da temere, il pericolo dell’inferno è scongiurato. Se è convinto di andare subito in paradiso, di cosa allora ha paura? Il timore del re si spiega solo se egli aveva ben presente che, oltre all’inferno e al paradiso, esiste anche la possibilità del purgatorio e delle sue sofferenze. Il favore di Dio, che aggiunge altro tempo alla sua vita, consiste proprio nel dargli la possibilità di evitare il purgatorio espiando i suoi peccati in questo lasso di tempo ulteriore, in modo da essere pronto, al momento della sua posticipata morte, ad andare direttamente in paradiso.

 L’argomento è molto sottile. Si potrebbe obiettare che Ezechia potrebbe semplicemente provare paura umana della morte, oppure che potrebbe non essere sicuro di andare in paradiso e chieda tempo ulteriore per esserne certamente degno. Tuttavia, in tal caso non si capirebbe perché l’autore biblico faccia di Ezechia un esempio positivo (non mancano casi in cui si mostrano i limiti umani degli eroi della Bibbia, però in questi casi le loro colpe sono additate senza ambiguità).

 N.B. Moro segue una denominazione precedentemente in uso dei libri biblici, per cui “Samuele 1 e 2” erano rispettivamente “Re 1 e 2”, mentre quelli che nella Bibbia CEI troviamo come “Re 1 e 2” erano “Re 3 e 4”.

 2) Primo libro dei Re : 2,6 (per noi è il primo libro di Samuele)

 Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire.

 È il caso di anticipare qui una spiegazione che Moro dà successivamente nel libro (pag. 181), cioè il fatto che “inferi” è una categoria generale che comprende l’inferno propriamente detto, il limbo e il purgatorio:

 Il termine “inferno” rispecchia molto bene l’uso della parola latina e greca. Prima delle resurrezione di nostro Signore, nessuna persona salì al cielo; in queste due lingue, di conseguenza, parlando delle anime trapassate, si diceva che esse erano discese nelle “regioni inferiori”. Quest’uso si trova nel Simbolo degli Apostoli, dove si dice che nostro Signore dopo la sua Passione “descendit ad inferos”: discese agli inferi. La lingua inglese invece ha sempre usato il termine hell, inferno. Ora, è certo che Cristo non è disceso in ogni cerchio dell’inferno, ma soltanto nel limbo dei Padri e nel purgatorio. La parola “inferno”, poiché designa l’insieme del soggiorno dei morti, include il purgatorio e il limbo, ma, avendo questi due termini il loro specifico significato, si restringe generalmente la parola “inferno” al luogo dove i dannati sono puniti. Abbiamo precisato il senso di questa parola, perché la corrente accezione non vi induca all’errore.

 Perciò per Moro il purgatorio non è un “terzo luogo” a parte (ricordiamo che per la dottrina cattolica, mentre il paradiso e l’inferno sono sia uno stato sia un luogo, il purgatorio è uno stato ma non necessariamente un luogo), ma piuttosto una sezione speciale degli inferi, destinata ad accogliere le anime che vi sono trattenute solo temporaneamente.
Ora, quali sono le anime che risalgono dagli inferi? Non possono certo essere quelle dei dannati, la cui pena è eterna; perciò deve trattarsi di altre anime. Moro liquida la faccenda con poche righe: “è evidente che quelle anime che Dio libera e fa risalire occupano quella parte di inferi che si chiama purgatorio”.

L’argomento sembra fondato. Io, dal basso della mia scarsa conoscenza biblica, avanzo solo un’ipotesi: che qui non si intenda “inferi” nel senso escatologico del termine. Tutto il capitolo è una lode della potenza di Dio. Guardiamo anche i versetti precedente e successivo:

[5] I sazi sono andati a giornata per un pane, mentre gli affamati han cessato di faticare. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita. [6] Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. [7] Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta.

 Insomma Dio abbatte i potenti ed esalta gli umili; il capitolo sembra una specie di descrizione dei rovesci di buona e cattiva sorte che possono cambiare la vita della gente. Mi chiedo allora se qui “inferi” non vada inteso, piuttosto che nel senso letterale, nel senso metaforico di “situazione disperata” da cui Dio può sempre toglierci. Certo, aiuterebbe sapere qual era il testo originale. Qualcuno mi può aiutare?

 3) Zaccaria: 9,11

Quanto a te, per il sangue dell’alleanza con te, estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz’acqua.

 Moro sostiene anzitutto che il profeta non sta parlando di semplici prigionieri, ma di anime tenute negli inferi, il “pozzo senz’acqua”; inoltre afferma che si tratta di quella parte dell’inferno che è il purgatorio, visto che le anime ne sono estratte.

 Qui, senza offesa per Moro, non sono convinto. Questa parte di Zaccaria è a forte contenuto messianico, il capitolo anticipa la venuta di Cristo. Ma proprio per questo la mia impressione da profano è che le anime di cui si sta parlando non sono quelle dei purganti in generale, ma dei giusti d’Israele (“il sangue dell’alleanza”); prima di Cristo costoro non potevano salire al cielo, perché la Redenzione non era ancora avvenuta, e così aspettavano nel “limbo”, il quale, come abbiamo visto, è una “sottosezione” dell’inferno.
Quando Cristo scende agli inferi, s’intende che scende appunto nel Limbo a liberare le anime che lo aspettavano (così la descrive anche Dante): a me sembra che sia questo l’evento che il libro sta prefigurando.

 4) Secondo libro dei Maccabei 12, 39-46

[39] Il giorno dopo, quando ormai la cosa era diventata necessaria, gli uomini di Giuda andarono a raccogliere i cadaveri per deporli con i loro parenti nei sepolcri di famiglia. [40] Ma trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri agli idoli di Iamnia, che la legge proibisce ai Giudei; fu perciò a tutti chiaro il motivo per cui costoro erano caduti. [41] Perciò tutti, benedicendo l’operato di Dio, giusto giudice che rende palesi le cose occulte, [42] ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutti quelli del popolo a conservarsi senza peccati, avendo visto con i propri occhi quanto era avvenuto per il peccato dei caduti. [43] Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. [44] Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. [45] Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato.

 Si tratta del passo più famoso sull’argomento, frequentemente citato. Infatti dovrebbe tagliare la testa al toro: pregare per la purificazione dei morti non non ha senso né per i dannati né per i beati, entrambi non hanno bisogno di preghiere. I primi sono ormai imperdonabili, i secondi sono già stati perdonati. Vi è un dunque un terzo stato di transito, nel quale occorre il perdono dei peccati commessi in vita, e coloro che vi si trovano usufruiscono delle preghiere dei vivi.
Altresì, Moro non ignora che ci sono pesanti controversie sulla storicità di questo libro: i protestanti lo rifiutano, così come gli ebrei. A questo riguardo però osserva che la festa istituita da Giuda (la festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme, o festa della consacrazione annuale), pur non essendo nominata in alcun altro libro dell’Antico Testamento, è nominata nei vangeli e infatti Cristo stesso vi partecipò (cfr vangelo di Giovanni 10, 22). Da ciò si evincono la veridicità storica e l’autorità divina del libro dei Maccabei.

 Argomento inoppugnabile. Non vedo possibili obiezioni.

 5) Prima lettera di Giovanni 5, 16

 Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita; s’intende a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte: c’è infatti un peccato che conduce alla morte; per questo dico di non pregare.

 Il peccato a cui si riferisce, sostiene Moro, è quello della disperazione e dell’impenitenza finale (forse Giovanni aveva in mente Giuda). Se qualcuno è morto in questo stato, pregare per lui è inutile. Dal che si deduce, a contrario, che è invece utile pregare per coloro che non sono morti in questo stato.

 Io avevo sempre interpretato il passo come riferito alla distinzione tra peccati mortali e veniali. Ma in effetti la distinzione tra questi peccati è proprio che i primi, senza pentimento, portano alla dannazione, mentre i secondi per la loro minore gravità non portano alla dannazione ma dovranno appunto essere scontati nel purgatorio. L’argomento mi sembra valido.

 6) Apocalisse 5, 13

 Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.

Come abbiamo visto, le regioni inferiori “sotto la terra” sono appunto gli inferi. Moro fa notare che non può trattarsi dei dannati, i quali non lodano Dio, altrimenti non sarebbero tali. Perciò il passo si riferisce a coloro che sono negli inferi ma non sono dannati (cioè, sono nel purgatorio oppure nel limbo).

Ho un dubbio su questo passo e cioè che per “creature sotto la terra” s’intendano, invece che le anime degli uomini, delle specie di animali che per gli ebrei vivevano nel sottosuolo. Dopotutto si menzionano anche le creature della terra e del mare. Certo, in senso proprio gli animali non hanno la razionalità per lodare Dio, ma è con la loro stessa esistenza che essi rendono onore al creatore: non è questo un tema ricorrente nella Bibbia, es. Giobbe?

Lascio la questione a conoscitori dell’Apocalisse migliori del sottoscritto.

  7) Atti degli Apostoli 2, 24

[22] Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, [23] dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. [24] Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.

 Sebbene il testo latino che trovo sul sito del Vaticano dica “quem Deus suscitavit, solutis doloribus mortis, iuxta quod impossibile erat teneri illum ab ea”, Moro si riferisce a una differente traduzione in latino dall’originale greco dove dice “doloribus inferni”, cioè i dolori dell’inferno. Di quale traduzione si tratta? Io non lo so.

 Come abbiamo visto, per Moro (e per gli uomini della sua epoca, presumo, altrimenti il suo ragionamento non avrebbe avuto efficacia apologetica) il regno infernale si divide in tre sezioni: l’inferno propriamente detto, il limbo e il purgatorio. A quale di esse ci si riferisce qui?  Moro dice: non stiamo parlando dei dolori dell’inferno, perché quelli durano per sempre, Dio non li scioglie; né parliamo dei dolori del limbo, perché nel limbo non ci sono dolori. Peciò resta solo il purgatorio.

 Ho due dubbi per questo passo. Uno: che Pietro (del quale Luca riporta il discorso) intendesse parlare del regno della morte in generale, senza intendere particolari specificazioni al suo interno. Due: siccome qui si sta parlando di Cristo, che per ovvi motivi è un caso del tutto particolare – è sceso agli inferi, ma chiaramente non era né un dannato, né un destinato al limbo, né un’anima da purificare – possiamo prenderlo a modello per fare un discorso in generale sulla condizione ultraterrena di tutti gli esseri umani?

 8) Prima lettera ai Corinzi 3, 12-15

 [12] E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, [13] l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. [14] Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; [15] ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco.

 La salvezza attraverso il fuoco indica il purgatorio. La distinzione tra legno, fieno e paglia (materiali che bruciano in tre modi diversi e con durate diverse) indica la distinzione tra le anime che passeranno tempi diversi nel purgatorio a seconda della gravità delle loro colpe.
Inoltre, Moro aggiunge che molti Padri dei primi secoli hanno interpretato le parole di San Paolo nel senso del purgatorio. Qui perciò si dà proprio la prova storica che “l’invenzione medievale” è una leggenda. Moro cita tra gli altri Origene, Sant’Agostino, San Gregorio Magno; l’editore, facendo cosa molto utile, ha aggiunto una nota a piè pagina indicando i passi precisi di questi autori:

Origene: (Omelia n. 25 sul libro dei Numeri, Omelia n. 6 sul libro dell’Esodo, Omelia n. 3 sul Salmo 36. Sant’Agostino: Enchiridion n. 69, Enarratio in Salmo 37, De civitate Dei  21, 24. Gregorio Magno commenta la prova paolina nei Dialoghi. Il Concilio di Firenze (1439-1442) l’allega in terza posizione dopo il libro dei Maccabei e Matteo 12,32. Johann Maier Eck (1486-1543) professore a Ingolstadt, difensore dell’ortodossia cattolica in Germania, rievoca questa prova contro Lutero l’8 luglio 1519 nella loro disputa a Lipsia.

 Nulla da obiettare. Colpito e affondato.

9 + 10) Matteo 12, 32 + Matteo 12, 36

[31] Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata.
[32] A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.
[33] Se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l’albero.
[34] Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Poiché la bocca parla dalla pienezza del cuore.
[35] L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive.
[36] Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio;
[37] poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato”.

  Infine, Moro cita due versetti del vangelo. Trattandosi di discorsi diretti di Cristo, hanno una valenza particolarmente speciale.

 Il primo versetto ci risulta più chiaro nella nuova versione CEI:

A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo né in quello futuro.

 Gesù parla di un peccato che non sarà perdonato né in questo mondo né in quell’altro. Moro non affronta il tema dell’imperdonabile peccato contro lo Spirito, ma deduce a contrario che tutti gli altri peccati sono invece perdonabili. Cristo però non si ferma qui; specifica chiaramente che il perdono avviene anche dopo la morte. Ma questi peccati che saranno perdonati dopo la morte non possono essere né i peccati di coloro che sono all’inferno, per i quali non c’è più perdono, né i peccati di coloro che sono andati subito in paradiso poiché morti in stato di grazia, i loro peccati essendo già stati perdonati in questo mondo; dunque non restano che i peccati di coloro che sono nel purgatorio, durante il quale appunto si ha l’espiazione residua.
Per il secondo versetto, Moro è lapidario e non si dilunga affatto: afferma semplicemente che l’espiazione di cui si parla avverrà dopo la vita presente. “Non può essere nell’inferno, tanto meno in cielo: non resta che il purgatorio”.

 Il primo versetto mi appare inconfutabile.
Sul secondo invece sono dubbioso, perché potrebbe riferirsi al giudizio particolare, che ogni singola anima attraversa quando muore; oppure, potrebbe riferirsi a ciò che succederà nel Giudizio universale alla fine dei tempi, quando si “consoliderà” il destino dei dannati e beati che avevano già attraversato il proprio giudizio particolare (si riuniranno al proprio corpo e vedranno retribuiti anche gli effetti remoti delle proprie azioni; perciò, per i primi si accrescerà la pena, per i secondi la beatitudine).

*

Spero che quanto sopra possa essere utile a qualcuno come lo è stato a me.

P.S. reciterò un intero rosario per colui o colei che indovina cos’è la foto iniziale e che c’entra.
Se barate e usate i motori di ricerca, andate all’inferno.


L’alieno / 8

Questo luglio il mio blog si è riposato. Ma adesso è ora di rientrare in campo.
Nubi si addensano all’orizzonte, ed è arrivato il tempo in cui dovremo combattere per i prodigi visibili come se fossero invisibili.
Intanto, continuo ad ospitare la storia della mia amica Sissi2002.

 

– 8 –

 

Forse ho già espresso tutta la mia gratitudine e la mia stima per il centro IRCC di Candiolo (Torino) in qualche post precedente. Repetita iuvant. È una struttura che per ovvie ragioni non auguro a nessuno di dover conoscere, ma che – se si ha la sfortuna di doverne usufruire – rappresenta una vera e propria eccellenza. Io non sono in grado di valutare l’efficacia delle terapie su larga scala: sappiamo bene che il cancro è ancora ben lungi dall’essere sconfitto. Ma le qualità che si avvertono laggiù – la professionalità, l’attenzione, la simpatia, il calore umano – rappresentano sicuramente un’eccezione rispetto alla norma. Tutti sono cortesi, disponibili, tutti ostentano un atteggiamento positivo e vivace. E non si tratta di buonismo o pietismo, perché il paziente tutto si sente fuorché oggetto di mero compatimento; ma l’atmosfera che si respira è serena ed incoraggiante.
C’è un neo in tutta questa “perfezione”? naturalmente sì. Non ne capisco le cause, ma tutto il reparto attinente alle indagini radiologiche, mentre dal punto di vista medico è ottimo, da quello organizzativo fa abbastanza acqua.  Se poi si tratta di risonanze magnetiche, meglio lasciar perdere. Tempi di attesa molto lunghi e, soprattutto, un sistema di prenotazioni altamente inefficiente. Faccio due esempi che ho sperimentato di persona.
Prenotata la risonanza magnetica – il cui esito DOVEVA essere pronto al momento della visita collegiale, e la data di quest’ultima era stata stabilita dagli stessi medici – purtroppo il giorno dell’esame si rompe il macchinario. Cose che possono succedere, ovviamente. Mi dicono che verrò richiamata non appena la macchina sarà stata riparata. Passa più di una settimana e non ho notizie, telefonare è inutile perché i centralini sono perennemente intasati, recarmi di persona a Candiolo non mi è possibile. Quindi prenoto la risonanza altrove – ovviamente a pagamento dati i tempi che si fanno ristretti – per poi, il giorno della visita collegiale, sentirmi dire che “non mi sono presentata all’appuntamento e non ho nemmeno disdetto l’esame in tempo utile”. In effetti la mia risonanza era stata spostata, peccato che nessuno si sia fatto vivo ai ben 3 numeri telefonici che avevo lasciato come recapito.
Terminata la terapia, a luglio, mi richiedono una risonanza di controllo da portare alla visita di settembre. Vado allo sportello per la prenotazione: mi informano che a luglio è troppo presto, le prenotazioni per settembre non sono ancora aperte. So di dover tornare di lì a sette giorni per un prelievo di sangue, quindi nel frattempo mi faccio preparare l’impegnativa dal medico di famiglia ed una settimana dopo sono di nuovo lì … per sentirmi dire che ormai non c’è più posto per tutto il mese di settembre, … e le prenotazioni per ottobre non sono ancora aperte.

 Pertanto, non mi sono sorpresa più di tanto quando, per le sedute di radioterapia, mi hanno smistato presso una clinica convenzionata a S. Mauro (molto più vicino a casa mia). Confesso che per un momento mi sono sentita un po’ come una figliastra: chissà perché mi mandavano da un’altra parte. Solo in seguito avrei capito che mi era stato fatto un grande favore perché, dopo le prime due settimane di radioterapia, i dolori nel viaggiare in auto si erano fatti quasi insopportabili, e la distanza da percorrere fra Settimo e Candiolo sarebbe stata un grande problema.
Devo fare una seduta al giorno per 28 giorni, esclusi sabato e domenica, tutti i giorni alle 14. Inizio il 2 maggio, e per una decina di giorni tutto bene: mi sento solo molto stanca, ma terminata la terapia, mi basta riposare una mezzoretta sulle poltroncine della sala d’attesa per poi andare normalmente a scuola. Di lì a pochi giorni, purtroppo, la situazione precipita: dolori sempre più forti, episodi di diarrea alternati ad altri di totale blocco intestinale, un mal di schiena fortissimo che non mi permette di stare né in piedi né seduta, e a letto non è facile trovare la giusta posizione. Ovviamente lascio il lavoro, e vedo con terrore l’appuntamento quotidiano con il percorso in auto che devo affrontare per recarmi a fare le terapie. Per fortuna ho un generoso zio che si mette totalmente a mia disposizione come autista ed accompagnatore, ed un collega che è anche un amico mi regala un grosso cuscino fatto a ciambella su cui sedermi per attutire gli scossoni della strada. Non voglio abusare degli antidolorifici, e li riservo per la sera, in modo da ritagliarmi qualche ora di sonno relativamente tranquillo.
Sapevo che non sarebbe stata una passeggiata, ma questa assomiglia piuttosto ad una traversata del Sahara con le scorte d’acqua ridotte al minimo.

 (continua)


God bless America

Omne regnum divisum contra se, desolabitur

 E sì, nonostante le recenti brutte notizie.
Non sono un particolare conoscitore di cose d’oltreoceano, ma a me il cattolicesimo americano sembra anni luce più vitale e fortificato di quello italiano. Nonostante il contesto difficile, o forse proprio a causa di esso.
Traduco questo breve articolo della CNA (Catholic News Agency):

L’Arcidiocesi di Boston ha confermato che non permetterà ad un prete austriaco di tenere una conferenza nella proprietà vescovile, a causa delle sue opinioni che dissentono dall’insegnamento cattolico.
“È la politica dell’Arcidiocesi, e la pratica generalmente accettata nelle diocesi di questo paese, di non permettere alle persone di tenere conferenze in parrocchie cattoliche o comunque durante eventi legati alla Chiesa, se queste persone promuovono posizioni che sono contrarie all’insegnamento cattolico” ha affermato il portavoce Terrance Donilon in una dichiarazione rilasciata alla C.N.A.

Padre Helmut Schüller, che intendeva parlare alla Parrocchia di Santa Susanna di Dedham il 17 giugno, è il fondatore della “Iniziativa dei Parroci Austriaci”, un gruppo fondato nel 2006 che invoca l’eliminazione del celibato per i preti, l’ordinazione delle donne, e altre cose contrarie alla dottrina cattolica.
A questo scopo,
Schüller ha invocato una “chiamata alla disobbedienza” – ovvero il rifiuto di accettare i principi fondamentali della fede cattolica – per “riformare” la Sposa di Cristo.

Il Vescovo Ausiliario di Boston, Mons. Walter Edyvean, la scorsa settimana ha contattato la Parrocchia di Santa Susanna per notificarle che il Cardinale O’Malley [tra i papabili all’ultimo conclave, NdC] non avrebbe permesso al prete di parlare “in nessuna parrocchia cattolica, perché espone convinzioni che sono contrarie agli insegnamenti della Chiesa Cattolica”, come ha riportato il National Catholic Reporter il 24 giugno.

Tra le organizzazioni che sponsorizzano il tour di Schüller, denominato “Il punto critico cattolico”, ci sono Conferenza per l’Ordinazione delle donne e Chiesa Futura. Entrambe promuovono iniziative contrarie agli insegnamenti cattolici.
Il tour di questo prete si terrà dal 16 luglio al 6 agosto e include fermate a New York City, Baltimora, Detroit, Denver e Los Angeles. Tutte le tappe eccetto Detroit avranno luogo in locali messi a disposizione da chiese protestanti [chissà come mai?, Ndc].
Al momento di pubblicazione di questo articolo, Padre 
Schüller è ancora atteso per parlare nella parrocchia di San Simone e Giuda, nella città di Westland (Detroit), il 26 luglio.

Padre Schüller precedentemente è stato il direttore della Caritas austriaca e il vicario generale dell’Arcidiocesi di Vienna fino al 1999, quando è stato licenziato dal Cardinale  Christoph Schönborn. Nel 2012, il Vaticano ha revocato il suo titolo di monsignore.

 O’Malley got balls.
Mica si mette paura delle campagne stampa di Repubblica (o il New York Times, stesso livello).

In Italia, invece, abbiamo le filosofe abortiste che sono invitate al festival biblico e i preti eretici che hanno gli onori funebri dal capo dei vescovi…


Libri marzo 2013


La Chiesa di Francesco, di Vittorio Messori.

 Vi è qui forse la maggiore delle attuali deformazioni, insidiosa in quanto apparentemente meritoria: la Chiesa come la maggiore delle ONG, una organizzazione di filantropi dediti a soccorrere i bisognosi di assistenza materiale. Nobile ideale, ma che a un cristiano non può bastare.

 È un instant book di piccole dimensioni, pubblicato dal Corriere della Sera immediatamente dopo la conclusione del conclave. Per quanto la copertina possa fuorviare, il libro parla decisamente poco di Bergoglio (un po’ all’inizio, e poi alla fine ci sono degli “appunti per una biografia” a cura di Carlo Alberto Brioschi) ed è invece incentrato sulla Chiesa; infatti, si tratta fondamentalmente di una grande espansione dell’articolo “Ipotesi sul Papa e sulla Chiesa che verrà” pubblicato il 17 febbraio scorso sul Corriere – piccola curiosità: nel quale articolo, ho scoperto rileggendolo, era già contenuta la famosa ammonizione sulla Chiesa come ONG che poi ha segnato l’esordio del pontificato di Francesco… Messori profetico? Ma no, semplicemente dotato di buonsenso.

Tuttavia, ove mai vi cogliesse spontanea la delusione perché vi aspettavate un libro sul nuovo pontefice, leggete il libro e vi ricrederete subito; si tratta di un’analisi a tutto tondo della realtà ecclesiale, cronaca e apologetica, con il tipico stile disincantato ma non cinico cui Messori ci ha ormai abituato. Come al solito la prospettiva non è né l’aut-aut di matrice protestante che porta ad estremi unilaterali, né la sintesi che cerca un impossibile compromesso tra inconciliabili, ma piuttosto l’et-et cattolico: lo sguardo che di ogni problema misura sia l’aspetto umano sia quello soprannaturale, vede questo e quello, e tiene tutto assieme.
La Chiesa che emerge da questo libro è piena di problemi, inutile nasconderselo; certi aneddoti rievocati dall’autore, come i seminaristi sessantottini che accolgono il loro vescovo gridando “viva Marx viva Mao”, o i novizi del monastero che protestano e ottengono di non fare la Benedizione Eucaristica dopo cena perché c’è la finale di Champions in tv, fanno più tristezza come rabbia. Eppure al tempo stesso la Chiesa è ancora vitale, ha più risorse di quante appaiano agli occhi del mondo, e lo dimostra la veloce efficienza con cui ha gestito l’epocale transizione senza precedenti da Benedetto a Francesco.

Paradossalmente ma neanche tanto, La Chiesa di Francesco è forse il più ratzingeriano dei libri di Messori (al limite il secondo, ovviamente dopo quel Rapporto sulla Fede di cui Ratzinger era coautore). Il lascito intellettuale del precedente Papa si sente in molte pagine, nelle considerazioni tanto sulla radice ultima dei problemi, cioè la perdita della fede esplosa dopo il Concilio Vaticano II, quanto sulla soluzione: recuperare la fede, tornare alla fede, applicare il Concilio per come i vescovi l’avevano scritto e non per come i teologi venduti al mondo l’hanno stravolto.
Che questo sia anche l’obiettivo primario del Papa attuale, lo speriamo vivamente, ma attendiamo ben volentieri un prossimo libro di Messori a confermarcelo.

 

L’inconfessabile e il confessato, di Lino Ciccone.

Se vedo un libro che ha sulla copertina un’immagine tratta da LOST, le mie mani si protendono automaticamente verso il libro in questione. Qui poi la copertina è particolarmente adatta, visto che raffigura l’indimenticato Charlie davanti al confessionale (ep. 1×07 “La falena”) e il libro parla per l’appunto di confessioni, dal singolare punto di vista di colui che le amministra.

La struttura è quella di un vero e proprio eserciziario: nella prima parte ci sono “i casi”, le fattispecie raccontate dall’ipotetico penitente in cerca di conforto; nella seconda parte ci sono “le soluzioni”, cioè le valutazioni morali da dare. Il lettore ha tutto l’agio di leggere il caso, applicare il proprio senso morale, e poi andare a controllare.
Il proposito è quello di aiutare i sacerdoti, per consigliarli in questo difficilissimo ministero, eppure il testo si rivela estremamente utile anche per ogni altra tipologia di lettore interessato. L’autore nella prefazione spiega senza mezzi termini la sua posizione difficile, il rischio di essere “visto come un moralista incallito preconciliare, con un deprecabile ritorno alla morale casistica, largamente superata, dal Concilio in poi, per una morale rinnovata”. Laddove la differenza pratica tra queste due impostazioni sta nel fatto che, nei manuali di Teologia Morale per la formazione dei futuri sacerdoti,

 i casi di coscienza erano sistematicamente intrecciati con l’esposizione della dottrina, che veniva così continuamente messa a confronto con la vita vissuta. Questa Teologia Morale aveva perciò come principale obiettivo quello di delineare nei vari ambiti del comportamento umano dove comincia a esserci peccato, e quando il peccato è da valutare come mortale. Il Concilio ha radicalmente cambiato questa impostazione, stabilendo che l’esposizione della Teologia Morale, «maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» (decr. Optatam totius, n. 16.4).
Nessuno dubbio sulla validità e sui vantaggi enormi di un tale rinnovamento, e non è questa la sede per illustrarli. Ma ne è pure derivato il rischio, per i candidati al presbiterato,  di trovarsi alla fine arricchiti di una visione altamente positiva della morale cristiana, ma impreparati sia al ministero della confessione, sia a trovare, in qualunque altra sede, soluzioni correttamente fondate a problemi morali concreti che si presentano nella vita.

Insomma, per come la vedo io, qui ci sono due estremi errati da evitare entrambi: o le maglie di un legalismo arido che tratta le questioni morali con l’impersonalità d’un libro di matematica, per cui se questo allora questo e dunque quest’altro = peccato (e questo era il rischio di “prima”); oppure un sentimentalismo di belle parole dove però alla fine molto/troppo/tutto dipende dalla coscienza soggettiva, cioè di fatto spesso la coscienza male (in)formata, per cui va a finire che oltre alle belle parole non resta granché da dire a chi chiede giudizi per riconoscere il male compiuto e consigli concreti per rimediarvi (e questo è il rischio di “adesso”).
Il libro evita entrambi questi sbandamenti, grazie alla strada maestra cui si attiene l’autore: distinguere sempre i due aspetti della valutazione oggettiva dell’azione e della valutazione soggettiva della persona. E infatti non sono pochi i casi in cui “la soluzione” è che l’azione è moralmente sbagliata, ma l’autore è poco o niente colpevole per tutta una serie di elementi che sono sempre spiegati in maniera chiara e lineare nei limiti del possibile.
I “casi” sono 30, esposti dettagliatamente, e decisamente spinosi. Ho scoperto di non essere così moralista come credevo, perché per alcuni non avevo la minima idea di quale fosse la “soluzione”. C’erano certe storie che vorresti dire “vabbè ma questo è un film” e poi pensi che cose così succedono davvero, e sei contento di non essere tu al posto del prete che deve confortare e consigliare il povero disgraziato che te le racconta; per esempio la storia del bravo ragazzo cattolico buona-laurea-ottime-prospettive-fidanzamento-casto-tra-poco-si-sposa che viene convinto a fare un addio al celibato dagli Amici Poco Raccomandabili che lo drogano a sua insaputa e lo fanno ubriacare e lo portano in discoteca e rimorchiano La Prima Che Ci Sta con cui organizzano un’orgia e il povero bravo ragazzo cattolico dice no no no però poi alla fine cede e la mattina dopo si svegliano e scoprono che la ragazza è scomparsa però come nella canzone di Elio ha lasciato scritto sullo specchio del bagno “BENVENUTI NELL’AIDS MUAHAHAHAHA” e tutti vanno nell’orrore totale e il ragazzo dice la mia vita è finita sono condannato m’ammazzo poi ci ripensa e va dal sacerdote a confessarsi e chiedergli consiglio su che cosa fare e come metterla a nome con il matrimonio prossimo venturo e se è moralmente tenuto a dire alla promessa sposa che le ha messo le corna e che potrebbe attaccarle il virus.
Argh.

E che gli dici, a uno così?

 

Le quattro cose ultime – La supplica delle anime – Nell’orto degli ulivi, di Thomas More.

Il volume della Ares è una manna, racchiude ben tre libri: Le quattro cose ultime, una meditazione sui Novissimi rimasta però incompiuta perché arriva solo a due; La supplica delle anime, una trattazione del purgatorio; Nell’orto degli ulivi, una meditazione sull’orazione di Cristo poco prima della Passione.

La più interessante mi è parsa l’opera di mezzo. More la scrisse in risposta al luterano Simon Fish, un polemista che aveva scritto il libello La supplica dei mendicanti per negare l’esistenza del purgatorio e per attaccare la Chiesa. Il titolo si spiega perché, secondo Fish, i poveri d’Inghilterra implorano la soppressione della Chiesa e l’incameramento dei suoi beni, dal quale avrebbero tutto da guadagnare. More replica con questo testo scritto dal punto di vista delle stesse anime del purgatorio, che impugnano la penna per difendere la propria esistenza e chiedere di non essere abbandonate dalle preghiere dei vivi. Il pamphlet è bipartito: nella prima parte le anime rispondono per le rime contro gli argomenti di Fish (che vista l’inconsistenza di certi suoi ragionamenti pare una specie di troll ante litteram, sul serio, certe cose non cambiano mai), nella seconda elencano le ragioni a favore dell’esistenza del Purgatorio, fondamenti biblici compresi.
Quest’ultima è particolarmente degna di nota perché More, contro l’argomento luterano “nella Bibbia non si parla di Purgatorio, se l’è inventato la Chiesa cattolica”, non si limita ad attaccare il concetto di sola scriptura ma al contrario fa leva proprio sulla scrittura stessa, individuando dieci passi biblici da cui a suo dire si evince la nozione di una purificazione post-mortem dei defunti (che poi è il problema di fondo del sola scriptura, cioè l’incoerenza con le sue stesse pretese: il “vale solo la Bibbia” ci mette poco a diventare “valgono solo quei passi della Bibbia che dico io”).
Dal basso della mia miserrima conoscenza biblica, alcuni di questi dieci passi mi sembrano un po’ tirati per i capelli, altri invece mi sembrano convincenti e risolutivi. Comunque me li sono segnati tutti in vista di un futuro post.

 

Sono così felice – Montserrat Grases, una ragazza verso gli altari, di Flavio Capucci.

 La breve biografia di Montserrat Grases, morta nel 1959 a diciassette anni e mezzo per un sarcoma di Ewing. È in corso il processo di beatificazione e l’autore è per l’appunto il postulatore della causa.

Una bella storia.


Giuseppe sposo di Maria, di Federico Suarez.

Volume di spiritualità incentrato sulla figura di San Giuseppe, che nei Vangeli appare poco, ma così poco che onestamente io – ingenuo – pensavo che in effetti non ci fosse chissà che da dire.
Invece, a quanto pare, c’è eccome: il libro esamina ogni singolo passaggio evangelico relativo a San Giuseppe, e per ognuno riesce a fare una meditazione sensata, perfino non banale.

 

Il quarto segreto di Fatima, di Antonio Socci.

Tutta la storia di Fatima e di questo secolo sta in questa drammatica incapacità di Pietro, degli uomini di Chiesa e dell’umanità di affidarsi pienamente a Colei che è «onnipotente per grazia». Incapacità di confidare in Lei veramente e totalmente. Quasi che le possibilità di salvezza potessero venire per Pietro (solo) dalle sue iniziative, dalla politica vaticana, da propri progetti di riforma della Chiesa.

 Per capire la sensazione che destò a suo tempo questo libro, sarebbe utile rileggersi un articolo del maggio 2007 dello stesso Socci, scritto con il solito tono pacato e sereno che gli è proprio, per replicare a Mons. Tarcisio Bertone. Quest’ultimo infatti nel suo libro L’ultima veggente di Fatima. I miei colloqui con suor Lucia, scritto proprio in risposta a tutti i contestatori fatimisti, ribadiva la sua versione “ufficiale” e gratificava la versione di Socci del prezioso epiteto di “farneticante”.
Prendo subito posizione dicendo che io ho trovato questo “quarto segreto” impressionante come un horror, avvincente come un giallo, e convincente come un teorema. Certo prima di raggiungere una certezza interiore mi riservo di leggere anche l’altra campana, cioè il libro di Bertone, le cui argomentazioni potrebbero anche essere più valide di quanto non sembri a sentire Socci; però quest’ultimo considera così tanti dati di fatto, vaglia anche altre apparizioni e rivelazioni es. il sogno delle due colonne di Don Bosco oppure La Salette, tuttavia non esita a smarcarsi dalle teorie più deliranti e non ha il gusto del sensazionalismo a prescindere, insomma la sua ricostruzione mi ha preso e l’unica critica che posso muovere al libro è che l’esposizione dei fatti a volte si muove troppo disinvoltamente da un periodo storico all’altro, è in alcuni punti un po’ confusa (una cronologia finale avrebbe aiutato molto il lettore a raccapezzarsi), però farneticante non m’è sembrata proprio.

 Ma dunque, quali sono gli oggetti del contendere tra la versione ufficiale e quella di Socci? Sintetizzando:

 1)   La Madonna a Fatima aveva chiesto la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato. L’hanno accontentata?

  • UFFICIALE: sì, con gli atti di consacrazione del 1981 e del 1984.
  • SOCCI: no, questi atti consacrano (anzi “affidano”) il mondo tutto intero, non la Russia come era stato specificamente chiesto, perché in Vaticano si aveva paura di scatenare la rappresaglia comunista. E non vale dire che tanto è la stessa cosa perché nel mondo c’è anche la Russia: se la Madonna ti chiede una cosa, la fai alla lettera.

 2)   Il testo del terzo segreto rivelato dal cardinale Ratzinger nel 2000 descrive il martirio di un Papa. È già successo?

  • UFFICIALE: sì, è l’attentato subito da Giovanni Paolo II. La profezia si è conclusa, stop.
  • SOCCI: in realtà Ratzinger ha detto che la Chiesa non vincola i fedeli ad una interpretazione ufficiale della profezia. Pertanto si può anche pensare, come fa Socci per motivi dettagliatamente argomentati, che il peggio debba ancora venire e che il Papa pubblicamente martirizzato ci sarà davvero. Il libro presenta anche un’appendice che esamina il terzo segreto dal punto di vista paleografico, linguistico e traduttologico.

 3)   Il terzo segreto è stato interamente rivelato?

  • UFFICIALE: sì, nel 2000.
  • SOCCI: no, perché si divideva in due parti diverse. C’è ancora una parte, che la Madonna aveva detto avrebbe dovuto essere rivelata a partire dal 1960, ma che in Vaticano hanno deciso di seppellire perché troppo dirompente, difficile da far capire alla gente, suscettibile di essere usata per danneggiare gravemente la Chiesa. Questa parte nascosta del terzo segreto (che prosegue direttamente da quel “etc.” con cui si concludeva il secondo) è proprio quella che Socci chiama “quarto segreto”.

 Ovviamente Socci non può dire con precisione cosa caspita contenesse di così esplosivo questo quarto segreto. Però è possibile, da tutta una serie di fattori – le lettere e il comportamento di suor Lucia, una certa cosa detta da Mons. Loris Capovilla che fu segretario di Giovanni XXIII (che Francesco ha incontrato all’inizio del suo pontificato), alcune dichiarazioni di Giovanni Paolo II, e molto altro ancora – farsene un’idea generica, o meglio una serie di ipotesi legate tra loro.

Per comodità espositiva io qui raggruppo queste ipotesi, che vanno tutte nella stessa direzione, in tre “gradi” di gravità crescente:

1) Il primo “grado”, sul quale Socci è del tutto certo (e, per quel che vale, mi ci ha convinto) è che il quarto segreto parli della grande crisi di fede nella Chiesa che sarebbe venuta negli anni del post-concilio (ecco il perché della data del 1960). In particolare, visto che il secondo segreto si chiude dicendo “in Portogallo si conserverà la fede, etc.”, si può pensare che la frase fosse una comparazione e continuasse con una cosa tipo “in altri luoghi, invece, no”. Chiaramente una rivelazione del genere, fatta dalla Madonna, avrebbe alquanto smorzato certi facili entusiasmi sulla “nuova pentecoste”…

2) Il secondo “grado” è che il testo nascosto non profetizzi semplicemente la grande crisi di fede, ma ne indichi anche i responsabili. Il quarto segreto avrebbe predetto l’apostasia silenziosa e/o il compromesso col mondo di una gran parte del clero, vescovi compresi, e per questo sarebbe stato visto con incredulità e spavento. Anche qui, visti i tempi attuali (e purtroppo non ci mancano esempi…), una profezia di tal fatta sarebbe da meditare attentamente.

3) Il terzo “grado” è ESTREMO. Socci non ci crede, non lo afferma come sua personale convinzione, si limita a farsi domande senza risposta. E anche io sono decisamente scettico di fronte a una simile sconvolgente prospettiva. In sintesi la teoria, supportata dagli ambienti più estremi come sedevacantisti eccetera (tutto quel tradizionalismo cattolico così hardcore che ha fatto il giro dall’altra parte ed è diventato tradizionalismo scismatico) è che la profezia parlasse di una crisi che sarebbe arrivata fino al gradino più alto, fino al soglio di Pietro. Un Papa, se non proprio apostata – ovviamente non manca chi sfocia nel millennarismo spinto e tira in ballo anche l’Anticristo e la fine del mondo e la guerra termonuclerare globale eccetera eccetera – quantomeno indegno del suo ruolo, oppure vittima di tragici errori di valutazione in campi che pur non toccando direttamente la sua infallibilità nondimeno avranno conseguenze molto gravi, e che infine avrà molto da soffrire. Un Papa che potrebbe anche essere il Papa descritto nel terzo segreto cioè la parte resa pubblica: il Papa martirizzato, “afflitto”, ovvero forse (Socci dà conto di una possibile traduzione alternativa dal portoghese dell’aggettivo acabrunhado) “pentito”. Ma pentito di cosa?

Certo si comprende la paura che simili profezie, se esistono davvero, una volta rese pubbliche potessero diventare armi in mano ai nemici della Chiesa per danneggiarla quanto il contenuto delle rivelazioni stesse. Ma si comprende altresì la rabbia di chi, come l’autore, dice semplicemente: ma scusate, se la Madonna aveva chiesto una cosa, perché non l’avete accontentata? Avete più fiducia in Dio e nella Madonna o nei vostri calcoli umani?
Una volta sfogliata l’ultima pagina (sfogliata metaforicamente: il libro l’ho preso in ebook su amazon al più che modico prezzo di € 3,90), mi chiedo: quanto c’è di vero? quanto di falso? E soprattutto: cosa cambia? Che differenza fa nella mia vita, qui e ora, ciò che dice questo libro? Quale che sia stato il vero contenuto dei Messaggi di Fatima, si tratta di un contenuto (per dirla alla ratzinger) performativo, non semplicemente informativo: ma cosa si suppone debba performare in me? Cosa devo fare?

La risposta è semplice. Pregare. Pregare di più, pregare meglio. Non vedo altra alternativa. Non posso sapere come sarà il futuro che ci aspetta, ma so che questo è l’unico modo di arrivarci ben preparato.

 

Duello nel mar Ionio, di Patrick O’Brian.

Gli descrissero allora ciò che significava la conquista di una città cristiana da parte di truppe turche, in particolare di quelle irregolari, i bashi-bazuk, totalmente indisciplinati e impiegati da Ismail: assassinii, ovviamente, le donne stuprate e gli uomini e i bambini sodomizzati, ma anche la orribile profanazione delle chiese, delle tombe, di tutto ciò che era sacro. La vista di quegli uomini anziani e pieni di dignità che s’inginocchiavano davanti a lui nella cabina fu una cosa incredibilmente penosa, più penosa di qualsiasi altra esperienza che Jack avesse mai fatto.

 Avendo superato oramai un terzo della saga, essendo questo l’ottavo volume su 21, ne approfitto per a) ricapitolare i precedenti volumi b) fare un po’ di valutazioni generali e per forza di cose rivelatorie.
Perciò se non v’importa degli spoiler avventuratevi pure dopo l’elenco, altrimenti fermatevi immediatamente.

  1. Primo comando
  2. Costa sottovento
  3. Buon vento dell’ovest
  4. Verso Mauritius
  5. L’isola della desolazione
  6. Bottino di guerra
  7. Missione sul Baltico

 

Mi è parso il libro più malinconico della saga. I protagonisti sono ormai arrivati in quella fase della vita dove si fanno i bilanci provvisori, si pesano i successi e i fallimenti, le aspettative di partenza e quanto si sono effettivamente realizzate, e così via.

 Jack, dunque. Una volta nella flotta era famoso come Jack il Fortunato, ma adesso quei tempi sono passati. Addirittura lui si vede in piena parabola discendente, anche se temere di finire pubblicamente frustato è un po’ troppo. Mi ha fatto un po’ pena vederlo di nuovo strapazzato dal detestabile ammiraglio Harte, ancora rancoroso per quella vecchia questione di corna, e anche se alla fine Jack gli ha dato il fatto suo, l’episodio è stato comunque decisamente sgradevole.
Certo ci sono i problemi concreti – il padre dissennato, la paura della rovina economica della famiglia, una moglie amatissima a cui però Jack non risparmia qualche scappatella in “letti meno santificati” – ma il difetto che più mi colpisce in lui, forse perché l’ho visto più volte all’opera nella vita reale, è non dico l’ambizione (che non necessariamente è un difetto) ma piuttosto uno sgradevole effetto collaterale dell’ambizione non purificata, cioè l’incapacità di apprezzare il presente. Ecco allora che vedi benestanti che vogliono diventare proprio stra-ricchi, e in mancanza si percepiscono poveri; oppure lavoratori di buon livello che vogliono a tutti i costi diventare i pezzi da novanta del loro ambiente professionale, e se non ci riescono si lamentano come se fossero in fondo alla piramide sociale; oppure… si potrebbero fare esempi a profusione.
Un’ambizione di questo tipo è tra i migliori alleati del diavolo.
Ecco, se io potessi avere di fronte a me Jack Aubrey in carne ed ossa, vorrei prenderlo per le spalle e dargli una buona scrollata e dirgli « ma la smetti di lamentarti perché non diventerai mai ammiraglio? Non t’è già andata bene così? Ti ricordi di quando all’inizio di Primo comando eri un anonimo ufficiale e temevi che non t’avrebbero mai fatto capitano e com’eri contento quando è arrivata la lettera di promozione? E dopo tutte quelle vicissitudini sentimentali, le avventurette tipo quella sgualdrina della moglie di Harte, o lo sciagurato corteggiamento a Diana che quasi ti costò l’amicizia di Stephen, e nonostante l’opposizione implacabile di tua suocera, alla fine sei non sei riuscito a sposarla la tua Sophia? E non t’ha forse dato tre figli sani e belli, tra cui il figlio maschio che in Verso Mauritius volevi così tanto? E allora? Ma perché una buona volta non t’alzi una mattina e dici “sono felice, sono felice, ho avuto tutto quello che chiedevo una volta, sono felice e lo resterò anche se non avrò le cose che chiedo ora, sono molto felice”??? »

Stephen, allora. C’è riuscito finalmente, alla fine dello scorso libro ha sposato Diana Villiers. Certo non è stato il matrimonio più romantico del mondo, visto che è stato dettato fondamentalmente dalla necessità di lei di riguadagnare la nazionalità britannica, ma d’altra parte anche Stephen Maturin non è l’uomo più romantico del mondo.
Neppure lui sembra molto felice, tuttavia. Nel suo caso però non è questione di ambizioni personali: il dottore e agente segreto non sembra averne, indifferente alla sua stessa incolumità, l’unico suo sacro fuoco brucia per la distruzione dell’odiato Napoleone. E se il suo tarlo fosse anzi il contrario stesso dell’ambizione? Se invece di anelare a qualcosa che non ha e che desidera, il suo problema fosse l’aver raggiunto ciò che desiderava – Diana – e aver constatato che non era così degna di desiderio, tuttavia non sapendo o potendo rimpiazzarla con qualcos’altro di più desiderabile?
Non vorrei essere troppo ingiusto sul conto di Diana, che ha comunque i suoi meriti (l’abbiamo vista nello scorso libro privarsi, lei così materialista, di alcuni diamanti preziosissimi per favorire la liberazione dei nostri dalle prigioni francesi) ma temo che quella lettera anonima recapitata a Stephen, la quale lo informa che sua moglie lo tradisce con il bellissimo Jagiello, quella lettera da lui sprezzantemente considerata vile menzogna – ho una mezza sensazione che non sia così mendace. E penso che inconsciamente lo creda anche Stephen, il quale nei suoi pensieri disordinati ripete per tre volte la parola infedeltà. E poi, la gravidanza? In Diana l’istinto materno non pare particolarmente affilato. Non riesco a non sospettare che non sia stato del tutto spontaneo l’aborto che ha terminato la gravidanza che Diana portava come ultimo lascito dell’odiato Johnston, il cattivo dell’avventura “americana” dei precedenti libri. Non ci è ancora dato sapere quale sia a questo riguardo il parere medico del dottor Maturin. Però all’inizio di questo libro Stephen crede che Diana sia incinta, se tuttavia la cosa sembra destare non particolare emozione in lei (il modo con cui gioca a biliardo ce lo dice più di tanti discorsi), e poi quando Stephen è lontano in missione sua moglie lo informa “distrattamente” per lettera che si era sbagliata sulla gravidanza… Mah. Ripeto, non vorrei essere ingiusto io.

 Oltre a questo nel libro ci sono, sì, certe altre cose tipo sparatorie e battaglie navali e morti ammazzati e la complicatissima situazione geopolitica dell’Impero Ottomano nel Mar Ionio.
Ma interessano poi tanto?
In questi libri, l’avventura è lo sfondo, la vita vera è il primo piano.


L’alieno / 7

Continuo ad ospitare la storia della mia amica Sissi2002.

 – 7 –

 Ultima tappa prima dell’inizio delle terapie: la “visita collegiale”. Sono presenti il medico che ha diagnosticato la malattia (nel mio caso un ginecologo), l’oncologo che lavora in day-hospital, il radiologo, ed un paio di altri “…logo” di cui non capisco bene l’etimologia. Io arrivo con il plico di tutta la documentazione in mio possesso, che comincia ad assomigliare ad un faldone dei processi dell’Antimafia.
La notizia buona è che dalla P.E.T. sembra proprio che non ci siano, al momento, cellule tumorali in circolo, alla ricerca di un luogo simpatico dove eleggere la residenza. La notizia cattiva è che il tumore non sarà operabile nemmeno in un secondo tempo, data l’estensione. Dalla risonanza magnetica “pare” inoltre ipotizzabile un’infiltrazione in vescica, il che, stando all’arido lessico della diagnosi scritta, “muterebbe la prognosi, ma non la terapia iniziale”. I dottori traducono in idioma comprensibile al volgo: sì, forse la stadiazione non è un III A come auspicato (io veramente quello che auspicherei, potendo scegliere, sarebbe di non trovarmi qui); forse è a livello IV A, forse …, forse.
In ogni caso, al momento non è il caso di fare ulteriori accertamenti, tanto la terapia iniziale sarebbe la stessa: meglio partire con le cure e poi valutarne gli effetti dopo il primo ciclo. Esco con ulteriori fogli e moduli per la prenotazione di un ciclo di chemioterapie ed uno di radioterapie. Due medici, che evidentemente si sono immedesimati nel ruolo di poliziotto buono/poliziotto cattivo, mi congedano con due frasi abbastanza significative. La prima: “mi raccomando, affronti seriamente la cura: tenga presente che non sarà una passeggiata”. La seconda: “E si ricordi che l’obiettivo che ci siamo posti è la guarigione”. Decido di non lasciarmi terrorizzare dalla prima e di non farmi illudere dalla seconda.

Nel frattempo il mio amico Alieno, naturalmente, non se ne è stato buono e tranquillo. Il solito dolore sordo e fastidioso, che diventa acuto ogni volta ci si reca in bagno per una “semplice” minzione (e naturalmente tutti raccomandano di bere molto, almeno due litri al giorno. Poi però gli ovvi effetti dell’assunzione di liquidi sono di mia esclusiva  e poco piacevole competenza). Qualche crampo, tutto sommato sopportabile. Io continuo a parlargli, soprattutto quando torno a casa dal lavoro a tarda sera. Sono convinta che, essendo parte di me – per quanto indesiderata – in qualche modo possa sentirmi. So che le mamme in attesa dialogano con i loro bambini, e nessuno si sognerebbe mai di considerarle fuori di testa.
Nel mio caso, ovviamente, la situazione è ben diversa. Ma c’è qualcosa in comune. Anche qui c’è una forma vitale che cresce, autonomamente ed indipendentemente dalla mia volontà. Ma in questo caso si tratta di un’entità malvagia, che non deriva dall’amore e che non è dotata di anima e di spirito, per cui non potrà mai imparare cosa sia l’amore. Che sia generata dal caso, da fattori ambientali, genetici, comportamentali, credo sia fondamentale per chi si occupa di ricerca scientifica ma poco importa al presente, il “mio” presente. Il punto è che questo Alieno esiste, e come il più fanatico dei terroristi kamikaze ha un unico scopo: distruggere l’organismo che lo ospita, anche se così facendo ucciderà se stesso.

“Ok, amico. Siamo tu ed io, adesso, e possiamo anche parlarci chiaro. Hai commesso un grave errore. Sei forte, sei prepotente, ti senti invincibile … e sei venuto allo scoperto troppo presto. Chissà, forse se avessi infiltrato qualche tuo emissario in giro per l’organismo, tenendoti accuratamente al coperto, ce l’avresti anche potuta fare. Invece no, hai fatto il gradasso anzitempo, ed ora mi sa che stai per pagarla cara. Ti sto preparando un contrattacco che Desert Storm al confronto sembrerà una partita di Risiko giocata da principianti. Sai su cosa mi stai facendo riflettere? Sulla “canna pensante” di cui parla Pascal. Puoi distruggermi, quasi certamente prima o poi ce la farai, ma io sono più forte di te, perché so di esistere, e comunque vadano le cose so che IO TI SOPRAVVIVERÒ.”

 (continua)